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La notte del Commendatore

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–Sì perchè no?—disse di rimando il Priore.—Siamo in guerra col mondo. Le leggi, i costumi, tutti nuesti fili di seta con cui fu legato Gullivèro nell'isola di Lilliputti, sono in questa guerra quel che sarebbero nell'altre gli accidenti del terreno. Dobbiamo ammetterli, non potendo distruggerli. Or dunque, sul teatro in cui la fortuna ci ha posto, in mezzo a tutte quelle difficoltà che non è dato all'uomo di sopprimere, diamo le nostre battaglie, e allegri, ci guadagniamo la nostra parte di sole. Che gliene pare? non va fatto così?

–Lei mi ha suo discepolo ed apostolo!—rispose Ariberti infiammato.

–Bene! A proposito di apostoli, non dimentichiamo il cenacolo. Gli amici aspettano ansiosi. Sa lei, mio giovine eroe, che tra ieri e stanotte me li ha tutti conquistati? E non son mica ragazzi di prima impressione! Pure, tutti le vogliono bene come ad un vecchio compagno. Luciano Valerga dice che gli sembra di avere riveduto sè stesso, quando aveva diciott'anni. Per l'anima, forse; per la faccia, non credo;—soggiunse garbatamente il Priore.

Luciano Valerga non era là per offendersi. C'era in quella vece Ariberti per intendere il complimento, a farsi in volto del color delle fragole.

CAPITOLO IX

Di molte sciocchezze che fece il mio eroe prima di diventar baccelliere.

La vittoria di Ariberti fu celebrata il giorno dopo con un pranzo magno, che toccò a lui di pagare. Una vecchia zia, della quale si era ricordato in buon punto, gli cambiò la sua buona memoria e le sue accorte bugie in moneta sonante, e mai danaro giunse più a buon punto per salvare un Anfitrione in sessantaquattresimo da una brutta figura. In verità, sarebbe stata una disdetta, come a dir il romper l'uova in sull'uscio, perchè il pranzo era riuscito stupendo, ricco di delicatezze luculliane, di allegria e di brindisi, e il nome di Ariberto Ariberti volava per tutte le bocche di quei cerberi, che erano i suoi nuovi amici, dispostissimi, se continuava di quel passo, a suonare per lui tutte le trombe della fama.

Da quel giorno, il nostro eroe cominciò a passeggiare pettoruto per le vie di Torino, assaporando la gloria di esser mostrato a dito dai venticinque o trenta sfaccendati, che hanno in prima mano e mettono in giro le notizie spicciole della cronaca cittadina. Intanto, dava occhiate assassine alle donne che gli passavano da presso, e si credeva sul serio un irresistibile Adone, non potendo supporre che tutte quelle creature fragili, ammiratrici della forza e del valore, non sapessero chi egli fosse e quali miracoli avesse operato.

Quasi non sarebbe mestieri di raccontare che il glorioso feritore di Giovanni Forniglia aveva mandato a quel paese la signora Giuseppina Giumella, non rispondendo neppure alle lettere pentite della fiorista, che si affannava a dirgli in pessimo italiano di abborrire quel mostro di suo cugino, il quale era stato ad un pelo di ucciderle il suo tesoro, il suo diletto «Aliberto». Quella disgraziata aveva avuto un bell'offendere la sintassi per lui, un bell'assassinare l'ortografia, un bel chiudere le sue lettere con un «io l'amo indissolubile». Il suo Ernani ci aveva altro pel capo. S'era proposto di non lasciarsi più cogliere a quelle panie volgari; non vedeva che marchesane e duchesse, non sognava che carrozze stemmate e foderate di raso, cavalli di puro sangue, lacchè gallonati allo sportello, cocchieri gallonati a cassetta. Il che torna a dire che, se era innamorato sempre della marchesa di San Ginesio, era anche pronto ad intenerirsi per tutte le bellezze titolate di Torino, dell'Italia e del mondo. Benedetta gioventù, quando ci si mette!

Ferrero, Candioli e gli altri amici del caffè dell'Aquila, che lo avevano abbandonato in quel suo bisogno, come seppero che n'era uscito ad onor suo, e buscandosi anche la nomèa di ammazzasette, ebbero a mordersi le dita dalla rabbia. Già, egli aveva tolto il saluto al Ferrero e agli altri minori della brigata. Quanto al Candioli, il signorino non si salvò per altro dal corruccio del nostro eroe, fuorchè per la sua corona di conte. Ma il saluto era così pieno di alterezza, ci si vedeva tanto la degnazione, che il figlio di Sua Eccellenza non ebbe certamente a tenersene.

Si capisce che l'Ariberti, volendo star sulla sua, si era anche ritirato dal giornale La Dora. E questo, a conti fatti, non sarebbe stato un gran male; che anzi! Ma il peggio si fu che il giovinotto, per romperla col passato, si allontanò anche dall'università, non andandoci che a lunghi intervalli e di mala voglia, quando gli bisognava la firma dei professori sul certificato scolastico. Ma da altra parte, non si può mica d'un tratto cantare e portar la croce, o sorbire nel medesimo tempo e soffiare. Se il novizio dei cavalieri di Malta faceva di notte giorno, era pur naturale che facesse di giorno notte.

Tra i nuovi amici che quella sua impresa guerresca gli aveva procacciati, gli andava maggiormente a' versi Luciano Valerga. Le teoriche strambe, i paradossi sgangherati di quel letterato in partibus, lo seducevano per modo, che gli sembrava di non avere inteso mai nulla, fino a quel giorno, nelle ragioni dell'arte. Poveri classici come apparivano piccini davanti alla critica trascendentale dell'amico Valerga! Come li sfatava, quel giudice inesorabile, mostrando la loro povertà di sostanza sotto a quella insaldata ricchezza di forma! Schiavi della parola, pedissequi della frase, quei disgraziati non avevano capito mai, nè saputo rendere nei loro scritti, la voce profonda delle cose. La lettera aveva ucciso lo spirito. Litera necat, soggiungeva con molta compiacenza il Valerga. Bisognava rifarsi da capo, dimenticare tutto ciò che era stato fatto, e lì, senza preoccupazioni di scuola, mettersi a faccia a faccia colla natura immortale. E copiare? No, che Iddio ce ne scampi; guardare, scaldarsi, e vedere che cosa fosse per nascere. La vera poesia, la vera arte, era là, in quel contatto immediato, senza apparecchi, senza precauzioni, tutta roba che il critico trascendentale battezzava con certi nomi, infamava con certe similitudini, da farne arrossire, nonchè l'Ariberti, un maresciallo dei reali carabinieri.

E a faccia a faccia colla natura immortale ci si provò a stare anche lui; l'Ariberti, s'intende. A dimenticare ciò che era stato fatto prima, non durò poi una gran fatica, perchè alla sua età non c'era pericolo che si fosse troppo guastato cogli esemplari. E il frutto di quella sua convivenza colla natura fu una tragedia romantica, molto romantica, cioè a dire piena zeppa di tutte le stravaganze, seminata di tutti i lustrini, aggravata di tutto il princisbecco che per lui si poteva; miscuglio indigesto di prosa pedestre e di scappate pindariche, senza la verità dei caratteri, il sentimento profondo della natura sullodata e quegli accenni di classicismo nostrano (sicuro, di classicismo nostrano) che contraddistinguono i capolavori forastieri e ne fanno condonare eziandio le stranezze.

La tragedia non era punto rappresentabile. Ci entravano quarantacinque interlocutori, tra i quali otto o dieci personaggi fantastici.—Bisogna stamparla,—disse Valerga,—affermare la scuola. Si poteva non farla, contentarsi d'immaginarla e di contemplarla nella propria mente, l'unico teatro in cui non ci siano spettatori viziati da un cattivo sistema, o ròsi dal canchero dell'invidia; ma adesso che è scritta, bisogna metterla fuori, gettarla come una palla rovente nel campo nemico. Non c'è tutto fior di farina; qua e là si vedono traccie del cattivo gusto. Già, non si è vissuto impunemente nella terra di Moab. Ma il sistema è buono; bisogna stampare.—

Ora, i consiglieri si trovano ad ogni uscio; gli editori no. E tra questi generosi aiutatori dell'ingegno nascente, non ce n'era uno in tutta Torino, uno solo, che vedesse la necessità di «affermare la scuola» a sue spese. Era un bel lavoro, non ci cascava dubbio, anzi un lavoro sublime. Ma l'autore poggiava troppo alto, e il pubblico era orbo. A questo pubblico bisbetico bisognava entrargli nelle grazie con opere più modeste. Cinque o sei novellucce, otto o dieci madrigali, una dozzina di epigrammi, tanto da mettere insieme un almanacco, perchè no? Si era ancora in aprile; ma per l'appunto avanzava il tempo da scrivere e dare alle stampe, per uscir fuori in settembre.

Lo spediente tornava ostico al giovine poeta, che si sentiva bollir dentro a rinfusa Shakespeare, Byron, Schiller, Göthe, e una dozzina di profeti minori per giunta. Ma l'editore, che pizzicava di letterato, fu pronto a ribattergli che l'almanacco per l'appunto era una forma di pubblicazione non disprezzata dai grandi. Gli stessi Göthe e Schiller non avevano fatto insieme un Almanacco delle Muse e mandato i loro versi immortali sotto la coperta dei dodici mesi dell'anno?

Ariberti fu scosso dalla efficacia dell'argomento. Per altro, innanzi di appigliarsi ad un partito, volle sentire il savio parere di Filippo Bertone. Filippo era un amico vecchio, che egli trascurava da un pezzo; ma, in una occasione come quella, non ci era che lui per dargli un consiglio. Aveva buon gusto; era sincero; se la tragedia piaceva a lui, doveva esser buona; e allora….. Ariberti veramente non sapeva che cosa avrebbe fatto allora: ma intanto, il giudizio di Filippo Bertone gli pareva più necessario che mai.

Egli adunque si avvio difilato a trovarlo in quella cameretta di via Santa Teresa, che al Bertone piaceva poco sul principio, ma a cui si era in breve cosiffattamente avvezzato, da non far più il menomo conto delle profferte della sua antica padrona di casa. Ariberti si aspettava lo squallore della prima volta che era stato lassù, ma s'ingannava a partito. La camera, strettina sempre (a farla più larga non sarebbe riuscito nemmanco il dio degli architetti), si vedeva arredata con una certa grazia, e quasi quasi con un'ombra di lusso. I mobili erano sempre quelli, ma lustrati con diligenza e rimessi a nuovo. La carta felpata che tappezzava le pareti, il copertoio del letto, operato dello stesso disegno e dello stesso colore della carta, una stoia d'erba sala intessuta a meandri sul pavimento, una stufina di terra cotta in un angolo, una gloriosa famiglia d'erbe in certi vasi verniciati sul davanzale, conferivano a quel nido di pàssero solitario un aspetto signorile, che non aveva nemmeno la camera dell'Ariberti, con tutto che fosse in piazza Vittorio Emanuele, al secondo piano, con un'ariona da salotto coi rispettivi seggioloni, cassettoni, fiestroni, padiglioni e coltroni di damasco.

 

Anche Filippo non pareva più quello d'una volta; era anzi mutato, trasfigurato in tal guisa, che il vecchio maniscalco di Mondovì, se quel giovinetto gli fosse capitato lì per lì davanti agli occhi, non avrebbe a tutta prima riconosciuto suo figlio, e riconosciutolo, avrebbe pianto dalla contentezza, parendogli d'essere diventato di punto in bianco il genitore d'un principe. Filippo Bertone era vestito con molta semplicità, ma altresì con molta lindura. Il suo abbigliamento, tutto d'un colore, e d'un colore severo, mostrava il taglio della stagione, senza dare nell'esagerato della moda. La camicia, mezzo nascosta dalle pieghe d'un'ampia cravatta nera, lasciava vedere i solini al collo, e i polsini alle mani. I capegli nerissimi, tagliati cristianamente e ravviati con garbo, facevano risaltare la purezza dei lineamenti e la soavità dello sguardo. Appariva insomma un bel giovane, pallido sempre nel viso e non molto in carne, ma appunto per ciò di più gradevole aspetto. La bellezza moderna, che è tutta espressione, non tiene per indispensabili le guance pienotte e gli accesi colori di un temperamento sanguigno.

Ariberti rimase attonito un pezzo a guardare quella metamorfosi, e durò fatica a mettere insieme cinque o sei frasi per rispondere alle amichevoli accoglienze del suo vecchio compagno. Sopra ogni cosa gli aveva fatto senso di non vedere indosso a Filippo quel famoso giubbone color di tabacco, che da due anni, se non più, era avvezzo a considerare come una parte integrale di lui.

Volgendo gli occhi intorno, lo vide finalmente, quel prezioso cimelio degli antichissimi tempi. Era appiccato ad una gruccia contro la parete, ma più in apparenza di sacra reliquia, che non d'arnese in attività di servizio. Infatti, ad una gruccia vicina era appeso un pastrano, la cui bella forma e la lucentezza del panno facevano un vivo contrasto coll'aria tapina di quello spelacchiato e stinto testimonio della passata miseria.

Donde quel cambiamento improvviso? Il suo amico Filippo aveva egli vinto per avventura una quaderna ai lotto? Ma perchè la cosa fosse andata a quel modo, sarebbe stato mestieri che Filippo avesse giocato; e la supposizione, per dirla col frasario dei filosofi, non faceva che allontanare la difficoltà. Infatti, o donde avrebbe Filippo cavati i danari della giocata, egli che campava con uno stecco unto trecento sessantacinque giorni all'anno, e trecento sessantasei quando l'anno era bisestile?

Non sapendo come rigirarla, Ariberto chiese all'amico se era sempre alla Dora per correggere le bozze di stampa.

–C'ero fino a otto giorni fa,—rispose Filippo,—ma devo essermi guadagnato l'antipatia di qualcheduno perchè hanno soppresso l'ufficio.

–Diamine!—esclamò Ariberto.–Mi fa specie del conte Candioli, a cui facevi servizio quel poco.

–Caro mio, le son cose di tutti i giorni. Del resto, siamo giusti; il conte Candioli non aveva quel gran bisogno di me, che tu dici. L'ortografia non è mai stata il suo forte; ma in tutto l'altro non c'era male, ed io non ci avevo alcun merito.—

Bertone parlava così, da quel giovine discreto ch'egli era; ma noi sappiamo già come stavano le cose tra lui e il Candioli. Il quale, dopo tutto, o aveva trovato un altro aiuto, o ci aveva ragioni così forti da doversene passare, perchè era proprio lui che aveva fatto licenziare il Bertone dal suo modestissimo ufficio.

Ammirati i fiori sul davanzale, con manifesto rincrescimento del loro proprietario, che vedeva mal volentieri il suo amico accostarsi alla finestra, Ariberto venne alla scopo della sua visita. Filippo, veramente, avrebbe preferito di studiare anatomia, e mettere in carta le sue lezioni di quel giorno; ma come cavarcela onestamente da un amico che viene a posta da noi per leggerci una tragedia e domandarci il nostro riverito parere? Questo supplizio non è egli forse, e in prima riga, tra gli obblighi della vera amicizia? Filippo adunque si acconciò serenamente al suo fato, e senza muovere un lagno, senza aprire la fauci ad uno sbadiglio, stette due ore e mezzo all'eculeo.

–Ariberto,—gli disse gravemente, poi che questi fu all'ultima pagina del suo scartafaccio,—vuoi che ti dica il mio sentimento, da uomo ignorante, ma proprio come sta, e senza rigiri?

–Appunto per questo son venuto da te.

–Eccolo dunque; ci sono delle scene che mi piacciono; pensieri nobilissimi, e taluni anche nuovi; passi lirici stupendi. Ma non mi finisce la scuola, che ti conduce all'esagerato ed al falso. Dove sei tu, proprio tu, colla tua limpida vena e col tuo ardore giovanile, va bene; dov'è la scuola, colle sue ampolle, coi suoi ghirigori, colle sue nebbie, va male. Scusa, sai; ma tu mi domandi schiettezza, ed io ti servo a misura di carbone. Alle corte, se vuoi stampare, fàllo, ma per frammenti; e siano quelli soltanto dove sei tu, proprio tu, e dove non appare lo stento della imitazione forastiera. Ogni paese ha l'indole sua, che si manifesta in tutte le forme del suo pensiero, come in tutte le sue costumanze. La nostra ci è derivata dal nostro cielo, dal nostro sole, dall'aspetto della nostra natura; essa è tutta serenità, purezza di contorni, armonia di colori.

–Saggio di geografia letteraria!—notò Ariberti, sorridendo a fior di labbra.—Già voi altri materialisti della scienza…

–Indaghiamo i fenomeni, senza pretendere di assoggettarli ai capricci della nostra mente. Che farci, se la natura ha stabilite le differenze ella stessa? Siamo pure cosmopoliti nel desiderio di coglierla sul fatto e di esprimerla con verità; ma facciamo di esser noi in tutto il resto, nient'altro che noi. E tu, fa a modo mio, Ariberto; stampa i frammenti.—

Il povero poeta si trovava, come suol dirsi, tra l'incudine e il martello. Valerga perdonava a certe scappate liriche in grazia della scuola; Bertone condannava la scuola senza remissione.

Per altro, Filippo dava il consiglio più praticabile. La tragedia non trovava un cane che la volesse; i frammenti potevano sgattaiolare più facilmente nel campo della pubblicità.

Anche Valerga, chiesto del suo parere intorno alla stampa dei frammenti (il poeta si era astenuto dal dirgli donde venisse il consiglio), trovò alla perfine che così poteva andare.

–I frammenti invoglieranno dell'opera;—diss'egli a mo' di conclusione.

Ma c'era un altro guaio. I frammenti d'una tragedia in un almanacco! Non era possibile; e quand'anche lo fosse stato non avrebbe fatto buona figura, Ariberti si persuase facilmente di doverli stampare in un volumetto a sue spese, aggiungendoci i versi pubblicati a mano a mano sul giornale La Dora. Tanto, egli era in cammino, e un foglio più, un foglio meno, non avrebbe mutato gran cosa nelle sue condizioni.

È ben vero che a questi patti il signorino poteva stampare la sua tragedia da capo a fondo; ma qui bisogna notare che le critiche dell'amico Bertone gli avevano messa una spina nel cuore. Se Filippo avesse ragione!—diss'egli tra sè.—Stampiamo per ora i frammenti.—

Pubblicò dunque il volume con uno dei titoli consueti; Frondi sparse, Le prime foglie, Canti dell'alba, Fiori primaverili, ecc., ecc. Aveva fatto il suo contratto con un tipografo, proponendosi di pagare la stampa un mese dopo la pubblicazione, tanto per aver modo di saldare il suo debito col frutto della vendita. Ma potevano dar frutto quelle foglie? A buon conto, il tipografo, che aveva fiutato il ragazzo e che non era un'arpia, rimandò nel contratto la scadenza a tre mesi.

Il povero autorello si riprometteva un gran chiasso su pei giornali e una vendita miracolosa. Aveva mandato una copia del suo volume a tutti i diarii della città, e da quel giorno si diede a leggere tutti, parte comprandoli, parte cercandoli nei caffè, per vedere quel che avrebbero detto di lui. Vana speranza! non uno si degnò di annunziare alle genti l'apparizione del nuovo astro sul meridiano del Parnaso. M'inganno, una ci fu, un giornaletto teatrale, che gli scodellò alla lesta cinque o sei cucchiaiate di broda laudatoria, le quali fecero battere il suo cuore di gioia inaudita e passare misericordioso il suo spirito su cinque o sei spropositi da cavallo. Ma ohimè, era quella la gloria aspettata?

Quanto ai colleghi del giornale La Dora, zitti e buci che non parea il fatto loro. Ma qui bisogna dir tutto; Ariberto da principio non aveva mandato loro il volume. Si era pentito, ma tardi; il male era fatto. Intanto, ogni due giorni regolarmente andava a pigliar lingua dai signori librai, che gli davano regolarmente le più sconsolanti notizie.

S'intende che dei cavalieri di Malta nessuno aveva dovuto comprare le Frondi sparse. Il cavaliere novizio se l'avrebbe avuto a male; intanto, si era affrettato a regalar volumi a destra ed a sinistra, colla loro brava dedica sulla guardia. Ad onore di quei provetti schermitori, bisogna anche dire che nessuno tra loro avrebbe comprato per due lire l'obbligo di lodare il libro; tanto più che, per lodarlo, non c'era mestieri di leggerlo.

–Orbene, come si vende?—gli chiese un giorno Valerga.

–Sono passato ancora stamane da Maggi;—rispose Ariberto.—Egli non ne ha spacciato che quattro copie a tutt'oggi. Comincio a compiangere quei quattro infelici compratori;—soggiunse con accento d'amarezza il poeta;—certo essi scontano qualche grave peccato.

–No;—disse Valerga;—il numero loro è di buon augurio. Sono i quattro evangelisti della nuova fede. E che cosa ne pensa il libraio?

–Che per dare esito al libro è necessario far cantare i giornali.

–E non hai mandato una copia a tutte queste cicale?

–Se l'ho fatto! Ma pare che non avessero voglia di cantare.

–Capisco, capisco; a questi signori bisogna mandare il libro e l'articolo fatto. Allora, salvo il caso d'una ruggine coll'autore, dànno in composizione; e i più cortesi ci fanno due righe di cappello, o di coda.

–Così mi ha detto anche il libraio, che è un uomo cortese e dimostra di prender parte nel mio guaio.

–Ti farei un articolo io;—disse Luciano, dopo aver pensato un tratto;—ma a qual pro? Col mio modo di vedere in materia d'arte, ti farei più male che bene. Del resto, consolati; Omero diventò famoso nel mondo senza le trombe dei giornalisti.—.

La cosa era innegabile, ma non poteva consolar molto il nostro eroe, che in tutta questa faccenda ci guadagnò d'aver fatto un debito di quattrocento lire, o giù di lì, per la stampa del suo malaugurato volume. È da notarsi, per altro, che egli ricevette in quel torno una lettera del giornalista teatrale, che domandava a lui «poeta inarrivabile, speranza del Parnaso italiano» quattro versi, anche brevi, da stamparsi sotto il ritratto d'una ballerina, alla quale egli, il buon frate brodaio della gloria, doveva fare l'omaggio d'uso, in occasione della sua serata al Regio.

Il povero Ariberti era cosiffattamente avvilito, che dettò i versi «anche brevi» come gli venivano chiesti. E dopo la cortesia dei versi, venne un'altra domanda del giornalista, che lo pregava di dargli una mano alla sua Euterpe Taurina, offrendogli un magro compenso, come portavano le poco floride condizioni del giornale, intermittente più della febbre e costretto a regger l'anima coi denti nei mesi caldi, quando i teatri erano chiusi e i suoi sporadici abbonati in viaggio.

Questi erano gli obblighi suoi: mettere in prosa robusta, condita di superlativi senza risparmio, le lavature di ceci d'un protettore mal pratico; tessere, su quattro note d'un procolo, una biografia coi fiocchi, battendo molto sulla grazia, sulla bellezza e sugli studi indefessi dell'alunna di Tersicore, o del prediletto di Euterpe, e parlando sopratutto del fanatismo destato nei concerti di Boston, o al gran teatro di Tiflis; poi tradurre da certi ritagli di giornali forestieri, ma solo quel tanto che risguardava i trionfi dell'abbonato, e aggiustandovi un cappello, possibilmente il più fuori d'equilibrio; e finalmente, allungare alla misura convenevole, rimpinzare di frasi, lardellare d'aggettivi, il racconto d'una serata teatrale. E qui i giudizi d'arte dovevano esser brevissimi (perchè tanto agli artisti non importavano un frullo), salvo il caso di un'opera nuova, col maestro presente, per notare chi meglio ne avesse indovinati i concetti, e gl'inchini e le strette di mano dell'evocato agli inarrivabili interpreti della sua musica stupenda. L'essenziale era di noverar le chiamate agli onori del proscenio, in fine, e le interruzioni entusiastiche nel corso d'ogni atto; i bene, i bis, gli applausi fragorosi, gli astucci regalati dal solito «ammiratore del vero merito», i ritratti, i sonetti, e all'occorrenza anche il volo dei piccioni. E tutto ciò non dimenticando il baritono, che secondava egregiamente, la comprimaria che concorreva al buon esito, e il tenore (un cane, a dir poco) che si manteneva sempre all'altezza…. del prezzo di abbonamento al giornale.

 

Povero autore delle Frondi sparse, che tempo era il suo! Ma in fin dei conti, quel giornalista era stato l'unico che gli avesse dato una parola cortese; era stato l'unico che avesse fede ne' suoi versi.

Il ritratto della ballerina, quando fu portato in giro pei palchetti e per le sedie chiuse del teatro, fece dire agli Aristarchi da dozzina che i versi non erano dei soliti, e che il pensiero era nuovo abbastanza. Magro conforto al poeta! Ma quel ritratto era andato in mano alla marchesa di San Ginesio; gli occhi di Giunone si erano posati sui versi del suo negletto amatore.

E il suo libro? Era andato il suo libro nelle mani di lei? Per saperlo, il nostro Ariberti avrebbe dato non so che, perfino un occhio del capo, se non gli fosse stato necessario a fare il paio, per vedere quella bella sdegnosa. In cambio di perdere un occhio, pensò di lasciarci un tantino della sua dignità; fece la corte al Candioli.

Attillato com'era e cinto ancora da quell'aureola di gloria pel suo duello fortunato, Ariberti poteva fidarsi di tornare accetto al contino in un colloquio di pochi minuti. Combinatolo proprio in buon punto alla fine del ballo, gli si accostò con quel garbo che seppe maggiore, per fargli certe scuse, a cui mezz'ora prima non pensava nè punto nè poco.

–Signor conte, ho un debito con Lei….

Avec moi, mon cher? Comment donc?

–Sì, davvero. Ella è tanto cortese da non ricordarsene; ma io ce l'ho questo debito. Ho stampato un volumetto di cose mie, e ancora non glie l'ho fatto avere. Che vuole? Quel benedetto editore non mi ha mandato le mie copie che ieri….

Ah oui;—disse Candioli, non lasciandogli finire la sua bugiuzza;—un libro di versi! Ne ho sentito parlare nell'ufficio della Dora, dove non capisco come non vi siate lasciato più vedere, mon beau ténébreux.

–Che dirle, signor conte?… Occupatissimo sempre.

–Sì, sì, la notte en bombance e il giorno in sala di armi. Sommes-nous bien renseigné? Ma fate bene, parbleu, fate bene. Il faut savoir à l'occasion se tirer d'une affaire à son avantage. Anzi, sentite, Ariberti; quando sarete della nostra forza, faremo volentieri due colpi con voi.

–Grazie;—rispose Ariberti inchinandosi e lasciando correre quella vanagloriosa uscita del contino Candioli, la cui scherma si restringeva alle lezioni prese in collegio con una sciabola di legno;—questa promessa sua mi farà raddoppiare di buona volontà nell'esercizio delle armi. Domani, se permette, le manderò il mio povero libricciolo. Posso sperare che lo leggerà e lo farà leggere alle sue alte conoscenze? Il patrocinio d'un buongustaio e d'un gentiluomo come Lei, mi è più che mai necessario.—

Il nostro poeta snocciolò la sua perorazione tutto d'un fiato, per timore che quell'inciso «farà leggere» non gli restasse in gola dalla vergogna.

–Capisco, capisco;—replicò sorridendo il contino;—Dovrei anche farlo leggere a Giunone. Ne rougissez pas, que diable! Entre amis, la chose est faisable. Ma adesso, caro mio, vous avez des intelligences dans la place, e il conte Candioli non vi è più necessario.

–Che cosa dice?—domandò l'Ariberti confuso senza badar nemmeno a schermirsi, come avrebbe voluto in principio, da quella entrata sotto misura del conte.

–Dico, mio caro, che adesso ci avete un amico più vecchio per rendervi servizio, un amico che ha le sue coudées franches presso la vostra Giunone mentre io non sono che un visitatore dei giorni di ricevimento.—

Quelle parole furono tante stoccate per l'Ariberti che diventò bianco nel viso come un panno lavato.

–Quale amico?—diss'eglì.

–Che? non lo sapevate? Dans ce cas, je suis désolé d'en avoir trop dit….

–No, no, parli pure, mi dica tutto liberamente. Già, senta,—soggiunse l'Ariberti, sforzandosi di sorridere,—io non sono così innamorato della…. signora, da ingelosirmi di chi pratica in casa sua. Ne avrei forse il diritto, io che la conosco a mala pena di veduta? No, no, Ella s'inganna a credere che io…. Ma infine…

–È sempre bene saper tutto; non è così?

–Certo, è sempre bene. Semplice curiosità, signor conte! Sentiamo dunque; chi è questo amico…. questo fortunato mortale….

Là, là, du calme, mon bon!—disse il contino, che aveva condotto l'Ariberti dove voleva.—Mi promettete di non farmi autore di questa confidenza? di non mettere fuori il mio nome?

–Lo prometto.

Foi de gentilhomme?

–Sul mio onore.

Eh bien,—ripigliò il Candidi, mettendo amichevolmente il suo braccio sotto quello di Ariberti, e traendo l'amico in disparte,—nous allons satisfaire votre curiosité. Sappiate che in tutto questo non c'è nulla da temere. La marquise a des principes; e poi, ve l'ho detto altre volte, elle est froide comme un beau marbre. Seulement, il vostro amico Bertone…

–Ah! Bertone!—esclamò il giovine, dando un sobbalzo e strabuzzando gli occhi dallo stupore.—Come c'entra costui?

–Ecco, pigliate fuoco. Vraiment, je suis désolé….

–Signor conte,—interruppe l'Ariberti con piglio solenne,—Ella ha la mia parola d'onore, ed io non seno un bambino. La cosa mi è parsa strana, ecco tutto. Ma come mai Bertone, il mio amico Filippo Bertone, ha potuto avvicinare la marchesa?

Voilà ce que je me suis demandé, aussi bien que vous… Con quella redingote, poi!

–Oh per questa, non dubiti, l'ha smessa;—si affrettò a dirgli l'Ariberti sbuffando.

Je sais, je sais; il y déja loin de là. Ma il vostro amico non ha renouvelé sa garde-robe qu'après.

Après… che cosa?

Eh, mon Dieu, après la connaissance faite. Egli ha ora le sue grandes et petites entrées, nella sua qualità di maestro del marchesino.

–Maestro? E di che?

–Non saprei; probabilmente di leggere e scrivere. Il ragazzo non ha ancora sette anni.

–Strano!—borbottò l'Ariberti.—E Filippo che non mi ha detto nulla, l'ipocrita!

Mon cher, vous savez, on ne raconte pas ses bonnes fortunes, e qui, se non si tratta à la rigueur d'une bonne fortune, non era il caso di salire sui tetti per dar la notizia alla gente.

–Ma come può essere andata? Forse nel modo più naturale;—disse l'Ariberti, dimenticando che poc'anzi gli era parso strano.

Oh pour cela, rien de plus naturel, quando s'abita a quattro passi discosto, con un cortile soltanto per mezzo.

–Come? Il palazzo san Ginesio è in via…

–Santa Teresa, sicuro; e non lo sapevate?

–Ah!—gridò il nostro innamorato, senza rispondere alla domanda del suo biondo Mefistofele.

–Capisco ora perchè il signorino….

–Perchè… andate innanzi.

–Nulla, nulla, è un'idea che mi passa pel capo. Signor conte, la ringrazio.

–Ve ne andate? Spero bene che non mi farete una incartade.

–Le ho dato la mia parola; che cosa debbo dirle di più?

J'y compte donc. Au revoir! E badate, aspetto il vostro volume. Il ne sera jamais dit que j'aurai dû acheter le livre d'un ami tel que vous.

Ariberti gli rispose con un cenno del capo, con un sorriso sforzato e fuggì.

Enfin!—disse il contino tra sè, disponendosi a fare una visita alla baronessa Vergnani, taille de guêpe et pied d'Andalouse.—Faccia un po' quel che vuole; io me ne lavo le mani. Ah ah! la marchesa mi fa l'adirata mi sta rigida e fredda come una divinità sul piedestallo… E intanto quello straccione di filosofo da dozzina, qui n'est pas même des nôtres… Basta, ora hanno a vedersela tra loro, messieurs les manants. In verità, non m'aspettavo già più che quello sciocco d'Ariberti mi cascasse sotto la mano. Oggi ho avuto fortuna cogli uomini. Avec les femmes, ma foi, nous verrons tout-à l'heure.