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Arrigo il savio

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XIV

Gabriella aveva fatto un saluto assai cerimonioso al conte Guidi, ma aveva abbracciata e baciata con grande effusione di cuore la sua cara Giovanna. Non credeva alle calunnie distillate da un vile anonimo contro la sua bella imperatrice, e le pareva, con una maggiore dimostrazione d'affetto, di dare a quelle calunnie una mentita più solenne e più forte.

Il conte Guidi rimase a discorrere col senatore Manfredi; ed egli e il suo interlocutore erano per verità un pochino impacciati, poichè non sapevano con quali discorsi trattenersi a vicenda. La contessa di Castelbianco e Gabriella si erano sedute sopra un sofà, l'una a fianco dell'altra, e là, sul fondo verde cupo della spalliera di stoffa operata, davano sembianza di due belle rose accompagnate, sorgenti insieme da un viluppo di quelle stupende foglione vellutate, in cui la natura, cesellatrice meravigliosa, sembra aver voluto rivaleggiare coi capricci dell'arte.

– Pompeo non poteva accompagnarmi così presto come io desideravo; – disse Giovanna all'amica; – ma per fortuna è venuto il conte Guidi. Quel povero giovanotto ha veramente una bell'anima, e avevi ragione tu, quando mi dicevi di volerlo studiare. Sai che cosa mi stava dicendo, in carrozza, di te? —

Gabriella non era molto curiosa di saperlo; ma, per compiacere all'amica, dovette aver l'aria di desiderare quella piccola confidenza.

– Sentiamo che cosa ti ha detto; – rispose.

– Signora (sono le sue parole, che ti riferisco testualmente), intercedete per me, presso la divina Gabriella. In un momento di follìa, non giustificata, è vero, da nessun precedente, ma certamente scusabile agli occhi di uno che potesse leggere nel mio cuore, ho detto alla signorina Manfredi una frase di cui sono pentito. Darei, ve lo assicuro, darei tutto il mio sangue per cancellarla, o almeno per ottenerne il perdono. A voi non si nega nulla; vorrete dir dunque una buona parola per me? Sono venuto a bella posta da voi. – Così mi ha parlato quel poveretto, e ti confesso che in quel momento faceva veramente pietà. Da brava, Gabriella mia, se è vero che tu a me non neghi nulla, perdonagli quella frase malaugurata, che io non conosco neppure, poichè a lui mancò il coraggio di ripeterla.

– Non la ricordo, questa frase terribile; – rispose Gabriella. – Dev'essere ben poca cosa, come vedi, e il signor conte sicuramente si è ingannato, immaginando che io avessi potuto dare importanza ad una frase sfuggita nel calore di una conversazione. Ne dicono tante, quei signori! —

Non era questo che la contessa voleva; tanto più che ella, contrariamente alla sua fresca asserzione, conosceva benissimo la frase che aveva fatto torto al conte Guidi nell'animo della signorina Manfredi. E la ricordava anche Gabriella; ma quella frase toccava l'argomento delle sue ammirazioni, ed essa non voleva profanare un sentimento così nobile e puro come il suo per Cesare Gonzaga, mettendolo in discussione, a proposito d'un sarcasmo del conte Guidi, di quel vago cavaliere, che oramai poteva essere tenebroso a sua posta, poichè ella non lo studiava già più.

La contessa Giovanna finse di contentarsi per allora, immaginando giustamente che la giovine amica si sarebbe ostinata nel facile perdono di una frase non voluta ricordare.

– Ah, bene! – diss'ella. – Temevo già che tu fossi in collera con lui, e che la collera potesse consigliarti una risoluzione a suo danno.

– Una risoluzione! – esclamò Gabriella. – Io? E quale?

– Eh, per esempio… di sposare il signor Valenti. —

Al colpo inatteso Gabriella si scosse, e guardò in viso l'amica, ricorrendo involontariamente col pensiero alla lettera anonima ricevuta dalla sua cameriera. Sotto quelle parole sentì palpitare il dramma, la candida ma non affatto inesperta fanciulla, e imparò presto a dissimulare.

– Ecco un'altra novità; – diss'ella, volgendo in un sorriso il suo atto di stupore. – E donde ti viene quest'altra?

– È la voce che corre; – rispose la contessa; – si dice anzi che lo zio è venuto a bella posta in Roma, per fare a tuo padre la domanda formale. Che c'è di vero?

– Una cosa sola, a quanto pare: la venuta di uno zio.

– Ma egli farà la domanda. Me lo ha detto anche Pompeo.

– Di bene in meglio; – ripigliò Gabriella. – Ecco uno zio che fa una diplomazia molto strana. Tutti sanno già che cosa è venuto a fare, ed io non ne so nulla ancora.

– Lo saprà il senatore tuo padre.

– Il senatore mio padre, – replicò Gabriella, confettando di un altro sorriso la severità della risposta, – non fa mai nulla senza consultare sua figlia; tranne, s'intende, le leggi dello Stato e le operazioni del suo banco.

– Dunque, non c'è niente di vero?

– Nientissimo.

– E il cavaliere?

– Faccia i fatti suoi. È ricco e non ha bisogno di trovare una grossa dote. Io son ricca e non ho bisogno di appoggiarmi a lui, nè ad altri come lui. Tu vedi dunque che se ci son due al mondo che non sian fatti punto l'uno per l'altro, noi siamo quei due.

– Tanto meglio… per il povero Guidi! – conchiuse la contessa. – E lui, come lo vedi? —

Era un assedio, un investimento in piena regola; ma Gabriella finse di non avvedersene.

– Che dirti, mia cara? – rispose, – non ho ancora finito di studiarlo. —

Intanto che le due amiche discorrevano, sedute sul sofà verde cupo, sul cui fondo spiccavano come le due belle rose che sapete, il salotto del senatore Manfredi incominciava a popolarsi. Tra i primi era venuto, e correva ad ossequiare la giovane Gabriella, il vecchio collega del Manfredi, il primo seccatore del regno, che fu per la fanciulla un soccorso del cielo; tanto è vero che tutte le creature hanno il loro ufficio provvidenziale nel mondo! Gabriella non reggeva più al peso di quella conversazione femminile, dopo che aveva ravvicinato nella sua mente il discorso incalzante della contessa di Castelbianco con le notizie che dava di lei quella brutta lettera anonima. La buona fanciulla avrebbe desiderato tanto esser sola nella sua camera, per meditare su tutta quella novità di casi che si erano affollati intorno a lei, offuscando la serenità della sua vita verginale. Ma per due o tre ore non c'era da sperar pace nè tregua, essendo giorno di ricevimento. I giovedì dei Manfredi non avevano musica nè ballo; perciò, abbondando gli amici gravi e i discorsi gravissimi, erano scarse le dame e più scarsi i cavalieri eleganti. I farfalloni che si arrischiavano là dentro, attratti da quel fior di bellezza che risplendeva nella casa senatoria, si sentivano a breve andare perduti in quell'aria afosa di legislatori, di accademici, di magistrati, di professori e via discorrendo. Il conte di Castelbianco, che ci andava qualche volta sul tardi, per riaccompagnare a casa sua moglie, si accostava a quei giovedì con un sentimento di sacro terrore. – Prima di entrare nel portone (soleva dir egli ridendo) respiro a furia, faccio provvista a larghi polmoni, temendo sempre che l'aria mi manchi, in quella campana pneumatica. – Povero salotto del senatore Manfredi! Esso non meritava mica quei crudeli giudizî. In primo luogo il padrone non costringeva nessuno ad andarci; e poi, come è vero che ogni uccello fa il suo verso, così ogni compagnia di persone ha diritto di divertirsi a suo modo, e il torto è di chi vuol portare le sue abitudini serie tra la gente allegra, o le sue abitudini allegre tra la gente seria.

La contessa Giovanna trovò un momento opportuno per dare una buona notizia e un'utile ammonizione al conte Guidi.

– Rassicuratevi; non c'è nulla di nulla. Fate la vostra corte liberamente; mostratevi il garbato cavaliere che siete sempre stato, e vincerete la partita. Ma badate, per altro; qui bisogna lodar molto l'antico, e in arte e letteratura, astenersi sopra tutto dal parlare di corse, di tiri al piccione, di cacce alla volpe, e d'altre mode d'oltr'Alpi. Gabriella è classica, e non ama gli usi nè le parole straniere. —

Il conte Guidi stava per mettersi all'opera, quando giunsero il signor Cesare Gonzaga e il cavaliere Arrigo Valenti. Lascio pensare a voi come fosse contento quest'ultimo, di trovarsi faccia a faccia con la signora di Castelbianco.

– Perdio! – mormorò egli all'orecchio dello zio. – La prima ispirazione era la buona. Non avrei dovuto venire.

– Che diavolo dici tu ora? – rispose il Gonzaga. – Guaio per guaio, meglio incontrarla qui, fra tanta gente, che altrove, a quattr'occhi. Sta saldo, ragazzo, e mostrati cortese, mi raccomando. —

Egli stesso sarebbe corso ad ossequiare la signora contessa. Ma prima, poichè gliene veniva il destro, volle chiedere certe notizie ad Andrea, che per il momento non aveva nessuno alle costole.

– Ebbene, hai parlato alla nostra cara Gabriella?

– Sì, oggi stesso. Ma che debbo io dirti? Per ora non sa risolversi.

– Ahi! – esclamò il Gonzaga. – In questi casi una proroga vale quanto un rifiuto. —

A questa interpretazione il Manfredi non seppe rispondere nè per sì, nè per no.

– Cesare mio, – diss'egli invece, stringendo affettuosamente il braccio dell'amico, – se tu sapessi come io ne sono afflitto! Vorrei vederti contento, ed anche contro un certo dovere che la prudenza di padre mi potrebbe comandare. Perchè, infine, tuo nipote, mentre desidera tanto questo matrimonio, ha qualche legame… che dovrebbe trattenerlo.

– Saranno chiacchiere di scioperati. Chi te le ha riferite?

– Senti, a te non posso e non voglio nasconder nulla. Una lettera anonima.

– È il giorno! – brontolò Cesare Gonzaga. – Ah, senza dubbio, bisogna dare una lezione a quel conte che vedo laggiù, a fare il cascamorto presso tua figlia.

– Che cosa dici? Il conte Guidi?.. È venuto poc'anzi con la contessa di Castelbianco, ma non è neanche tra gli assidui frequentatori di casa mia.

– Ah! E lo ha condotto la signora? – ripigliò il Gonzaga, ridendo amaramente e tentennando la testa.

 

– Ma che ci vedi tu di mal fatto? Che sospetti hai?

– Te lo dirò un'altra volta, quando mi sarò formato una vera certezza, intorno a certe cose. E dimmi, intanto; la lettera accennava anche il nome di una signora?

– Sì.

– Di una signora… che è qui? – proseguì sotto voce il Gonzaga.

Il senatore Manfredi chinò la testa, senza rispondere.

– Ah, infami! – disse il Gonzaga. – Senti, Andrea; qui, intorno a noi, è stata ordita una negra congiura, e noi dobbiamo romperla. Tu sei un uomo savio e prudente; non credi a nulla di ciò che ti hanno scritto. Ma tua figlia ne sa qualche cosa?

– Sì, ma ci crede anche meno di me, che, per dirti il vero, son rimasto un pochino sconcertato, e più per la persona indicata, che non per la cosa in sè stessa.

– Ah, meno male; – disse Cesare; – Gabriella non crede. Ma la ragione per cui non sa risolversi?..

– In verità, non saprei dirtela. È tutta in un suo particolar modo di pensare. Del resto, io ti ho dato licenza d'interrogarla; parlane a lei.

– Domani, se qualche altro guaio non viene a guastarmi la giornata, vengo sicuramente da te. Non voglio a nessun costo aver perduta ogni speranza.

– E non lo vorrei neppur io. Non già per tuo nipote, che a parer mio ha bisogno di correggersi in molte cose, ma per te che amo tanto. Se questo matrimonio non si fa, lo prevedo benissimo, tu fuggi da Roma ed io ti perdo per sempre. Capirai che questo non mi convenga punto, dopo trent'anni di lontananza.

– Tu sei buono, Andrea! – disse il Gonzaga commosso. – Ed io certamente non farò colpa a te di un rifiuto, che distruggerebbe tutte le mie più care speranze. Ma è certo del pari che non rimarrei a Roma un giorno di più. —

La contessa Giovanna si avvicinava, e i due amici troncarono subitamente il discorso, disponendosi con viso lieto a riceverla.

– Di che stanno parlando con tanto calore? – domandò la contessa. – Di politica, m'immagino. È la nostra capitale nemica, la politica.

– No, contessa; – rispose il Manfredi. – Proprio in questo momento parlavamo di gioventù. E questa è nemica nostra, perchè da troppo tempo ci ha abbandonato. Cioè, dico male, ha abbandonato me, non il mio amico Gonzaga, che è sempre un fior di giovanotto.

– Lo pensavo per l'appunto, guardandolo; – ripigliò la contessa. – Ma non glielo dirò, perchè sono in collera con lui.

– Signora, e perchè? – disse il Gonzaga.

– Perchè mi ha veduta, e non è ancor venuto a stringermi la mano.

– Signora, mi perdoni; c'erano tanti all'adorazione, e giovani e vecchi, che io non ho osato competere coi primi, nè accrescere il numero dei secondi. Ma eccomi qua, desideroso di ottener la sua grazia.

– Ve lo lascio, contessa; – disse il Manfredi. – Sentirete da lui tante cose galanti, che non potrete tenergli il broncio, e dovrete ripetergli che è il più giovane dei giovani. —

La contessa sorrise, prendendo il braccio di Cesare Gonzaga. Ma appena il senatore si fu allontanato, si volse al suo cavaliere per dirgli:

– Ebbene? Come vanno gli affari del suo protetto?

– Per ora, ch'io sappia, – rispose il Gonzaga, – vanno come quelli del conte Guidi. È lei, contessa, che lo ha condotto qua?

– Sicuramente. E le dispiace?

– Un pochino; tanto più che non dovevo aspettarmi questo da lei.

– È buona guerra, Gonzaga. Ella è soldato, e non doveva aspettarsi altro.

– Perchè? La guerra suppone la tregua, ed anche i trattati di pace. Dopo ciò che è avvenuto stamane, credevo sinceramente alla pace. Non dovrei vantarmi, contessa, ma ella mi costringe a rammentarle che l'ho salvata, stamane.

– Doveva lasciarmi perdere; sarebbe stato meglio; – ribattè la contessa, con accento sdegnoso. – Sappia, Gonzaga, che queste nozze io non le voglio… non le voglio, ha capito? Si volga altrove, quell'uomo, non alla signorina Manfredi.

– Calma, signora! Sarà quello che il destino vorrà, – disse pacato il Gonzaga.

La contessa Giovanna gli volse uno sguardo bieco, che pareva dirgli com'ella avrebbe anche saputo lottare col destino. Quindi, traendo il suo cavaliere verso il crocchio di Gabriella, ricompose la faccia ad una espressione di bontà e di allegrezza, che non pareva più lei.

– Carina! – diss'ella, avvicinandosi alla signorina Manfredi e lasciando il braccio di Cesare Gonzaga. – Mi vuoi con te? Si terrà corte, mentre laggiù i personaggi gravi ragionano di politica. Guidi, esponete un bel fatto, perchè noi possiamo dar la sentenza.

– Volentieri, per dar l'esempio dell'obbedienza; ma non un bel fatto; – rispose il conte Guidi, inchinandosi. – Un cavaliere teme di aver perduto la stima di quella dama a cui ha dedicato il culto più puro e il più rispettoso. Che dovrà fare, per accertarsene? Che dovrà fare, per ritornare in grazia?

– Ah, siamo in Corte d'amore? – entrò a dire il primo seccatore del regno, che si trovava accanto al sofà verde cupo. – Usanza provenzale!..

– I Romani non la conoscevano; – brontolò Cesare Gonzaga, allontanandosi, per andare in una sala vicina, a cercarvi il suo caro nipote.

XV

Arrigo era poc'anzi vicino a Gabriella; ma il ritorno improvviso della contessa di Castelbianco lo aveva messo in fuga.

– Che hai, zio? – diss'egli, vedendo il Gonzaga con le ciglia aggrondate.

– Ho… ho, che tu potevi rimanere accanto a Gabriella. Il contino non aspettava che la tua fuga, per occupare il tuo posto.

– Dovevo forse rimanere? Con quell'altra, che mi fa gli occhiacci!..

– Che vuoi, che ti divori? Ah, benedetto ragazzo! Tu commetti gli errori, e non sai riscattarli con un po' di coraggio. Eccolo laggiù, il contino, che fa il trovatore davanti alle belle! Sento una gran voglia di schiaffeggiarlo.

– E perchè?

– Un'altra lettera anonima, capisci? E questa, poi, l'ha ricevuta il senatore Manfredi.

– E tu sospetti di lui? – disse Arrigo. – Sei ben sicuro di non fargli torto, e di non essere tanto più ingiusto verso di lui, dopo che egli ha incaricato i suoi padrini di farti delle scuse?

– Si possono far delle scuse per debolezza d'animo, come hai creduto tu questa mane, o per non guastarsi con qualche persona troppo amica dell'avversario, come ho creduto io; – rispose il Gonzaga. – E in un caso e nell'altro, si possono affidare le proprie vendette ad armi come queste. Eccoti una delle lettere, che oggi sono state scritte; è quella che fu mandata al conte Pompeo. Non ti par naturale di applicarle la massima romana: “is fecit cui prodest?„

Arrigo diede una scorsa alla lettera, e fremette; poi osservò attentamente la mano di scritto.

– Questo carattere non mi giunge nuovo; – diss'egli.

– Bada; è carattere di donna.

– Appunto per questo. Ho già ricevuto lettere, da questa mano, molto tempo fa. E dopo che non ne ho più ricevute io, ne avrà ricevute un altro. Ah, ecco! – esclamò Arrigo, che aveva finalmente trovata la via. – Ma in verità, sarebbe una cosa orribile. Lui?

– Chi? – disse il Gonzaga. – In nome di Dio, chi sospetti che sia?

– Orazio; – mormorò il Valenti. – Ma la ragione di far ciò? Io non la vedo. Un amico!..

– Al quale hai ricusato ieri cinquemila lire, in un momento difficile.

– Non gliele hai imprestate tu, zio? e senza ricevuta?

– Non è la stessa cosa, – disse il Gonzaga. – Ad ogni modo, se il tiro viene da lui, il signor Ceprani è un tristo soggetto.

– Io non l'ho mai avuto per uno stinco di santo; – ripigliò Arrigo Valenti. – L'ho sempre speso per quel che valeva, e niente di più. Ma lasciamo stare il Ceprani. Tu restituirai ora la tua stima a quel povero Guidi?

– Non vedo la necessità di correr tanto; quantunque veda quella di ritornare di là, in mezzo alla gente. Guardalo laggiù, sempre appiccicato alla spalliera del sofà dove siede Gabriella. Dio, quante smancerie! E tu seguiti a far l'astratto, mentre egli ti voga sul remo.

– Eh, caro mio, – disse il giovane, mentre seguiva lo zio nella sala grande, da cui si erano allontanati, – non trovo da fare di meglio, in questo momento, e penso di riposare tra due guanciali, fidandomi in te. Lo sai, il proverbio? Fortuna e dormi. E si può dormire, quando la fortuna sei tu.

– Arrigo, Arrigo! Se tu seguiti a prender le cose con tanta fiacchezza, ti do la mia parola d'onore, che piglio il primo treno di domani, e me ne ritorno alle Carpinete, donde non mi caveranno più neanche gli scongiuri.

– Come? Ti darebbe l'animo di abbandonarmi? Proprio ora?

– Senti; che serve rimanere? Intanto, ella non vuol saperne di matrimonio.

– Non vuole? Lo ha detto a te? – chiese Arrigo, turbato.

– Lo ha detto a suo padre, e mi pare che basti. —

Il giovane non fece parola; ma il suo aspetto disse chiaramente allo zio che egli era stato profondamente colpito.

Cesare Gonzaga, chiamato a dire la sua opinione in una disputa amichevole tra il senatore Manfredi e parecchi colleghi, si allontanò dal nipote, che rimase solo, taciturno e smarrito nel salotto, come un povero forastiero in un paese di cui non sappia la lingua e dove non conosca un'anima.

Quanto rimase là solo? Un bel pezzo, di certo, e senza avere il coraggio di accostarsi al crocchio delle signore. Da principio lo tenevano lontano le guardate feroci di Giovanna; allora, poi, sentiva vergogna di presentarsi a Gabriella Manfredi, alla fanciulla che lo avea rifiutato lì per lì, senza dubitare un istante. Povero amor proprio! In esso ci tocca di soffrire, quando non vive in noi altro sentimento più degno. Arrigo Valenti avrebbe voluto essere mille miglia lontano; ma non c'era verso di muoversi da quella sala, dove tutti erano seduti a crocchi, e dove il timore che la sua partenza fosse troppo notata, lo teneva inchiodato. E tutti, vicini e lontani, parevano aver gli occhi su lui. Si accostò allora ad una tavola, prese un giornale illustrato, e fece le viste di leggere. Aveva finalmente trovato un atteggiamento; non faceva più la figura dell'uomo impacciato, abbandonato, sfuggito da tutti, che è tanto ridicola in mezzo alla gente, a quella gente tutta composta di prossimo nostro, e perciò così pronta ad avvedersi delle nostre angustie e a farne argomento di beffe. Là ritto alla sponda della tavola, col suo giornale tra mani, un giornale su cui teneva gli occhi e non vedeva una sillaba, udiva dietro di sè le voci dei cavalieri e le risa della contessa di Castelbianco, risa frequenti ed alte, ma troppo asciutte, e certamente poco sincere. Comunque fossero, beata lei, che poteva ridere ancora! Quella ilarità continuata, che a volte tradiva lo sforzo, era sempre una gran cosa, al confronto di quella confusione che teneva lui in disparte, solitario, con un giornale in mano, come un uomo che fosse andato in società non per altro che per vedersi lasciato in un angolo.

La contessa chiacchierava e rideva, ma nel fatto soffriva moltissimo. Ad un certo punto non resse più, e parlò improvvisamente di andarsene. Erano le dieci, e la sua carrozza doveva essere davanti al portone in attesa. Quante volte, e con la pioggia fitta, la carrozza non era rimasta là sotto, ad aspettare la signora, che non avrebbe mai detto di muoversi! Ma quella volta non voleva farla aspettare neanche un minuto. Il conte Guidi, che l'aveva accompagnata all'arrivo, si offerse gentilmente per accompagnarla alla partenza.

– No, grazie, conte, rimanete; non voglio che nessuno si scomodi per me. Fate chiedere piuttosto se la carrozza è giunta. Il mio domestico sarà già in anticamera. —

Il conte Guidi andò a prendere informazioni, e tornò subito dopo, annunziando che la carrozza era giunta. Frattanto il circolo delle dame si era disfatto, e la contessa di Castelbianco, andando verso il senatore Manfredi, che stava in conversazione col suo sinedrio di gravi personaggi, passò accanto ad Arrigo, che si tirò indietro, salutando. Essa gli diede un'occhiata sdegnosa, rise e gli gittò sul volto una frase, che sibilò come un colpo di frusta:

– Siete un vile!

– Signora!.. – disse Arrigo, sbalordito.

– Siete un vile! – riprese ella, incalzando. – Volete che vi schiaffeggi qui, alla presenza di tutti? —

Arrigo si ritrasse ancora, chinando la testa, e si allontanò prontamente da lei.

Cesare Gonzaga aveva veduto l'incontro e indovinato facilmente uno scambio di parole aspre fra i due. Avvicinatosi al nipote, mentre la contessa stringeva la mano al senatore Manfredi, gli disse:

– Che è stato? Che cosa ti ha detto la contessa?

– Nulla, zio, nulla; parole amare, sciocchezze da non farne caso. —

E fremeva, parlando così, e guardava sempre intorno a sè, come cercando qualche cosa. La contessa, frattanto, era partita, e poco stante, fatti i suoi saluti alla signorina Manfredi, anche il Guidi si mosse per uscire. Arrigo lo seguì in anticamera, indossò il pastrano anche lui, e si avviò per le scale sui passi del conte. Quell'altro se lo era veduto benissimo alle calcagna; ma a tutta prima non ne avea fatto caso, credendo che si trattasse di una combinazione fortuita. Ma dovette ricredersi nell'atto di escire sulla via, quando Arrigo Valenti, affrettando il passo per raggiungerlo, gli disse:

 

– Signor conte, avrei qualche cosa da chiederle.

– Parli, sono a' suoi ordini; – rispose egli, assumendo tosto un'aria di cerimonia.

– Poc'anzi, – riprese Arrigo, – una donna ch'ella ha accompagnata in casa Manfredi…

– Una signora, non una donna; – interruppe il conte Guidi; – la prego di correggere.

– È giusto; – rispose Arrigo, dopo un istante di pausa. – Non era mia intenzione di venir meno al rispetto che a quella dama è dovuto. La signora, adunque, passandomi daccanto, non so per qual cagione di sdegno contro di me, mi ha detto: vile. —

Il conte Guidi, che si era fermato a guardare il suo interlocutore, ascoltando pazientemente il suo piccolo racconto, si strinse nelle spalle, con aria di dirgli: che c'entro io?

– Le signore, – continuava frattanto il Valenti, – hanno parole che colpiscono peggio dei ceffoni. A noi uomini restano le mani, per restituire ai cavalieri quello che abbiamo ricevuto da esse. —

Così dicendo, levò la mano e percosse.

Il conte Guidi si aspettava un alterco, e fors'anche un'offesa; ma non aveva preveduto tanta prontezza di mano. Cacciò un urlo e si scagliò sul Valenti, che era preparato a riceverlo. Ci fu il solito pugilato, il solito accorrere dei viandanti, e la solita separazione dei combattenti, senza che nessuno degli accorsi riconoscesse quei due inferociti cavalieri e sapesse perchè si fossero accapigliati. Allontanatosi primo dalla calca, Arrigo vide passare una vettura da nolo, fortunatamente vuota; vi saltò dentro e disse:

– Allo Sport, in via Condotti, e alla svelta! —

Anche il conte Guidi, liberatosi dalla ressa degli importuni, andò di buon passo allo Sport. Giunto colà, prese in disparte i due primi gentiluomini che gli si pararono dinanzi, e chiese loro di volerlo servire in una quistione d'onore.

– Con chi l'hai? – gli domandarono.

– Col cavaliere Valenti. Vi prego di andar subito a casa sua, per portargli la sfida.

– Non occorre andar tanto lontano; – risposero quelli. – Il Valenti è entrato poc'anzi, ed è nella sala d'armi a colloquio con due altri, forse per la stessa ragione.

– Tanto meglio! – disse il Guidi. – Andate dunque di là. Voglio un combattimento ad oltranza. Stamane, per un riguardo a certe persone, mi son mostrato corrivo a far pace con lo zio. Ora il nipote ha da pagare per due. —

Mentre queste cose accadevano di fuori, Cesare Gonzaga, rimasto nel salotto dei Manfredi, girava inutilmente gli occhi di qua e di là, cercando il nipote. Certo, conoscendo l'indole di Arrigo, l'ultimo pensiero che gli potesse venire, anzi l'unico che non gli dovesse venire affatto alla mente, era quello di un suo alterco col Guidi. Egli sospettò invece che il suo caro nipote, sconcertato dal rifiuto di Gabriella, avesse fatta la insigne sciocchezza di andarsene insalutato hospite, contro l'usanza della casa, che non ammetteva questi esotici modi. Turbato dal pensiero di quella ragazzata, che poteva guastare per sempre il giovinotto coi Manfredi, lo zio Cesare stette ancora un pezzo a discorrere con gli ultimi rimasti, che si erano raccolti intorno alla signorina Gabriella. Finalmente, approfittando dell'arrivo del conte Pompeo, che veniva molto in ritardo a cercare sua moglie, Cesare Gonzaga si accomiatò, promettendo a Gabriella una visita per il giorno seguente.

– Che uomo, quel Gonzaga! – disse il conte di Castelbianco. – Par sempre un giovinotto.

– Ed ha anche giovane il cuore; – aggiunse il Manfredi.

– Ah, quello poi ha vent'anni. Figuratevi ch'egli ha domattina un duello.

– Un duello! – esclamò Gabriella. – Con chi?

– Col conte Guidi.

– E quando lo avete saputo? – domandò il Manfredi.

– Oggi stesso. A tutta prima aveva creduto che si trattasse di suo nipote; ma invece è lui, proprio lui.

– Anche il Guidi, poc'anzi, era qui, e non ci siamo avveduti che ci fosse nulla tra loro.

– Eh, capirete; i cavalieri perfetti sanno fare le cose con la debita discrezione.

– Ma la ragione? Arrivato da due giorni appena, come può aver già avuto da dire con qualcheduno?

– Che posso dirvi io? La ragione non la so. Del resto, le quistioni personali non si maturano sempre lentamente; nascono qualche volta da un nulla, come i funghi, e scoppiano lì per lì, come le bombe. —

Con questi bei paragoni conchiuse la sua imprudentissima chiacchierata il conte Pompeo di Castelbianco, lasciando i Manfredi nella più dolorosa ansietà.