Za darmo

L'undecimo comandamento: Romanzo

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– Io?

– Sì. Lei. Non è forse per Lei che tutti questi malanni sono avvenuti? Il povero duca di Francavilla è partito da Castelnuovo su tutte le furie. E dire che potevano imparentarsi con la prima nobiltà d'Italia! Un Francavilla!.. Altro che Gualandi del Poggio! Un Francavilla avrebbe fatto onore ai loro milioni, accettandoli.

– Grazie della sua degnazione! – disse il signor Prospero, chinando la testa. – Ma infine, signor cavaliere, se la mia nepote non ha voluto saperne, che ci posso far io?

– Già, questa è la sua scusa. Come se Lei non ci avesse la colpa maggiore, nella sua mancanza di autorità! E voleva esser fatto commendatore?

– Adagio, signor cavaliere, adagio! Non ero io che volevo; era Lei che mi aveva fatto il solletico, – replicò il signor Prospero, con molta dignità. – Io non ho domandato nulla, e, se ci penso, mi pare che non avrei avuto il diritto di domandar nulla al governo. Sa Lei, signor cavaliere? Qualche volta ci penso e me lo dico da me: – Amico Prospero, chi sei tu, di grazia, e che cosa hai fatto, per diventare ambizioso? Non sei già tra i felici della terra? Arrivato ai cinquantacinque, senza acciacchi, senza bisogni, senza moglie, e senza associazioni in corso, che cosa desideri di più, che cos'altro chiedi alla fortuna? Essere tra i felici non val meglio che essere annoverato tra i potenti? Vai, stai, ti muovi e ti fermi a tua posta; i denari che spendi sono tuoi; nè di denari spesi, nè di capricci soddisfatti, devi render conto a nessuno. No, Prospero, amico mio, tu non hai diritto a lagnarti della sorte, e molto meno di aspettarti onorificenze, pel solo fatto che Iddio t'ha posto in condizione di vivere senza difficoltà in questa valle di lagrime. Aspettare dal governo! Che cosa? Ah sì, una cosa puoi e devi aspettare da lui; che esso conservi al tuo paese una stazione di dieci carabinieri; cinque a piedi e cinque a cavallo. Ci fanno buona figura, i carabinieri a cavallo! Ecco un ordine cavalleresco che vale qualche cosa, e il governo farà bene ad esserne prodigo co' suoi amministrati. Tutto il resto è apparenza, oro falso, princisbecco. Scusi, sa, signor cavaliere; parlo come uno che non lo è. Ma le giuro che, se lo fossi, parlerei sempre egualmente.

– Bravo! – esclamò il sottoprefetto, accompagnando la parola con un riso sardonico. – Lei è un felice borghese. Ma io sono un ufficiale del governo, uno di quei poveri soldati del dovere, che vegliano alla sicurezza e alla tranquillità di lor signori gaudenti. Ho bisogno di autorità, io, di favore in alto e di prestigio in basso. E tutto ciò che è avvenuto scuote la mia autorità, scema il favore, offusca il prestigio. Potessi almeno levarmi di qui! Ma questo è più lontano che mai. Ne avrò per un altro paio d'anni, di questa sottoprefettura, se Iddio e il Parlamento non abbattono il Ministero.

– Preghiamo Dio e il Parlamento che ci facciano la grazia! – rispose il signor Prospero Gentili. – Vuole che faccia fare un triduo, secondo la sua intenzione? —

Non vi riferisco il rimanente di quella malinconica conversazione, poichè la mia storia non ne ha punto bisogno. Del resto, la mia storia è finita. Qualche settimana dopo, si celebrarono le nozze Gualandi Ruzzani, e gli sposi, felici che Dio vel dica, si disponevano ad un lungo viaggio, a mezza via tra l'equatore e il polo artico. Prima di andarsene da Castelnuovo Bedonia, vollero fare una gita. Indovinate dove? Al convento di San Bruno.

Era una bellissima giornata di settembre. Se fossimo in principio di volume, ve la descriverei. Siamo all'ultima pagina, e ciò vi salva da uno squarcio di prosa.

Il convento era deserto, ma per i nostri due protagonisti lo popolavano abbastanza i ricordi scambievoli. Del resto, c'erano essi, e per allora non si richiedevano comparse, a ravvivare la scena. I pochi parenti ed amici, che avevano accompagnata la coppia felice, erano fin troppi per l'uso.

– Cari luoghi! – mormorò lo sposo all'orecchio di lei, mentre si traversava il giardino. – In questo crocicchio, quando tu sei partito, bel serafino biondo, siamo venuti alle grosse.

– Un duello! – esclamò ella, stringendosi al fianco di Valentino.

– Quasi, – rispose il conte, stringendo a sua volta il braccio tremante del serafino biondo.

Questi, o questa, perchè gli è tutt'uno, fece l'atto di accostarsi a lui, per scoccargli un bacio; ma si trattenne a mezz'aria. Era presente un terzo incomodo, un amico, un compagno d'altri giorni, che il conte Gualandi aveva voluto testimone alla cerimonia nuziale. Mettete che fosse il narratore di questa povera storia, e non andrete lungi dal vero.

Il povero testimone, mentre gli sposi correvano di qua e di là per tutti i recessi del convento, evocandone ad una ad una le dolci memorie, era andato a sedersi sotto il colonnato del chiostro, ed era rimasto assorto in una meditazione profonda.

– Che peccato! – esclamò egli ad un tratto, senza por mente che pensava ad alta voce. – Dopo tutto, ci starei ben io, in questo bel luogo solitario, a far la vita che egli non ha avuto costanza di proseguire. E giuro a Dio che nessun monachino biondo…

– Non giurate! – interruppe una bella voce argentina. – O presto o tardi, c'è sempre il rischio di pentirsene. —

FINE