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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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1.3.1. Le lingue confederate

L’individuo proveniente dalla Svizzera lantèrna, ovvero la ‘svizzera interna’ secondo un’espressione che ironizza sulla gerarchia insita nella struttura della Confederazione e genera nel mendrisiotto l’ironico e vittimistico Canton Strascin per ‘Cantone Ticino’, appare culturalmente più distante dallo svizzer da Com o svizzer con la cùa, entrambi per ‘italiano’, con un sintagma che riporta in àmbito elvetico tipi lessicali caratteristicamente italiani: l’espressione corrisponde infatti all’italiano con la coda di probabile origine meridionale estrema.1

In linea con quanto detto, nel lessico della Svizzera italiana emerge una visione negativa della lingua tedesca, assente per ovvie ragioni in rapporto all’italiano. Il topos dell’ostica comprensione e della cacofonia del tedesco, dovuto a una fonetica e una grammatica difficili da articolare e imparare per i parlanti lingue neolatine, è panromanzo e solidamente documentato nella tradizione letteraria.

L’umanista Gian Giorgio TrissinoTrissinoGian Giorgio, ad esempio, coerentemente con la sua posizione classicista e opposta al dilagante petrarchismo cinquecentesco, nel suo trattato di Poetica, parlando delle cesure dei vocaboli in poesia, elegge a modello negativo, da non imitare, il quinto verso del sonetto XXXIII dei Rerum vulgarium fragmenta e per farlo poggia sul topos menzionato:

Per tornare poi a quello, che cominciai a dire de la pronunzia congiunta, dico, che in ciascuna delle predette quattro cesure, quando la parola loro termina in vocale, e la seguente parola comincia da vocale, allora non si fa collisione di vocale, ma è pronunzia congiunta; salvo che la frequenzia de le cesure non la impedisca; il che è da consultare bene con le orecchie, avendo però a mente, che le frequenti collisioni, e remozioni arrecano poca vaghezza, e manco grazia ne i versi, com’è in quel verso.

Fior, frond’, erb’, ombr’, antr’, ond’, aure soavi

Che par quasi in lingua Tedesca: e però sono da usar poco, e quelle, che si usano, si dee guardare di collocarle ne le cesure, quanto ne le più principali, tanto meglio.2

E ancora, il giovane LeopardiLeopardiGiacomo nel suo Discorso intorno alla poesia romantica del 1818 (pubblicato postumo nel 1906), con il quale risponde alle Osservazioni di Ludovico Di BremeDi BremeLudovico sulla traduzione del The Giaour di lord ByronByronGeorge Gordon curata da Pellegrino RossiRossiPellegrino, ricollegandosi allo stesso stereotipo linguistico denuncia la sintassi artificiosa e la scarsa scorrevolezza di un passo della versione:

Vediamo in che maniera abbia proceduto il ByronByronGeorge Gordon, da certi versi del quale il Cavaliere prende occasione d’esporre questa sentenza che abbiamo per le mani; e i versi son questi, riportati dal Cavaliere secondo la traduzione del RossiRossiPellegrino:

[…]

Oh quanta i suoi sospir spargon fragranza.

Ci vuole un tedesco a pronunziare quest’ultimo verso: ma badiamo al fatto nostro.3

Questo luogo comune genera nel lessico delle varietà italiane e svizzero-italiane alcuni termini che si riferiscono al ‘parlar tedesco, e per lo più malamente’. È il caso, ad esempio, di farloccà o farlingottare, documentati da CherubiniCherubiniFrancesco nel milanese (CHERUBINICherubiniFrancesco 1839-1856; 2: 157). Per quanto concerne i dialetti della Svizzera italiana lo stesso lessicografo, nel suo Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano, documenta l’uso di Farlocà con il significato generico di ‘parlar molto male in idioma straniero’, che sulla scorta delle attestazioni lombarde andrà probabilmente ricondotto al tedesco, perlomeno come origine. Anche ArrighiArrighiCletto nel suo repertorio include la voce forloccà con la sommaria definizione di ‘parlare stentato’, cui aggiunge la fraseologia El forloccava in manera che óo capii nagott che meglio orienta il senso dell’espressione, ovvero ‘Parlava mezzo tedesco in modo che non ci ho capito un bel nulla’.4 Di origine incerta, farlocco, da cui farloccare, si diffonde anche in lingua negli anni Cinquanta del Novecento, in particolare nel centro Italia. PasoliniPasoliniPier Paolo, nell’imitazione filologica del gergo delle borgate praticata in Ragazzi di vita (1955), usa questo termine nel significato di ‘straniero’, al quale va probabilmente ricondotto anche quanto osservato sopra:

«Tu sse’ stato, ve’?» disse il Caciotta. Armandino scattò, puntandogli contro la mano aperta, con le dita tese: «An vedi questo, ma chi te s’è in… mai, a farlocco !» disse facendosi, a ogni buon conto, una decina di passi più in là5

Nelle varietà settentrionali, a tale significato giungono anche termini come terdoché, che nel Piemonte indica il ‘parlar tedesco’ ma anche ‘chi pronunzia le parole in modo da non essere compreso’ (SANT’ALBINOSant’AlbinoVittorio 1859: 1147, s.v.), mentre in pavano il vocabolo intoescare è sinonimo di ‘parlare in modo incomprensibile’ (DEI 3798).

1.4. Blasoni nella Svizzera italiana

Tuttavia, se la documentazione lessicale osservata finora ci fornisce significative testimonianze di una formazione identitaria che come detto si produce in negativo, cioè in opposizione alle culture limitrofe, va altresì segnalato, a riprova della mobilità dei confini e dei concetti, che alcuni blasoni comunali usati internamente al Ticino sono equivalenti alle espressioni impiegate nella regione per indicare spregiativamente l’italiano o lo svizzero tedesco. Questa corrispondenza non sorprende in relazione agli abitanti di Bosco Gurin, detti tognìtt o tötar, in quanto questo comune è l’unica isola alloglotta del Ticino. Più rilevante nell’economia del nostro discorso sarà invece il fatto che gli abitanti di Vogorno sono chiamati falcìtt e quelli di Magliaso badöla, con una terminologia equivalente, e probabilmente di formazione analoga, a quella impiegata per definire spregiativamente i braccianti italiani impiegati nella Svizzera italiana (RID, 2 536-541).

D’altro canto, i vicini lombardi e piemontesi percepiscono i ticinesi come svizzeri, e perciò impiegano per definirli lo stesso linguaggio insultante documentato nelle pagine precedenti per il ‘tedesco’. Ad esempio, lo storico Raffaello CeschiCeschiRaffaello riporta di un incidente avvenuto nel 1882 a Stresa tra un gruppo di ticinesi filopapali e alcuni piemontesi monarchici. Alle provocazioni dei ticinesi, secondo quanto testimoniano i verbali delle carte del fondo Giustizia, processi politici dell’ASTi, i piemontesi risposero gridando «Abbasso gli svizzeri, fuori gli svizzeri, abbasso i croat, abbasso i Plüffer».1 Come osservato, entrambi i vocaboli nella Svizzera italiana sono connotati negativamente: plufer (o plüffer) è diffuso con il significato di ‘svizzero tedesco’; mentre la voce croat, letteralmente ‘croato’, è documentata dal Medioevo con il significato di ‘straniero e lontano’. In questa accezione, per indicare un pellegrino giunto da un luogo remoto, il toponimo Croazia è impiegato da DanteAlighieriDante nel trentunesimo canto del Paradiso, vv. 103-105:

Qual è colui che forse di Croazia

viene a veder la Veronica nostra,

che per l’antica fame non sen sazia,

Un’ulteriore attestazione dell’uso di questo termine per definire spregiativamente il ‘ticinese’ è indirettamente documentata nella lettera del 7 dicembre 1926 spedita da Brenno BertoniBertoniBrenno al poeta Francesco ChiesaChiesaFrancesco. Nel brano trascritto di seguito, il primo, orientato culturalmente in senso elvetista, scrive al secondo sostenendo che l’italianità del Ticino e la sua individualità culturale in seno alla Confederazione sono messe a repentaglio non da chi condivide posizioni patriottiche, quanto dai filo-italiani o filofascisti ticinesi, i quali – scrive nella missiva – si rivolgono a lui proprio con l’epiteto spregiativo di croato:

Io credo che tu mi comprenda e che finirai per accorgerti che chi lavora per l’individualità ticinese sono io e chi rischia di comprometterla sono proprio quelli che mi qualificano di croato e che mi fanno pedinare a Milano. Non occorre che ti dica altro.2

1.5. La Svizzera italiana nella prospettiva confederata

Un fattore complementare nella formazione di un lessico connotato sul piano identitario è costituito dai suoi riflessi e dalle omologhe manifestazioni nelle culture circostanti. Come rapidamente osservato dalla prospettiva italiana con gli ultimi esempi richiamati, un’analoga terminologia etnica si sviluppa naturalmente anche nelle regioni linguistiche limitrofe alla Svizzera italiana. Coerentemente con lo scarso peso politico e demografico della regione, tuttavia, sono rare le manifestazioni lessicali di questo tipo rivolte in maniera precipua al Ticino, al Grigionitaliano o alla italofonia svizzera nel suo complesso.

Da parte italiana, le espressioni di spregio nei confronti di questi ultimi sono limitate e in buona parte recuperano i blasoni impiegati per definire più genericamente lo svizzero o il tedesco. A questi si annettono pochi termini peculiari, tra cui, ad esempio, il concentrato di stereotipi elvetici Nobil Svizzer tettavacch documentato alla voce sguizzer da ArrighiArrighiCletto (685, s.v.), che poco ha che fare con la vita delle comunità italofone delle Prealpi. Oltre a ciò, va menzionato il termine buzzurro, di incerta origine, diffuso a Firenze dai primi dell’Ottocento per designare gli immigrati ticinesi e grigionesi attivi nella stagione invernale come venditori di castagne arrostite in varie città d’Italia, soprattutto toscane (GDLI, 2: 470, s.v.).1 La denominazione si attesta, ad esempio, nel poema in sestine Vita e avventure di Marco Pacini pubblicato in forma anonima da Giovanni RosiniRosiniGiovanni nel 1830. Il distico in rima baciata che chiude la ventottesima sestina legge:

 

Co’ soldi in tasca, e la bottega addosso

Sciamavano i buzzurri a più non posso.

Da Firenze l’espressione è giunta a Roma, dove si è evoluta e irradiata conseguentemente al trasferimento della capitale nel 1871, che provocò l’emigrazione di numerosi piemontesi, passando a indicare genericamente gli ‘italiani del settentrione’; a conferma che il blasone era privo di qualsiasi intento o riferimento nazionalistico. La denominazione era invece connotata negativamente. Lo testimonia il significato metaforico di ‘persona rozza, zotica’, oggi esclusivo nella lingua corrente, assunto dalla voce in seguito a una trafila semantica analoga a quelle attestate per burino e cafone.

Per quanto concerne la lingua romancia, nel Dicziunari rumantsch grischun, a oggi incompleto, sono del tutto assenti termini connotati per indicare il ticinese o il grigionese di lingua italiana. La voce Italia (DRG, 10: 144) è forse la più rilevante a tale proposito. A lato di lessemi non connotati quali Itaglia o Italgia, nel lessico della varietà retoromanza grigionese sono infatti raccolte denominazioni, formate sul modello della divisione interna del Canton Grigioni, che permettono di ipotizzare un corrispettivo lessicale per ‘Svizzera italiana’. La locuzione Italia gronda, che nel romancio indica l’Italia geo-politicamente intesa, quella dove emigravano gli uomini di queste valli alpine (Emigraziun a Vnescha [‘Venezia’] ed in Italia gronda), in opposizione all’area dell’italofonia svizzera, suggerisce implicitamente un’ipotetica Italia piccola. Al lato delle attestazioni d’italianità regionale presenti nel Dicziunari rumantsch grischun, quali Italia superiura o Italia ota (ovvero l’‘Oberitalien’ dei tedeschi), emerge dunque sul piano lessicale una virtuale distinzione tra la regione italofona della Svizzera e la vicina nazione italiana.

Questa distinzione appare rilevante soprattutto se confrontata con l’analogo materiale dello Schweizerisches Idiotikon, dove, accanto al lemma tessiner (13: 1768, s.v.) o titschiner (13: 2165, s.v.) non sono registrate voci peculiari e connotate per definire il ‘ticinese’. La terminologia di questo tipo per il ticinese sarà la stessa impiegata per designare spregiativamente gli individui provenienti dall’Italia, chiamati anche Itàli (1: 602). Buona parte di queste espressioni sono formulate sulle abitudini alimentari, specularmente a quanto osservato sopra. Anche in lingua tedesca le consuetudini culinarie, nelle quali è individuato a livello popolare lo scarto fra le culture, sono largamente impiegate per formare nomignoli e epiteti insultanti. Tuttavia nel repertorio questo lessico non è attestato. Mancano, per citare solo i più diffusi, termini come spaghettifresser (‘mangia spaghetti’), macaroni (‘maccheroni’), bolanderschlugger (‘inghiotti polenta’) e maiser (‘polentone’), che si presta a titolo di un recente romanzo in versi sull’immigrazione italiana in Svizzera scritto dal poeta Fabiano AlborghettiAlborghettiFabiano.2 Nello Schweizerisches Idiotikon è invece compresa la voce Tschingg (13: 1768, s. v. tessiner), formata – specularmente a quanto osservato sopra (cf. zubrucch) – mediante la caricatura fonetica della lingua italiana. Questa denominazione, usata come sinonimo di ‘italiano’ (anche di nazionalità svizzera), deriva dalla parola cinque che gli svizzero-tedeschi sentivano pronunciare dagli immigrati italiani di origine settentrionale, forse della prima ondata migratoria, mentre giocavano alla morra, un gioco che prevede il continuo conteggio ad alta voce delle giocate. Questo termine, come i precedenti, è connotato negativamente e si fa veicolo di un ventaglio di idee preconcette legate all’italianità. Basti, a conferma di ciò, il sintagma cincheli rucsäcli, letteralmente ‘zaino dei cincheli’, impiegato per indicare la popolare Fiat 500.

Sul piano lessicale non emerge dunque la percezione di un’individualità etnico-culturale della Svizzera italiana, che risulta invece caratterizzata secondo gli stessi stereotipi del vicino italiano. Ancora più vasto nel suo significato è il termine Wälsch (15: 1583, s.v.), che nel mondo germanico era originariamente usato per indicare ciò che è estraneo e incomprensibile (si veda Kauderwelsch per ‘linguaggio incomprensibile, scorretto’).3 Con questo vocabolo si sono poi designate le persone provenienti dall’intera area linguistica romanza. In àmbito confederato, in lingua tedesca e francese, il termine ha assunto una valenza neutra e indica senza connotazioni spregiative le tre etnie neolatine: la romancia, la romanda e l’italiana. Nei frammenti che ci sono giunti di un autobiografia redatta in francese da Stefano FransciniFransciniStefano, ad esempio, il ticinese sceglie proprio questa denominazione per autodefinirsi. Il passo, nel quale si discute l’istituzione di un’università e di un politecnico federali, testimonia di come in ambito confederato il principale promotore del concetto di Svizzera italiana allarghi l’idea di sodalizio e coalizione culturale, che sta alla base di questa denominazione, all’intera area linguistica romanza. E per farlo l’etnico Welsch sarà parso a FransciniFransciniStefano quello più chiaro e rappresentativo:

En ma qualité de Welsche, j’y mets une importance toute spéciale en ce que, à côté de la science allemande, les langues et les lettres françaises et italiennes y auront aussi leurs organes et leur représentation.4

Appendice. Testi e documenti

1. Lettere di Stefano FransciniFransciniStefano
1.1. A Francesco CherubiniCherubiniFrancesco, da Bodio il 12 luglio 1824

Lettera manoscritta di Stefano FransciniFransciniStefano a Francesco CherubiniCherubiniFrancesco del 12 luglio 1824 da Bodio, conservata nel codice M 67 suss. (cc. 224rv-225r) della Biblioteca Ambrosiana di Milano: le due carte misurano 25,2 cm di altezza e 17,9 cm di larghezza. La lettera è pubblicata da SALVIONISalvioniCarlo 1908, le successive edizioni (JÄGGLY 1937 e la più aggiornata CESCHICeschiRaffaello, MARCACCIMarcacciMarco, MENAMenaFabrizio 2006) impiegano l’edizione di SalvioniSalvioniCarlo senza tornare sul manoscritto, dato per disperso. Nella prima edizione del documento SalvioniSalvioniCarlo non trascrive la lista di vocaboli redatta in calce alla missiva, che rimane perciò esclusa dai carteggi. La stessa è invece compresa senza il testo della lettera e separata in due tabelle nel volumetto FARÈFarèPaolo A. 1985. Di seguito si trascrive, adottando dei criteri conservativi, il messaggio con il breve repertorio italiano-leventinese e le relative osservazioni.

Pregiatissimo e Carissimo,

Bodio il 12 luglio 1824

Ella mi trattò col bellissimo nome d’amico; ed io, il quale ebbi già parecchie volte il bene di esperimentare quanto Ella sia tale in realtà, ne gioisco ne vo glorioso e protesto di volerla contraccambiare con affezione conveniente non solo ad un suo obbligatissimo e discepolo e dipendente, ma benanco ad amico suo.

La ringrazio poi dell’avermi Ella presentato via di poterle rendere qualche specie di servigio, se servigio può dirsi il comodo offertomi d’occuparmi in cose che più che mediocremente vammi a sangue. Ma n’ho dispiacere e rabbia vedendo che, dopo tanto tempo scorso dalla ricevuta della sua car.ma sino ad ora, non posso mandarle altro che i vocaboli di Leventina. Per que’ di Blenio e Riviera ho scritto ad un medico amico mio, per que’ di Locarno, Verzasca e Valle Maggia ad un avvocato; ma né l’uno né l’altro m’ha peranche ragguagliato di cosa alcuna, sebbene io sappia da buon canale, che se ne occupano ambedue. Ho raccolto de’ vocaboli d’Engadina e della lingua romanda de’ Grigioni ma venendomi essi da persona non la più pratica di que’ dialetti, aspetto a consultar fra pochi dì un altro soggetto.

Presentemente non mi resta dunque che di pregarla a scusarmi di tanto indugio, a ricordargli di dare un’occhiata a quegli articoli da me tradotti, a farmi conoscere i difetti del mio stile, ed a credermi ed amarmi come il

suo aff.mo ed obblig.mo amico

Stef.o FransciniFransciniStefano.


Italiano Leventinese Osservazioni
Maccheroni Macchia (macula) Cavamacchie Macchione (1) Macellajo Macello Macerare Maceratojo (3) Macigno Macinare Macina Maciulla Madia Madreselva (5) Maggese Maglia Magliuolo Malìa Mallo Malva Mandolino Mandorla Mansanile Manicotto Mantice Marasca Marcio Marzajuolo Mascella Matassa Matassetta Materasso Materassajo Materassuolo Matita Matitajo (7) Matrigna Mattone Maturo maccaroj, pasta magia, smagia civ. cavamagg magiogn (2), magiôna mazzolar, becchej mazzolaria, beccaria masarà, moursinà — sass, zapél mascnà (4) mòra gramôla marna — maggengh (6) ugéu brascéu magìa, instriament rôla malva, malba armandolign armàndola mani du lacej civ. guantign màntas marena marsc marzeu massella ascia ascetta matarazz matarazzej matarazzeu lapis — madregna madogn madù (8) (1). Macchione, interpret. secondo l’Antonini: bescògn. (2). gn si pronunzia ove alla foggia de’ Milanesi, ed ove a quella de’ Tedeschi. (3). leventinese: fols, becc, vas in de che as mett quaj cossa a masarà. (4). sc si pronunzia come il pronunziano i Milanesi in fine di parola. (5). Di piante-erbacee, d’arbusti e di fiori non hanno fra noi un nome che pochissime specie affatto, e queste delle più necessarie, come la malva, l’aglio, le cipolle ecc. Né le persone civili han cognizioni su molto maggior numero di vegetabili, ché fra esse non conosconsi quasi altri fiori che le rose ed i garofani (6). Maggengh non esprime propriamente quel che maggese, ma dinota un pascolo su monti di mediocre altezza, ove conducegli il bestiame in maggio, giugno e settembre e porzione d’ottobre, ed ove hanvi prati che danno fieni i quali si tagliano una sola volta l’anno: ne’ mesi di luglio ed agosto viene il bestiame condotto a pascoli più elevati detti alpi, ove non ha[nvi] terreno coltivato. (7). Fabbricatori d’utensili tanto grossolani, fra noi non si veggono: un solo ‹ill.› merciadro poi è venditore di matite, specchi, aghi, nastri ecc. ecc. Tutta la nostra industria (per nostra vergogna) si riduce pressoché al saper mugnere le vacche e le capre, allevar qualche meschino porco e fabbricar di mediocri formaggi. (8). Noi pronunziamo quasi sempre l’u come i Toscani.