Za darmo

L'olmo e l'edera

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–È vero tutto ciò, è spaventosamente vero!—disse la inferma crollando mestamente il capo.

–Or bene, signora, tutto ciò ha da finire. Gli stimolanti della scienza possono in cosiffatte agonie richiamare la vita, ma fino a tanto che la loro efficacia non siasi perduta, consumata dalla consuetudine sulle regioni cardiache e sulle estremità delle membra. Ma all'interno vuolsi provvedere, perchè coteste agonìe non si ripetano. Le sostanze ferruginose, i tonici, i cibi analettici (tutte parole che io non le starò a spiegare, perchè la scienza non perda anch'essa la sua materia colorante) debbono rinnovare il sangue, e ravvivare l'organismo per conseguenza. Alla complicità assassina del pensiero debbono far guerra i mezzi igienici, che consistono principalmente nel moto, nel mutamento dell'aria, cose tutte che recano novità di sensazioni e, disviando gradatamente l'animo dalle sue morbose consuetudini, finiscono a cacciar di sede l'interno nemico.

La signora Luisa stette anch'essa un poco sopra pensieri, come solea fare il suo interlocutore; poi gli rispose con quella lentezza che le era dimestica:

–Ella parla divinamente, signor dottore. Intendo ora com'Ella abbia saputo incantarmi il Giacomo, il quale non sa discorrere più che di Lei. E certo, se a me premesse molto di ricuperare la salute per godere la vita, io potrei mettermi ad occhi chiusi nelle sue mani, ed esser sicura del fatto mio. Ma innanzi di pensare a risanare, bisognerebbe che rinascesse in me il desiderio di vivere.

–Ma questa che Ella mi chiede sarebbe la convalescenza;—rispose Laurenti—ora nessun medico, sia pur Boherave redivivo, potrebbe condurla di primo salto a cotesto.

–Vede Ella dunque? Io non desidero la vita. Soltanto mi spaventa il dolor fisico; quello svenimento di iersera mi ha fatto paura, lo confesso. Ma se io potessi andarmene chetamente, senza una commozione violenta…..

–Ma perchè, Dio santo, perchè?…..—proruppe Laurenti, cogli occhi gonfi di lagrime.—Questo, signora, è odio di sè, e un'anima eletta non ha da sentire di così brutte passioni.

–Odio? no—rispose l'inferma.—Io non ho mai odiato nessuno, lo giuro a Dio che mi ascolta, e che Ella ha invocato. Non odio neppur me, povera creatura, che non ho mai fatto male ad alcuno. Ho a tedio ogni cosa, ecco tutto, senza frasi sonore, senza ira, senza rammarico.

Laurenti non seppe rispondere più nulla. Quella malattia resisteva a tutti i suoi consigli, a tutte le sue esortazioni. Chinò il capo, chiuse il volto nelle palme, e stette immobile, silenzioso, mentre nel profondo del suo cuore infuriava la tempesta.

Il soave accento della signora venne ad interrompere quel lungo silenzio.

–Suvvia, che cos'ha? che cosa ho detto io di male?

–Oh, gli è doloroso, signora, ciò che Ella dice, e più doloroso ancora ciò che fa pensare altrui. Perchè dispregia la vita? La vita è triste, ma è santa del pari, come tutte le tristi cose. V'hanno dolori da temprare, lagrime da tergere, adorazioni da innalzare, splendori da scorgere, e ci lasceremmo intristire nello sconforto? Il mondo, o signora, ha pure le sue gioie severe, le sue consolazioni profonde, che francano la spesa di vivere.

–Lo credo anch'io, signor Laurenti; Ella, come uomo, ha potuto trovarle, e nella sua operosa gioventù saprà prepararsi il conforto della età matura. Ma che faremmo noi donne, noi deboli, noi diseredate di questo gran patrimonio dell'umana attività?

–C'è apparenza, non sostanza di verità, in ciò che Ella dice. Io le concederò che la donna, o per natura sua, o per diversità di educazione, ma sempre per tirannia di consuetudine, non apparisca chiamata a partecipare ai gaudii multiformi della operosità umana. Ma, dicendole tirannia di consuetudine, ho detto ogni cosa. La educazione si può mutare; la natura si tempera col mutarsi della educazione.

La signora Argellani rispose a queste parole con un sorriso d'incredulità che messe Laurenti al punto di volerla convincere.

–Ella sorride?—soggiunse egli.—Voglia starmi ad udire. Andrò un po' fuori della medicina, ma che importa? Poi, con una malattia come la sua, anche il mio ragionamento potrà riuscire un rimedio.

–Vediamo dunque il rimedio—disse la signora Argellani.—Ella ha da dimostrarmi che la donna può partecipare alle grandi consolazioni della operosità umana. Io ho detto che non può; Ella dice che potrebbe, se non fosse la consuetudine. Io dico ciò che è; Ella ciò che dovrebbe essere. Ora io la avverto, signor dottore, che il mostrar la terra promessa da lunge, il dire «così potreste essere» non è punto un rimedio.

–Ho io detto cotesto?—rispose Laurenti.—La donna apparisce non chiamata a certe cose, ma pur ch'ella voglia, può dare una mentita a tutte le teoriche de' suoi avversarii. Poi, egli non è detto che tutte le supreme consolazioni della attività, consistano nel dar leggi ai popoli, nello scoprire i segreti della natura, nel sottoporre a teoremi il finito e l'infinito. V'hanno gaudii più conformi all'odierno modo di vivere della donna, i quali superano di gran lunga quelli dello scienziato e del pensatore, ed Ella non vuol metterli in conto?

–E quali sono?—chiese la signora Luisa.

–La storia progressiva della educazione e della importanza della donna nell'umano consorzio li dimostra assai meglio d'ogni mio ragionamento;—rispose il giovine.—Andando per due o tremil'anni a ritroso nella storia della civiltà, noi vediamo il ginecèo essere l'antica forma dell'esistenza femminile in quella medesima società di cui siamo gli eredi. Colà, in que' tempi, la donna non è che strumento di voluttà. I figli stessi che essa dà alla luce, non li educa lei. Sparta ed Atene educano i figli in comune; Roma stessa li sottrae per tempissimo alla madre, per metterli sotto la bacchetta del precettore. L'adolescente romano canzona sua madre intorno alle segrete trattazioni del Senato, e gli scrittori applaudono a quell'arguto sennino, imperocchè le donne non hanno da entrare nelle faccende dei loro mariti e figliuoli, ma da starsene in casa, alla conocchia ed al fuso, per meritarsi l'epitaffio della matrona romana: Casta vixit, lanam fecit, domum servavit. L'unica donna libera dei tempi antichi era la cortigiana, l'eteria; la quale, per conseguenza, era la sola che fosse utile a qualche cosa nel mondo, dappoichè intorno a lei convenivano, come oggi nella conversazione di una gentildonna, i più ragguardevoli personaggi, ed ella inspirava i filosofi e i magistrati, governava la repubblica ed esercitava il più bel diritto del reggitore di Stati, il diritto di grazia. Per tal modo la famiglia, diventando presso che inutile, tornava uggiosa all'uomo. Quella importanza che si negava alla moglie, alla sorella, alla madre, alla donna di casa, era acquistata dalla eteria, col sacrificio del pudore, il quale in fondo in fondo non doveva parer troppo grave, se era fecondo di tanti benefizi per lei.

–Fin qui, disse la signora Argellani, salvo l'ingegno del mio ottimo medico, non vedo nulla che faccia al caso mio.

–Ora vengo al buono, gentil signora, rispose Laurenti sorridendo.—La società cristiana ha trasformato la donna, o, per dir meglio, ha accettato la trasformazione che il cozzo di parecchie nazioni, la fusione di un nuovo metallo di Corinto, avevano recata nel suo grembo. Certo, per dar ragionevole nascimento all'uomo-dio, bisognava immaginare una donna superiore a tutte le altre, un vaso d'elezione. Ma se Maria nei primi tempi cristiani è già grande, non è ancora la Madonna, la consolazione degli afflitti, la madre della misericordia, la regina dell'amore. Il gran miracolo dell'affetto, nei primi tempi di cui parlo, è compiuto dalla donna di Magdalo, anche essa un'eteria, che sparge d'unguenti preziosi i piedi del Nazareno, che li asciuga col volume dei suoi capegli, che è la prima ad affermare il mistero della risurrezione. La vera donna, il tipo della società moderna, si manifesta più tardi, quando la società germanica e la società giudaica si confondono nella nuova fede, quando la Vestale romana, la profetessa di Rugen e la profetessa d'Israele, scompaiono, e rimane, giganteggia la forma femminile più umana e più vera, che è rappresentata dalla donna teutonica che combatte sui carri, e dalla gran madre dei Maccabei, Nella nuova società, la donna è già considerata come l'educatrice dei proprii figli, la consigliera del marito, il compimento dell'uomo. Cotesta gran novità ha portato i suoi nobilissimi frutti. Nel medio evo la donna è già elemento potentissimo di civiltà; essa ingentilisce il costume, accende gli animi alle mirabili imprese, e, dopo aver presieduto le corti d'amore, detta un poema a Dante, un canzoniere a Petrarca. Ancora un passo innanzi, ed ella stessa contenderà all'uomo gli allori, sarà viaggiatrice ardita con Ida Pfeiffer, scienziata insigne con Maria Sommerville, scrittrice e pensatrice profonda con Giorgio Sand. Se ella possa diventar pari all'uomo, non so, e non voglio indagare, poichè mi è noto che in tante e tante cose lo ha superato. Ma veniamo al caso nostro, signora. Ella è sola, ha cuore e mente, e nessun ostacolo allo svolgimento della sua operosità. Quanta libertà di azione, che alla più parte delle donne è vietata, sta raccolta nelle sue mani! Ed Ella non vorrà usarne? Si lascierà vincere da arcane malinconie, si lascierà morire come la povera vittima dell'antico ginecèo, perchè l'uomo, il sultano, l'aveva posposta ad un'altra?

–Non intendo il paragone;—disse la inferma rizzando il capo e guardando in volto Laurenti, come se volesse indagar negli occhi di lui un intento riposto di quelle sue ultime parole.

–Ed io non ho voluto fare un paragone;—rispose prontamente ii giovine.—Le chiedevo in quella vece se le paresse dicevole una imitazione di quella fatta.—

La signora Luisa stette un tratto silenziosa; poi, a mo' di commento a tutto il discorso del suo medico, si fece a dirgli:

 

–Queste sue argomentazioni, delle quali riconosco il pregio, sono molto generiche, e non mi persuadono ancora della utilità del vivere, per una donna mia pari.

–Perchè? C'è egli bisogno di intender tutto? Si opera secondo il proprio cuore, secondo il proprio consiglio. L'attività è l'uomo. Fare, fare, è l'impresa gentilizia di questo grande ignorante che è l'uomo, di questo credente nel cuore, scettico nella mente, che Goëthe ha incarnato nel suo Fausto. Fare, fare; ed è perdonato anco l'errore, e i patti col diavolo, anco se scritti col proprio sangue, non tengono; chi più ha operato, colla coscienza di voler giungere al vero, ha salvato l'anima sua. Infine, o signora, chi saprà dire il perchè siamo nati? E se cotesto non si potrà saper mai, perchè fermarci a mezza strada? Operiamo con retti intendimenti; non turbiamo l'ordine prestabilito. Ella, che si reputa un granellino di sabbia, la cui scomparsa non abbia a guastare, e nemmanco ad essere notata, può essere in quella vece necessaria a qualche cosa per utile di qualcheduno, o a qualcheduno per utile di qualche cosa. Mi avvedo che comincio a ragionare come un filosofo tedesco, ma la sostanza è vera.—

Il naturalista filosofo si fermò, aspettando qualche nuova obbiezione da combattere; ma la signora Luisa era rimasta muta. I concetti che egli aveva svolti le giravano confusi per la mente, come una musica nuova di cui non s'è anco potuto cogliere il senso melodico.

–Dunque,—proseguì egli, a mo' di perorazione—farà Ella ciò che io le ho detto?

–Non so, signor Laurenti.—E perchè, poi?…

–Perchè? Già lo ho detto le sode ragioni. Se queste non approdano, metterò mano alle scherzevoli. Pensi Ella che il suo medico è giovane; che ha bisogno di una clientela, e che se Ella si lasciasse morire, e' si farebbe canzonare da mezzo mondo, e l'altra metà non vorrebbe far capo a lui. Ella dunque vede che si può esser sempre utili a qualche cosa.

–Oh, se la mia missione in terra ha da esser questa…—disse la signora Luisa.

–Ho trovato questa,—rispose Laurenti—poichè Ella non ha voluto saperne delle altre.

–Intendo benissimo; ma anche per questa, mi ci vorrà la vocazione, e in verità non la sento ancora, sebbene io vorrei pare far cosa grata ad un amico come Lei. Non creda del resto che io desideri morire; la verità si è che non mi sento la voglia, nè il bisogno di vivere. Ella faccia i suoi esperimenti; gli è ciò che io possa consentire al mio medico; ma penso che sarà una vana fatica.

–Vedremo!—sclamò Guido, e si alzò, poichè notava che quella lunga conversazione aveva affaticato lo spirito della signora Argellani.—Del resto, tornerò domattina.

–Ella sarà sempre il benvenuto.

–Come medico?

–Come amico.

–Torna lo stesso, infin de' conti. Gli amici sono ottimi medici, ed io ci guadagnerò una doppia laurea. Ella intanto si attenga alle ordinazioni del suo…. amico.

Com'egli fu uscito dalla camera, la signora Luisa si fece a meditare su tutte le cose che egli le aveva detto, ma con pochissimo frutto, imperocchè il dolore che la donna gentile ci aveva nel profondo, non la perdonava a nulla, pari all'orribile tenia che si cela nelle viscere e distrugge il cibo, volto al sostentamento del corpo.

–Buon giovine e forte intelletto!—pensò la donna gentile.—Se fa il medico, salirà presto in rinomanza. Ma la sua fama e' non ha certo a cominciarla con me.—

E sospirò. Il suo pensiero era già altrove.

XI

La malattia della signora Luisa appariva ostinata oltre ogni credere, e Laurenti scorgeva come fosse malagevole il vincerla, imperocchè tutto quanto egli avrebbe tentato di fare, coll'aiuto della scienza, per rinnovare il sangue in quel morente organismo, sarebbe stato quotidianamente combattuto, contramminato, distrutto dall'interno nemico.

Questo nemico e' lo aveva sentito, quasi lo aveva veduto. Alcune frecciate, accortamente tratte, avevano colto nel segno, e l'interno struggitore avea dato cenno della sua assidua presenza.

A chi non è egli avvenuto, nei dì dell'infanzia curiosa e sollazzevole, di andarsi a sdraiare su d'un prato, quando l'erba è falciata, e la terra lascia scorgere, tra ciuffi di verde reciso, tutti i misteri della sua crosta? Si notavano allora certi buchi, artisticamente scavati tra le radici della gramigna o del sermolino, che andavano in linea diagonale nel profondo della terra, e dato di piglio ad un fuscellino, il più diritto e il più lungo che si potesse trovare, si frugava leggermente in quella piccola tana, fino a tanto che non si vedesse sbucar fuori un animaletto nero, dalla corazza rabescata. Era il grillo solitario, il notturno cantore, che faceva capolino sull'uscio, e si rintanava sollecito.

Questo ricordo d'infanzia tornò alla mente del giovine. Il negro animale, stuzzicato dalle sue dimande improvvise, era comparso più volte, mostrando le sospettose antenne, ma s'era rimbucato da capo. La sua presenza era posta in sodo, ed oramai, per sloggiarlo, e' bisognava lavorar di fine, usare accorgimento e prudenza, ma non dargli più tregua.

Ella non vuole essere risanata, pensò, dappoichè non vuol consolarsi, riamare la vita. S'ha dunque da risanarla a suo malgrado, e senza che veda, senza che sospetti il come. Disturbiamo il suo pensiero, non gli diamo più agio di operare, e sarà tanto tempo guadagnato pel lavorìo della scienza. La natura farà il rimanente. Nei recessi dell'anima stanno rimedii sottili, imponderabili, ignoti, ma potenti, efficaci, solo che abbiano il modo di svolgersi. E' fu un sassolino, spiccatosi dal monte, che scese a rovesciare la statua. L'operosità latente, stimolata da un nonnulla, in certe occasioni particolari, si sveglia e riedifica; il germe, bagnato da una goccia di rugiada, si fa pianta e prospera anco in una fenditura di marmo.

Laurenti argomentava benissimo, e il suo cuore indovino metteva le fondamenta di un ottimo sistema terapeutico. Ma egli v'era alcun che di maggiore, di più efficace, che gli veniva in aiuto, e che egli per fermo non poteva scorgere, non che mettere in conto, poichè quella tal cosa era egli, egli stesso. La signora Argellani non aiutava il suo medico, non lo secondava nei generosi conati ch'egli faceva per arrestare lo struggimento delle sue forze vitali. Ma intanto un nuovo elemento era penetrato nella sua esistenza, e creava necessariamente consuetudini nuove. Il ghiaccio era rotto; la primavera alitava dintorno a lei, tutti i suoi stimolanti profumi, tutti i suoi vivaci tepori. La bella inferma credeva di esser sempre sola col suo rammarico, e non lo era già più. Il suo deserto era popolato, e un'aria di giovinezza, spirando da tutti i lati, recava i germi della vita nuova. Stava daccanto a lei l'apparenza del medico; ma sotto quella spoglia tranquilla, palpitava il cuore, ardeva la mente dell'innamorato, che doveva circondarla di una rete invisibile, operare per la sua anima, ingombra dal tedio d'ogni cosa, quello che aveva operato la fantastica volontà di un altro innamorato per gli occhi di Caterina di Russia, allorquando fiorivano i giardini e sorgevano i villaggi lungo la brulla strada che essa doveva percorrere.

Ora, questo innamorato, fin dal primo momento aveva impreso a fabbricare la sua rete. Uscito dalle stanze della inferma, era andato dal Giacomo, diventato di botto suo primo assistente, ad indettarsi con lui per tal cosa che questi dovesse fare nel giorno medesimo.

La conseguenza di questo dialogo si fu che, verso il cadere del sole, la signora Argellani scese a diporto in giardino.

Era fiacca, come al solito, la donna gentile, e dopo aver passeggiato per pochi minuti, come fu presso l'albero di pino, si adagiò sul rustico sedile, e rimase immobile per contemplare le nuvole rosee dell'occidente. L'immagine del suo medico era le mille miglia lontana.

Ma il medico, lontano dalla sua mente, non era distante dall'albero di pino. Egli veniva lentamente pel sentieruolo, col capo chino, col suo solito libro tra mani, e si avvicinava a lei, che finalmente allo scalpiccio de' piedi sulla ghiaia, volse gli occhi dalla sua parte, e si addiede della sua presenza.

La prima impressione che quella vista fece nell'animo della signora Argellani, fu di molestia; ma, cortese com'era, si pentì tosto, e volse al suo medico il più affettuoso saluto.

Laurenti intese quel senso di molestia, e si sentì stringere il cuore; ma vide il pentimento subitaneo e si riebbe. Il volto diafano della signora era uno specchio fedele di tutte le interne sensazioni.

–Signora, le disse egli inchinandosi, le chieggo scusa e licenza ad un tempo di venirla a turbare nella solitudine del suo giardino. Ero venuto a cercare del Giacomo, del mio amico e collega in botanica.

–Ella non ha da chiedere nè licenza nè scusa, signor dottore, ed è qui, come lassù, padrone assoluto.

–Grazie; ed io vengo per l'appunto a far atto di padronanza.

–Ah! esclamò là signora con un sorriso che invitava a proseguire.

–Sì, soggiunse Laurenti, debbo impadronirmi d'una bella varietà di viole del pensiero, la quale io non ho, e il suo giardino ne ha parecchi esemplari. Così passeggiando sono sceso ne' suoi dominii….

–Col fidato volume tra mani, aggiunse la signora.

–Fidato davvero; è il mio Virgilio.

–Come? Dalla scienza alla poesia?

–Sissignora, ma poesia latina.

–Che differenza ci vede ella, signor dottore?

–Grandissima. Qui c'è la fragranza arcana della lingua disusata; però si studia ogni frase, si colgono intime bellezze di espressione che nella lingua nostra non si avvertirebbero nemmanco.

–Ed ecco una consolazione che noi povere donne non possiamo avere, noi sbandeggiate dagli studi classici.

–Ah, Ella si ricorda della conversazione di stamane? Questo è buon segno, almeno per me!

Ciò detto, e per non prolungare un dialogo che la signora Argellani aveva cominciato per mero debito di cortesia, Laurenti si volse al giardiniere, che stava pochi passi discosto a sarchiellare un'aiuola.

–Orbene, Giacomo; la mia pianta…

–Oh, non se l'ha mangiata il lupo, signor Magnifico, ed è laggiù che l'aspetta. Se Vossignoria vuole portarsela con sè, venga e la leveremo da terra.

–Signora,—disse Laurenti, volgendosi alla donna gentile—potremo averla patrona in opera di tanto rilievo?

–Volentieri.

E la signora Argellani si alzò: ma Guido non le offerse il braccio, sebbene ne avesse una voglia spasimata. Con quella donna ci voleva giudizio, e l'amore, che lo fa perdere a tanti, ne dava al giovine naturalista una libbra di più.

Egli anzi, con quella facilità che è sempre l'eccesso dello stento, si messe a chiaccherare di botanica e di orticoltura col Giacomo, dei proverbi contadineschi sul bel tempo e sulla pioggia, e di altre cose simiglianti, con le quali io non eserciterò per fermo la pazienza del benigno lettore. Venne poscia una filatessa di considerazioni sulle figure che erano rappresentate dai quattro petali screziati della viola del pensiero; quella per esempio che il Giacomo levava da terra per lui, era il ritratto parlante di un professore di greco di sua conoscenza…. e sapeva il greco del pari. Considerazioni che fecero ridere la signora Argellani, quantunque ne avesse così poca voglia nel cuore.

Ma erano pallidi sorrisi, come dicono i francesi con efficacia d'immagine. La gentil donna non era punto distratta; anzi seguitava la conversazione, e con quella eletta cortesia che è pregio naturale delle grandi anime, tenea vivo ella stessa il dialogo, aiutava le arguzie a sbocciare. Senonchè, mentre le labbra parlavano e sorridevano, in fondo al cuore c'era il vuoto, e di tanto in tanto ella ne sentiva gli arcani stringimenti.

Intanto venne la notte, e colla notte l'eterno discorso della rugiada, che invita a mettersi al coperto. Guido stava per accomiatarsi, ma la signora Argellani lo invitò ad entrare in casa, ed egli si tenne i suoi saluti tra i denti.

Era quella la tristissima ora, l'ora saturnia della giornata, per quella povera bella. Era l'ora in cui, in altri tempi, il campanello scosso mandava il più argentino dei suoi squilli, e poco dopo il servitore, sollevando la portiera del salotto dov'ella stava a lavorare, o a suonare il cembalo, diceva le consuete parole: «il signor Eugenio Percy.»

Egli entrava e portava la luce con sè. Ragionavano di nonnulla, nei primi tempi, stavano a guardar la luna dai vetri delle finestre, si bisticciavano fanciullescamente per una fettuccia, per una acconciatura di testa, per un'aria di ballo; ma i nonnulla dicevano una cosa sola; la luna sollevava nei loro cuori la marea di un solo sentimento; tra le loro contese, tra gli sdegni e il volar degli strali, danzava sempre, si rigirava uno spirito folletto colle alucce di farfalla, il quale spandeva filtri amorosi nell'aria e avvelenava le punte col miele.

 

Più tardi, non si guardava più la luna, non si contendeva più di nonnulla; era in quella vece un intimo favellio, un ricambio di dolci pensieri, una melodia susurrata, sospirata anzi, nella nicchia d'un sofà di velluto, colle mani strette nelle mani, gli occhi incantati negli occhi. Poi la lettura di un libro, spesso interrotta, o insensibilmente trasmutata in un'estasi; poi l'attesa di lui, fino a tanto che ella si fosse vestita per andare a teatro: poi un mondo di cose, e tutto in quell'ora, tutto ricordato in quell'ora, riassunto in quell'ora.

E quell'ora, già consacrata da tanto affetto, era vuota. I bei giorni erano finiti; il nodo si era spezzato; ma quell'ora non poteva essere dimenticata, per le consuetudini che essa richiamava alla mente.

A me duole di averlo a dire, perchè mi si darà forse, ed immeritamente, nota di materialista. La consuetudine è un forte vincolo; ella rafforza l'affetto quando è vivo e lo fa parer vivo quand'esso è già morto. Per tal guisa durano certi amori e certe amare ricordanze che la dignità offesa dovrebbe aver discacciate dall'anima. Imperocchè, se il cuore sanguina, la ragione può rimarginare la ferita; ma la consuetudine, quest'abito morboso della esistenza, offende i nervi anche dopo il risanamento, e riproduce la sensazione del dolore.

Quell'ora dunque era vuota; nessuna novità veniva mai a turbarne la solitudine dolorosa, e la povera inferma, seduta in un angolo del suo pensatolo, suggeva più veleno in quell'ora che in tutto il rimanente della giornata. Guido Laurenti, senza conoscere la cagione, aveva indovinato il male, anzi il punto culminante del male.

Entrato nel salotto della signora Argellani, egli stette a discorrere di cento cose. Ella era un tal poco distratta: ma era già molto che non fantasticasse da sola. Di discorso in discorso, di palo in frasca, si venne a ragionare di viaggi, e Laurenti si fece a dirle della mania ch'egli aveva da giovine di correre il mondo, mania tanto più forte, quanto egli era più impossente a soddisfarla.

Suo padre amava che egli studiasse; danari quanti ne voleva, ma non si muovesse per nissun pretesto da Genova. Un giorno, cionondimeno, fatti gli esami del primo anno di medicina, e' gli aveva mandato un bel gruzzolo di monete, perchè contentasse la sua voglia di andare a Roma. Quel viaggio e' lo aveva in mente da un pezzo, e gli parea mill'anni di non mettersi la via tra le gambe; ma l'uomo propone, e gli amici dispongono. I danari del babbo erano andati in mano di uno strozzino, per salvar dalla prigione un suo amico e parente, che era meno ricco e più scapato di lui, Come cavarsela con suo padre? E sopratutto, come cavarsi la voglia di fare una gita? Pensa, ripensa, e' non trovò altro partito che quello di viaggiare nelle proprie tasche, e dettare una relazione del viaggio, per mandarla a suo padre.

Gli era un bel paese davvero, sebbene un po' brullo. Anzitutto non c'era da snocciolare nemmanco una lira in beveraggi a' cocchieri; il conto dell'oste si pagava colla massima agevolezza; i ciceroni non costavano nulla. La scatola dei solfanelli lo conduceva a dotte considerazioni sul progresso delle industrie; il fil di seta col quale erano cucite quelle tasche, lo guidava fuori del laberinto, e di costura in costura lo portava a passare la Manica. Una lettera, un sigaro, erano accidenti importantissimi del viaggio. La scoperta di un ultimo scudo nel taschino del panciotto, era un amico, un compaesano trovato a mezza strada. Il conto del sartore che lo aveva vestito, poteva adombrare benissimo un incontro di briganti che lo avessero spogliato. E giù di questa conformità. Il padre aveva letto, aveva riso, ed aveva mandato qualche altro migliaio di lire a suo figlio, perchè andasse a viaggiare da senno.

Il racconto era condito di piacevolezze, di argute considerazioni, di modeste reticenze. La signora Argellani, da distratta si fece attenta, si lasciò andare in balia di nuove sensazioni, e viaggiò anch'essa col suo medico, diventato di punto in bianco umorista, sulle orme di Enrico Heine e di Giuseppe Revere.

Suonarono le dieci. La negra cura per quel giorno era vinta; il medico otteneva il suo primo trionfo, senza rullo di tamburi e senza suono di trombe.

Nè fu la sola. Il giovanotto, diventato prudente come la serpe della Scrittura, aveva diradate le sue visite mattutine, poichè il permesso di scendere dopo il pranzo nella villa Argellani, gli recava la dolce consuetudine di veder la signora con manco cerimonie, e accompagnarla di prima sera in casa, dove stava a ragionare una o due ore con lei. Gli era un medico, un amico ed un vicino insieme; condizione complessa, irta di difficoltà, imperocchè egli aveva sempre qualche cosa a temere. La donna malinconica, infastidita del vivere, poteva un bel giorno non vedere altro in lui che il medico ostinato a risanarla, e ribellarsi alle sue cure. L'interno nemico, stretto soverchiamente, potea rivoltarsi anco lui, e condurre la signora Argellani a sospettar dell'amico, a diffidare delle cortesie del vicino. Gli bisognava dunque temperare accortamente una cosa coll'altra, star di continuo all'erta, indovinare qual lato dovesse porre in rilievo, qual altro dissimulare. Fatica improba, che solo un profondo amore potea far sembrare gradita.

Le ore dopo il pranzo erano, come ho detto, consacrate al giardino. Virgilio rallegrava il viaggio dalla postierla fino all'albero di pino; quindi andava a dormire nelle tasche della giubba, e cominciavano le svariate conversazioni. La signora era di mente colta come di cuor delicato, e Laurenti sapeva farla pensare, com'ella sapeva farlo parlare. Si usavano cortesie a vicenda, e le ore passavano rapide come baleni.

I pallidi sorrisi, le dolci malinconie, i subitanei stringimenti di cuore, rispondevano ai diversi stati dell'animo della signora Argellani. Ma intanto la natura operava, e le nuove consuetudini si filtravano inavvertite nel suo delicato organismo. Guido Laurenti, il quale, per tutta la gente di casa, era il Magnifico, vo' dire il medico, e che ci aveva acquistato una grande autorità, dettava la lista della colazione e del pranzo; poi, col pretesto di procacciare sonni lunghi e tranquilli all'inferma, le dava a bere i suoi tonici, le sue pozioni ferruginose, e le andava man mano rinnovando il sangue nelle vene.

Non se ne addava ella punto? No certamente, poichè non le accadeva mai di pensarvi su. La sua melanconia non era apertamente turbata, ed ella lasciava che il medico facesse a modo suo. I modi del giovine erano prudenti e cortesi; la conoscenza di lui non riusciva di peso, ed ella non poteva scorgere in lui un amante.

O come non lo vedeva?—chiederà taluno. Le donne vedono sempre ogni cosa.

Sì, benigno lettore, esse vedono sempre ogni cosa, ma quando non abbiano in mente una di quelle preoccupazioni, le quali tolgono di badare al rimanente. Vi è egli mai avvenuto di amare una donna, la quale vi usava ogni maniera di cortesie, e frattanto non andavate innanzi di un passo? Quella donna, se vi rammenta, pensava ad un altro, e voi, poverino, voi non eravate che un semplice amico. Noi, pigliati a mazzo, uomini e donne, non abbiamo cuore che per chi piace a noi, e quando il cuore non c'è, egli avviene eziandio (salvo il caso di una dichiarazione, la quale non consenta più di ignorare) egli avviene, dico, che non ci sia neppure la mente. E voi, un bel giorno che quella lunga adorazione sulla soglia del tempio v'era paruta troppo lunga, fattovi un cuor da leone, incominciavate a parlare. Ella a prima giunta si meravigliava di quella novità, poi vi compiangeva, s'industriava a consolarvi con melate parole, e finalmente vi metteva, sebbene con tutti gli onori dovuti ad un cuor generoso, fuori l'uscio di casa. Voi tosto a maledire il giorno, l'ora e il momento che l'avevate veduta; voi a farle colpa de' suoi superbi disdegni, e perfino delle sue gentilezze. Povera donna! Come si è spesso ingrati ed ingiusti per ragion d'egoismo!