Za darmo

L'undecimo comandamento: Romanzo

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– A Milano, – rispose il delegato.

– No; – ribattè il sottoprefetto, con accento di rimprovero, come se la colpa fosse tutta del delegato.

Il Borgnetti si strinse nelle spalle.

– Bene; – diss'egli; – tutti l'han detto ed io non ho creduto di doverne dubitare. Ma, se non è andato a Milano, vuol dire che sarà andato altrove.

– Ed ecco dove Ella perde la bussola, signor Borgnetti mio riverito. Ma veniamo a noi. Ella si ricordi che io so tutto, ma che voglio metterla alla prova. Infatti, è una specie d'esame d'idoneità, a cui la sottopongo, ed eccole il tema: Sapere dove è andato veramente il signor Prospero Gentili, con sua nipote Adele Ruzzani. Se non riesce nella prova, l'avverto, signor Borgnetti, che Lei ritorna negli Abruzzi, donde è piovuto a Castelnuovo Bedonia.

– Signor cavaliere, – gridò il Borgnetti, scuotendo la testa con aria che voleva parer fiera, – è una prova di sfiducia, che non avrei creduto mai…

– Bene, lo creda adesso e non avrà più a maravigliarsene. Io fo il mio dovere; – borbottò il cavaliere Tiraquelli, chinando la testa e misurando a lunghi passi il pavimento. – Il ministero ci fulmina con le sue osservazioni. Crede Lei che sia una cosa piacevole aver dei rimproveri, quando si ha tutto il diritto di aspettare degli elogi?

– No, davvero; – rispose il Borgnetti; – ed io, per l'appunto…

– Ed io per l'appunto, – riprese il sottoprefetto, – che dovrei ricevere i rimproveri per la via gerarchica della prefettura da cui dipende Castelnuovo, pel solo fatto che mi trovo a godere la confidenza particolare di Sua Eccellenza il ministro dell'interno, ricevo biasimi in prima mano. Ecco qua, – soggiunse il sottoprefetto, togliendo una lettera dallo scrittoio e spiegandola all'altezza del proprio naso, – ieri il ministro mi ha scritto: – "Caro Tiraquelli… Vedi un po' tu, se hai un delegato pratico del servizio, o no. A me, dopo quel che ne sento, pare di no. Ne vuoi un altro? Domandalo." —

Al delegato parve un po' strana la intromissione del ministro dell'interno in quelle piccolezze d'un circondario così poco importante, com'era quello di Castelnuovo Bedonia. Ma non potendo dubitare del fatto, così audacemente asserito dal suo superiore e corroborato da una lettera di quella fatta, arrisicò un giudizio severo sulla gravità dei ministri in genere, e di quello dell'interno in particolare.

– Vedete di che cosa si dà pensiero un ministro! – diss'egli tra sè. – Almeno ci avesse un'ombra di ragione! —

Il sottoprefetto depose la lettera sullo scrittoio, non senza dare una guardata altezzosa al Borgnetti, per vedere che senso gli avesse fatto quel saggio di stile epistolare. Il povero delegato stava duro, ma era diventato verde come un ramarro.

– Capisce? – gridò il sottoprefetto, per ribadire il chiodo, – la forma è amichevole, ma il colpo mi è venuto ugualmente. Ed Ella, frattanto, non sa dirmi neanche dove sia andato il Gentili. La cosa più naturale del mondo! Non si tratta mica di andar sulle traccie d'un ladro, che fugge di nottetempo, nè d'un bancarottiere, che ha bisogno di sottrarsi alle ricerche combinate dell'autorità e dei proprii creditori. Si tratta d'un pacifico ed onesto cittadino, che, non avendo nulla a nascondere, se ne va tranquillamente, alla luce del giorno, per una gita di piacere. Ed Ella non sa nulla!

– Se mi avesse mostrato il desiderio di sapere qualche cosa, – rispose il delegato, – lo avrei fatto pedinare. Lo avrei pedinato io, per maggior sicurezza. Noti, cavaliere, che ero appunto sulla piazza dello Statuto, quando il signor Gentili è montato in carrozza. – "Signor Gentili, se ne va?" – "Sì, vado a Milano." – "Ah, bene; una città che merita. E resterà molto lontano da noi?" – "Oh, una ventina di giorni."

– Anche una ventina! – esclamò il sottoprefetto. – E a me aveva detto una settimana!

– Sì, – ripigliò il delegato, – mi disse una ventina di giorni. – "Buon divertimento," gli risposi. – "E a Lei, signor Borgnetti, quiete perfetta in Castelnuovo." – Così ci siamo lasciati. Dovevo io immaginare che mi spacciasse una frottola?

– Doveva; – replicò il sottoprefetto, con breviloquenza alfieresca.

– Ma scusi, non si trattava mica d'un ladro… d'un bancarottiere…

– Non si sa mai. Un uomo è sempre un essere pericoloso, per l'ufficiale di pubblica sicurezza. Oggi è sano; domani ammattisce. Oggi le sue faccende vanno bene ed egli è un galantuomo; domani vanno male ed egli mette una firma falsa. Nulla e nessuno deve sfuggire all'occhio vigile dell'autorità. Maledictus homo qui fidit in hominem, dovrebb'essere la massima della Questura… ed anche d'altri uffici più alti; – mormorò il sottoprefetto, traendo un sospiro.

– Signor cavaliere, le prometto che saprò dove è andato il Gentili.

– Sì, bravo, a quest'ora!

– Farò quel che potrò, anche in ritardo. Poichè non vuol dirmelo Lei…

– Oh, non ci mancherebbe altro, che io le dessi l'esame e le suggerissi la risposta! Vada là; faccia le sue indagini, mi sappia dire la cosa più facile del mondo, ed io… le restituirò la mia stima. —

Il delegato se ne andò, con la sua lavata di testa. Come fu nelle scale, si messe a ridere.

– Sono uno sciocco io, a spaventarmi di queste alzate d'ingegno! – diss'egli. – Questo rogantino è in collera col Gentili, che gli ha detto una cosa per un'altra. Non sa nulla e vuole appoggiarsi a me, senza parere di averne bisogno. Contentiamolo, via! I superiori son tutti così. Tutto sta a saper conoscere l'umore della bestia. —

VII

Nella sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia era già il secondo mercoledì senza Adele Ruzzani. L'astro maggiore si nascondeva, e il cielo, quantunque ci avesse in mostra tutti i minori, pareva orbo di luce. Queste cose, per altro, non bisognerebbe andarle a dire alla contessina Berta Gamberini, nè alla contessa Beatrice, sua madre. Secondo la loro opinione, dove son esse c'è tutto, o, per dire la cosa con un po' di modestia, non ci manca più nulla.

Il sottoprefetto ignorava ancora che diavolo fosse accaduto del signor Gentili e della sua bella nepote. Quella cima del delegato non ne sapeva di più, quantunque, per far le cose a modo e venire in chiaro di tutto, avesse mandato le guardie travestite a prender lingua in casa Ruzzani. – I padroni sono andati a Milano; – rispondeva il segretario. – A Milano; – soggiungeva il maestro di casa. – A Milano; – ribadiva il cuoco. – A Milano; – ripeteva lo sguattero. Se in casa Ruzzani ci fosse stato anche un pappagallo, son certo che il signor Borgnetti ci avrebbe avuto una testimonianza di più per l'andata a Milano.

Chieder notizie in casa degli assenti, non era di sicuro il miglior mezzo per averle autentiche. Ma il delegato non sapeva a qual santo votarsi; tanto più che il santo dei questori e dei delegati di pubblica sicurezza non è ancora stato fissato, ed è forse un po' tardi per pensarci adesso. In città mancavano a dirittura le tracce dei colpevoli. La loro carrozza li aveva trasportati alla stazione della strada ferrata, e laggiù facevano coincidenza due volte al giorno i treni diretti, per modo che non si poteva argomentare dall'ora, se fossero andati a levante o a ponente. I carabinieri, mi direte. Ma in quel tempo c'era dissidio tra i carabinieri e la pubblica sicurezza; dissidio che credo non sia anche stato composto. I carabinieri, interrogati sulla partenza del signor Gentili, avevano risposto: noi andiamo alla stazione per vedere le facce sospette; il signor Gentili non era una faccia sospetta, dunque… Il sillogismo non faceva una grinza, e i carabinieri non dovevano sapere se il signor Prospero fosse andato da quella parte, anzi che da un'altra. Ma era proprio partito? I carabinieri si stringevano nelle spalle. Neanche questo li riguardava. Il carabiniere non ha che la consegna; ora, quando la consegna non dice di ricordarsi di un fatto, il carabiniere può benissimo dimenticarlo; meglio ancora, non osservarlo.

Così restavano le cose, al regime del buio pesto. Intanto il sottoprefetto non poteva sfogare con nessuno quella rabbia che aveva in corpo; doveva fremere e tacere; sopra tutto tacere, anche col duca di Francavilla, che ad ogni tanto gli toccava il tasto delicato della propria felicità.

– Orbene, cavaliere, quando tornano i nostri viaggiatori?

– A giorni, signor duca, a giorni. È impaziente?

– Dio buono, i giorni mi paion mesi. Castelnuovo, non lo nego, è una bella città…

– A chi lo dice? – gridava il sottoprefetto, prevedendo il resto. – Io non vedo l'ora di andarmene, da questo paese di orsi intrattabili. Ma finirà, vivaddio, o in un modo o nell'altro. Ma di grazia, signor duca, mi levi una curiosità. Le piace poi tanto quella signorina Ruzzani? Io credevo che anche la contessina Berta Gamberini…

– Berte Gamberini ce n'è mille in ogni città d'Italia; – sentenziò il duca di Francavilla.

– Eh, capisco; capisco che non si sarebbe scomodato a far il viaggio di Castelnuovo Bedonia; – ripigliò il sottoprefetto, crollando la testa. – E poi, c'è la grande, la luminosa idea del ministro, che soverchierebbe ogni altra ragione, quando pure ci fosse. Concetti meravigliosi… quando si possono applicare! Ma, pur troppo, non sempre gli alti concetti hanno la fortuna d'incarnarsi nei fatti. E un modesto terra terra è ancora un sufficiente ideale di governo.

– Che cosa dice? – gridò il duca di Francavilla. – Vede forse qualche difficoltà nella conclusione del negozio?

– No; – rispose il sottoprefetto. – Cioè, possiamo dire sì e no, no e sì. Com'Ella sa, queste cose vanno trattate con somma delicatezza, anzi a dirittura coi guanti. Ora, quando si palpa così poco, non si sa mai se si è molto avanti, o molto indietro. Mi spiego? Del resto, il signor Prospero, tutore della ragazza, è contentissimo, onoratissimo di questo disegno. Quanto alla signorina, che dirle di più, dopo l'idea che le è venuta di far rilegare a nuovo tutte le gioie di famiglia?

 

– Che capriccio! – esclamò il duca. – Non si poteva far dopo?

– Eh, duca mio, le ragazze hanno tutto il loro pizzico di vanità. Questa poi ci aggiunge di aver sempre fatto a modo suo e di tener dietro a tutte le prime impressioni. Compatiamola, del resto. Ha da sposare un duca di Francavilla, e non vuole che il mondo rida di lei. Tutto ha da essere rinnovato in casa sua. Dopo le gioie, vedrà i mobili e tutto il rimanente. Scommetterei che rifaranno la facciata al palazzo. —

Il duca strinse le labbra, in atto d'uomo che non è punto contento di certe lungherie; crollò la testa e se ne andò pei fatti suoi.

– Auf! – disse il prefetto, come fu solo. – Una gran noia, questo posare in falso! E durarla, poi! —

Immaginate con che animo si trovasse a fare il suo ufficio di padrone di casa, nel secondo mercoledì che vi ho detto, e con che gusto dovesse sentire dei ragionamenti come questi:

– Quel signor Prospero è un traditore! Chi l'avrebbe mai detto, con quell'aria ingenua! Piantarci lì, senza una parola d'avvertimento! E passi che ci abbia lasciati lui; ma rapirci la signorina Adele! Questa è grossa davvero. Vogliamo domandarne soddisfazione. Avrà da pentirsene! —

Mentre queste inezie si dicevano nel crocchio dei buontemponi, il duca di Francavilla, con aria svogliata, sedeva accanto alla tavola rotonda, sfogliando un albo, per la decima, o per la dodicesima volta, e mandando al diavolo Castelnuovo Bedonia, con tutte le sue dipendenze. La contessina Berta sedeva al pianoforte e suonava una romanza per la signora Morselli, che andava inutilmente in visibilio. La serata era fredda, quasi più fredda di quella della settimana antecedente; tutti i convenuti, qual più, qual meno, quale per un verso, quale per un altro, avevano le lune.

La sola contessa Beatrice Gamberini era più ilare del solito, più pomposa, più bofficiona, più rosea.

Avete mai provato a mettere una mela vizza sotto la campana d'una macchina pneumatica? A mano a mano che l'aria si rarefà, la mela va perdendo le rughe; la sua pelle si rialza, si stende, brilla, vi dà l'illusione della freschezza. Così la contessa Beatrice; veduta ad una certa distanza, così colorita e con gli occhi pieni d'insolito brio, pareva di dieci anni più giovane.

La contessa Beatrice era l'unica persona che quella sera non avesse dato noia al sottoprefetto con l'eterno argomento del signor Prospero e della signorina Adele. Umana tra tutte le contesse del mondo! Anzi, divina senz'altro! Il cavalier Tiraquelli le votò nel segreto dell'anima sua una gratitudine immensa. E per dimostrargliela in qualche modo, ed anche per sottrarsi alle domande importune degli altri, si piantò al fianco della contessa, stando a chiacchiera con lei e dandole ragione in ogni cosa che ella dicesse.

Si era parlato del più e del meno, di un'omelia del vescovo, di una lettera su Castelnuovo, stampata due giorni addietro in un foglio della capitale, di amministrazione comunale e di mode. La varietà dei discorsi aveva tirata intorno al canapè di damasco rosso la maggior parte degli ospiti, perfino le ragazze, che, di solito, si raccoglievano accanto al pianoforte. Dalle mode, per natural transazione, si venne a parlare del lusso, veramente sfrenato, che invadeva tutte le classi sociali, anche nella piccola città di Castelnuovo; poi delle sostanze limitate, degli scarsi raccolti, con una piccola scorribanda sull'agricoltura.

– Qui ci vorrebbe il signor Prospero Gentili, – saltò su a dire il ricevitore del registro. – Sentiremmo un bel discorso sui concimi artificiali. —

Quell'accenno personale diede maledettamente sui nervi al cavalier Tiraquelli. Era un presentimento?

– Il signor Gentili! Poveretto! – esclamò la contessa Beatrice, levando il viso a mezz'aria.

– Poveretto! Perchè? – domandò il ricevitore.

Il sottoprefetto non domandò nulla, ma tese gli occhi e aperse la bocca anche lui. Andava incontro alle parole della contessa Gamberini, come la biscia all'incanto.

– Non sa? – ripigliò la contessa. – È andato a farsi frate. —

Un grido universale accolse quella rivelazione improvvisa.

– Frate! – esclamò il ricevitore. – E dove?

– Poco lungi da noi; nel convento dei matti. —

La bomba era scoppiata. E quella candida bofficiona della contessa Beatrice se ne stava lì, con le braccia raccolte alla cintura, le labbra aperte e gli occhi di smalto, in mezzo a quella ventina di persone stupefatte, come se non fosse stata lei che aveva dato fuoco alla miccia.

Il duca di Francavilla aveva alzata la testa e lasciato di sfogliare il suo albo. La contessina Berta, dal canto suo, aveva abbandonato il pianoforte, e bel bello, senza parere, si era accostata al crocchio del canapè di damasco.

– Dei matti! – balbettava frattanto il signor sottoprefetto.

– Sì, mio Dio; non lo sapevano? – ribattè la contessa Beatrice.

– Ecco; – rispose il sottoprefetto, vedendo che tutti avevano posti gli occhi su lui, e che non c'era verso di cansarla; – qui bisognerebbe distinguere. Io so, per esempio, e non so. Ma di grazia, contessa, che cosa consta a Lei, di questa risoluzione del signor Prospero? Se ci sarà qualche discrepanza tra le sue informazioni e le mie, – soggiunse il cavaliere Tiraquelli con aria di suprema bontà, – correggeremo le une o le altre, secondo il bisogno.

– Oh, l'avverto che non correggerà le mie; – gridò la contessa Gamberini. – So poco, io; ma quel poco io l'ho per sicuro.

– Da fonte per ordinario assai bene informata; – notò ridendo il signor ricevitore del registro.

Ma nessun giornalista era presente, per arrossire, e la insigne scioccheria destò a mala pena il sorriso di due o tre intendenti.

– Dal mio fattore; – ripigliò la contessa. – Ed ecco come è andata la cosa. Il mio fattore era in campagna, alla Serra, per visitare un piccolo podere che abbiamo noi, tra monte Acuto e San Bruno. Discendeva appunto da una scorciatoia in mezzo ai faggi, quando vide andare in su due persone, sedute sugli asinelli, e seguite da un contadino, che portava due sacche da viaggio. Una di quelle due persone era il signor Prospero Gentili.

– Quando? – chiese il sottoprefetto, con aria di voler stabilire i fatti e le date.

– Nove giorni fa; – rispose la contessa. – Il signor Gentili non vide il nostro fattore che era nascosto dietro alle frasche; ma questi vide lui e lo riconobbe benissimo. E quando gli venne tra i piedi il contadino, che ritornava con le due umili cavalcature al piano, gli domandò come fosse che aveva lasciato il signor Gentili lassù.

– E lui?

– Il contadino rispose che non conosceva punto il signor Gentili. Lo aveva trovato, col suo compagno, presso la stazione della strada ferrata. Si era offerto a portargli le sacche da viaggio, e quello gli aveva risposto: "Vorremmo andare fino a San Bruno; sapreste trovarci due cavalcature?" – "Sicuro, che le troverò; – rispose il contadino; – ci ho il fatto vostro in casa di mio padre." – Così si erano conosciuti ed intesi; il contadino li aveva accompagnati fino al ponte di San Bruno, e aveva udito dalle labbra stesse del viaggiatore le parole: "veniamo per farci frati" dette al converso che era andato ad aprire. —

Tutti quei particolari fecero un gran colpo sull'animo degli astanti. La meraviglia era stata così forte, che nessuno si era dato pensiero di chiedere chi fosse il compagno del signor Gentili in quella domanda d'ammissione. Ma era pronta alla riscossa la contessina Berta, che si fece innanzi, col suo giovanile candore, e dimandò:

– C'era anche Adele?

– Anche Adele; – rispose la contessa madre alla contessina figlia.

– Sarà un po' difficile che riesca a farsi frate; – disse il ricevitore del registro.

– Uno scherzo! una ragazzata! – mormorò il sottoprefetto.

– Scherzo e ragazzata finchè si vuole; – osservò la signora Morselli. – Ma una donna… una ragazza… in un convento d'uomini…

– Dio buono! – interruppe quella santa creatura della contessa Beatrice. – Adele è in compagnia del suo tutore, del fratello di sua madre. Io non ci trovo nulla di male. Ah, signor duca, – proseguì la contessa Beatrice, volgendosi al Francavilla, che era rimasto là ingrullito, e, da Almaviva che voleva essere, incominciava a far la figura di Don Bartolo, – Lei ha fatto una descrizione troppo bella del convento di San Bruno, e i nostri amici se ne sono innamorati di schianto. —

Il duca di Francavilla fece una risatina melensa, indi si morse le labbra e tornò a sfogliare il suo albo. Fu una gran confusione, un pandemonio, nel salotto della sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia. E in verità, c'era materia a discorrere per tutti i versi. Una occasione più ghiotta non era capitata mai. Dio buono, la signorina Adele in un convento d'uomini! Era ben fatto, forse? E se era male, fino a che punto lo era? Certo, l'idea di quella gita era venuta a lei e il tutore non aveva fatto che obbedire. Altro che Milano! conchiudevano tutti. Altro che rilegare a nuovo le gioie di famiglia! avrebbe potuto conchiudere il sottoprefetto.

Il degno rappresentante del governo in Castelnuovo Bedonia non badò neanche più a dissimulare la sua ignoranza. Quella notizia così inattesa, così stravagante, lo aveva colto in pieno, lo aveva sbalordito.

Quasi sarebbe inutile il dire che per quella sera non si parlò più dei soliti quattro salti. Gran bella quadriglia avrebbe potuto comandare il duca di Francavilla! Berta, la gentil contessina, passò davanti a quella rovina di duca e gli gettò un'occhiata di compassione; indi, tornata al cembalo, rimase là tutta sola, facendo scorrere le agili dita sulla tastiera, e cavandone accordi sommessi, mentre laggiù, presso il canapè di damasco, si faceva un chiasso indiavolato. Ve l'ho già detto, era scoppiata una bomba; bisognava raccogliere i cocci.

Quella sera, ad uno ad uno, spulezzarono tutti i convitati due ore prima del solito. Non si ballava e la partenza anticipata aveva la sua scusa. Ultimo rimase nel salotto il signor duca di Francavilla. Il sottoprefetto, anzi che doversi sorbire cinque minuti di conversazione con lui, in quella circostanza, avrebbe voluto essere dieci palmi sotterra. Ma il duca di Francavilla, o non si accorse del suo misero stato, o non volle fargli grazia; e andatogli incontro, senza far l'atto di stendergli la mano, come il sottoprefetto sperava, lo interrogò con un cenno del capo. Con un cenno uguale il sottoprefetto rispose.

– Che cos'è questa storia?

– Ne so quanto Lei.

– Ma… e i discorsi fatti col signor Prospero?

– Non erano ancora discorsi fatti con la ragazza; glielo avevo già detto, io!

– E la storiella delle gioie?

– Santi Numi! Un artifizio per pigliar tempo. – Il duca s'inalberò.

– Troverebbero qualche cosa a ridire sul conto mio? – domandò egli, rabbruscato.

– Non credo. Che cosa potrebbero trovare? Io lo domando a Lei. Ma vorranno un po' di tempo a pensarci su. La gente che possiede i quattrini, ci ha sempre qualche dubbio, qualche esitanza… Infine, che so io? Signor duca, si commenta Dante, che ne vale la pena, e ci fanno una discreta figura anche gli asini. A commentare i passi oscuri del signor Prospero, c'è assai meno sugo, e ci diventerebbe un asino anche un sottoprefetto. —

Ciò detto, il degno uomo si lasciò andare per morto sul canapè di damasco rosso, come un uomo che avesse risoluto di non commentare più nulla.

Il signor duca faceva le volte del leone e non accennava punto a volersene andare. Tutto ad un tratto si fermò, fissò gli occhi in volto al padrone di casa, e gli disse:

– Che cosa ne penserà il ministero? —

L'ombra minacciosa, evocata dal duca di Francavilla, si rizzò davanti agli occhi del povero cavaliere. E la sua nomina a prefetto, la commenda, la dignità senatoria? Quella triplice forma delle sue future grandezze gli fuggiva veloce dallo sguardo. Illa levem fugiens raptim secat aethera pennis, avrebbe detto Virgilio.

– Signor duca, che ne so io? – gridò il sottoprefetto, coll'ansia dell'uomo che affoga. – Vuole condannar me, per una colpa non mia? Il signor Prospero è un imbecille e non sarà mai commendatore. Quantunque, a voler esser giusti, una qualità non escluda l'altra in modo assoluto. Ma può darsi che… Non giudichiamo senza sapere le cose. Un po' di tempo per raccapezzarci! Intanto, se permette, chiamerò il delegato di pubblica sicurezza. Ho da dargli certi ordini. —

Il duca di Francavilla se ne andò, mediocremente soddisfatto di quella proroga, e il sottoprefetto chiamò l'usciere, che a certe ore del giorno esercitava anche l'ufficio di servitore.

– Dove sarà il delegato? A letto?

– Oh, a quest'ora no, signor cavaliere. A quest'ora sarà al caffè delle Tre Rose, per far la partita a tarocchi col cancelliere della pretura.

 

– Andate a chiamarlo. Ho bisogno di vederlo subito. —

Il cavaliere Tiraquelli, tanto seccato durante la sera, aveva bisogno di sfogarsi su qualcheduno. E la vittima designata era il povero signor Borgnetti.

Il delegato capitò alla sottoprefettura con un'aria ilare, fin troppo ilare, che accennava ad uno stomaco pieno e ad un'anima senza rimorsi.

– Or bene, sa nulla? – gli chiese il sottoprefetto.

– Sì, – rispose il delegato, ammiccando e sorridendo con insolita familiarità.

– Dica su, dunque!

– Nel convento di San Bruno; – ripigliò il signor Borgnetti. – È andato nel convento da burla, e la sua nepote con lui. A farsi frati; anche questo da burla. Veda che razza di matti! La ragazza non troverà più marito; lo zio è un imbecille.

– Quanto al signor Prospero, è anche la mia opinione; – osservò molto giudiziosamente il sottoprefetto. – Quanto alla signorina, sappia, signor Borgnetti, che con una dote come la sua…

– Capisco; si chiudono gli occhi su molte cose.

– Del resto, – rispose il sottoprefetto, – non c'è niente di male. Non si tratta che d'un capriccio di fanciulla inesperta, e la presenza dello zio chiuderà la bocca ai maligni. Ma ora, mi dica il resto. Perchè, m'immagino, appena trovato il bandolo, Ella sarà andato sino in fondo.

– Eh, non guari più di così. L'amico non sapeva altro, e me n'ha informato pochi minuti fa. Eravamo ancora a discorrere insieme, quando è capitato l'usciere a cercarmi.

– Pochi minuti fa! – esclamò il sottoprefetto. – L'amico! Ma chi è costui?

– Senta, non vo' fargliene un mistero. Ho saputo tutto… dal ricevitore del registro. —

Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia diede un balzo sulla seggiola, che fece balzare di contraccolpo il delegato.

– Dal ricevitore del registro! – esclamò il degno rappresentante del governo. – Dal ricevitore del registro, che lo aveva risaputo da me!

– Non da Lei, scusi; – ribattè il delegato, a cui i caldi vapori del vino avevano destato il senso della ribellione; – dalla signora contessa Gamberini. Vede, cavaliere; per saper le cose, non ci sono che le donne. In massima, le scoperte più importanti si fanno tutte a caso. La traccia misteriosa, indovinata da pochi segni fugaci, non si trova che nei romanzi. Me lo diceva appunto il questore di Rossano, da cui dipendevo, prima di venire a Castelnuovo. – Se Lei vuol far carriera, – mi soggiungeva quell'uomo impareggiabile, – lasci credere che tutto proceda dalla sua accortezza: ma in cuor suo non si vergogni di non essere accorto. In queste materie, non lo è nessuno. La fortuna è donna, ed è giusto che s'innamori di qualcheduno; ecco tutto. —

Il sottoprefetto lo avrebbe strozzato con le sue mani, quel burlone di un delegato.

– Lei ha alzato un po' il gomito, quest'oggi; – gli disse, con accento sarcastico.

– Oh, poco, assai poco; – rispose il delegato, con aria di sommo candore. – A mala pena una bottiglia di Capri bianco. Ne hanno mandato al conservatore delle ipoteche, da Napoli, dov'egli è stato cinque anni. Mi ha invitato a festeggiare l'arrivo, e si è stati due ore in gaudeamus.

– Beato Lei, che ha tempo da perdere! – esclamò il sottoprefetto con piglio severo, che contrastava con quella forma di benevolo augurio. – Vada a dormire, adesso, mentre io veglio per Lei e per tutti. —

E fatto un gesto nobilissimo, ad accompagnamento di quel nobile commiato, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia volse le spalle al signor delegato Borgnetti.

– Non sapeva nulla! – disse il signor Borgnetti, mentre scendeva le scale e si stropicciava le mani, – non sapeva nulla del signor Prospero; perciò è andato in collera, vedendo che la polizia della contessa Gamberini era meglio fatta della sua. Ma badiamo, signor Borgnetti; – soggiunse egli gravemente; – la polizia della sottoprefettura di Castelnuovo siamo noi che la facciamo, e non bisogna dirne male. Baie! Alla fin fine, o che s'ha da aver l'occhio a tutte le minuzie di Castelnuovo Bedonia? E non aveva ragione il mio vecchio principale a dire che la fortuna è donna? Venga la fortuna, e terrà luogo d'ingegno. —