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Un giorno caddero. L'urlo della folla fu tragico e tragico il silenzio che lo seguì. Io avevo presentito la catastrofe e l'aspettavo. Vedevo chiaramente che quei due si perdevano. L'abbraccio era troppo intenso e l'animo dell'uno e dell'altra troppo errante sulle pupille. Il circo, i cavalli, il pubblico, il mondo, la vita, la morte, tutto essi parevano obbliare pei loro voli. Uno dei cavalli, indovinando l'obblio, rallentò d'un attimo la ferocità della corsa e si staccò dall'altro. Sotto Ambra e Ramàr s'aperse una voragine: precipitarono annodati alle briglie in mezzo al furiar degli scalpitii. Quando poteronsi arrestare i cavalli, Ramàr tentò sollevarsi da terra, ma ricadde tosto tramortito; Ambra stette immobile e distesa come una morta.

La rappresentazione fu interrotta; si trasportarono i due svenuti all'ambulanza del circo. Parecchi medici accorsero dalle loggie del pubblico per soccorrere Ambra e Ramàr. Molti giovani ammiratori della bella andalusa affollavano l'ambulanza e chiedevano con elegante zelo il verdetto dei medici.

Dentro e fuor della sala era un favellio sommesso, un timido agitarsi di pedate: William Wood, pallido, s'affaccendava colle più cortesi supplicazioni a diradar la calca.

Mezz'ora dopo, accanto ai due letti rimanevo io con William Wood e con tre medici, compreso il medico di guardia.

Né Ambra, né Ramàr non avevano ricuperato i sensi. Il fiero urto cerebrale si manifestava in Ramàr colle forme del delirio, in Ambra, assai più gravemente, colle apparenze della catalessi. Ramàr sanguinava, Ambra no. Un rigagnolo rosseggiante scorreva dalla fronte dello zingaro, si stagnava un poco sulle sue labbra, poi discendeva sul petto, e quel corpo immobile d'un color di bronzo, stillante sangue, rendeva immagine di statua ferita. Col pugno destro lo zingaro serrava tenacemente l'amuleto d'oro che gli pendea dal collo fin dagli anni più teneri. La ferita salvava Ramàr alleggerendo col sangue scorrente la congestione del cerebro.

Sul corpo d'Ambra né contusione, né scalfitura: immacolato ma spento. La bella donna nel suo sereno aspetto pareva aver preferito entrar nella morte conservando intatta la bellezza sua, anziché sopportare la vita collo sfregio d'una cicatrice.

Mentre i medici deliberavano intorno al letto d'Ambra, io me ne stavo accanto all'amico, tutto chino a rassodare le bende, a tergere il sangue della sua fronte piagata, e appena il ghiaccio si liquefaceva sul bollente capo, m'affrettavo a ricollocarne dell'altro con quella attenta pazienza per cui vanno decantati i popoli della nostra razza.

Quando gli ripigliava il delirio, io mi mettevo in disparte; non volevo arrischiare di sorprendere qualche sua segreta idea nei vaneggiamenti suoi e volgevo gli occhi dalla parte d'Ambra.

Quasi nuda giaceva la tramortita fanciulla sotto le mani dei medici. La catalepsi aveva resistito ad una forte applicazione di corrente elettrica; gli strofinamenti coi lini caldi avevano valso a rianimare la circolazione del sangue, non a sgombrare la stupefazione cerebrale. Era urgente un più efficace soccorso. Vidi il medico di guardia avvicinarsi al braccio d'Ambra con una lama piccola e lucidissima. Quello stesso ribrezzo fisico che ci coglie alla vista di un'unghia che striscia su d'un pezzo di raso, mi fece torcere gli occhi per non vedere più avanti.

Ritornai pian piano alla destra del capezzale di Ramàr, lungo il muro. I medici dall'altro lato s'agitavano nella stretta che divideva i due letti e occultavano colle loro spalle, a me seduto, la fanciulla. La luce del giorno s'era tutta spenta. William Wood sollevava una lampada accesa sul letto d'Ambra. Io quietavo le mie pupille su Ramàr dormente. Nessuno più si curava dello zingaro. Il suo braccio sinistro, là dove era tatuato, trascolorava a seconda dell'allentare o dell'incrudelir della febbre come il marchio dei cavalli arabi di purissimo sangue. Se rinnovavo spesso le bende ghiacciate sulla fronte dell'amico mio, il suo sopore diventava più calmo, il tremito febbrile cessava e la cicatrice del braccio, in cui si leggeva il suo nome, illividiva. Se permettevo invece che la compressa si riscaldasse sul suo capo, il tatuaggio assumeva poco a poco una tinta pavonazza e il delirio ripigliava il suo corso. Io potevo dunque a mio capriccio temperare o sconvolgere quella organizzazione così squisitamente impressionabile. I miei pensieri si rivolgevano a Ramàr spinti da tenerezza verace.

– O buon Ramàr, – pensavo – , sarebbe stato assai meglio che quella fanciulla, non ti fosse apparsa mai, perché ora tu non saresti qui, tremebondo, col cranio spaccato. Yao solo sapeva stornare i pericoli dalla tua testa, il suo occhio vigilava su te, cauto ed acuto, la vertigine non ti coglieva guardandolo, e quando insieme al tuo vecchio amico ti dondolavi nell'aria, sospeso ai cordami del circo, eri più sicuro che in una culla.

I miei pensieri erano accompagnati da un picchio uniforme come d'una grossa goccia cadente, ad ogni minuto secondo, in una vasca metallica colla regolarità d'un oriolo ad acqua.

Già la mia mente incominciava ad essere distratta dalle cose esterne, quando udii queste frasi staccate proferite da diverse labbra:

– Tentativi inutili!

– Sostengo che il deliquio era vinto…

– Ora si tratta stagnare il dissanguamento.

– Avrei bisogno d'una mano paziente e ferma.

– La mia! – esclamai, sorgendo dallo scanno su cui stavo ed avvicinandomi al letto d'Ambra.

– Pigliatelo in parola, – disse William Wood ai medici, accennando alla mia persona.

Fu collocata una sedia fra il letto d'Ambra e quello di Ramàr; poscia uno di que' medici osservò attentamente l'epiderme delle mie palme, prese la mia mano sinistra e la collocò in modo che il grosso del metacarpo aderisse fortemente alla vena aperta del braccio d'Ambra, e m'invitò a sedere. Indi rivolto a' suoi colleghi, disse:

– Vedete? Portiamo spesso i migliori rimedii con noi. L'epiderme umana stagna assai meglio il sangue che qualunque altro più ricercato farmaco.

Poi pose un piccolo guanciale sotto il braccio d'Ambra acciò stesse sollevato. Mi raccomandò di star fermo colla mano e di non sollevarla dalla vena ferita prima di mezzanotte; soggiunse che la salvezza della fanciulla dipendeva dalla mia pazienza. Se all'indomani mattina Ambra avrebbe parlato, ogni pericolo cessava. Dovevo guardarmi dal sonno e dai movimenti repentini.

Pochi minuti dopo nella sala dell'ambulanza restavamo io, il medico di guardia e William Wood. Mezz'ora dopo William Wood si ritirò nelle sue stanze raccomandando l'andalusa al medico di guardia. Un'ora dopo anche quest'ultimo, sopraffatto dalla noia, escì dall'ambulanza dopo aver rinnovato il ghiaccio sulla fronte di Ramàr e dopo aver raccomandato a sua volta, sbadigliando, l'andalusa.

Suonavano le dieci ore dal campanile della cattedrale di Lima, quando in quella sala, dove due ore prima si accalcavano forse duecento persone, non restavo che io solo, fra Ambra e Ramàr.

Immobile al mio posto, subivo quel tedio delle membra che prova la sentinella notturna nella prim'ora di guardia. Incominciai a volgere gli occhi e la testa lentamente qua e là. Mi vidi circondato da una luce verde, direi quasi umida, da una luce come di fondo di mare che scoloriva l'aspetto delle cose e mutava i contorni secchi della realtà in torbide sfumature d'aquarium.

William Wood, prima d'escire, aveva collocato, per amor dei dormienti, l'unica lampada sull'unico tavolo della sala, dietro ad un largo recipiente di cristallo, colmo fino al collo d'una tintura d'assenzio. I raggi del lume filtrati da quell'ampio smeraldo producevano, divergendo, la misteriosa luce che mi circondava. Quel tavolo, distante molte braccia dai letti fra i quali io stavo, offriva al mio sguardo, falsato dall'anormalità della luce, fra i molti oggetti che lo ingombravano, un oggetto che era un persistente enigma da sciogliere. Lo vedevo come un'apparizione confusa, irta, violacea che terminava in una sfumatura tricuspidale; quella vista tormentava il mio pensiero e la mia pupilla; non arriva a scoprire che cosa fosse; il solo concetto che me ne formavo, era questo: lo spettro d'una fiamma. Accanto vi luccicavano parecchie fiale di medicinali. Io, che non potei mai sopportare senza angoscia il più frivolo dubbio, mi smaniavo di verificare la natura dell'oggetto incomprensibile che tanto aizzava i miei occhi pur acutissimi.

L'impossibilità dell'avvicinarmi al tavolo inaspriva la curiosità mia; la mia mano non doveva staccarsi dalla ferita d'Ambra neppure per un attimo, ma ad ogni minuto mi assaliva la tentazione di avvicinarmi a quell'oggetto. Pensavo che tre soli passi avanti mi avrebbero rivelata la natura di quella forma inesplicabile. La solitudine, il silenzio, l'immobilità, la noia alla quale era condannato, imbizzarrivano sempre più questa mia già inasprita curiosità. Mi provai di condurre lo sguardo sovra altri obbiettivi. Contro la sponda del tavolo stava appoggiata una frusta. Entro una vetrina appariva disposta in bell'ordine tutta una batteria di strumenti chirurgici. Sparse per terra giacevano le vesti d'Ambra e di Ramàr luccicanti d'oro e d'argento. Quel miscuglio d'attrezzi da teatro e da ospedale meravigliava lo sguardo e più ancora il pensiero. Un odore di farmacia graveolente, aromatico, giungeva fino alle mie nari; da una catasta di ghiaccio accumulata in un angolo veniva alle mie membra una frescura quasi montanina. Più che sospingevo lo sguardo e più vedevo annebbiarsi la glauca luce d'assenzio. Respiravo un'aria torbida, amara, che dai miei polmoni passava nella circolazione del mio sangue e invadeva il cervello. Pensavo anche idee torbide ed amare. L'oggetto inesplicabile, lo spettro della fiamma, attirava sempre la mia attenzione. Per sottrarmi da quell'incubo decisi di torcere coraggiosamente lo sguardo a sinistra, sul corpo della svenuta. Ramàr dormiva. L'animo mio si scagliò repentinamente in un nuovo corso di pensieri. La prima impressione che provai nel guardare Ambra, fu di ribrezzo. Credetti quasi di trovarmi accanto al cadavere d'un'annegata, nel fondo d'una laguna, io pure sommerso. Sentivo sotto la mia palma il braccio della ideale fanciulla freddo più dello ambiente che ci avvolgeva.

 

Ci sono dei pensieri che gridano, altri che mormorano. Io udii dentro di me, non so dove, mormorare queste parole: è proprio morta.

Il lenzuolo col quale l'avevano coperta, segnava su quel meraviglioso corpo delle pieghe funerarie, come quei drappeggiamenti marmorei che avvolgono le effigi delle imperatrici, distese sull'alto dei mausolei. La piega dei piedi pareva in ispecial modo lugúbre; poi, come il mio occhio saliva verso il bel grembo e verso il bel seno, i bianchi panneggiamenti ammorbidivano le loro curve e pareva rasserenarsi il sudario. La parte destra del petto rimaneva scoperta per causa del braccio nudo affidato alla mia pazienza.

– Ma se è morta – pensai – a che giova ch'io mi rimanga? – Pur non rimuovevo d'un atomo la mano dalla ferita. – Se è morta il pensiero continuava così – Yao e Ramàr torneranno fratelli. Se è viva sono io che l'avrò salvata.

Allora tutta la mia mente si destò per risolvere questo nuovo dubbio. Mi alzai oncia ad oncia dalla scranna avendo sempre riguardo di non distrarre la mia mano dall'ufficio impostole, e colla destra scopersi il seno sinistro della fanciulla; poi, lento come una sfera di quadrante, mi chinai fino a collocare un orecchio sul cuore di lei. Un olezzo d'olio di rosa lambì le mie narici. Le candide carni erano fredde e mute, sotto l'eburneo costato non vibrava la più languida pulsazione; pur continuai ad origliare adagiando le mie ginocchia per terra, ché la bassezza del letto me lo permetteva. Acuivo l'udito su quella soave epiderme coll'avidità d'una spia, invaso da non so quale devozione feroce.

Stetti così attento, prostrato, immobile per lungo spazio; ad un tratto sentii come uno scoppio di palpiti irruenti, convulsi; mi alzai in piedi precipitosamente, atterrito dall'idea d'Ambra viva e desta. Le pulsazioni continuavano a rimbombare nel mio cervello: non era il cuore della fanciulla che batteva, erano le mie arterie, le mie tempie agitate da tumulto febbrile. Udivo dietro a me Ramàr respirare tranquillo come uno che dorme. Allora l'idea d'ascoltare il respiro d'Ambra mi colse violenta. Tornai a inginocchiarmi e feci per avvicinare il mio volto al suo, ma fui tosto impedito da un inesprimibile sgomento. Mi arrestai lontano due palmi. La fredda fanciulla teneva gravosamente calate le palpebre, ma la sua bocca brillava socchiusa e tutta la pallidissima faccia splendeva. Non dubitai più che fosse morta e questa idea mi dié coraggio ad appressarmi al suo volto. Volli vedere un'ultima volta le divine pupille e sollevai col pollice e coll'indice le pesanti palpebre, ma non vidi che due occhi bianchi, da statua. Ritrassi la mano; le palpebre ricaddero. Allora mi invase una pietà profonda e fu tutta scossa l'irremovibilità del mio cuore.

Non volli più che quella bella creatura fosse morta, e come fanno i fanciulli sui leggiadri insetti agonizzanti, avvicinai la mia bocca alla faccia d'Ambra per ravvivarla col caldo alito mio. Le mie labbra caddero sulle sue, sentii l'avorio freddo de' suoi denti che mi fece tremare. Un gemito di Ramàr mi scosse; tornai a ricompormi sulla scranna.

Egli dormiva ancora. Scoccarono due ore da un campanile lontanissimo. Stetti lungo tempo immerso in una strana novità di pensieri. Verso le tre sentii sotto la mia palma sinistra una sensazione di leggiero tiepore: Ambra non era dunque morta! Le toccai il polso: viveva; il suo seno, benché quasi impercettibilmente, ondulava sollevato e abbassato da un principio di respiro. La catalepsi era vinta. Io avevo salvato Ambra, io avevo impedito che tutto il suo sangue uscisse dalle sue vene; mi pareva d'averle infuso parte della mia vita, del mio calore, e riconoscevo ciò dispettosamente, irato contro la mia stessa virtù. Non so perché, mi pareva d'averla salvata troppo presto.

La commovente passività del cadavere era svanita. Il volto solo portava ancora il peso del letargo, ma le stupende forme dell'andalusa assumevano già, sempre più vivificate, una fatale potenza che m'annichiliva. Pure, se il sangue ch'io frenavo non era ancora stagnato, quella vita stava sempre sotto la mia mano e poteva giuocarla e illanguidirla a mio talento e rianimarla poi. Questa idea mi fece battere vertiginosamente il cuore, per immenso orgoglio, per acre curiosità, per desiderio violento. Del resto la lunga immobilità de' muscoli aveva affrante le forze del mio braccio e della mano; provavo un estremo bisogno di mutar posizione. Se la vena era rimarginata, potevo liberarmi a mia voglia da quella catena. Sollevai un attimo la palma. Tosto una goccia di sangue rigò il braccio d'Ambra. Ricollocai immediatamente la mano sulla ferita, tutto sgomento. Bisognava tergere il braccio dalla macchia sanguigna prima che arrivassero i medici. Quel sangue era soavemente tiepido e più dolce del miele. Una goccia me n'era caduta sulla mano e l'avevo succhiata. Portai le mie arse labbra su tutta la striscia che maculava l'incantevole braccio dell'andalusa, e poco a poco giunto colla bocca presso alla viva fonte di quel voluttuoso sangue di donna, allontanai la mano, e mi posi a suggerlo a larghi fiotti come si sugge l'umore d'un preziosissimo frutto. A un tratto mi sentii ghermito spaventosamente pel collo e udii la voce di Ramàr ululare: – Vampiro!

Non feci un gesto per difendermi, benché sentissi la mia vena iugulare contorcersi sotto le dita di Ramàr; a un tratto la mano che mi strozzava si allentò e lo zingaro stramazzò per terra, fra i due letti, ai miei piedi. Io avevo già ricollocata la mia palma sulla ferita d'Ambra. Quell'assalto fulmineo mi ridonò la smarrita impassibilità del corpo e del pensiero. Così un meccanismo turbato è spesse volte rimesso a posto subitaneamente da un urto. Le violenze degli uomini produssero sempre questo effetto su di me: aumentarono la mia calma. Ramàr, disteso sul suolo, si dibatteva affannosamente sotto l'incubo del delirio. Egli subiva una grave reazione febbrile dacché l'ultimo pezzo di ghiaccio gli si era liquefatto sulla fronte. Ne' suoi vaneggiamenti ritornava sempre più angoscioso il nome d'Ambra. Io aiutarlo non potevo; nel tempo che mi sarebbe occorso per rifasciare la testa di Ramàr colle bende gelate e riadagiarlo sul letto, Ambra avrebbe potuto morire. La coscienza della mia missione tutta ridestata costringeva tenacemente la mia mano al braccio della bella andalusa, tiepido ancora; il rimorso del fallo che avevo commesso poco prima, dava di sproni al mio dovere ch'era di non muovermi, per necessità che fosse, dalla posizione in cui stavo. Se Ramàr abbandonato moriva, la colpa non era mia. Avvertivo sugli angoli della mia bocca ancora il dolce sapore del sangue d'Ambra, purissimo. L'idea ch'io tenevo un poco di quel sangue nelle mie viscere, m'inteneriva stranamente. Sentivo anche una fitta dolorosa nella parte destra del collo, dove le ugne dello zingaro avevano serrato; ed ero contento di portare i segni dell'ira di Ramàr; questo pensiero mi alleggeriva il cuore da un grave peso indistinto. Mi rammento d'aver mormorato allora cinque o sei volte, guardando l'amante d'Ambra disteso a terra, queste parole in chinese: "eulh weï eulh, ngo weï ngo"¹.

¹ Traduzione letterale: te per te, me per me.

Quando i primi bagliori dell'alba illuminarono l'ambulanza, giunse il medico di guardia ancora scarmigliato e cogli occhi imbambolati dal sonno. Vide Ramàr svenuto, così come l'ho descritto, e tornò ad escire in cerca di soccorso. Alcuni minuti dopo entrarono nella sala cinque attori della compagnia, il medico, un clown e William Wood. Poi che lo zingaro fu rimesso a giacere sul suo letto, tutti accorsero ad Ambra. Essa respirava dolcemente. Il medico mi ordinò di staccare pian piano la palma dal braccio dell'ammalata.

Il sangue non colava più. Allora il medico disse a William Wood: – Se parla è salva.

Io che non mi ero mosso ancora dal mio scanno, avvicinavo di tanto in tanto una boccetta di sali ammoniaci alle narici d'Ambra.

Tutti aspettavano ansiosamente una parola dalla bocca dell'andalusa, tutti pendevano da quelle labbra mute. Poco a poco Ambra aperse gli occhi, ma soltanto poi parve realmente destarsi; guardò intorno stupita; quando s'accorse di me che tenevo pazientemente il sale sotto l'alito suo, mi guardò fiso in volto e mi disse con accento languido e gentile: – Grazie, buona donna.

Uno scroscio di risa plebeo assordò la mia testa; un fiume di sangue affluì al mio cuore. Mi guardai in uno specchio che mi stava di fronte, e ringraziai col pensiero la divinità che mi fece nascere nel paese degli uomini pallidi.

Qui una spiegazione mi pare necessaria; poi ripiglierò il mio racconto sommariamente fino a tanto che un altro fatto grave m'obbligherà d'arrestarmi. Ambra non mi aveva mai parlato, né, forse, visto prima di quella mattina in cui disse quelle malaugurate parole. Essa trionfava in una gloria così diversa dalla mia, che mai non s'avvide di me, né de' miei campanelli di legno di sandalo. Che il suo sguardo di donna europea non avesse ravvisato sul mio volto l'aspetto di virilità, non me ne meravigliai io stesso, e ciò aumentava l'onta mia, giacché sul mio mento neppur l'ombra della lanuggine rivelava l'uomo, e le mie vesti chinesi e la mia treccia, che in quel giorno portavo attortigliata sul capo, potevano essere scambiate, da un occhio non avvezzo ai nostri costumi, per acconciamenti muliebri.

Quindici giorni dopo il dì della catastrofe, ch'ebbe per me conseguenze così bizzarre, lo zingaro e l'andalusa volteggiavano nel circo già gagliardi e lieti, fra le acclamazioni del pubblico.

Intanto tramavasi una beffarda congiura da' miei colleghi contro di me; l'equivoco d'Ambra, tosto noto a tutta la compagnia, dava diritto all'infimo staffiere di sogghignarmi in faccia. Tutti si dettero parola di non palesare l'inganno all'andalusa, a fine di prolungare più che fosse possibile la celia e le risate. Nessuno mi chiamava più Mister Yao o Señor Yao come per lo innanzi, ma invece Miss Yao o Señorita Yao, e Ramàr si rallegrava di questa burla più d'ogni altro e cercava assiduamente l'occasione di rinnovarla. Quando Ambra mi rivolgeva il discorso, tutti trattenevano il fiato per poter squittire più fragorosamente dopo la parlata. Io intanto rimuginavo nella memoria il capitolo VII del Lun-yu, là dove Tseng-sse, l'amico di Kon-fu-tseu, dice queste savie parole: – Lasciati offendere senza mostrare risentimento, – e stavo ligio alla antica sentenza: non mostravo risentimento, ma nel profondo del pensiero contavo le offese, una ad una, e tenevo interna, indelebile nota.

La mia imperturbalità eccitava i derisori fino all'accanimento; quando lo scherno si mutava in rabbia, io trionfavo entro me; m'accontentavo intanto di questa pigra vendetta. Io, rettificare l'abbaglio ad Ambra, sdegnavo; il mio decoro non mi permetteva una così bizzarra rettificazione. La dignità mia non trovava altro modo d'atteggiarsi fuorché questo: dare a pensare cioè, ch'io credessi l'andalusa conscia e partecipe dello scherzo e che non me ne curassi. Brutto destino, amico mio, è quello di vivere in mezzo a gente di razza diversa dalla propria; l'amarezza di questo destino m'era stata un tempo raddolcita dalla fratellanza di Ramàr; ora egli stesso m'abbandonava.

La nostra amicizia aveva subíto come una specie d'attossicamento; evitavamo di incontrarci colle pupille.

Io lo studiavo di soppiatto. Volevo arrivare a scoprire se gli era rimasta nella memoria qualche reminiscenza di quella notte ch'egli m'aveva chiamato vampiro. Quella parola era stata pronunciata da esso in un attimo così violento, fra un assalto di delirio e una crisi di febbre; se anche egli se la rammentava, doveva, pensavo, confonderla cogli altri vaneggiamenti. In queste induzioni mi tranquillavo un poco, ma in una pace breve e non soddisfatta. Un punto nero stava fra me e lo zingaro tutte le volte che ci trovavamo di fronte: un punto nero, fatale, incancellabile, come quello che turba la vista d'una retina malata. Ed anche Ramàr vedeva quel punto; me ne accorsi poi tutte le volte che eseguimmo insieme nel circo il giuoco delle freccie, di cui ti narrai nelle pagine già scritte.

William Wood volle un giorno che quell'esercizio, da molti mesi trascurato, ritornasse nel repertorio degli spettacoli. Ubbidimmo. Ambra fu atterrita un poco a quest'annunzio; essa non si capacitava che una donna sapesse trar d'arco. Un clown la rassicurò con tal celia ch'essa ne rise e la paura scomparve. Il pubblico rivedeva con emozione intensa il nostro giuoco. Io ridiscendevo nell'arena a fianco di Ramàr come nei sereni giorni della nostra gloria comune.

 

Ramàr si piantava fermo, diritto, davanti alla mia mira, con aspetto più temerario, forse, di una volta; io però vedevo, sotto la finissima seta che lo copriva, battere il suo cuore. Il punto nero stava allora in mezzo a noi.

Pur le nostre pupille dovevano incontrarsi per forza. L'antica intuizione dei nostri sguardi era smarrita. Un'altra intuizione, tutta morale, le era subentrata. Quando le freccie dovevano correre lungo il costato, io mi trattenevo dolorosamente dal mirare il cuore palpitante di Ramàr; l'abitudine del polso e dell'occhio vinceva il traviamento della volontà, e la freccia, malgrado mio, si conficcava esatta rasente il contorno. Per tutto il tempo che durava il giuoco io e Ramàr ci leggevamo biecamente nell'anima; a giuoco finito il cupo incanto svaniva e riappariva il dubbio. Il pubblico applaudiva, ma lo zingaro aveva da me solo l'ammirazione che meritava, giacché io solo potevo essere allora il vero giudice del suo coraggio.

Fu appunto in quell'epoca che io, sempre deriso, per distrarmi dall'astio e per rifugiarmi in un affetto qualunque che mi fosse accessibile, mi diedi all'ammaestramento dei cani.

In quel nuovo stato della vita mia avventurosa imparai a conoscere cinque buoni amici, i più umani, i più nobili di quanti ne avevo sperimentato fin allora. Li trovai nelle stalle del circo dove miseramente vivevano, e li portai nella mia cameretta e attesi alla loro educazione.

Questi miei ottimi amici erano due cani barboni, un bassetto, un bracco e un stupendo bull – dog d'un anno, mio prediletto fra tutti. Quando nel tempo della mia senilità mi dedicai all'ammaestramento degli uomini, non riscontrai fra i miei simili tanto intelletto d'amore e di ragione quanto ne avevo ammirato in quelle umili bestie. Io insegnavo a ciascuno di quei cani certe meravigliose facezie da far ridere il volgo e ciascuno d'essi insegnava mutuamente e in vario stile a me le virtù d'umanità, che gli uomini m'avevano nascosto. Imposi ad essi dei nomi cinesi.

Uno dei due barboni, il più ilare, il più bianco, lo chiamavo Ani-kaine (buon augurio). Scing-tscie (perfetto) era il nome dell'altro. Chiamava il can bassetto Buddha, perché realmente quando stava in riposo assomigliava all'idolo del nume per la pingue serenità del suo volto. Ta-fu (mandarino) era il can bracco. Al giovane bull-dog avevo imposto il nome uomo (Gin). E così vivevo nel consorzio de' miei amici amandoli e conversando con essi nella mia lingua materna, e da essi riamato. Gin, forse perché più giovane degli altri e più violento negli istinti suoi, per la fierezza della razza, mi si affezionò appassionatamente e in breve tempo. Egli aggiungeva pregio all'affetto perseguitando i miei colleghi coll'odio suo. Io esercitavo questo generoso animale nelle doti mirabili del corpo più che nella memoria: Gin saltava una barriera di sei metri d'altezza. Il mio affetto per questo cane era così coscienzioso che non volli mai umiliare l'indole sua caratteristica coll'applicarlo alle buffonesche celie che si impongono agli altri cani così detti sapienti; e di questo delicato rispetto Gin pareva riconoscente. Io stesso scopersi che fra il mio ed il suo volto correva una rassomiglianza bizzarra, proveniente dal naso schiacciato e dalla esiguità del labbro superiore, che lasciava due denti scoperti sul davanti delle nostre bocche. La prominenza dell'osso frontale dava al cranio di Gin ed al mio la stessa espressione grave e meditabonda.

Una affinità singolarissima, della quale m'onoravo, mi legava al giovane molosso. Gin odiava i miei nemici forse più che io stesso non li odiassi, e da essi era egli pure ferocemente odiato; pur non osavano offenderlo né offender me in presenza sua, perché un giorno ad un clown, che in pieno circo mi gettò per brutta celia una corda al collo, s'avventò il bull-dog alla gola, e la mia autorità bastò appena a salvare il beffardo.

A questi cinque cani dimenticai di aggiungere un sesto e dimenticai perché poco o nulla lo amavo, tanto mi pareva inintelligente e pigro. Era un catellino chinese di lungo pelo, obeso nelle sue movenze e tutto tenerello nelle sue membra, uno di quei piccoli cagnuoli che nei nostri paesi si mangiano dagli uomini e son tenuti per giottornia perfetta quando sieno bene scuoiati e molto accuratamente purgate le loro interiora e cotti in quattro cucchiaiate d'olio d'oliva e in due di miele, insieme a pistacchi e cipolle. Di questo minuscolo cane ch'era venuto cogli altri, io non ne facevo nulla; pur me lo tenevo perché sapevo che ad Ambra piaceva ed aspettavo l'opportunità d'offrirglielo e farmene così un vanto.

Un giorno William Wood venne al mio canile e mi disse:

– Yao, ho destinato per te (quel "te" patronale plebeo, basso quanto il nostro "ju", squarciava le mie orecchie), per te e le tue bestie una camera assai più vasta di questa.

Lo stesso dì Yao, Gin, Buddha, Ani-kaine, Ta-fu e Scing-tscie e il cagnetto chinese mutarono quartiere. Quel nostro nuovo ricovero era un ampio locale attiguo alla camera d'Ambra (non ti dissi che tutti noi dimoravamo nel circo?); la porta dell'andalusa e la mia riescivano sullo stesso andito, il quale non dava uscita a nessun'altra stanza. Quando fui lì co' miei cani, William Wood, che ci aveva seguiti, disse, additando a destra:

– Qui dimora la bella andalusa; so che molti calabroni vorrebbero ronzarle d'attorno; scopersi alcuni biglietti ne' mazzi di fiori che le vennero presentati iersera dai damerini delle loggie. Che ciò sia, è naturale, e fin che i tentatori ronzano e non pungono, fanno assai bene e li lodo; aumentano così il rumor della fama intorno ad Ambra; ma se uno solo d'essi arrivasse a pungere, il mio danno sarebbe irreparabile. Una danzatrice che pel pubblico è casta, frutta l'ottanta per certo, e assai meno se non lo è. So che Ambra ama Ramàr e ciò mi piace e mi rassicura un poco. Pure sarò più tranquillo ora che tu, saggio ed accorto, dimorerai qui co' tuoi cani. Bada di far buona guardia. Ambra non indovinerà lo scopo pel quale ti ho collocato così vicino ad essa.

– Farò buona guardia, – risposi. Wood escì confortato. Allora io chiamai: – Gin! – e tosto il bull-dog si slanciò contro le mie ginocchia. – A noi due, – gli dissi, e Gin dimenava la coda così gaiamente come quando leggeva ne' miei occhi qualche lieto pensiero.

Ramàr, allorché seppe la mia nuova dimora (Wood stesso gliela indicò e gliene confidò lo scopo ed io ero presente), s'oscurò in fronte; poi disse assai turbato: – Non può essere! – Ma Wood riprese tosto: – E perché non può essere? guardiano migliore del nostro chinese non troveresti in tutta Lima. Ambra sarà rallegrata dalla vicinanza di miss Yao. Sai che essa ride sempre guardandolo in viso. Aggiungi ch'egli è devoto ad Ambra e che le salvò la vita con un miracolo di pazienza.

– È vero, è vero, – rispose lo zingaro, e rise come ad una sua ubbia segreta e stolta e mi stese la mano.

Wood continuò: – e anche i suoi cani sono utili. Le macchinazioni dei nostri signori di Lima potrebbero esserci fatali. Quando sarete sposi (Ramàr stringeva sempre la mia mano) il custode d'Ambra sarai tu (e Wood sorrideva) e saprai custodirla meglio che una intiera muta di segugi e cento chinesi; ma la moralità del nostro circo impedisce che tu ora viva troppo d'accanto alla fidanzata.

Scorsero due placide settimane, senza avvenimenti nuovi. Ambra mi credeva sempre una donna, ed a me conveniva il lasciarglielo credere per non isgomentarla d'un tratto e per non perdere nulla della sua lieta famigliarità. La assistevo spesso quando s'acconciava per comparire nel circo; stavo allora in mezzo alle sue serventi, né queste si meravigliavano della mia presenza e, ben lungi dallo scandolezzarsi, sorridevano come d'un fatto di nessun conto. Io divoravo silenziosamente la mia vergogna e colla vergogna un'acre gioia segreta.