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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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1.2.1. La lingua italiana

L’identità regionale non è costruita però unicamente in negativo, ovvero attraverso la connotazione spregiativa del vicino lombardo e più largamente italiano, ma ha articolazioni più complesse anche a livello popolare. Significative a questo proposito risultano le denominazioni svizzero-italiane della “lingua italiana”, la quale è non solo denotativamente chiamata italìan, ma anche léngua bona, léngua giusta e parlà italian a Campo Vallemaggia significa ‘parlare seriamente’, ‘farsi intendere’, con adesione a un tipo lessicale che riconosce alla lingua nazionale una superiorità comparativa rispetto ai dialetti, la cui diffusione è largamente attestata nelle culture popolari dell’Italia settentrionale tra Otto e Novecento.1 Secondo una semplificazione tanto schematica quanto eloquente, nel locarnese parlà in picol, ovvero nella varietà municipale, si oppone al parla in grand, ovvero nella koiné dialettale o in italiano regionale.2 Sempre in contrapposizione alla lingua di prestigio, nella Svizzera italiana il dialetto è definito anche la lingua mancina o italian da Bièla, letteralmente ‘italiano di Biella’. Il primo sintagma palesa la sua connotazione riduttiva, in opposizione a un’ipotetica lingua destrimana, cioè forte, sicura. La locuzione ha una certa fortuna nel territorio e si attesta, ad esempio, anche nell’italiano mimetico del citato Il fondo del sacco di MartiniMartiniPlinio, dove si legge: «I nostri professionisti studiano nella Svizzera tedesca e se non si fermano là dentro portano fuori la moglie e ragionano in lingua mancina, da non sapere nemmeno più scrivere in italiano».3 Il secondo è invece formulato sull’impronta di una fraseologia dialettale ricorrente, per la quale il toponimo Bièlla è attributo aggettivale che vale ‘da nulla’ ed è impiegato per indicare un oggetto dozzinale o una persona, un professionista, di poco valore: talent da Bièla, dotor da Bièla e sonadoo da Bièla (VSI, 2: 450, s. v. bièla). Probabilmente, l’espressione giunge nella Svizzera italiana attraverso un uso milanese. Nella varietà di Milano è infatti documentata da CherubiniCherubiniFrancesco l’espressione metalinguistica Franzes de Biella, impiegata per indicare «colui che franzeseggia senza pratica della lingua» (2: 173, s.v. franzés), cioè che parla un francese stentato o scarso.

1.3. La percezione del vicino svizzero

Secondo una celebre formula di Roland BarthesBarthesRoland i confini sono più sociali che territoriali, sarebbero cioè negoziati e stabiliti sulla base di relazioni e interazioni culturali, in una dialettica di inclusione-esclusione che si definisce anche internamente alle frontiere ufficiali.1 Questa dinamica si è manifestata e in parte ancora si manifesta nella Svizzera italiana, dove di fatto – come detto – lo spirito identitario regionale si fonda reattivamente. In opposizione al vicino lombardo o italiano da una parte, ma anche prendendo le distanze dallo svizzero, identificato come diverso e distante; e segnatamente dallo Svizzero di lingua tedesca, il più lontano sul piano culturale ma anche il più vicino geograficamente alle Prealpi cisalpine.

Di conseguenza, anche sul piano lessicale le entità culturali elvetiche più deboli, l’area romancia, o distanti, l’area romanda, sono proporzionalmente meno presenti nella terminologia regionale, o quantomeno sono esigue le voci marcate semanticamente a loro riferite. Nei repertori lessicografici della Svizzera italiana, per definire il romancio, accanto alla forma non connotata romanscion (LSI, 4: 420), si attesta il geonimico croara (VSI, 7: 120), indicante la regione della Sopraselva o più genericamente il Grigioni stesso: ra Crüèera, del quale si è scritto nel primo capitolo. Se quest’ultimo risulta sostanzialmente neutro, è invece connotato spregiativamente l’aggettivo etnico cinciau o cinciaus (VSI, 5: 294). Il termine, che designa appunto il ‘grigionese di lingua romanza’ o il ‘grigionese’ genericamente inteso, è formato sul verbo tschintschar (‘parlare’) mediante la caricatura di tratti ricorrenti del romancio, ovvero l’affricata [tʃ] e il dittongo [aw].2 Sul piano lessicale l’unica espressione di alterità dello svizzero-italiano nei confronti del romancio si manifesta dunque in riferimento alla lingua, che doveva apparire diversa e strana (anche in senso etimologico) ai parlanti l’italiano o una sua varietà dialettale lombarda.

Allo stesso modo è notevole e va segnalata la totale assenza di denominazioni connotate riconducibili alla Svizzera romanda, che appare lontana nell’orizzonte culturale più ancora che nello spazio geografico. Oltre al denotativo francés, per quanto concerne lo svizzero francese si attesta unicamente la scherzosa inversione sillabica cianfrés, da accostare al lombardo zenfres. La formazione di termini gergali mediante la metatesi sillabica, diffusa in numerose varietà dialettali dell’Italia settentrionale, ricorre anche nello stesso francese e nei suoi dialetti: si veda ad esempio chanfroiser per ‘cercare di parlare in francese’ (DEI: 1705).3

Al contrario, i repertori lessicografici della Svizzera italiana, oltre al denotativo tedésch o svizzer tedésch, raccolgono un numero cospicuo di lessemi connotati negativamente per definire lo “svizzero tedesco”. Questi ultimi provengono in molti casi dall’Italia settentrionale, dove è ampiamente diffusa una terminologia spregiativa per indicare il tedesco di Germania o Austria. Ad esempio la voce tognìn per ‘tedesco, svizzero tedesco’ (LSI, 5: 541) recupera il vezzeggiativo plurale tognìtt, che secondo MiglioriniMiglioriniBruno deriva dal gergo militare delle trincee, impiegato nel secolo XIX come nomignolo per i soldati austriaci del Lombardo-Veneto, su cui si veda ad esempio CherubiniCherubiniFrancesco nel Vocabolario milanese-italiano (4: 418, s.v.): «Tognitt. Nome che il nostro popolo applicò nell’anno 1814 ai soldati della Landwehr».4 La voce, assieme ad altri termini tedescofobi coniati nel Risorgimento, resiste nell’area linguistica lombarda ben dentro al secolo successivo. Così nel disegno milanese L’Adalgisa, compreso nell’omonima raccolta del 1944, GaddaGaddaCarlo Emilio impiega questo appellativo per dar corpo alla tragica premonizione relativa alla sorte del personaggio Remigio, che morirà nella battaglia del Podgora del luglio 1915: «E rideva, rideva, povero ragazzo, come rise poi sempre, anche in faccia ai tognini e alla Margniffa [scil.: la morte], quando lo beccò sul Podgora, sta troja!». GaddaGaddaCarlo Emilio, nell’ampio e caotico apparato di annotazioni storiche e linguistiche posto in calce al testo, appunta inoltre: «Tognini (tognitt): gergale mil. per austriaci: da Togn = Antonio».5 Il termine deriva infatti dal diminutivo “Tògno”, forma abbreviata e popolare del personale “Antònio”, e assume un significato negativo. Tale connotazione emerge chiaramente dalla diffusione del vocabolo come sinonimo di ‘deretano’. Nel Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe BoerioBoerioGiuseppe, ad esempio, alla voce toni si legge:

[…] dicesi ancora comunemente per Culiseo; Preterito; il bel di Roma; il Culo. Toni, Polo, Culo, Martìn, xe po tutùn, Dite il Culo, il Civile, il Deretano, In tutte avrete l’espression dell’ano. Il dettato vernacolo si suol dire per ischerzo a chi ha nome Toni o Martin, ed è come dire: Lo stesso tuo nome dimostra che tu se’ un balordo, perché tanto val Toni o Martin quanto Culo.6

La connotazione negativa di tòni, sia pur diversamente declinata, è percepibile anche nella Svizzera italiana, nella quale il vocabolo assume il significato, di per sé eloquente, di «individuo da poco, sciocco, stupido; pagliaccio del circo» (LSI, 5: 549).7

Fra i nomignoli irradiati dalla tedescofobia risorgimentale del Lombardo-Veneto e diffusi nella Svizzera italiana con il significato di ‘svizzero tedesco’ si attesta anche patatòcch. All’origine di questa voce, il DEI (2801) propone l’incrocio di “patata”, che dal significato proprio passa a indicare per una generica categorizzazione i suoi consumatori abituali, e “patalócco” diffuso nel settentrione per ‘sciocco’: così il piemontese e bolognese patalùc, il pavese badalük, il cremonese badalöch eccetera. Con il suffisso -ucco/-occo, tipicamente spregiativo, il termine patatòcch è impiegato nella Svizzera italiana anche come sinonimo di ‘persona goffa, stupida, minchiona’ e di ‘poveraccio’, a indizio del suo valore negativo. Nel significato di ‘tedesco’ o ‘svizzero tedesco’, la denominazione si attesta in un brano della lettera scritta dal milanese Giovanni BerchetBerchetGiovanni alla marchesa Costanza ArconatiArconatiCostanza il 4 settembre 1843 da Baden. Nella missiva, descrivendo le persone che popolano e visitano la cittadina argoviese, lo scrittore, con i nomignoli di patatocchi e patatocche, si riferisce ironicamente ai tedeschi e alle tedesche che trova fumanti e oziosi ammollo nelle acque termali:

Questo Baden è sempre lo stesso per quanto alla bellezza del paese, ma mi pare scaduto un tantino per quanto all’eleganza dei visitanti la valle; o che forse la stagione è già troppo inoltrata: francesi pochissimi, alcuni Russi soverchianti ognuno per la quantità dell’oro arrischiato al giuoco; inglesi pochissimi e della razza delle how is the Marquis? o forse più in giù; poi uno sciame immenso di fumanti patatocchi, e di mal fagotée patatocche, e neppur più il conforto dell’eccellente cucina dello Chabert; tutti è in mano di Tedeschi, e intedescato.8

 

Di origine apparentemente autonoma, cioè slegata dalle calunnie tedescofobe sviluppatesi nel corso del secolo XIX nel Lombardo-Veneto, l’appellativo züchin, con la variante zücöö, è forse la denominazione spregiativa oggi più resistente nella Svizzera italiana per indicare il vicino tedesco (LSI, 5: 867). Anch’essa assume una serie di significati derisori e insultanti che certificano la connotazione della voce, impiegata come sinonimo di ‘persona tarda, ottusa, ignorante, testarda’. Il termine trae origine dalla suffissazione diminutiva dell’espressione in lingua zuccone, il cui corrispettivo dialettale è marcato negativamente pur senza riferimenti allo svizzero tedesco: züccon vale infatti ‘zuccone, persona tarda, ottusa, ignorante’ oltre che ‘persona cocciuta, testarda’. Eloquente, a questo proposito, è la definizione data da AngioliniAngioliniFrancesco (859, s. v. todèsch) alla fraseologia te see on grân todêsch!, secondo il lessicografo ‘sei un gran zuccone!’, cui aggiunge: «È traccia del nostro odio per la dominazione austriaca e non ripassò le Alpi con loro». Se già Zuca (o Zucca) per ‘testa’ è «voce per lo più schernitiva» (MONTIMontiPietro 1845: 369, s. v. zuca), la suffissazione accrescitiva o diminutiva del termine è chiaramente percepita come oltraggiosa e sprezzante. A questa terminologia si potrà dunque affiancare gnucco o gnucch (LSI, 2: 737), per ‘ignorante, ottuso’, che sarà a sua volta da collegare a gnucca (da “nuca”, premessa da g e con raddopiamento di c), in cui si avverte l’influenza di zucca nel senso di ‘testa’ negativamente connotato.9 Allora, questa voce si accompagna idealmente a testa quadra, che designa nel Ticino lo ‘svizzero tedesco’, probabilmente sulla base dello stereotipo secondo il quale quest’ultimo sarebbe una persona intransigente e scrupolosa;10 oppure, ancora, all’affine crapa dolza, che indica, con una coppia di significati metaforici, eloquenti in merito alla sua percezione, lo ‘svizzero tedesco’ e lo ‘stupido’: ovvero, l’uomo privo del proverbiale “sale in zucca” e dunque per antitesi dolce.

Nella Svizzera italiana buona parte dei blasoni etnici impiegati per nominare il tedesco o lo svizzero tedesco sono formati attraverso il consueto passaggio dal significato alimentare di un termine a quello etnico-culturale del suo consumatore abituale, secondo una migrazione metonimica spesso favorita dalla connotazione negativa del significato alimentare originale. Le abitudini culinarie sono rappresentative della cultura di una comunità o etnia, e sono infatti largamente documentate nell’uso figurato di epiteto o nomignolo usato per deridere o descrivere mediante categorie generiche e stereotipate delle persone percepite come diverse, straniere.11 A questo proposito, sarà sufficiente richiamare per la lingua italiana l’uso di polentone per ‘italiano del settentrione’, oppure l’impiego di mangiapatate per indicare il ‘tedesco’, adattato in espressioni varie e diffuso in numerose lingue europee. Ad esempio, nel romanzo A farewell to Arms di HemingwayHemingwayErnest il protagonista, coinvolto sul fronte italiano nel corso della Prima guerra mondiale, si riferisce al nemico austriaco con un analogo blasone in lingua inglese: «I was dead all right but those damn potato mashers [schiaccia patate] haven’t got anything in them».12

Questa terminologia documenta la percezione dello scarto culturale, facilmente inquadrabile dalle comunità nelle rispettive consuetudini culinarie, che allontana e differenzia la Svizzera italiana dalla tedesca, e viceversa. Così, l’individuo proveniente da quest’ultima è nominato nel Ticino anche con l’eloquente sostantivo maiamà e le sue vere o presunte abitudini alimentari sono usate sul piano lessicale come simbolo e strumento per definire l’alterità etnico-culturale tra la Svizzera cisalpina e transalpina. Ad esempio, la parola snizz, cioè il tedesco Schnitt, che indica gli ‘spicchi di frutta secca’ o di altro, è impiegata ad Airolo anche come sinonimo di ‘svizzeri tedeschi’ (LSI, 5: 83-84). Allo stesso modo, giungono metaforicamente a questo significato i termini cabis (LSI, 1: 555), comunemente impiegato nella Svizzera per indicare il cavolo cappuccio, e plofer (LSI, 4: 43), formato sul calco della parola ploff, ovvero le ‘fette di rapa essiccate e infilate in un refe’: in questi casi, la metafora poggia dunque su ingredienti tipici dei ricettari transalpini. Alla sfera alimentare si rifanno infine due composti imperativali, di palese connotazione negativa, impiegati nella Svizzera italiana come sinonimo di ‘tedesco’ o ‘svizzero tedesco’, ovvero: sciüsciavinerli (‘succhia-salsicce’), il cui senso letterale suggerisce inoltre un ventaglio di sfumature oscene e insultanti, e il trasparente maiacrauti (‘mangia-crauti’, LSI, 3: 250). A suggello di quanto detto finora, questa casistica può anche essere rovesciata. Infatti il termine tedésch, oltre al neutro significato etnico, indica metaforicamente a Brissago una varietà di patate, le quali possono essere rosolate e cotte in brodo secondo una ricetta che a Sonogno in Valle Verzasca è definita con lo stesso etnonimo (LSI, 5: 458): anche in questo caso, come anticipato sopra, lo slittamento semantico si fonda sull’alimento caratterizzante la comunità tedesca, con la quale è identificato.

Al contrario di quanto osservato per l’‘italiano’, nel processo di formazione delle denominazioni impiegate per definire lo ‘svizzero tedesco’ le professioni e i relativi utensìli di lavoro hanno un peso minore, coerente con l’interazione storica tra le due comunità. In quest’àmbito, l’unica occorrenza attestata è il termine slifer (LSI, 5: 53-4), prestito dal tedesco Schleifer, che nel Sopraceneri e nel Grigionitaliano, dove i contatti con l’oltralpe erano più frequenti, indica l’‘arrotino’ o l’‘artigiano ambulante di origine transalpina’ e assume significati dall’evidente valore spregiativo, tra cui ‘zingaro’, ‘fannullone’ e ‘persona inaffidabile’.13

Sebbene in numero inferiore, nella Svizzera italiana sono inoltre documentate alcune designazioni spregiative per il tedesco con un’origine analoga a quelle impiegate per il vicino lombardo o italiano. Ad esempio, la voce toder (LSI, 5: 539), dal nome proprio Tòdaro, ovvero Teodoro, giunge al significato gergale di ‘pidocchi’ o ‘testicoli’. Nella prima accezione è impiegato nella poesia El viacc de fraa Condutt del milanese Carlo PortaPortaCarlo, vv. 73-78:

L’eva on’ora, o pocch pù, de la mattina

e el ciel luster e bell come on cristall,

tirava on’aria sana, remondina,

che ghe fava ballà i lenden suj spall,

e el brucc sbroccand i ramm che sporg in strada

el ghe strollava i toder de rosada.14

Con il significato di ‘testicoli’ la voce si attesta invece nel componimento Ricchezza del vocabolari milanes, che vuol essere anche una prova della forza e della duttilità lessicale della varietà dialettale meneghina, vv. 1-4:

Oh quanti parentell han tiraa in pee

per nominà i cojon! Gh’hai ditt sonaj,

toder, granej, quattordes sold, badee,

zeri, testicol, ròsc, bal baravaj;15

Al nostro fine, la nota appuntata al vocabolo da IsellaIsellaDante risulta più importante delle testimonianze poetiche in sé, per quanto suggestive. In corrispondenza al termine toder il filologo scrive: «Tòdaro, Teodoro, gergale per ‘pidocchi’ e per ‘testicoli’: donde anche ‘minchione’ e, più tardi, ‘tedesco’».16 Come documenta questa postilla, attraverso uno sviluppo metaforico la voce assume un insieme di significati figurati e spregiativi, che portano successivamente, con ovvi intenti denigratori, a indicare il ‘tedesco’, da cui poi lo ‘svizzero tedesco’ nel Ticino.

Le definizioni lessicali dello svizzero tedesco sembrano inoltre costruirsi mediante la caricatura fonetica della sua lingua, secondo un procedimento che si riaccosta in parte a quanto osservato sopra per cinciaus (‘romancio’). Tale dinamica, che avrà contato anche nella migrazione metaforica da toder a ‘svizzero tedesco’ appena discussa, genera un numero notevole di neoformazioni inizianti con la lettera t-: così tötar (LSI, 5: 568) e töden (LSI, 5: 539), che oltre al significato etnico-culturale indicano la ‘persona stupida e ignorante’; oppure tondar (LSI, 5: 548), sinonimo di ‘individuo cocciuto, testardo, caparbio’; infine túderli (LSI, 5: 652) e tubar (LSI, 5: 650), quest’ultimo anche nella forma sintagmatica Da tubar (‘sgarbato di atteggiamento’, ibidem), che testimonia la connotazione negativa del termine.17

Questa ipotesi trova forse conferma nella voce zubrucch (LSI, 5: 863) o zurucch (ibid.), in uso nella Svizzera italiana per designare lo ‘svizzero tedesco’ e l’‘individuo grossolano, rozzo’. Il termine è calco dell’avverbio tedesco zurück, il quale genera nell’area linguistica lombarda alcune espressioni affini. A tale proposito, si veda il milanese zórócch, con la relativa espressione Zorocch tì e mur, che lo scapigliato Cletto ArrighiArrighiCletto include nella sua opera lessicografica: «Zórócch (D.T.), Todèsch. Quand gh’era chì i zorocch: Al tempo dei Tedeschi | Indietro. Zorocch tì e mur: Indietro tu e ’l muro», In calce alla pagina, ArrighiArrighiCletto appunta inoltre una postilla con la ricostruzione storica della fraseologia:

Per capir questo si sappia come una volta un povero soldato tedesco a cui avevano dato ordine di fare largo in una festa ebbe a dir a un tale che stava appoggiato al muro che si tirasse indietro; e avendogli risposto quel tale che non poteva perché c’era il muro il Tedesco ripigliò fiero: Pene, zórócch tì e mur.18

Il funzionamento di tale dinamica è documentato sin dall’antichità classica. I greci, in assenza di un’intesa politica tra le polis, fondavano la propria identità etnica e culturale sulla lingua comune, e sulla base di questa riconoscevano e definivano lo straniero. Si colloca in tale contesto storico la formazione della parola barbaro, forma dotta dal greco antico βάρβαρος e passata in latino a barbarus, che significava ‘colui che balbetta, che non sa parlare’, in riferimento a coloro che parlavano una lingua diversa da quella ellenica, e per questo incomprensibile. Di probabile origine onomatopeica, come suggerisce la ripetizione del nesso bar, la voce si è dunque plasmata sull’imitazione di una lingua che doveva apparire rozza e oscura, in maniera sostanzialmente affine a quanto si è osservato sopra per il tedesco.19