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La notte del Commendatore

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E ravviati leggermente con tre dita i capegli e data una scrollatina all'abito nero, come per levarne le grinze, il figlio di Sua Eccellenza se ne andò verso il corridoio dei palchi di prima fila, per consolarsi presso la

taille de guêpe

 dei superbi dispregi di madonna Giunone. La quale, per uno di quegli arcani psicologici che hanno fatto chiamare l'uomo un animale imitatore, era parsa bella e desiderabile al contino Candioli, dopo che l'avevano trovata bella e desiderabile gli altri. Ed Ariberti, dal canto suo, non si era innamorato per una ragione altrettanto frivola? Nel suo struggimento, più assai di testa che di cuore, non c'entrava egli per due terzi di vanità? Avrebbe egli dato nei gerundi a quel modo, se la marchesa di San Ginesio, scambio di una gran dama, fosse stata, con tutte le sue bellezze, una buona pacchierona di bottegaia, o d'ostessa?



Eppure, notate, per quel riscaldamento di testa non vedeva più lume. Date due o tre giravolte nell'atrio, era tornato al suo posto in teatro, come per sincerarsi se la marchesa fosse ancora quella di prima, o se gli occhi suoi l'avrebbero veduta tutt'altra, dopo le rivelazioni del contino Candioli. Era là, nel suo palchetto, tranquilla, impassibile, quella superba che non si degnava di guardarlo, e che pure aveva abbassato gli occhi benevoli su di un giubbone color di tabacco. Ma che gusti erano dunque i suoi? Candioli avrebbe esclamato:

fi donc!



Il nostro Ariberti stabiliva

a priori

 che una donna non può guardare che un bell'abito, e innamorarsi che per la trafila del figurino delle mode. Così la passione acceca! Se fosse stato un pezzente, avrebbe pensato tutto l'opposto, e stabilito che una donna a modo non dovesse guardare che i cenci.



–Eccola dunque là, col segreto de' suoi amori plebei, nascosta, sotto quella maschera di aristocratica noncuranza! Ed ecco là, accanto a lei, quell'uomo felice per legittimità di possesso, che non sa nulla di nulla e se la ride, scioccamente fiducioso, dei vani armeggiamenti di tanti vagheggini miei pari! Donne! Donne!—



Fo grazia al lettore degli «eterni Dei» e di tutto quell'altro che dovrebbe far seguito. Il monologo, del resto, è vecchio come i primi venti anni del primo innamorato che abbia esercitato la pazienza degli echi solitarii. Frughi ognuno nei suoi ricordi, e vedrà di averne fatto, non uno, ma parecchi e non solamente a vent'anni.



Mal potendo dissimulare la sua stizza, Ariberti uscì da teatro mezz'ora prima che finisse lo spettacolo, non badando al bisbiglio che suscitava la sua rumorosa partenza dal bel mezzo delle sedie chiuse, tra tutti quegli spettatori, a cui egli turbava insieme la visuale del palcoscenico e l'udita. E indovinate mo' dove andasse a far capo? Nella via di Santa Teresa, ad asolare davanti al palazzo San Ginesio, di cui le parole del maligno contino gli avevano indicata la situazione. Sicuro; egli non aveva mai pedinata la carrozza della marchesa, e costei abitava per l'appunto laggiù, a pochi passi discosto da Filippo Bertone. Dall'abbaino dell'amico aveva veduto la finestra della dama e il cuore non gli aveva detto nulla! E quell'ipocrita, nemmeno! Addosso all'ipocrita! Infatti, che cosa significava quel davanzale ornato di fiori fin dai primi giorni della sua dimora lassù? Mirava ad attirare gli sguardi della signora, il furfante. E poi, quell'essersi rimpannucciato d'improvviso! Era perfino diventato bello. Lui, Filippo Bertone! C'era da crepar dalla rabbia. Ed egli frattanto a perdersi in mille zacchere, colla Giumella, coi cavalieri di Malta, coi libri, colle tragedie, colla gloria. Imbecille! E giungeva tardi, per conseguenza; perdeva il vantaggio di essersi fatto innanzi pel primo; quel destro mariuolo, che non pareva lui, gli aveva vogato sul remo.



Il filo delle irose considerazioni gli fu poco stante interrotto dall'arrivo di una carrozza, che si fermò davanti al palazzo dei San Ginesio, per svoltare incontanente sotto l'androne. La signora tornava da teatro, e Ariberti nel passare davanti al portone, potè vederla ancora col piede sullo smontatoio.



–A quest'ora,—pensò egli con amarezza,—l'ipocrita è già in sentinella al suo finestrino. Chi sa? Forse tra pochi minuti, dal suo spogliatoio, madonna darà un'occhiata furtiva su in alto, a quel buco illuminato e adorno di piante rampichine, come una capannuccia di Natale.—



Ariberti se ne andò dalla via di Santa Teresa dicendo il paternostro della bertuccia. E quella notte, nell'osteria del Mago, prese una sbornia solenne, per affogare, da quell'eroe di Byron che si teneva di essere, la sua rabbia nel vino. Senonchè, tra un bicchiere e l'altro, aveva bisbigliato al Priore, con cui era entrato in molta dimestichezza dopo la faccenda del duello:



–Forse domani avrò bisogno di te.—



Che tiro mancino meditava l'Ariberti in quell'ora? Egli stesso non ne aveva un concetto ben chiaro. Metteva le mani innanzi, come per impegnarsi a fare qualcosa. Del resto, la notte (e per notte intendeva le poche ore mattutine destinate al sonno) avrebbe portato consiglio.



Così avvenne diffatti. Andato a letto assai tardi, e colla mente in iscompiglio, si alzò per tempo, con una pensata da gran diplomatico, e azzimatosi con molta cura e provato lungamente un sorriso allo specchio, si recò dal Bertone, prima che questi uscisse per andare all'Università.



–Amico,—gli disse, adoperando quel tal sorriso, che gli uscì per altro un pochino stentato,—sono venuto a chiederti un servizio.



–Dimmi; son cosa tua;—gli rispose candidamente Filippo.



–Ecco gua; ti chiedo la tua camera.—



Bertone lo guardò trasognato.



–Sì,—proseguì l'Ariberti,—non posso più rimanere nel mio quartierino in piazza Vittorio, e ti domando il tuo bugigattolo, come lo chiami. A te certo non importerà.



–Ma, scusami;—ripigliò Filippo Bertone, che ancora non sapeva capacitarsi perchè l'Ariberti gli facesse quella uscita bizzarra;—e dove vuoi che vada io?



–Eh, per esempio, in via degli Argentieri, nel tuo alloggio dell'anno scorso. La signora Paolina ci ha quella tua stamberga libera; l'ho ancora veduta ieri l'altro e mi ha pregato anzi di parlartene.—



Filippo rimase un tratto sovra pensiero, guardando ora la stuoia del pavimento, ora il suo amico Ariberti.



–E non potresti andarci tu, in via degli Argentieri? chiese egli —poscia all'amico.



–Non posso;—rispose l'Ariberti, rannuvolandosi; ci ho le mie buone ragioni per non andare a star là.



–Perdonami, sai;—replicò allora Filippo, che incominciava a sospettare qualcosa;—ma io ci ho le mie per rimaner dove sono.



–Credo d'indovinarle.



–Bella forza! Qui ci sto bene, oramai; ci ho fatto l'uso; ho speso qualche scudo per mettermi in sesto, e capirai…



–Sì, ho capito che non vuoi cedermi il tuo osservatorio.—



Per quella volta non c'era più dubbio; Ariberti voleva toccarlo nel vivo.



–Che cosa intendi di dire?—esclamò Filippo, arrossendo.



–Che tu l'ami; non è egli vero?



–E chi di grazia? io non riesco a capirti.



–Non mi fare il nuovo; la marchesa di San…



–Ti prego;—interruppe Filippo, fortemente turbato;—non far giudizi temerari, e sopratutto lascia in pace le signore.



–Ah sì, non la compromettiamo;—notò sarcasticamente l'Ariberti;—fra tutte le maschere dell'ipocrisia c'è anche la discretezza.



–Basta!—gridò Filippo, che già non vedeva più lume.—O dove ti duole stamane? Non è ipocrisia ricordarti che le donne vanno lasciate in pace, segnatamente quando non le si conoscono. Non mi dir altro!—proseguì Bertone, rimettendosi un tratto.—Ho inteso il tuo pensiero, e mi contento di risponderti che sei in errore.



–Cedimi la tua camera, e lo crederò;—riprese l'Ariberti implacato.



–No;—disse Filippo;—tu vuoi da me un atto di debolezza, ed io non sono disposto a commetterne.



–Bada; potresti pentirtene.—



Filippo Bertone si strinse nelle spalle e non rispose parola.



Ariberti se ne andò invelenito. Mezz'ora dopo, si metteva nelle mani del Priore, e lo pregava di andare e sfidargli il rivale.



–Sì, sì, come vorrai;—disse Tristano;—ma lascia fare a me. Questa è faccenda che bisogna trattare delicatamente. Andrò da solo a parlargli, e te lo ridurrò mansueto come un agnello.—



Filippo Bertone si aspettava quella visita. E come ebbe udito dal Priore, che egli, innanzi di presentarsi in veste da araldo, veniva a guisa di amico, per ragionare alla libera, anzi col cuore in mano, gli seppe grado dell'atto cortese e mostrò di volersi rimettere in lui.



–Ella intenderà,—gli aveva detto Tristano,—che qui si sta per fare un pasticcio, e non già di quei di Strasburgo, ma che poi non potremmo più accomodare, per quanta buona volontà ci mettessimo da ambe le parti. Il suo amico Ariberti è fuor dei gangheri e non c'è verso di fargli intender la ragione. Vediamo dunque di uscirne alla meglio e senza pubblicità.



–Capisco;—rispose Filippo;—quantunque da un amico d'infanzia io non dovessi aspettarmi una scartata simile, e senza un'ombra di ragione da parte sua. Ma come vuole che noi l'accomodiamo, se egli domanda una cosa ingiusta? Io, veda, non ho pratica di quistioni di onore e non so se sosterrei bene o male uno scontro. Bisognerebbe vedere. Ma qui, per intanto, le dirò schiettamente che, sfidato a duello da lui, e pel motivo che Ella mi dice, non andrei sul terreno. Egli dovrebbe tirarmici pei capegli, e con un altro pretesto. Ariberti è innamorato; e lo sia. Quanto a me, non involgerò mai nello scandalo, che egli vorrebbe, una famiglia rispettabile che mi ha accolto come maestro ad un suo fanciullo, per intercessione di un degno professore che mi vuol bene. Signor Falzoni, io parlo ad un uomo più vecchio e assai più sperimentato di me. Crede Lei che sia il caso di fare un duello, che metterebbe in piazza una riputatissima dama, superiore di tanto alle nostre bizze da scolaretti? Dovrei cavarmi d'impiccio dandogli la camera; lo so. Ma anche quei signori di laggiù sanno che io abito questa soffitta. Come potrei colorire lo sgombero? E noti, signor mio, che se l'Ariberti corteggia la dama, può anche darsi che ella se ne sia avveduta. Almeno, è da supporsi. In questo caso, di due l'una, o passerò agli occhi di quella signora per un pusillanime, o per un amico troppo compiacente. E nell'un caso e nell'altro, le apparirò consapevole di un segreto che la riguarda, e senza giovare a lui, ne avrò il danno e le beffe.—

 



Il ragionamento correva a filo di logica, e Tristano in cuor suo dovette convenirne. Tristano, da quel vecchio diavolo ch'egli era, intese benissimo anche un'altra cosa; intese che si trattava di persone ragguardevoli e potenti, che non c'era guadagno a toccarle, e che male sarebbe potuto incoglierne a lui, se avesse mai secondato l'Ariberti in quella picca e fatto nascere un guaio.



–È vero, ciò che Ella dice;—rispose adunque il Priore, offrendo a Filippo un'uscita onorevole:—e quando Ella mi assicura che non corteggia la signora… che non ha pensato mai a vogare sul remo dell'amico…



–Lasciamo stare l'amico, per carità!—interruppe Filippo, che aveva il cuor gonfio d'amarezza.—Ariberti non è amico mio, se ha potuto sospettarmi prima, e meditar poi una sfida. Questo io posso assicurare a Lei: che la signora in discorso è un angelo di bontà e che io non ardirei mai di alzare gli sguardi, non che le speranze, fino alla mia eccelsa benefattrice. Così infatti io debbo chiamarla; tale io debbo, e non altrimenti vederla. Il caso mi aveva condotto ad abitare quassù; i miei studi mi hanno posto in relazione col venerando uomo, che si è fatto di buon grado il mio protettore. Sappia, signor Falzoni, che io son debitore del mio umile uffizio di maestro presso il marchesino, alla bontà del mio professore di clinica, che è in pari tempo il medico e l'amico di quella famiglia. Questa è la pura storia, ed io l'ho raccontata a Lei, a Lei solo…



–È detta al confessore, non dubiti;—rispose Tristano.—Io la stimo, signor Bertone e non ho più altro da chiedere alla sua cortese schiettezza. Dirò ad Ariberti che non può, non deve aver rancore con Lei. Insomma,—conchiuse il Priore, scuotendo alteramente le spalle,—si tratta di una ragazzata e la farò finita senza tanti discorsi. Io frattanto sono lieto di queste sue spiegazioni, non solamente perchè mi daranno più ansa ad usare della mia autorità su lui, ma anche perchè mi hanno offerto occasione di conoscere un giovine discreto ed onesto come Lei. Signor Filippo Bertone, la mia amicizia; e se valgo in qualche cosa per Lei, mi spenda liberamente.—



Filippo Bertone restò confuso a tutte quelle gentilezze e non seppe che dire. Però strinse con effusione la mano che gli sporgeva il Priore, e, balbettando un complimento, lo accompagnò fino al pianerottolo della sua piccionaia.



–Quando si dice la riputazione!—pensava egli, tornando alla pace insidiata del suo modesto scrittoio.—Ecco un uomo che passa in tutta Torino per un accattabrighe, un rodomonte, un uomo senza cuore; ed è buono poi come il pane.—



Ben altra opinione aveva a farsene l'Ariberti, quando si sentì dire dal suo araldo di guerra che non bisognava far nulla. Si provò a sostenere il contrario, ma Tristano alzò le spalle e gli diede su per giù del ragazzo. Volle star sulla sua, e rispose che avrebbe cercato altri padrini; ma il Priore gli disse che si guardasse bene dal farlo, perchè, all'ultimo degli ultimi, egli, Tristano, avrebbe fatto il padrino a Filippo Bertone, e dato, non una, ma tre lezioni di cavalleria, ed anco di gratitudine a chi dell'una cosa e dell'altra, si mostrasse dimentico.



L'uomo era in tutta la pienezza della sua autorità, come il marito di Sefora, prima di ascendere il Sinai, o, se vi piace di più, come il vecchio della Montagna in mezzo ai suoi divoti seguaci. E Ariberti cedette. Tristano gliene seppe grado, e tornò umano, trattabile come prima. Ariberti in quella vece rimase grosso con lui, non già all'apparenza, ma nel fatto. Lo si vedeva inoliato di fuori, ma dentro ci aveva la ruggine. Per la prima volta, dopo tanta adorazione cieca, il Priore dei cavalieri di Malta gli apparve un egoista di tre cotte, un uomo leggiero, una carrucola, e tutto quel che peggio vorrete.



Ariberti era giovine, e in questo basso mondo aveva ancora a vederne di tutti i colori, e a pentirsi più d'una volta de' suoi primi giudizi.

Prima frons decipit,

 lo hanno detto gli antichi.



Lascio intanto argomentare ai lettori come gli cuocesse di quella figuraccia; che tale gli pareva davvero, al cospetto di Filippo «l'ipocrita» e della sua marchesana.

Primo primis

 si sbandeggiò dal teatro, che era del resto agli sgoccioli, e si diede tutto, anima e corpo alla vita scioperata. Amore e gloria lo disdegnavano; ed egli mandava al diavolo la gloria e l'amore.



Rimaneva per altro il suo debito di figlio. Proprio in quel torno capitò una lettera di sua madre. Quella santa donna gli scriveva, piena di sgomento, e in tutta segretezza. Il signor Amedeo stava muto come un pesce, ma dalla sua stessa taciturnità la moglie indovinava che egli non avesse troppo buone informazioni del figlio; epperciò nella sua lettera gli raccomandava di fuggire le male compagnie e di studiare a tutt'uomo per non essere cagione di lagrime in casa.



Quella lettera, accompagnata dai piccoli risparmi della signora Caterina, fu anzitutto un grande aiuto al bilancio del nostro eroe, quindi un raggio di luce nelle tenebre del suo spirito infermo. Un mese o poco più, gli rimaneva di buono per gli esami. Tornò quel giorno stesso all'Università. S'intese col Balestra, e andò con lui a ripassare ogni mattina le istituzioni del Diritto romano. Si affogò nel latino; meditò le dottrine del Savigny; raffrontandole con quelle del Vico; consumò le notti e le lucerne intorno a certe annotazioni che gli dovevano stampar meglio nella memoria il testo delle Pandette. Infine, che vi dirò? Verso i quindici di maggio, del mese in cui la natura risorge, e perfino gli asini cantano d'amore, il nostro studente scioperato faceva uno splendido esame, e usciva, se non m'inganno, baccelliere in giurisprudenza.



Baccelliere da baccello!



CAPITOLO X

Dove i nodi vengono al pettine.



Era una splendida giornata della fine di maggio quando il giovane baccelliere fece ritorno a Dogliani; una giornata tutta tepori e fragranze, come avviene per solito nei trapassi dalla primavera all'estate. Ma il nostro eroe badava assai poco alla bella giornata; l'animo suo era sordo alle liete voci della natura; invano la gran madre, a dirvela con una frase audacissima, si era infronzolita per lui. Il signor baccelliere si mostrava pensieroso, anzi peggio, stizzoso, di mala voglia; insomma, per usare una parola moderna, che risponde ad una moderna infermità, maledettamente nervoso.



Con chi l'aveva? Con se stesso e cogli altri, col mondo interno e col mondo esteriore; due mondi che l'uomo incomincia ad avere in uggia, quando ha varcato la fatale trentina. Ma il nostro Ariberti, ragazzo precoce, faceva tutto in anticipazione.



Le accoglienze della signora Caterina furono materne, e con questo aggettivo mi pare di avervi detto ogni cosa. Quelle del signor Amedeo, per contro, furon fredde anzi che no. Le belle imprese dello studente, avevano avuto un'eco fino a Dogliani. E qui, facciamo ad intenderci. Al signor Amedeo non dispiaceva punto che il figliuol suo si facesse un uomo e si mostrasse tale anche prima della età voluta dalle statistiche. I babbi son tutti così; hanno fretta; non per niente son nati prima di noi. Perciò il duello del figlio, che, ancora in

fieri

, gli avrebbe dato sui nervi come una solenne ragazzata, degna di una tiratina d'orecchi, non doveva dispiacergli, a cose fatte, poi tanto. Anche i versi, pomposamente stampati, non gli parevano un delitto imperdonabile. Alla fin fine, erano belli; e se ne nascevano in casa Ariberti, c'era piuttosto da tenersene, che da fargliene una ramanzina. Neanco gli avrebbe dato ombra qualche ripesco amoroso. Suo figlio era un bel giovinetto; che diamine! e se piaceva alle donne, non c'era mica da condannare… le donne. Ecco qua per l'appunto il nodo della quistione. Rispetto agli altri, e considerate ad una ad una, quelle imprese gli parevano naturali e fino ad un certo segno condonabili; ma tutte insieme, e rispetto al figlio, gli apparivano malefatte, da non meritare indulgenza. E ciò segnatamente per gli studi, che ne avrebbero sofferto. Il ragazzo si svia, pensava egli, il ragazzo si svia, e bisognerà rimetterlo in carreggiata.

Principiis obsta; sero medicina paratur.



Per altro, il signor Amedeo si rabbonì, quando vide il certificato degli esami, che portava segnati, a giustificazione del figlio, tutti i punti e la lode. La lode! che vi pare? Va bene che in legge, secondo i maligni, è abbastanza facile buscarla; ma per contro è altrettanto facile di non buscarla affatto; dunque… La conseguenza viene da sè. E il signor padre si rabbonì; non già ad occhi veggenti, perchè l'autorità sua ne avrebbe scapitato; ma bene lo intese la signora Caterina, che vide il marito star meno sostenuto con lei.



Del nostro baccelliere furono invece assai meno contente le sue vecchie conoscenze di Dogliani. Le ragazze lo trovarono più bello, più elegante di prima, e pensarono a lui per una settimana, con gran dispetto degli Adoni di mandamento; ma finirono col giudicarlo freddo, contegnoso, aristocratico. Si è sempre aristocratici per qualcheduno; e nel suo paesello natale, dov'era conosciuto lui, dove era conosciuta la famiglia, il giovane Ariberti doveva parere superbo senza ragione. Ci fu, tra l'altre, una figlia di droghiere che ebbe da lui un saluto di tanta degnazione, da piangerne per una notte intiera. Una conservatrice d'ipoteche, perduta la speranza di registrarlo fra i frequentatori delle sue veglie, lo definì, tra due giuochi innocenti, uno sciocco.



Il giovane dava appicco a tutti questi giudizi, a tutti questi malumori, fuggendo le conversazioni e le compagnie d'ogni sorta. Poverino! pensava ai suoi debiti, segnatamente a quello del tipografo, che presto gli aveva a cascare tra capo e collo, e almanaccava più di un ministro di finanze, quando cerca il pareggio tra la entrata e l'uscita.



La mattina, per almanaccare a suo agio, si alzava da letto per tempo e se n'andava lontano pei campi, ma senza dare l'occhiata del presidente ai coltivati, nè quella del poeta ai salvatici. Invano le colline s'indoravano per lui al primo raggio del sole; invano i rosolacci disposti a gruppi, a manipoli, a file serrate, agitavano i calici scarlatti sui ciglioni dei prati; invano le monacucce facevano pompa degli steli diritti e dei fiori incarnatini in mezzo alle spighe biondeggianti del grano. Il signor baccelliere andava diritto per la sua strada, senza pure avvedersi delle api, che gli gironzavano a sciami intorno alle ginocchia, andando in busca di cera e di miele nella varia fioritura dei pingui maggesi. La bella natura, le albe, i tramonti, i rivoli solitarii tra due file d'ontani o di frassini, i buoi aggiogati che trascinavano lentamente la loro gran mole di fieno odoroso sulla nota carraia, tutte queste cose sane, che intendiamo così bene quando ci manca il tempo a goderle, non avevano voce per lui.



Si guardava dentro, il poverino, e ci vedeva buio, gran buio. Per altro, a furia di guardare, ci trovò il soggetto e la materia d'un dramma. Era il secondo che perpetrava; ma stavolta il delitto era in prosa, e d'indole acconcia alla scena; si allontanava ad un tempo da quel vero che non ha fortuna in teatro e da quel falso che spesso è frutto di larghe vedute estetiche; ma seguitava la via di mezzo, che piace tanto alla comune degli uomini, poichè rappresenta in arte quell'aurea mediocrità che regna in tutte le cose della vita, e agli uni tempera i desiderii, agli altri smorza le invidie, a tutti conferisce come un'aria di famiglia e li consola d'esser figli d'Adamo.



Lo tirò giù venti giorni, che per un'opera simigliante erano forse già troppi, e gli parve che andasse bene. Spese altri cinque giorni per tirarlo a pulimento e per farne una copia presentabile; poi lo accartocciò, lo rinvolse in un bel foglio di carta turchina da bottegai, che suggellò bravamente sul margine, e si dispose a scrivere su l'indirizzo.



Ma a chi mandarlo? Questo era il busilli. Per fortuna l'

Euterpe

 veniva ogni settimana a salutarlo in Dogliani, e sull'

Euterpe

 c'erano indicazioni di compagnie drammatiche a bizzeffe. Trovò in questa guisa il capocomico di suo gusto, che recitava in quel torno a Genova, e gli spedì il manoscritto dicendogli nella lettera, che glielo avrebbe potuto dare per ottocento lire, nè più, nè meno; o prendere, o lasciare.



Così contava di pagare il tipografo e di avere per giunta un po' di danaro in serbo per altri debitucci che lo aspettavano a Torino. Per quattro o cinque giorni attese risposta, ma invano. Già, bisognava dare al capocomico il tempo di leggere; cosa difficile, come tutti sanno. All'ottavo giorno gli scappò la pazienza, e riscrisse, sollecitando quella benedetta risposta. Il suo uomo non si fece vivo. Allora ne pensò una da furbo di tre cotte; mandò all'amico dell'

Euterpe

 una notarella agrodolce in cui si pregava il gran capocomico Tizio (è qui c'era il nome scritto a mezzo, colla, promessa del resto) a rispondere alle lettere, o rimandare i manoscritti che si sottoponevano al suo riputato giudizio. La noterella comparve stampata, e tre giorni dopo, il nostro Ariberti riceveva per la posta il suo scartafaccio.

 



Altro che ottocento lire! Il degno pronipote di Roscio, in una sua letterina mandata quel medesimo giorno, gli diceva d'aver letto attentamente il suo dramma. Belle scene; stile classico; passione…. oh, passione, poi, quanta ce ne poteva essere in un dramma di Shakespeare; ma il lavoro era troppo serio, oh sì, troppo serio, e il pubblico, per allora, domandava di ridere. Inoltre era un po' lungo. Va bene, che si sarebbe potuto scorciare, ma sarebbe stato un vero peccato. Tanti bei pensieri! Scene così belle! Infine era un lavoro da stampare; oh sì, da stamparsi senz'altro, e i lettori avrebbero reso giustizia, ecc. ecc., gustato, ammirato; e qui mettete a dirittura una dozzina di eccetera.



Che c'era di vero in tutte quelle considerazioni del pronipote di Roscio? Ariberti diede un'occhiata al suo povero manoscritto. Oh rabbia! Era rivolto ancora nella sua fascia turchina e coi medesimi suggelli di ceralacca che ci aveva messo lui a Dogliani.



Il signor capocomico aveva dimenticato di salvar le apparenze.



Oh capicomici! Il mio eroe vi mise tutti in un mazzo, v'involse tutti in una sola maledizione. E aveva il torto marcio, come lo si ha sempre, quando si giudica in modo assoluto. Almeno almeno, avrebbe dovuto fare una eccezione pel suo uomo, che gli diceva ben del suo dramma senza averlo letto, e non gli prometteva di pagargli tremila lire quando i suoi poveri cinque atti avessero ottenuto il trionfo di quattro repliche alla fila; trionfo per sè stesso impossibile ad un autore novellino, e che dopo tutto c'era sempre modo di mandare a vuoto, in ogni teatro d'Italia, dove gli abbonati comandano a bacchetta, e non ammettono repliche!



Intanto la fatale scadenza si avvicinava a grandi giornate. Ahimè! Il cielo aveva un bel mettersi a festa, coi drappelloni più azzurri; i grilli canterini avevano un bel trillare alla luna, e le lucciole un bel far la ridda notturna fra i pioppi regalandogli senza spesa la gran scena del monastero nel

Roberto il Diavolo.

 Il signor baccelliere aveva la mente a tutt'altro. Provò a chiedere notizie della vendita ai librai di Torino, ma ebbe a rimetterci le spese di posta. Pur troppo, dopo quelle quattro copie che sapete non si era più spacciata una delle sue povere

Foglie.



La notte che precedeva il gran termine, Ariberto Ariberti non potè chiuder occhio. Soltanto un condannato a morte mi servirebbe per far riscontro al suo caso. Ad ogni ora, ad ogni momento, il cuore gli dava un sobbalzo, chè gli pareva di veder comparire il cancelliere colla sentenza; intendi il postino con una lettera del tipografo. Passò la mattina, e passò anche il giorno, senza l'apparizione del molesto messaggio. Ed era naturale: il tipografo abitava a Torino, e non a Dogliani. Ma il giorno dopo?



Ed anche quell'altro giorno trascorse, e fu seguito da parecchi, tutti pieni di angosce ineffabili. Al settimo, incominciò a respirare. Che il suo creditore fosse ammalato? Dio di misericordia, fosse andato fra i più? Egli veramente non avrebbe desiderato tanto dalla infinita bontà; ma infine, se una disgrazia simile avesse proprio chiamato a sè quel degno collega dei Fontana, e dei Pomba, per chiedergli conto de' suoi errori di stampa, Ariberti non avrebbe dato altro conforto alle sue ceneri che quello di una lagrima, di una lagrima, sola.



Senonchè, muoiono forse i creditori, come tutti gli altri nati dalla creta? Muoiono essi davvero innanzi la scadenza dei crediti loro? A questo problema Ariberti non ci aveva pensato mai. E pensandoci allora gli parve impossibile che il destino rinunziasse in tal guisa ad uno de' suoi più sicuri strumenti di tortura. Epperò il suo cuore durava sempre in sospetto e in ansietà; quel silenzio non gli prometteva niente di buono.



Un giorno, mentre egli stava leggiucchiando a tavolino, aspettando l'ora del desinare, suo padre entrò nella camera. Il signor Amedeo non metteva mai piede colà, argomentate dunque lo stupore del figlio e il tremito che lo assalse quando lo vide avvicinarsi a