Za darmo

Il ritratto del diavolo

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XI. 1

Non vi è egli mai occorso di pensare, o lettori, a tutte le cose che si fanno, nel corso della vita, sapendo che non andrebbero fatte, ed anche provandone un certo dispiacere? La più parte deboli di tempra, perchè la forza è il privilegio di poche anime, e non sempre buone, noi siamo troppe volte i servitori umilissimi dell'altrui volontà, più spesso dell'ambiente in cui la necessità ci fa vivere. Sacrifichiamo agli dei falsi e bugiardi dell'uso comune, delle convenienze sociali, e via discorrendo; comperiamo la quiete del momento, a prezzo della felicità, di tutta la vita.

Spinello Spinelli aveva dovuto farsi una famiglia. Non ne sentiva il bisogno, eppure l'aveva fatta; non per sè, ma per gli altri, cioè a dire per suo padre, che non avea pace, e per gli amici, che non gli davano tregua. Ma la sua anima, si era come avvilita in quello sforzo di obbedienza, che lo conduceva a bandire perfino la sua tristezza, quella tristezza che gli era tanto cara, dopo la morte delle sue speranze giovanili, dopo la distruzione del suo bel sogno d'amore.

E come se ciò non bastasse ancora, il povero Spinello doveva contentare suo padre in un'altra cosa, e restituirsi ad Arezzo. Messer Luca pregava, i maggiorenti della città mandavano inviti su inviti.

In Arezzo, lui! Mai e poi mai. Chiedessero pure i maggiorenti della città l'opera sua e gli promettessero mari e monti; Spinello non era avido di ricchezze e di onori; Spinello sarebbe rimasto a Firenze.

Ma un giorno, gli giunse la nuova che suo Padre era infermo. Gli onori e le ricchezze non c'entravano più per nulla, il suo debito di figlio lo chiamava in Arezzo. E ci andò, conducendo seco la moglie.

Malinconico ritorno, nel paese in cui si è sofferto! Ma egli bisogna adattarsi anche a queste dolorose impressioni, e saper rivedere con animo forte i luoghi delle tristi memorie. Con animo forte! Quando e fin dove si può. Eravamo avvezzi a vedere quel tratto di paese popolato dalla immagini della speranza; quella corona di monti chiudeva tutto ciò che avevamo di più caro nel mondo; quelle mura, quegli archi, quelle vie, prendevano luce d'allegrezza dal pensiero che un'amata creatura vedeva con noi la medesima scena e vi respirava le medesime aure vitali. Ad un tratto, più nulla. Aure, luce, allegrezza, tutto è sparito; la città e morta, la corona dei monti non vi dà che lo scheletro ignudo di ciò che amavate. È questa, e non ce n'è altra, la vera sensazione del vuoto.

A sviare un tratto i dolorosi pensieri, Spinello ebbe le onoranze de' suoi concittadini. I sessanta che governavano Arezzo, saputo del suo arrivo, deputarono quattro dei maggiori a muovergli incontro sulla via di Firenze e gli fecero accoglienze così schiettamente amorevoli, che avrebbero reso invidioso un trionfatore, tornato pur mo' dagli splendori del Campidoglio, per ricondursi a più semplici dimostrazioni di gioia, a Tuscolo, a Lanuvio, ad Arpino.

Messer Luca era meno ammalato di quello che a tutta prima paresse. Ma fosse stato anche più grave, l'arrivo del figliuol suo, tanto invocato, lo avrebbe certamente rimesso in salute. Madonna Ghita, angiolo di bontà (questa giustizia le va resa anche dai divoti di madonna Fiordalisa), non si spiccò più dal capezzale del vecchio.

Frattanto, i rettori della città erano tutti intorno a messer Spinello, al valente pittore, e lo richiedevano con gran desiderio dell'opera sua.

–Vedete, maestro,—gli dicevano, additandogli il San Donato da lui dipinto nel Duomo vecchio,—quello è il vostro primo lavoro, donde incominciò la vostra fama. Non farete voi altro per la città che ha salutato il vostro ingegno nascente?—

Spinello non seppe resistere a tante preghiere, e fece promessa di trattenersi qualche tempo in Arezzo, per dipingere nel Duomo vecchio, secondo la richiesta dei massari, una Storia dei Magi.

Ma dopo i massari del Duomo vennero quelli di San Francesco. La chiesa mancava affatto di affreschi, ed era quella una eccellente occasione per dar campo all'ingegno di Spinello Spinelli. I Marsupini, ricca famiglia di Arezzo, ottennero primi che egli dipingesse nella loro cappella un Papa Onorio, in atto di confermar la regola dei santo fraticello di Assisi.

Dopo i Marsupini venne la volta dei Bacci. Messer Giuliano Bacci aveva il patronato di una cappella in San Francesco, e volle che il valente artista vi dipingesse una Nunziata. A questo nuovo desiderio rispose prontamente l'opera di Spinello Spinelli, ed anche a quello dei massari di San Francesco, che vollero un arcangelo San Michele, nella cappella intitolata al gran giustiziere del cielo.

Lavorava, il povero e glorioso Spinello, lavorava assiduamente ogni giorno, ma senza che il lavoro lo aiutasse a dimenticare per un'ora il suo profondo rammarico. L'immagine della bellissima estinta era sempre davanti agli occhi dell'artefice:

Madonna Fiordalisa, come sapete, era stata seppellita nel chiostro del Duomo vecchio. Spinello trovò nel suo memore affetto il coraggio di andare fin là, ad inginocchiarsi sulla pietra che copriva le spoglie mortali della sua fidanzata, e vi rimase lungamente piangendo e chiedendo perdono a quell'ombra adorata di aver data la mano ad un'altra donna.

Gli perdonò Fiordalisa? Ahimè, il povero Spinello non ebbe neanche quel triste conforto al dolore. Nessuna voce arcana giunse dal regno della morte alla sua anima afflitta. Fiordalisa era muta, ed egli sentì più vivo il rimorso di ciò che aveva fatto, per appagare il desiderio di suo padre. Era poi necessario di appagarlo? E non sarebbe stalo meglio persuadere messer Luca Spinello che quel matrimonio era impossibile? Il cuore d'un padre non avrebbe intese le ragioni del cuore di un figlio?

Abbandonato da quella speranza, l'animo di Spinello Spinelli cadde in balla dello scoramento. Era malinconico e si buttò al disperato; desiderava la morte e si compiaceva soltanto nella solitudine, che gli consentiva di pensare al più bel giorno della sua vita, il giorno in cui sarebbe cessata ogni sua pena. Lodato a gara da tutti, non dava retta alle lodi, o mostrava solamente di udirle, per mostrarne impazienza. Voleva esser lasciato solo, per darsi tutto alle sue smanie, alle sue alternative di fatica e di lagrime. Infatti, spesso deponeva i pennelli per piangere; poi rasciugate in fretta le lagrime, afferrava i pennelli e lavorava a furia, come un uomo che non ha tempo da perdere. Ineffabile angoscia, quella che non può avere neanche una lontana speranza di pace, poichè la tregua è solo di là dalla tomba!

Intanto, la religione dei sepolcri si era impossessata dell'animo di Spinello Spinelli. Quante volte gli era dato di escir solo dal suo lavoro quotidiano, egli andava nel chiostro del Duomo vecchio, per inginocchiarsi sulla pietra di madonna Fiordalisa, e ripetere con pienezza d'affetto la sua triste domanda: mi avete voi perdonato? Ahimè, povero Spinello! La pietra sepolcrale era muta; la voce arcana, invocata da lui, non si faceva sentire. Si sarebbe dello che le anime dei trapassati sdegnassero di vigilare qualche volta sulle ossa abbandonate, o che la salma di madonna Fiordalisa non fosse là dentro. Spinello, nel suo disperato dolore, pensò che ella non volesse ascoltarlo, amando meglio tacere, che dirgli una troppo amara parola. Infatti, la risposta di Fiordalisa egli se la immaginava qualche volta, e gliela ripeteva il suo rimorso.—Sei tu che l'hai voluto, disgraziato; sei tu che l'hai voluto. Di che ti lagni ora, nel tuo tardo pentimento, e che cosa domandi ad un cuore, che hai contristato con la tua ingratitudine?—

Per avvicinarsi meglio alla morte, a questo pensiero dominante di chi non trova più consolazioni nella vita, Spinello Spinelli incominciò allora a metter l'animo in quelle pratiche di coraggiosa pietà che i tempi consigliavano ai cuori angustiati. Pareva a lui che l'amante di una persona morta dovesse pensare più che ad altro agli estinti; epperò si ascrisse alla confraternita di Santa Maria della Misericordia.

Non invento nulla; sèguito passo passo il nostro malinconico eroe. La confraternita della Misericordia, che io accenno qui per necessità del racconto, era nata da un sentimento di gentile pietà, cresciuto nel cuore di parecchi buoni ed onorati cittadini d'Arezzo, i quali andavano attorno, accattando limosine per i poveri vergognosi e per gl'infermi, vegliavano al capezzale dei moribondi e portavano a seppellire i trapassati. E Spinello, essendo entrato a far parte della compagnia, andava anche lui con la tasca al collo e il martello di legno in mano, picchiando all'uscio dei ricchi, ed entrava nelle case visitate dalla morte, per recarsi sulle spalle i cadaveri. La cosa non era senza un grave pericolo, perchè allora la peste entrava di sovente nelle mura indifese delle città italiane, e quell'ufficio di misericordia, era una vera e propria milizia per gli animosi spregiatori della morte, o per coloro che amassero dissimulare con un debito di carità cristiana il tedio dell'esistenza.

Di queste nobili cure il valoroso artefice aveva più lode in Arezzo, che non delle stupende tavole dipinto senza compenso per l'oratorio della confraternita, a cui, tra l'altre cose, una bella invenzione artistica, di Spinello, destando gli spiriti caritatevoli dei facoltosi aretini, aveva grandemente accresciute le entrate, e per conseguenza le forze necessaria ad operare il bene. Della quale invenzione io vi dirò solamente questo: che egli dipinse sulla facciata della chiesa dei Santi Laurentino e Pergentino una Madonna, che, avendo aperti davanti i lembi del mantello, vi raccoglieva sotto il popolo di Arezzo, nel quale si scorgevano molti uomini tra i primi della confraternita, con la tasca al collo e il martello in mano, simile a quelli che s'usavano per andar ad accattar le limosine.

 

Madonna Ghita, poverina, ammirava e taceva. Il che significa in buon volgare, che ammirava a mezzo e che il silenzio nascondeva qualche altra cosa, come a dire un pochettino di tristezza. Ma egli è di certe donne il soffrire con misura, e perchè soffrano veramente meno di certe altre, e perchè manchino loro le forme in cui si esprime agli altri e si rappresenta a noi stessi il dolore. Questa vi parrà una sottigliezza, ma è tuttavia una verità. Chiedetene a tutti i filosofi e vi diranno che l'uomo non sente i bisogni di cui gli manchi un'esatta cognizione. Resta una vaga tristezza di cui non si conosce la causa, e il non conoscer la causa basta più delle volte a toglier ogni importanza agli effetti. Così in di grosso, e senza pensarci su, monna Ghita intendeva che un antico dolore pesava sull'anima di quell'uomo, parco di parole, avaro di tenerezze. Ma pur sempre buono con lei. Anch'ella ebbe le sue tristezze, ma non si fermò più che tanto a farne argomento di meditazione. L'animo di monna Ghita non era fatto per uno studio così fine. E se pure una vaga malinconia s'impadronì un giorno del suo cuore, ben presto venne a mutar l'indirizzo de' suoi pensieri, e darle una vera e profonda consolazione, la nascita di un angioletto, che ebbe il nome di Parri, il nome del primo e prediletto amico di Spinello Spinelli. Infine, che importava l'umor triste del marito, se di lui, e dell'affetto che la legava a lui era nato il suo Parri? Monna Ghita si consolò, raccogliendo su quella bionda testolina l'amore che non poteva espandere nel seno del suo triste o glorioso compagno.

Ghita, anima buona, sa Iddio se mi duole di voi. Ma siamo giusti, forse ci avete avuto dalla vita assai più che non vi riprometteste nei vostri sogni di vergine, ed io penso che voi non abbiate avuto mai una idea molto chiara della vostra infelicità sulla terra.

L'umor nero di Spinello non potè sfuggire all'occhio vigile di Tuccio di Credi. L'astuto malveggente seguiva con attenta cura le fasi morali del suo compagno d'arte, o poichè bisognerà distinguer meglio, del suo principale. Ma egli non cercava più di consolarlo, come faceva in principio. Lo aveva ammogliato, gli aveva assicurata la pace; il suo ufficio amichevole era adempiuto.

Tuccio di Credi, del resto, soffriva anche lui la sua parte. S'era fatto più cupo e più verde del solito. Quella potenza d'ingegno che niente bastava ad uccidere, nè la perdita di Fiordalisa, nè un matrimonio fatto a suo mal grado, gli riusciva molesta. Di sicuro, egli non poteva argomentarsi di competere mai con Spinello Spinelli. Egli era uno di quegli artisti che restano sempre sull'uscio, che hanno preso un pennello a caso come altri prenderebbe una scopa, e vanno avanti senza sapere il perchè, imparando il meccanismo dell'arte, per ridurla ad un mestiere che più oltre non saprebbero intenderne.

Ma anche condannato a restare sull'uscio, e consapevole di quella condanna, Tuccio di Credi sentiva la gelosia, questa brutta sorella dell'emulazione. Vedeva Spinello salire sempre più nella estimazione delle genti, triste, ma operoso, anzi più operoso quanto più era triste. Nè solo Arezzo chiedeva miracoli d'arte a Spinello Spinelli, ma anche molte altre città di Toscana. Lo aveva voluto la famosa Badia del Camaldoli in Casentino; lo aveva voluto Firenze, nella Badia degli Olivetani, in San Miniato al Monte; lo aveva voluto Pisa per il suo Camposanto, maraviglia dell'arte e della pietà italiana; lo voleva Pistoia, per la sua chiesa di Sant'Andrea.

Tuccio di Credi aveva portati in pace, o giù di li, gli inviti del Casentino; aveva mandati giù, senza troppo dolersi, gl'inviti di Firenze; aveva rizzato muso agl'inviti di Pisa, ma non si era arrischiato a dir nulla. Ma non portò in pace, non mandò giù, non lasciò correre senza proteste, gl'inviti di Pistoia. O perchè? Aspettate, lettori umanesimi, e vedremo di sapere anche questo.

Per intanto, sappiate che Tuccio di Credi si dichiarò contrario al viaggio di Pistoia. La città delle fazioni, anzi la culla, perchè lassù erano nate e di là s'erano propagate per tutta la Toscana, non era fatta per Spinello Spinelli. Il suo ingegno avrebbe trovato ammiratori, ma anche detrattori in buon dato. Voleva egli che la sua eccellenza nell'arte fosse contrastata? Voleva proprio comperarsi co' suoi danari un amarissimo pentimento? Andasse allora a Pistoia. Ma se amava la sua quiete, se voleva provvedere degnamente alla sua fama, si contentasse di Firenze e di Pisa, di Arezzo, di Rasentino e di Siena.

Spinello non diede retta a Tuccio di Credi. Della sua fama gl'importava poco, dei detrattori anche almeno. Checchè ne pensasse e dicesse il suo compagno d'arte, egli aveva promesso e sarebbe andato a Pistoia.

Tuccio di Credi chinò la testa e non argomentò più nulla in contrario. Ma prima che il principale avesse fatta una risoluzione intorno a quel viaggio, Tuccio di Credi si presentò a Spinello Spinelli per prendere commiato da lui.

Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

–Come?—gli disse.—Anche tu hai risoluto di lasciarmi?

–Sì, maestro. Tanto non sono buono a nulla, e l'opera mia non potrebbe esservi utile più di quella d'ogni altro fattore.

–Andiamo, via! Buono a nulla!—esclamò Spinello, con accento di dolce rimprovero.

–È la coscienza che me lo dice;—replicò Tuccio di Credi;—e perciò vi domando licenza di andarmene.

–Quando è così… se ad ogni modo lo vuoi, disse allora —Spinello,—sia fatto secondo il tuo desiderio.—

Spinello era come tutti gli uomini i quali vivono raccolti in sè stessi, che non credono conveniente di far violenza amichevole con nessuno, poichè a lor volta non amano di essere oppressi dalla benevolenza altrui. Lasciò che Tuccio di Credi andasse con Dio, e il giorno seguente partì per alla volta di Pistoia.

Era solo, ma la solitudine non tornava uggiosa al suo spirito malinconico. Il pensiero che vaga dietro allo immagini del passato prova una voluttà tutta sua nel trovarsi abbandonato a sè stesso, non obbligato a seguire, anche per poco, il pensiero degli altri. E Spinello fu più calmo a Pistoia, che non fosse a Pisa o a Firenze. La valle dell'Ombrone gli recò un senso di pace, che doveva tornargli nuovo, poichè della pace, come della allegrezza, egli aveva quasi perduto il ricordo.

La città, sebbene scaduta alquanto dell'antica grandezza, per le ire cittadine ond'era stata così lungamente travagliata, era bella a vedersi, per la quieta grandiosità delle sue vie, come per la elegante nobiltà, de' suoi monumenti. Pistoia non aveva avuto un'arte propria; nell'architettura aveva sentita da principio l'influenza dei pisani; nella pittura sentiva quella dei fiorentini. Ma fosse di Firenze o di Pisa, quella era sempre arte paesana. La Cattedrale, Sant'Andrea, il Battistero, San Giovanni Fuoricivitas, il palazzo del Podestà, erano saggi mirabili di quello stile che una critica poco degna del suo nome s'affanna ancora a chiamar gotico, laddove esso apparisce ed è prettamente italiano, e non ammette mistura di forme straniere se non in alcuni luoghi dove erano più vicini gli esempi, o più strette le relazioni con l'arte tedesca, normanna, araba, bisantina e via discorrendo. Quello che era avvenuto da noi per la lingua, che, scaduto l'idioma latino, riprendessero a mano a mano i loro diritti gli antichi dialetti italici, surrogando agli strascichi della magniloquenza romana le loro forme grammaticali più snelle e più efficaci nella loro medesima spontaneità, era avvenuto per l'arte. Lo stile romano si era imbastardito, per le ragioni che tutti sanno e che ad ogni modo non mette conto dir qui; doveva ritornare per conseguenza in onore l'antica forma toscana, più leggiera e più aggraziata, accettando necessariamente qualche cosa dal gusto dei dominatori o dai bisogni del tempo, e rimutando in nuova leggiadria una certa rozzezza d'ornati, che qua i bisantini, là i longobardi, avevano appiccicata agli artefici italiani.

Vi ho già detto che Spinello Spinelli era chiamato a Pistoia, per dipingere nella chiesa di Sant'Andrea, la vecchia basilica del XII secolo, pregevole per la severa nobiltà delle sue forme e per le sculture onde l'aveva arricchita Giovanni Pisano. Spinello Spinelli, andato a vederla, appena giunto in Pistola, fu contento di averci a lavorare. E tosto si diede a meditare qualche cosa che potesse rispondere alla magnificenza del luogo e alla buona opinione che i pistoiesi s'avean fatta di lui.

Spinello Spinelli era alloggiato, a grande onor suo, nelle case dei Cancellieri, antica e potente famiglia, ed una tra le due che avevano data la stura alle ire cittadine di Pistoia, dilagate poscia a Firenze, e via via per tutte le città e per tutte le borgate d'Italia. Ma, a proposito di ire cittadine, dov'era in quel tempo l'umor feroce di Pistoia a cui alludeva Tuccio di Credi? La città delle prime discordie posava da molti anni in pace, e ci fioriva liberamente la gentilezza naturale delle valli toscane, affinate da un certo che di arguzia montanina, per cui Pistoia la bella è rimasta famosa tra le vecchie città lucumoniche.

Nè solamente la città piaceva a Spinello Spinelli, ma eziandio e più particolarmente la campagna. Fin dai primi giorni della sua dimora in Pistoia, tratto dall'amor solitario che in lui era diventato come una seconda natura, Spinello usava andare a diporto nel borgo, e di là fino al colmo di una collina piantata di querci, donde l'occhio dominava la gran valle dell'Ombrone e quella dell'Arno che le vien presso. Era quello il suo luogo prediletto. Spinello non aveva mai veduto una più larga distesa d'orizzonte; non aveva mai veduto uno spettacolo più bello di quella conca di verde e d'azzurro, nel cui primo piano si stendeva la turrita Pistoia e nel cui fondo biancheggiava Firenze, circonfusa di soavi vapori alla luce del sole.

Nelle sue gite quotidiane al Poggiuolo (che così si chiamava il suo colle prediletto) Spinello Spinelli aveva stretta amicizia con un vecchio contadino di lassù, sentenzioso come tutti i vecchi montanini e garbato come tutti i contadini della montagna pistoiese. Pasquino dava il buon giorno o la buona sera al giovine forestiero, gli offriva una tazza di latte, che Spinello ricusava quasi sempre, non accettando che un bicchier d'acqua della Brana, picciolo ruscello che correva al piano, tra la costa del Poggiuolo e quella di Colle Gigliato,

Spinello aveva preso ad amare il vecchio Pasquino. E Pasquino che aveva veduto il forestiero con una cartella rilegata in pelle, entro a cui erano parecchi fogli di carta che il giovinetto andava spesso coprendo di disegni a matita, aveva preso a stimar grandemente il pittore.

Così, di chiacchiera in chiacchiera, il vecchio Pasquino era venuto a sapere chi fosse Spinello e di qual parte di Toscana.

–To'—aveva egli esclamato, udendo che il pittore era nato ad Arezzo.—Abbiamo un altro aretino nel vicinato.—

E accennava col dito a manca, verso una collina poco distante dal Poggiuolo, dove si scorgeva un edifizio di forme robuste, tra il palazzo di campagna e il castello.

–Come si chiama quel luogo?—chiese allora Spinello.

–Colle Gigliato, messere. È un bel sito, ma non quanto il Poggiuolo. Sa anche qui ci fosse un castello, ci farebbe il doppio di figura.

–No, non guastate il Poggiuolo con una fabbrica così tozza, Pasquino;—replicò Spinello Spinelli.—Amo meglio questa piantata di querci, che campeggia così bene sul fondo e divide in due la prospettiva della valle, lasciando incerti se l'una sia più bella dell'altra. La natura, mio vecchio Pasquino, la natura dispone i suoi quadri assai meglio di noi. Dove volete trovare uno spettacolo più vago! Una costruzione superba su questo colmo non guasterebbe ogni cosa? E ditemi, ora, come si chiama l'aretino di laggiù?

–Dovete conoscerlo, messere, perchè lo dicono d'una potente famiglia. È un Buontalenti.—

A quel nome, Spinello Spinelli aggrottò le ciglia. Ricordava infatti quel superbo cavaliere e le parole scambiate con lui nel Duomo vecchio di Arezzo.

–Sì, mi pare d'averlo conosciuto;—rispondeva frattanto.—Un uomo tarchiato di membra, dal volto bruno e con un certo piglio altezzoso….

–Oh sì, davvero, il piglio non è bello;—disse Pasquino, ridendo.—Messer Lapo Buontalenti m'ha l'aria d'esser superbo più di Lucifero. E qui, non dubitate, lo vedono volentieri come il fumo negli occhi. Già, non è entrato in dimestichezza con nessuno, e vi fa grazia quando vi rende il saluto. Anzi, scusate, messere, ma qui si fa per dire qualche cosa;—soggiunse Pasquino;—io ho pensato un giorno che se tutti gli aretini fossero come quello lì, non sarebbe davvero un bel vivere, nella vostra città. Grazie a voi, messere, ho cangiato opinione e penso oggi che ce ne sia di buoni e di tristi in ogni luogo.

 

–Voi dunque lo fate addirittura un tristo?—chiese Spinello.

–O che altro volete che sia, un uomo che non parla con nessuno, che vi guarda tutti dall'alto al basso, e fa passare una grama vita alle persone che vivono con lui? Basta vedere come tratta la sua donna!

–Davvero? È ammogliato!

–Sì, con una donna che ha portata da Arezzo, a quanto dicono.—

Spinello fece il gesto dell'uomo a cui riesce nuova una notizia e che non ha altro da aggiungervi. Infatti, egli rammentava che il Buontalenti s'era allontanato da Arezzo, per recarsi a vivere nel pistoiese; ma non sapeva che avesse condotta un'aretina con sè. Par altro, siccome la cosa non gli importava affatto, lasciò cadere il discorso.

Ma non lo lasciò cadere il vecchio Pasquino, che aveva trovato un argomento di chiacchiera, e pensava che Spinello, nella sua qualità d'aretino, dovesse udire le sue notizie con una certa curiosità.

–Oh, non pare che la lo sposasse volentieri; continuò.—Già, quando —arrivarono a Colle Gigliato, madonna era assai male di salute. —Pareva di vedere una statua di marmo, come quelle che sono nella —cattedrale di Pistoia, tanto era bianca nel viso. Io ho potuto —vederla da vicino, nell'andare in giù per le mie faccende, mentre —essa tornava con messer Lapo dalla cerimonia nuziale, che tu fatta —in San Giovanni. La via era stretta ed io ho dovuto tirarmi contro —il muro, per lasciarla passare. Se l'aveste veduta in quel punto, —messere! Pareva una madonna, di quelle che disegnate voi, in quei —vostri cartoni. Una carnagione bianca come il latte, i capegli neri, —le labbra smorte, ma due occhi… due occhi che parevano stelle! Un —sorriso, poi, un sorriso pieno di tristezza e di bontà, un sorriso —che faceva tenerezza e sgomento. Da quel giorno non m'è mai più —avvenuto di vederla da vicino. Dicono che non esce mai dal recinto —del castello e che vive là dentro come quella principessa —prigioniera d'uno stregone, di cui si narra nella storia di —Lancilotto del Lago. Verso la sera la si vede qualche volta laggiù, —da quella loggia die guarda verso la pianura. Rimane là per due o —tre ore alla finestra, con le braccia appoggiate sul parapetto, e —gli occhi fissi a guardare il sole, che si nasconde dietro i monti —pisani. Povera dama! Dev'essere molto disgraziata. A che pensate, —messere?

–Penso,—disse Spinello,—che anche voi siete pittore alla vostra maniera. Mi par quasi di vederla.

–E non vi dico nemmeno la metà della sua bellezza;—ripigliò il vecchio contadino.—Anche così malandata, è un portento. Doveva essere un occhio di sole, prima che le toccasse quella brutta sorte. Ma già, voi siete aretino come lei, e la conoscerete.

–Io no;—rispose Spinello.—Da tre anni ho lasciato Arezzo.

–E anche da tre anni messer Lapo Buontalenti è venuto ad abitare nei nostro contado. Quel castello e il podere che ha intorno gli sono toccati in eredità, dopo la morte di un suo zio materno, che fu messer Roselino Sismondi. E quando venne, aveva giù con sè quella bella creatura. Dovrebb'essere una sua parente orfana,—soggiunse discretamente il vecchio Pasquino,—perchè è venuta a dimorare con lui, senza essere ancora sua moglie. Anzi, sulle prime, noi s'immaginò che lo fosse già; ma le nozze celebrate un anno dopo, ci hanno fatto ricredere.

–Un anno dopo;—ripetè Spinello Spinelli.–Dunque, due anni fa?

–Sì, messere, per l'appunto, saranno due anni a San Michele.

–Due anni fa!—mormorò Spinello, crollando mestamente il capo.—Due anni fa mi sono ammogliato anch'io.—

E questa doppia coincidenza lo colpì. In verità era strano il fatto che il Buontalenti, partito d'Arezzo poco prima che la morte di Fiordalisa ne cacciasse anche Spinello, prendesse moglie nello stesso tempo di lui. E la donna era un'aretina? Condotta via da messer Lapo, quando aveva abbandonata la sua terra? In Arezzo, di quel fatto, non si aveva cognizione; o almeno nessuno ne aveva fatto cenno a Spinello. O fors'anche Spinello, nella tristezza ond'era tutto compreso, non ci aveva fatto attenzione.

Comunque fosse, la cosa era strana e colpiva di stupore la mente di Spinello Spinelli. Come mai, pensava egli, come mai messer Lapo Buontalenti, che la voce pubblica diceva invaghito della figliuola di mastro Jacopo, aveva potuto amarne un'altra così presto? E che necessità di bandirsi da Arezzo, se con un'altra doveva partire? Dopo avere a lungo almanaccato su quel fatto, Spinello si accostò all'idea che messer Lapo avesse amato madonna Fiordalisa come poteva amare un pari suo, per il solo desiderio di possedere colei che tutti celebravano bellissima tra le fanciulle d'Arezzo, e che il rifiuto di mastro Jacopo non avesse ferito il suo cuore, ma piuttosto il suo orgoglio smisurato.

Ma chi era l'aretina che aveva così presto consolato il Buontalenti della patita ripulsa? Una strana curiosità s'era infiltrata nell'animo di Spinello Spinelli. Dico strana, perchè in fondo non doveva importargli molto di conoscere un nome, e tuttavia il suo pensiero tornava con una certa insistenza a quella pallida castellana, intravveduta nel racconto del vecchio Pasquino. Forse era da ascrivere la cosa a un senso di gentile pietà, naturalissimo in un cuore ben fatto come il suo. Egli, invero, pensando alla signora di Colle Gigliato, rammentava la bella e infelice Pia de' Tolomei, di cui si narrava la storia lagrimevole, resa popolare dai versi di Dante, popolarissimo allora.

Quel giorno, scendendo dal poggiuolo per ritornarsene in città, si mise per una via che non aveva ancor fatta; di guisa che, scambio di rientrare in Pistoia da porta al Borgo, rientrò da porta San Marco. Avrete già indovinato da questo cenno che Spinello Spinelli si calò verso il letto della Brana, per costeggiar le falde di Colle Gigliato e rasentare la villa del Buontalenti, cinta da un muro nerastro, che si vedeva tutto rivestito d'edera e sormontato dalla frappa scura dei nocciuoli e degli elci.

Lì presso, nel greto della Brana, il nostro pittore s'abbattè in una povera donna che stava lavando alcuni pannilini all'acqua corrente. La donna lo salutò, secondo il costume dei contadini, ed egli, resole cortesemente il saluto, si fermò a dimandarle:

–Sposa, sapreste voi dirmi a chi appartiene questo castello?

–Maisì, messere, poichè ci abito da quarant'anni. Era di messer Rosellino Sismondi, buon'anima sua; oggi è di messer Lapo Buontalenti.

–Non è un casato pistoiese;—osservò timidamente Spinello.

–No, messere; il nuovo padrone del castello è un cittadino d'Arezzo.

–Dev'essere un ragguardevole uomo;—ripigliò Spinello.—Questo suo castello ha un aspetto assai nobile, e penso che ci si abbia a stare da principi.

–Eh, potete giurarlo, messere;—rispose la contadina.—Il vecchio padrone lo amava su tutti i suoi poderi, che n'aveva parecchi, e ci s'era fatto un luogo di delizie. Eppure, i padroni d'adesso non ci si vedono tanto volentieri!

–Davvero? E come va? Se ci fossi io, vi assicuro che mi parrebbe di stare in paradiso.

–Che volete, messere? Bisogna proprio dire che nessuno è contento del proprio stato. Del resto, messer Lapo non farebbe differenza tra questo luogo ed un altro; è piuttosto madonna Fiordalisa che non ci gode l'aria….

–Fiordalisa!—esclamò Spinello, dando un sobbalzo improvviso.

Ma subito, facendo uno sforzo violento per dominare la sua commozione, riprese:

–Ha un bel nome, la vostra signora!

–Un bel nome e un bel viso, messere. Che Iddio la prosperi com'ella si merita; perchè, in verità, non c'è dama in tutto il contado, e direi quasi in tutta Pistoia, che possa entrare in paragone con lei.—

Spinello Spinelli noci ascoltava già più la sua interlocutrice. Fiordalisa! pensava egli. Fiordalisa! Perchè quel nome, venuto al suo orecchio in quell'ora e in quel modo, come una voce dalla tomba?

1Nel testo "XI"