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Arrigo il savio

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– Ma… – disse la contessa, che incominciava a sentirsi più raffidata. – Credeva ella proprio che qualcheduno potesse venire da questa parte?.. Al più, mettersi in agguato per via…

– Temo tutto, io; – rispose il Gonzaga. – E poi, chi provvede al più, ha provveduto al meno. —

In quel mentre, si udì una forte scampanellata. Giovanna ne tremò tutta.

– Niente paura; – disse il Gonzaga. – Se suonano di qua, c'è madama Duplessis, con la sua cameriera. Se suonano di là, c'è Happy. —

Ciò detto, andò in ascolto dietro all'uscio della camera. Poco dopo giungeva Happy, per dirgli:

– Illustrissimo, è giunto il padrone.

– Solo?

– Col signor Ceprani.

– Ah diavolo! Ma già, si capisce, doveva venire insieme. Signora, io esco, per andare a sentire questi due, ed anche per tirarli in un'altra camera, più lontana di qui. Ella esca liberamente, e vada ad aspettarmi da madame Duplessis.

– Signor Cesare, come le dimostrerò io la mia gratitudine?

– Le risponderò come madame Duplessis; – disse il Gonzaga, sorridendo. – Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo. Piuttosto non mi tradisca… non mi rinneghi, con la mercantessa di mode, dopo che io ho dovuto inventare quella frottola… e ne arrossisco tuttavia. —

Quando il signor Cesare Gonzaga escì dalla camera, Arrigo, seguito dal Ceprani, stava per entrare nella sala vicina, non badando alle occhiate di Happy, che voleva trattenerlo. Il Gonzaga giunse in tempo per costringerlo a ritornare indietro, impedendogli di sentire il rumore che nelle stanze attigue faceva madame Duplessis, con le sue scatole e casse di mercanzia.

Orazio Ceprani diede una lunga occhiata di curiosità a quella parte del quartiere di Arrigo, nella quale non era mai penetrato, ma ritornò anch'egli indietro, precedendo il Gonzaga, che faceva per allora da padrone di casa, e voleva ad ogni costo esser l'ultimo.

Come fu nella stanza vicina, che era la sala da pranzo, il vecchio soldato diede una rifiatata di contentezza.

– Dunque, zio, eccoci qua; – disse Arrigo. – Torniamo ora dalla nostra missione.

– Scusami, ora ne parleremo; – rispose il Gonzaga. – Ho dimenticato una lettera incominciata.

– Lasciala pure; Happy è un uomo scrupolosissimo.

– Sì, ma le lettere non suggellate debbono ad ogni modo essere chiuse. Vado e torno. —

Ed escì, ma non per andare a chiudere la lettera, bensì per aver modo di ritornare indietro, e chiuder l'uscio di comunicazione, senza aver l'aria di usar precauzioni davanti ad un terzo.

– Vedi che uomo è mio zio! – disse Arrigo al Ceprani. – Ha una quistione d'onore, non sa ancora che cosa gli abbiamo combinato, e, scambio di domandarci notizie, va a chiudere una lettera dimenticata sul tavolino.

– Tuo zio opera da uomo prudente; – rispose il Ceprani, che non immaginava neanche lui di parlar così giusto.

Il Gonzaga ritornò, richiuse dietro a sè l'uscio di comunicazione con l'aria più naturale del mondo, e venne incontro ai due giovani.

– Eccomi qua; – diss'egli; – parlate. A che ora si parte per il campo della gloria?

X

Arrigo, lì per lì, non avrebbe saputo da qual parte incominciare; ma la domanda dello zio gli dettò la risposta.

– Non si parte; – diss'egli.

Cesare Gonzaga, che si era seduto allora allora, balzò dalla scranna, ficcando gli occhi addosso al nipote.

– Che? Come? Che hai detto?

– Che non si parte, per ora, e molto probabilmente non si partirà più. Per noi, vediamo la faccenda accomodata.

– Ac… co…

– …modata, sicuro. È la mia opinione, ed anche quella di Orazio, come degli altri padrini.

– Sarei curioso di sapere in che modo.

– È troppo giusto; – rispose Arrigo. – E tu vedrai che le cose sono precedute nei termini della più stretta cavalleria. Ci siamo abboccati coi signori barone di Gleisenthal e duca di Roccastillosa; due bravi giovani, che a tutta prima stavano molto tirati, ma, quando noi abbiamo detto loro di esser pronti a scendere sul terreno, ci son divenuti di pasta frolla. Si era venuti alla scelta delle armi. “Chi è lo sfidatore?„ ci siamo domandati a vicenda.

– Io, perbacco! – interruppe il Gonzaga.

– E questa tesi sostenemmo noi. Ma essi dimostravano di essersi avanzati primi a cercare di noi. Ad ogni modo, perchè noi volevamo essere gli sfidatori, ma lasciavamo a loro la scelta delle armi, essi dovettero riconoscere la delicatezza nostra, di voler vincere un punto, ma senza trarne veruna conseguenza a noi vantaggiosa. Per altro, ci han detto, e non senza ragione: “Si può egli accettare un simile atto di cortesia? non sarebbe meglio che, lasciando da parte sfidati e sfidatori, mettessimo la quistione sul vero terreno suo, tra provocati e provocatori? Stabiliamo chi ha provocato; e se tutti e due i nostri primi hanno avuto in questo la parte loro, stabiliamo da qual lato fosse la provocazione più grave.„

– E allora? – chiese il Gonzaga.

– Allora venne il battibecco, e non fu possibile, con tutta la miglior volontà di questo mondo, non fu possibile intenderci sul maggiore o minor grado imputabile all'uno dei due.

– Ma io lasciavo al mio avversario la scelta delle armi.

– È vero, ma essi notarono e noi non potemmo negare, che questo era un regalo. Ora, i regali si possono accettare e non accettare. Ricusando il nostro, e con parole molto gentili, obbligavano noi a molta cortesia di contraccambio. A fartela breve, non si stabilì chi fosse il provocatore, e si passò all'esame coscienzioso delle parole che erano state dette da una parte e dall'altra. Orazio Ceprani le aveva udite; e anch'io, che ti ero vicino, ma che, come parente, non volli neanche aggiungere la mia testimonianza. Dal canto loro, le aveva udite il duchino, e lui e Orazio trovandosi d'accordo nelle frasi, furono anche d'accordo nel trovare che c'era ben poco; donde la conseguenza, onestamente ammessa da tutti, che il duello nasceva da un malinteso. Il conte Guidi, del resto, non aveva nessuna intenzione di offenderti, ed essi lo hanno lasciato capire.

– Avranno allora ritirato in nome suo le parole offensive, o, secondo la vostra comune ermeneutica, di dubbio significato.

– Non ci parve necessario di chiederlo, dopo che essi, investiti del mandato più largo, avevano creduto opportuno di riferirci il pensiero, la convinzione intima del conte Guidi. Riferire il suo discorso e ritirare le parole offensive, o dubbie, non era forse tutt'uno?

– Non lo era, e non lo è; – disse il Gonzaga.

– Onestamente sì; – rispose Arrigo.

– Cavallerescamente no; – ribattè il Gonzaga.

– Zio, e sei tu che fai distinzione tra onestà e cavalleria? —

Cesare Gonzaga fece una spallucciata, vedendo da che pulpito gli veniva la predica.

– Continua il tuo discorso; – soggiunse. – E voi altri?

– E noi dicemmo allora: siccome le parole del marchese Gonzaga si riferivano ad una offesa, che non c'era; siccome, quando egli si rivolse a parlare con le signore, fu il primo a dire ridendo che si era fatto tra lui e il conte Guidi un semplice scambio di notizie indiane: potremmo costituirci, salva la condizione ad referendum, in una specie d'arbitrato, e, trovandoci d'accordo nelle testimonianze come nei giudizi, ritener cancellata ogni offesa possibile e composta la quistione nel modo più onorevole.

– A questo siete venuti?

– Zio!.. da uomini calmi ed onesti. Si ha la vita di due uomini in mano, e di questa autorità terribile bisogna farne buon uso.

– Buon uso! buon uso! – brontolò il Gonzaga. – E chi vi ha detto di farne un uso piuttosto che un altro? Vi avevo detto semplicemente e chiaramente di condurmi sul terreno. Per fortuna, – riprese egli, – c'è di mezzo la condizione ad referendum.

– Ahimè! – rispose Arrigo. – Non ti ci fidar troppo! È stata detta, ma poi non ci si è molto insistito. Anzi, vedi, abbiamo preso impegno di usare tutta la nostra autorità presso i nostri primi, per vincere ogni loro resistenza. Ricordo che il duchino di Roccastillosa ha soggiunto: per il nostro rispondiamo; se non accettasse, avrebbe da fare con noi.

– Cosicchè, se da parte mia non accettassi…

– Potresti… bastonar me; – rispose Arrigo, sciogliendo la reticenza dello zio.

Cesare Gonzaga rimase un istante pensoso; poi disse:

– Capisco; sono stato imprudente, scegliendo te per padrino. —

Allora, anche il Ceprani credette necessario di entrare in discorso.

– Signor Cesare, – incominciò egli, – potrei dirle che in luogo di suo nipote sono qua io a pagare; ma, schiettamente, amerei meglio essere bastonato, insieme con lui. Pensi almeno che noi siamo stati guidati da un altro sentimento delicatissimo, fin qui taciuto da Arrigo.

– E quale, signor Ceprani?

– Un sentimento di riguardo verso la casa amica, e rispettabile tanto, in cui era avvenuto quello scambio di parole vivaci.

– È vero, signor Ceprani; – disse allora il Gonzaga. – Ella mi accenna una cosa che ha pure il suo valore. Quantunque, con un po' di buona volontà, si sarebbe potuta trovare la gretola.

– Domanderò anch'io, alla mia volta: e quale?

– Questa, per esempio, che lo scambio delle parole… vivaci era avvenuto dopo la festa, in un caffè, in un circolo, per istrada, dovunque, tranne in casa di persone amiche. Ma oramai è fatta; – soggiunse il Gonzaga, sospirando, – e del senno di poi ne son piene le fosse. Io ringrazierò lei, ad ogni modo, del delicato pensiero. E adesso, vediamo come se n'esce.

– Non ne siamo esciti? – chiese timidamente Orazio Ceprani. – Resta che nel verbale noi dichiariamo tutti e quattro sul nostro onore di non aver trovati gli estremi di un duello.

– Di una cattiva azione; – soggiunse Arrigo. – Sono le tue parole di ieri.

– Taci, tu! – gridò il Gonzaga, stizzito.

– Ma infine, zio, che ti fa, di avere un duello?

 

– Che mi fa? Che mi fa? Or ora me la fai dir grossa. Tu, caro mio, per certe cose, hai ricevuto l'ottavo dono dello Spirito Santo. Ma basta; c'è una condizione ad referendum e un verbale da estendere; ci avrete tutti gli appigli per rifarvi da capo. Sicuro; nel vostro caso, io direi press'a poco così: “Signori! voi, molto cortesemente, ci avete dichiarato di poter rispondere del vostro primo; ma noi, per ragioni che intenderete, non abbiamo potuto dirvi lo stesso. L'aver noi citato al signor Gonzaga la clausola ad referendum gli ha dato molto da pensare. Quale delle due parti incomincierà, per dire che il suo primo… si è contentato? E l'essersi egli contentato per primo, non lo metterà rispetto all'altro in una condizione di debolezza? Or dunque, non dichiariamo nulla, e consideriamo ancora un pochino il caso delicato. Possiamo noi consegnare nel verbale quelle ragioni intime che ci hanno persuasi a non vedere gli estremi di un duello? In altri termini, possiamo scrivere, sulla fede nostra, che non avendo avuto il conte Guidi intenzione di offendere, il signor Cesare Gonzaga non l'aveva neppur lui? Se lo possiamo, il secondo considerando s'innesta naturalmente col primo; resteranno le parole vivaci e noi le cancelleremo d'accordo, come conseguenza di un malinteso. Ma se a voi non paresse…„

– E non parrà; – interruppe Arrigo.

– Tanto meglio; – aggiunse il Gonzaga. – “Se a voi non paresse, facciamone una, che salverà le ragioni dell'uno e dell'altro; ritiriamoci tutti e quattro, lasciando che nuovi padrini sottentrino.„ —

Arrigo tentennava la testa; ma Orazio Ceprani s'intromise, e sciolse lui la quistione.

– Il signor Cesare ha ragione; – diss'egli. – Non dovevamo noi vederci ancora, per estendere il nostro verbale, ed anche per discutere, o per dichiararci a vicenda, se i nostri primi potevano stringersi la mano? L'appiglio c'è, anche senza obbligarci in anticipazione al discorso proposto dal signor Cesare Gonzaga. Lascia fare a me, Arrigo; troverò io il modo di escirne, contentando un po' meglio tuo zio.

– Ah, bravo, Ceprani! Ella mi ha inteso; – gridò il Gonzaga. – Vadano dunque. O il verbale, coi due considerandi, nel loro ordine logico e naturale, o il duello. Ma ella vedrà che avremo il duello, e vivaddio, cattiva azione o no, mi piace più del verbale. —

Arrigo chinò la testa e non rispose parola. Quell'ottavo dono dello Spirito Santo, appioppatogli dallo zio, gli era rimasto sullo stomaco.

Mentre si disponevano ad uscire, fu annunziato il conte di Castelbianco.

– Che cosa vuole quest'altro? – scappò detto ad Arrigo.

– Eh, lo so io, quel che vuole; – fu per rispondere il Gonzaga.

Ma egli si tenne la sua risposta fra i denti e si contentò di guardare suo nipote, con aria di rimprovero, che, per muto che fosse, non era meno significante.

Il conte Pompeo entrò, e rimase un po' sconcertato alla vista di quei personaggi riuniti, due dei quali tenevano il cappello in mano, ed erano in procinto di andarsene.

– Buon giorno, conte; – disse Arrigo.

– Buon giorno: – rispose freddo il Castelbianco, guardandolo un po' di sbieco. – Non hai un duello?

– Io? – rispose Arrigo. – Neanche per sogno. —

Il conte Pompeo rimase sovra pensiero, e non disse più altro.

Orazio Ceprani era sulle spine; tanto gli premeva di correre al caffè di Venezia, per far servizio al signor Cesare Gonzaga!

– Se permettete, conte, ci ritiriamo; – diss'egli. – Abbiamo qualche cosa da fare. —

Il conte rispose con un cenno del capo, che poteva passare per un saluto; indi si volse al Gonzaga.

– Resterò un pochino, se non la incomodo, a discorrere con lei.

– S'immagini! – disse il Gonzaga. – Se vuol passare nel salotto.

– No, non occorre; ho poche parole da dirle. Possiamo restare anche qua.

– Come vuole; – rispose quell'altro.

Ma in verità, avrebbe desiderato di condurlo altrove, lontano da un certo uscio di comunicazione, davanti al quale lo aveva confinato la leggerezza del suo signor nipote. Non già che temesse una violazione di domicilio, avendo braccia abbastanza forti, non solamente per trattenere un uomo come il conte Pompeo, ma anche, all'occorrenza, per metterlo gentilmente fuori della finestra; ma egli temeva il rumor delle scatole di madama Duplessis, ospite comodissima, sì, ma per allora un po' molesta vicina.

Frattanto, quegli altri due se n'erano andati, e Cesare Gonzaga rimaneva a tu per tu col conte di Castelbianco.

– Sentiamo che cosa avrà da dirmi questo qua; – pensò egli in cuor suo. – Ha un'aria, in fede mia, che non promette niente di buono. Ah, per tutti i diavoli! Era ben meglio restare un altro paio di giorni alle Carpinete, e lasciare che questi sapienti di città sbrigassero le loro faccende da sè. Basta, qui bisogna stare in cervello, avere un occhio al cane e l'altro alla macchia. —

Con questi proponimenti Cesare Gonzaga stette ad aspettare i discorsi del conte di Castelbianco, dopo avergli cortesemente additata una scranna.

XI

Il conte Pompeo si lasciò cadere, più che non sedesse, sulla scranna che gli aveva offerta il Gonzaga. Era mezzo disfatto, quel povero conte.

– Sono lieto di trovarmi solo con lei; – mormorò egli poscia. – Ella è un uomo con cui si può parlare a fede, e sfogarsi anche un pochino. —

Reclinò, così dicendo, il mento sullo spillone della cravatta, come se avesse fatto uno sforzo sovrumano.

– Che ha? si sente male? – domandò il Gonzaga. – Infatti, ha la cera alterata.

– Sfido io! M'hanno avvelenata l'esistenza.

– Oh diamine! E chi mai?

– Veda qua, si dia la pena di leggere. —

E trasse dalla tasca interna del soprabito una lettera, che porse al Gonzaga. Era la lettera anonima, di cui aveva parlato dianzi la contessa Giovanna. Aprendola, il Gonzaga vide che era scritta con un bel caratterino di donna, segno evidente che l'aveva scritta, o fatta scrivere, un uomo. La lesse, o, per dire più veramente, la scorse; indi, con un gesto di ripugnanza, la rese al conte Pompeo.

– Ci possono essere al mondo dei vigliacchi come costui? – esclamò.

– Lasciamo stare i vigliacchi; – rispose il conte. – La natura ha fabbricato animali per tutti i gusti e per tutti gli uffizi; gli uni per essere utili, e son pochi! gli altri infine per nuocere. Ma è il fatto, il fatto in sè, quello che dobbiamo considerare. —

Il Gonzaga non sapeva che pesci pigliare. La lettera, fra le altre cose, accennava al conte di Castelbianco la possibilità che il quartiere del Valenti avesse un'escita sulle scale del portone di via Sallustiana. Ora, che cosa voleva il conte? A che mirava, facendogli leggere quella lettera?

– Conte, – diss'egli, vedendo la necessità di ridere, anche a rischio di farlo stizzire, – lei, così allegro gentiluomo per solito, si butta oggi alla filosofia?

– Mi hanno mutato, Gonzaga, mi hanno mutato in un giorno. Infine, sì, sono sempre stato un buontempone, uno sbadato, e se si vuole, diciamo pure un uomo leggero. Ancora ieri seguivo il precetto del quinto Evangelio: “Non voler fatto a sè quel che si farebbe agli altri.„ È questa la massima che ha più credito nel mondo.

– Pur troppo! – esclamò il Gonzaga. – Ma ella, per uno, si corregge?

– Per forza. Mi mettono tra le vittime! Ma vivaddio, qui c'è un'infame calunnia.

– Ah, meno male! Lo vede anche lei, che questa letteraccia è un tessuto di bugie?

– Per metà ne ho avuto la prova.

– Come?

– Andando a vedere coi miei occhi. A farlo apposta, nella scala che mi è stata indicata abitano persone conosciute. Sono salito al secondo piano, quello che dovrebbe corrispondere al quartiere del signor Valenti, e ci ho trovato, occupata a sciorinare abbigliature parigine, una mercantessa di mode che ci ha anche il suo nome sull'uscio: Madame Duplessis. Di che comunicazione è venuto a gonfiarmi la testa l'anonimo corrispondente? —

Cesare Gonzaga pensò all'uscio lì presso, senza osare di levar gli occhi a guardarlo. E quasi (vedete un po' le allucinazioni della paura!) quasi gli parve di sentir premere un battente sull'altro.

– Che cosa mi dice mai! – esclamò, come per soverchiare con la voce quel lievissimo suono. – È andato a visitare la scala che le indicava un anonimo?

– Sì, sono stato vile a questo segno. Veda dove può giungere un uomo, che ha perduta la testa! Ma almeno ne ho veduta l'acqua chiara, e questo è tanto di guadagnato.

– E allora, scusi, perchè s'inquieta? Non possiede oramai la certezza?

– Per metà; – disse il conte. – Rimangono altri punti oscuri. Ma, mi perdoni, Gonzaga! A lei, amico di ieri, io son venuto a dar noia, come se la conoscessi da anni.

– Non badi a queste inezie. Se sono un amico, poco importa la data.

– È giusto; ed io, vede, ho bisogno di parlare con qualcheduno che mi capisca, che possa mettermi un po' di calma nello spirito. C'è stato un momento quest'oggi, che avrei dato del capo nei muri.

– Povero conte! La intendo; – disse il Gonzaga. – La gelosia è l'inferno dell'anima.

– L'ha provata anche lei?

– In altri tempi, sicuro; bisognerebbe non esser uomini, per non esser passati di lì. Ma sentiamo, mi dica… che cos'altro la turba?

– Una passeggiata mattutina della contessa. Perchè oramai non c'è dubbio, – disse il conte, – Giovanna è uscita di casa, quantunque m'abbia detto di no. E veda, a farlo apposta, la lettera mi dice che Giovanna veniva… dove? proprio dove anch'io avevo creduto di vederla.

– E questo, per l'appunto, – chiese il Gonzaga, – non dimostra la bugia del corrispondente?

– In che modo?

– Sicuramente. Non l'ho sentito dir io, in questa medesima casa, che le era parso, in via Sallustiana, di riconoscere sua moglie? E questo che ha detto qui, scherzando, a proposito di un bel piede, che Dio guardi e conservi, – soggiunse galantemente il Gonzaga, – non può averlo detto anche altrove?

– Non mi rammento.

– Ma c'è chi li rammenta, i discorsi fatti per chiasso, e si diverte a tesserci sopra le più infami supposizioni. —

Il conte di Castelbianco fu colpito da quella supposizione del Gonzaga.

– Mi dice bene; – esclamò. – Per altro, quella mattina, la contessa doveva essere escita di casa.

– Glielo aveva forse proibito lei?

– No; mi dispiace soltanto che m'abbia detto di essere rimasta in casa.

– E chi le assicura che non ci sia rimasta davvero? Del resto, senta, Castelbianco mio; una dama può escire per cose da nulla, come ce ne hanno tante le dame; non se ne ricorda, e dice di essere rimasta in casa; l'ha detto, e non le piace disdirsi. C'è da farle un processo, per questo? Abbia fede nelle donne, signor conte; è ancora il miglior modo per vivere in pace con loro e con sè. Quando non abbia questa fede, sospetterà di ogni cosa; e a questo giuoco anche una Genovieffa di Brabante ne andrebbe di mezzo.

– Verissimo! verissimo, quel ch'ella dice! – gridò il conte Pompeo, rianimandosi. – Ed è anche un consiglio da gentiluomo. Ritornerò a casa, e non domanderò a mia moglie se è uscita quest'oggi.

– Perchè quest'oggi? Ci sarebbe qualche altro sospetto?

– C'è di peggio, e quasi mi vergogno di confessarglielo. Consigliato dalla lettera anonima, avevo teso una trappola, dicendo, prima di escire: il cavalier Valenti, quest'oggi, ha un duello. A proposito, e questo duello? Suo nipote mi ha detto che non c'è nulla di vero. S'ha a credere? Anche questa sarà un'invenzione?

– Come tutte le altre. Il duello, l'ho io.

– Ah, diamine! E con chi?

– Perdoni; è un mio segreto… per ora. Le basti, che sono invenzioni, le notizie che hanno scritte a lei.

– Se la cosa è in questi termini, ecco un famoso inventore, che può dar dei punti all'Edison! – disse il conte Pompeo. – Ma che proprio non ci sia neanche l'ombra del vero? Dice un proverbio che non c'è fumo senza fuoco.

– Orsù, – disse il Gonzaga, a sua volta, – sentiamo che cos'altro le sussurra all'orecchio il suo demone interno.

– Ah, sì, dice bene, un demone interno!

– Ci sono ancora dei punti oscuri? Bisogna chiarirli.

– Ecco qua, Gonzaga mio. La contessa non poteva soffrire il Valenti. Sa che gliel'ho detto io medesimo? Ora ricordo di aver letto in un libro che queste antipatie dichiarate sono artifizi di donne, per nascondere la verità, che è tutt'altra. —

Qui Cesare Gonzaga fu ad un pelo di perdere la pazienza.

– Ah, senta! – gridò. – Ne troverà molte, sui libri. Solo a leggerne uno del Balzac, c'è da rinunziare per sempre alla vita matrimoniale. La contessa, che io ho imparato a stimar tanto, può benissimo non apprezzare il carattere di mio nipote, troppo compassato, troppo serio, troppo calcolatore; e in ciò potrebbe aver ragione, per bacco! C'è altro?

 

– Ella non ammette niente; – rispose il Castelbianco, mezzo raffidato e mezzo dubbioso; – ella ha una risposta di trionfo per tutto. Ci sarebbe ancora, a voler cercare il pel nell'uovo, ci sarebbe ancora da informarsi se il padrone di questo stabile è anche il padrone dell'altro di via Sallustiana, e se a qualche altro piano c'è comunicazione fra due.

– Non ci mancherebbe altro! – pensò il Gonzaga, fremendo.

In ogni altra circostanza, e trattandosi di dare l'ultima prova palmare ad un geloso feroce, si sarebbe potuto dire: “Venga qua, e visitiamo il quartiere, dalla prima all'ultima stanza. Veda, non c'è una porta falsa, e le pareti dànno tutte buon suono. Guardi anche i mobili; specialmente gli armadi; non c'è traccia di doppio fondo, per nascondere un uscio. Vuol venir sopra, o sotto? Chiederemo scusa ai casigliani, e leveremo a lei anche questo dubbio dal capo; vedrà, toccherà, tasterà da ogni parte, e poi andrà a farsi benedire.„ Ma per allora, e davanti a quell'uscio, non si poteva parlare, nè, sopra tutto, operare così. Cesare Gonzaga credette anzi necessario di sviare il sospetto, nella speranza di guadagnar tempo, e rimediare a quell'altro pericolo. Ora, il miglior modo di sviare il sospetto, era di fargli una confessione tale, che mostrasse Arrigo le mille miglia lontano da un ripesco amoroso.

– Creda a me, – incominciò, fingendo una calma che non aveva nel cuore, – non si fermi in queste idee, che, mandate ad effetto, potrebbero nuocere alla riputazione della donna rispettabile che porta il suo nome. Intanto, vuole una prova convincente, una prova solenne dell'errore in cui è caduto, per opera di un birbaccione, che sarà, se Dio vuole, anche un amico di casa? Ella è gentiluomo, Castelbianco. Ha avuto piena fiducia in me, ed io debbo averla in lei, confidandole un segreto, che ella custodirà gelosamente.

– Non dubiti! – disse il conte Pompeo. – Segreto per segreto.

– Orbene, vuol sapere perchè sono io a Roma? Perchè, stia bene a sentirmi, perchè Arrigo Valenti, mio nipote, ha il desiderio di sposare una bella e cara fanciulla: la signorina Manfredi. —

Per quella volta, davvero, Cesare Gonzaga sentì gemer l'uscio. E pensò dentro di sè, mentre batteva l'ultima sillaba del cognome:

– Ah diavolo, diavolo! Ora c'è madama Duplessis che sta a sentire i nostri discorsi. Benedette donne! —

E tossì, per coprire il rumore, tossì come un quaresimalista, quando ha finito l'esordio, con la proposizione del tema.

– Ah! – fece il conte Pompeo, che era tutto scosso dalla grande novità. – Ed io non me ne sono accorto! Ed egli non me ne ha mai fatto parola!

– Non era lei, perdoni, non era lei che potesse servirgli, in questa circostanza; ero io, suo unico parente, io, vecchio amico del senatore Manfredi. Ed io, pregato, scongiurato, sollecitato da parecchie sue lettere, ho dovuto lasciare il mio dolce èremo delle Carpinete, per venire in Roma, a far la domanda formale.

– Che cosa mi dice! Io casco dalle nuvole. E il nostro Arrigo è innamorato di Gabriella?

– Ne è perdutamente innamorato. E non ha torto, perbacco.

– Lo credo: oh, se lo credo! – esclamò il Castelbianco. – Gabriella diventerà una stupenda signora. Peccato, non aver dieci anni di meno, per farle una corte spietata!

– Ah, ecco, – disse ridendo il Gonzaga. – Ritorna in scena il Don Giovanni, col suo quinto Evangelio?

– Scusi, Gonzaga, è la natura che ripiglia il sopravvento. Son fatto così, e porterò il mio difetto alla tomba. Ma sa che ella mi confonde, con le sue belle notizie? E da quando il nostro bel cavaliere ha incominciato a perdere la pace del cuore?

– Che ne so io? – disse il Gonzaga. – Per passare dall'ammirazione all'amore, e da questo a una risoluzione matrimoniale, ci sarà pur voluto il suo tempo. Se mi ha chiamato dieci giorni fa, mettiamo pure che da quaranta ha lo spirito afflitto. Quaranta giorni, come a dire una quaresima!

– Gli auguro buona Pasqua; – rispose il conte Pompeo. – Fortunato briccone! Ma badi, Gonzaga mio, badi bene! Ora capisco una cosa.

– Ahi! – pensò Cesare Gonzaga. – Questo qui mi capisce troppe cose, quest'oggi!

– Sì, veda, pensando alla lettera anonima…

– Che ella mi regalerà per la mia collezione.

– Oh volentieri! Eccola. Pensando dunque alla lettera anonima, mi viene in mente che sia da vederci la mano di un nemico di Arrigo.

– Eh, lo avevo pensato ancor io.

– Scusi; – ripigliò il conte; – ella ha l'aria di dirmi: bella scoperta! Ma ella non sa che razza di nemico.

– E lei lo ha scoperto?

– Mi pare di sì: nemico di Arrigo, perchè suo rivale, ed amante di Gabriella.

– Amante!

– Sì, diciamo innamorato, pretendente. Non è della mia opinione?

– Ma… che debbo dirle? Bisognerebbe conoscere le persone. E poi, come c'entrerebbe una calunnia contro la contessa?

– Ecco: per mandare a monte le nozze, senza aver l'aria di agire direttamente, e perciò senza scoprirsi; – rispose il conte Pompeo. – Uno scandalo fuori via, è di buona guerra. – Eh, io le capisco, queste cose. Il colpo, non lo nego, è un po' forte; ma è di alta scuola, bisogna convenirne.

– E questo rivale, sarebbe?..

– Non ne conosco che uno, per ora: il conte Guidi.

– Ah! – gridò Cesare. – Il conte Guidi? Ci ho gusto. Gli darò un par di schiaffi alla prima occasione.

– Calma, Gonzaga! È finora una mia supposizione. Non vorrei che per un semplice sospetto…

– Allora, – disse il Gonzaga, – cercheremo ancora.

– Non cerchiamo più nulla; – rispose il conte. – Lasciamo spegnere questa miccia male accesa. Volevano far scoppiare una bomba, e non ci sono riesciti. Ne saranno mortificati, e noi rideremo. Ella mi ha proprio sollevato, caro amico, con la sua bella notizia. Questa, poi, taglia la testa al toro. Ed io dubitavo del cavaliere! Ah, ne arrossisco davvero.

– Bravo, conte! Ecco un bel movimento dell'anima!

– Che vuole? Siamo ancora giovani; – disse il Castelbianco, pavoneggiandosi. – A proposito di movimento, abbiamo fatto una lunga seduta, ed io me ne andrò. Lei avrà da fare. Il duello di cui mi parlava…

– Ah, non ci penso neanche. Son cose che risguardano i miei padrini. Quando è l'ora, si parte: alla guerra col piè destro, al “singolar certame„ col piè sinistro.

– Non conoscevo questa distinzione. È indiana, forse?

– Non so, ma potrebbe anche darsi; – disse il Gonzaga, ridendo. – È tutto indiano, in Europa: lingua, civiltà, superstizioni, sciocchezze.

– Ella è di buon umore; – ripigliò il conte Pompeo. – Ecco un augurio che val quello del piè sinistro. Aggiungo i miei, e caldissimi.

– Grazie, e a rivederci.

– Dove? Quando? Va dai Manfredi, stasera?

– Forse… anzi, senza il forse.

– Bene! Ci darò una capatina ancor io. Buon giorno, Gonzaga. —

E se ne andò finalmente, saltellando nel modo che sapete. Era leggero sempre, il conte Pompeo; ma dopo quella conversazione, che fu una particolare fatica di Cesare Gonzaga, era anche più leggero del solito.