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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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Per quanto riguarda la diffusione spaziale di questa parola, tra il 1895 e il 1896 SalvioniSalvioniCarlo completa con alcune precisazioni e commenti il Glossario del dialetto di Arbedo compilato da Vittore PellandiniPellandiniVittore e destinato alle pagine del BSSI. Tra queste, alla voce badin approntata da PellandiniPellandiniVittore («Badin nome che si dà agli sterratori, che provengono fra noi dalla Lombardia») il glottologo aggiunge una chiosa riassuntiva nella quale torna sulla particolarità dell’uso milanese del termine, che inverte geograficamente il significato più comune nella Svizzera italiana:

Badín, badóla. Questi nomi a Luino si dànno a quelli p. es. della campagna varesina, a quelli cioè che vengon da più basso. E il significato più generico e primitivo sarà appunto quello di “proveniente dalla pianura”. Dove è notevole che nel Basso Milanese, chiamino invece badín i contadini dell’Alto Milanese, che in alcune stagioni scendono ad ajutare nei lavori agrarj della pianura (Cher.). Che da noi si sia limitata la voce agli ‘sterratori’, non sarà stato senza influenza di badí badile.21

Nella Svizzera italiana, l’impiego figurato e spregiativo di badin con valore etnico è largamente diffuso, anche in forme o con significati meno consueti. Ad esempio a Frasco in Val Verzasca è stato rilevato da Oskar KellerKellerOskar l’uso della forma plurale baditt come nomignolo di scherno dato ai «membri di una famiglia emigrata in Italia e rimastavi per un certo tempo».22 Tale scivolamento semantico si aggiunge a un ventaglio di usi metaforici della parola, legati a caratteristiche vere o presunte di questi individui, che risulta eloquente a proposito della percezione negativa e della difficile integrazione degli stagionali nella regione. Fra questi ‘fannullone’ (Lodrino), ‘ignorante’ (Rovio), ‘babbeo’ (Stabio), ‘persona grossolana e stupida’ (Sottoceneri), fino a un estemporaneo ‘cattivo medico’ (Rossura), che indica forse un dottore solito maneggiare il bisturi come un badile.23 Tuttavia, come documentano i repertori lessicografici, un’analoga gamma di significati si sviluppa parallelamente anche nell’Italia settentrionale, dove si incontrano testimonianze illustri.24 Ad esempio nella commedia in milanese I consigli di Meneghino (1697) di Carlo Maria MaggiMaggiCarlo Maria, nella quale badin assume il significato figurato di ‘ignorante’, 1: 175-176: «E no guardé, che sia on tàe badin | Che no sa lesg nè scrivv».25

L’uso spregiativo di badin per ‘italiano’, con un cospicuo corollario di significati negativi, si trova anche in sprezzanti o sibilline fraseologie documentate nella Svizzera italiana, in particolar modo nelle aree di confine: a conferma della percezione del vicino italiano come altro e diverso. Nei pressi di Vira Gambarogno, sul Lago Maggiore, è registrato l’ironico motto O tasann stè sü da cò che da baditt ga n’è ncamò, ga n’è rüvà na barca piena a cin ghèi a la dunzena, (‘Oh ragazze, state su di capo [di animo] che di italiani ce n’è ancora, ne è arrivata una barca piena a cinque centesimi alla dozzina’). Analogamente nel luganese, a Grancia, è annotata la frase fatta Urmái in di nos paiís gh’è püssèe badin che ticinés (‘Oramai nei nostri paesi ci sono più contadini lombardi che ticinesi’) che testimonia una percezione dei lombardi attivi nella regione come stranieri, diversi. In questi materiali, il sentimento generato dai terrazzieri lombardi si piega però anche a espressioni di goffa riconoscenza, come documenta una seconda fraseologia rilevata a Grancia, ovvero S’a vegneva miga sü i badin a st’ora che da campagna gh’n’eva quasi piü (‘Se non venivano i contadini lombardi, di campagna [terra coltivata] a quest’ora non ce n’era quasi più’). Il vocabolo badin è inoltre storicamente documentato nel manoscritto del Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco come manifestazione lessicale della relazione conflittuale tra gli abitanti del Cantone Ticino e i vicini lombardi: «Badóla. Baggiano. I ticinesi ne chiamano così noi Milanesi per dileggio. I Comaschi loro vicini di ripicca li chiamano Sbrója».26

Il termine baggiano, da baggiana ‘baccello di fava’, impiegato da CherubiniCherubiniFrancesco per definire badóla, significa ‘sciocco, babbeo, poco serio’ (VSI, 2: 44, s.v. bagián), «forse dall’essere sovente i baccelli più vuoti che pieni» suggerisce il TommaseoTommaseoNicolò-BelliniBelliniBernardo (s.v.). Tuttavia, per il lessicografo avrà forse contato il fatto che questo lessema era anticamente l’appellativo di stoltezza con il quale i bergamaschi nominavano i milanesi, ribaltando di fatto uno stereotipo spesso costruito in favore dei centri cittadini. Quest’uso è testimoniato, inter alios, da ManzoniManzoniAlessandro nel XVII capitolo dei Promessi sposi:

Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano? – Come ci chiamano? – Ci chiaman baggiani. – Non è un bel nome. – Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.27

Questo blasone ha avuto fortuna e diffusione anche all’infuori dei territori menzionati. Lo stesso nomignolo era impiegato ad esempio nella Svizzera italiana, seppur limitatamente agli abitanti di Chiasso nel Mendrisiotto, nella fraseologia Bagián che vegn da Milán per ‘baggiano che vien da Milano: scioccone’ (VSI, 2: 44). Al contrario è più difficile inquadrare il termine sbrója attribuito secondo CherubiniCherubiniFrancesco dai comaschi ai ticinesi, che coincide con il soprannome spregiativo, a oggi in uso, impiegato dagli stessi per gli abitanti di Lugano (LSI, 4: 580). Assente in questa accezione nei dizionari delle varietà limitrofe, la voce nel Ticino assume il significato negativo di ‘fanfarone, smargiasso, millantatore’ e va probabilmente ricondotta al verbo (s)brogliare (dal fr. ant. broueillier), in maniera affine alla formazione del sostantivo spaccone dal verbo spaccare: sbroja indicherebbe cioè una persona ingenuamente convinta di poter intervenire con beneficio e risolvere qualunque situazione.

Sempre riconducibili all’àmbito degli stagionali di origine italiana attivi nel Ticino, termini quali falcìn, letteralmente la ‘roncola’, e códegh o códega, ovvero il ‘codolo’ della lama che si fissa al manico della falce fienaia, indicano, a loro volta risemantizzati per metonimia, prima il ‘bracciante lombardo’ e poi per generica estensione l’‘italiano’.28 Anche l’espressione rè songia o resòngia, diffusa limitatamente nell’alto luganese, segue un’analoga trafila metaforica che porta al significato etnico. Letteralmente ‘re della sugna’, l’origine della locuzione è da ricondurre a una serie di espressioni analoghe, relative alla fatica e al duro lavoro nei campi, ben attestate nella regione: songia de bresc, da gombad e da scéna per ‘forza, fatica, impegno fisico’, e ancora cascià o fa vegni fora la songia da la schéna per ‘lavorare con forza, impegno’. Come si desume da queste locuzioni, il termine sugna (<AXUNGIA, REW 846) è usato come sinonimo espressivo di ‘sudore, fatica’. Di conseguenza, rè songia (o resòngia) si traduce facilmente in ‘re del sudore, della fatica’ e si affianca ai precedenti come nomignolo spregiativo impiegato per nominare i braccianti stagionali, poi giunto con un ulteriore scivolamento semantico a indicare l’italiano tout court, prescindendo dall’àmbito lavorativo o dall’origine dell’individuo.

Le condizioni di vita degli stagionali e più in genere degli immigrati italiani in Svizzera era certamente difficile e precaria. Anche attorno a questo aspetto si sono formati nella regione soprannomi spregiativi e metafore che secondo lo sviluppo metonimico osservato sopra hanno ampliato il proprio significato a tutte le persone provenienti dall’Italia, per marcarne la diversità, spesso negativamente. Ad esempio, nel luganese si attesta il termine plurale maiamà (LSI, 3: 250), letteralmente i ‘mangia male’, giunto a indicare gli ‘italiani’ sulla base della magra dieta degli immigrati.29 A questa voce si ricollega, riferito più precisamente ai bergamaschi, l’analoga polénta e scigull (LSI, 4: 57).30 Ovvero ‘polenta e cipolle’, dagli ingredienti del misero regime alimentare seguito dai braccianti bergamaschi impiegati nelle valli prealpine e alpine della Svizzera italiana. La cipolla è ingrediente simbolo della cucina più umile, attorno al quale nelle varietà settentrionali si sviluppa un corollario di metafore e fraseologie significative. Il nomignolo diventa più eloquente se connesso a espressioni come pane e cipolla, che equivale a ‘cibo povero e scarso’, e mangiar pane e cipolla, ossia ‘mangiare poco e male’ o ‘essere ridotto in povertà’ (LEI, 13: 962); oppure, al significato figurato di zivòlla nel dialetto bolognese, che vale ‘mesi di penuria, di niun guadagno’.31

Nello stesso contesto storico-culturale va situata la genesi delle designazioni metaforiche di àmbito gergale che giungono a indicare indistintamente l’individuo italiano, come nel luganese lìa e cirle, entrambi impiegati con il significato primo di ‘pidocchio’.32 Gli immigrati italiani non erano considerati un’utile risorsa lavorativa dalla popolazione autoctona, che li riteneva dei parassiti, dei ‘pidocchi’ appunto. In questo senso, dunque, va letto lo scivolamento semantico che da cirle e lìa porta a ‘italiano’, e non conformemente al significato metaforico oggi più diffuso nella regione, ovvero pioeucc per ‘avaro’.33 Coerentemente a ciò, con l’uso di una metafora su una metafora, i ‘pidocchi’ sono poi a loro volta ironicamente indicati con il nome di fratèli d’Italia (VSI, 5: 379). Secondo un procedimento analogo, seppur motivato da una presenza allogena di epoca e importanza ben diversi, CherubiniCherubiniFrancesco documenta nel milanese l’impiego gergale delle voci spagnoeù (‘spagnolo’) e franzés (‘francese’) con il significato figurato di ‘pidocchio’.34 Una migrazione metaforica, questa, che va probabilmente riferita alle dominazioni spagnole (secoli XVI-XVIII) e francesi (secoli XVIII-XIX) di Milano, in occasione delle quali gli invasori erano percepiti come parassiti, in maniera sostanzialmente non diversa rispetto a quanto si è verificato con la più moderna e modesta immigrazione nella Svizzera italiana.

 

Anche nel Ticino l’aggettivo etnico francés, nel folto corollario di significati metaforici spregiativi connessi all’etnonimo, giunge a indicare il ‘pidocchio’, accogliendo presumibilmente un’abitudine linguistica giunta dalla varietà milanese. Nonché, con imprevista torsione etnonimica, i vocabolo francés si trova impiegato anche come sinonimo di ‘italiano’ e di ‘italiano meridionale’ (LSI, 2: 543). Se già lo scambio etnico, seppur difficilmente spiegabile, lascia supporre un’intenzione beffarda e derisoria, la connotazione negativa del termine emerge ancor più chiaramente scorrendo gli ulteriori significati figurati connessi alla parola, tra i quali si legge ‘porco, maiale’. Il passaggio della neutra designazione etnica al significato di ‘maiale’ può forse spiegare anche lo sviluppo metaforico di cui sopra. Cioè, l’uso di francés per ‘italiano’ sembrerebbe riferirsi non al neutro aggettivo etnico quanto al suo uso figurato per ‘maiale’, ampiamente documentato in tutta Italia: ad esempio nel meridione cicco (REW 1899), derivato da cecco contrazione di Francesco (DI, 2: 103). La ricostruzione dello scivolamento semantico che porta dall’etnico all’animale è chiosata in maniera convincente da SalvioniSalvioniCarlo sulla base della voce onomatopeica guinà (‘grugnire’), inclusa tra le Osservazioni lessicali raccolte nel saggio intitolato Il dialetto di Poschiavo:

Guinà grugnire. Formazione onomatopeica dipendente forse da *win-. Infatti i napolitani dileggiavano i francesi chiamandoli gui-guì (cioè wi-wì = oui oui), ed è certo da una analoga e scherzosa interpretazione della particella affermativa francese che dipende franćéç, porco, in parecchie varietà dialettali italiane.35

Andrà allora ricondotto a una medesima trasposizione semantica il peculiare impiego, a Campo Vallemaggia, del sintagma parlà francés con il significato di ‘grugnire del maiale’, che non comporta però alcuna (o tutt’al più una scarsa) considerazione sulla lingua in quanto tale.

Il consolidamento e la conseguente diffusione dell’etnico francese con il significato di ‘porco’ implica nel Ticino e nel Grigioni italiano una serie di variazioni etniche non altrimenti spiegabili se non in ragione di uno spontaneo scambio dell’aggettivo nazionale: privo di risentimento nei confronti dei francesi, nella Svizzera italiana da sempre percepiti come distanti culturalmente e geograficamente, l’uso figurale giunto nel Ticino dalla Lombardia ha perso il suo obiettivo polemico e si è prestato a modifiche non riconducibili a precise ragioni storiche. Così a Chironico, e più ampiamente in Leventina, si verifica l’uso di inglese come sinonimo per ‘maiale’.36 O ancora, anche nel già citato romanzo L’anno della valanga di Giovanni OrelliOrelliGiovanni, nel quale si rileva una particolare attenzione per la lingua viva dell’alta Leventina, che emerge nel dettato autoriale mediante fraseologie ed espressioni idiomatiche, è testimoniato l’impiego metaforico dell’etnico inglese: «I maiali fanno ridere, li hanno messi nelle benne, legati con corde attraverso il grasso della pancia; sugli alpi il maiale lo chiamano signore, l’inglese».37

Nel brano citato, OrelliOrelliGiovanni suggerisce inoltre un fattore culturale, o meglio uno stereotipo culturale alla base della migrazione metaforica, che avrà contato anche per la formazione dell’equivalente francés, di origine onomatopeica. Ossia, il maiale, una bestia comunemente ritenuta rozza e sudicia, è assimilato con intento ironico, paradossale e straniante, alla percezione stereotipata della raffinatezza e dell’eleganza presunta dei francesi e degli inglesi, forse veicolate dall’immaginario delle monarchie nazionali, di quelle destituite come di quelle presenti.38

Questi significati metaforici vanno probabilmente ricondotti all’adesione di un modello, già italiano e storicamente documentato, di coniazione di altri blasoni riferiti a supposti usi e costumi nazionali, spesso connotati negativamente, che si diffondono in Europa nel corso del secolo XVIII. Questi ultimi sono in particolar modo relativi alla Francia, cui le tradizioni folcloriche italiane, estranee e parallele alla francofilia degli intellettuali sette- e ottocenteschi, hanno spesso associato vizi, malattie e calunnie.39 A tale proposito, l’esempio più eloquente e di più lungo corso è relativo alla terminologia diffusa nel secolo XV indicante la sifilide, ricavata dalla presunta origine dell’infezione avvenuta negli anni delle Guerre d’Italia, durante l’assedio di Napoli del 1494 da parte dell’esercito francese di Carlo VIIICarlo VIII (re di Francia).40 Su questa base si è sviluppato il Italia il nome popolare di mal francese, morbo celtico e morbo gallico per ‘sifilide’, per cui francesare e franzosato in senso figurato assumono il significato di ‘contagiare di mal francese’ e di ‘contagiato di sifilide’ (DI, 2: 123 e 124). Il rapido sviluppo di queste locuzioni è testimoniato dal trattato De epidemia quam Itali morbum Gallicum vocant dell’erudito Niccolò da LonigoLonigoNiccolò da (o latinamente Leoniceno) pubblicato nel 1497 per i tipi di Aldo ManuzioManuzioAldo. D’altro canto, dalla prospettiva francese si è formato il nome popolare di mal napolitain, successivamente diffuso anche in Italia e in italiano nelle forme di morbo di napoli, male di napoli o mal napolitano (DI, 3: 394), connessi dal punto di vista del forestiero al centro di diffusione del male.41

Nella Svizzera italiana si registrano inoltre alcune parole di formazione più recente e di diffusione limitata impiegate per nominare l’italiano in maniera beffarda, o esplicitamente deriderlo e calunniarlo. Queste testimonianze linguistiche sono indizio del difficile rapporto che ha segnato nella storia recente le interazioni politico-sociali tra gli svizzero-italiani e gli italiani natione. A differenza di quanto accadeva nei secoli precedenti, questi ultimi sono sempre più diffusamente percepiti come stranieri, a conferma della progressiva chiusura della Svizzera italiana nei confronti dell’Italia, in favore non tanto dell’assimilazione allo spirito confederato quanto dello sviluppo di illusioni autarchiche, di una presunta identità locale.

Nel 1961, in concomitanza e come conseguenza della crisi diplomatica provocata dalla visita nella Confederazione del ministro del lavoro italiano Fiorentino SulloSulloFiorentino, si forma e diffonde nel Ticino il nomignolo sullo con il significato di ‘italiano’ e in particolar modo di ‘italiano meridionale’; probabilmente in ragione dell’origine del ministro, nativo della Campania, e degli immigrati italiani del tempo, per la maggior parte provenienti dal meridione. A questo si aggiunge poi l’appellativo con la suffissazione diminutiva sullini, rivolto in particolare ai ‘figli di emigrati italiani’ (LSI, 5: 366). L’evidente connotazione negativa del termine si manifesta in maniera esplicita nel suo significato generico di ‘persona disordinata e sporca’, plasmato sulla base di pregiudizi e stereotipi costruiti attorno alla figura dell’immigrato, non dissimili da quelli osservati finora. Entrambe le espressioni, che sottintendono un radicato sentimento xenofobo e anti-italiano, sono la manifestazione lessicale delle polemiche generate dalle critiche mosse dal ministro italiano del lavoro sulla politica migratoria e sul sistema sociale svizzero nell’àmbito della revisione dell’accordo sull’emigrazione del 1948.42

Il passaggio dal nome proprio al nome comune, analogo al caso di SulloSulloFiorentino, non è infrequente nelle varietà dialettali della Svizzera italiana.43 A tale proposito, vale la pena citare un esempio che documenta da un lato questa dinamica e dall’altro la piena e positiva adesione della comunità ticinese ai moti risorgimentali italiani del 1848: confrontando questo e il precedente caso bene si capisce quanto e come si sia sviluppata nel corso di un secolo la relazione della Svizzera italiana, e in particolar modo del Ticino, con la vicina Lombardia. Un affine passaggio metaforico si verifica infatti anche con il nome del feldmaresciallo austriaco Josef RadetzkyRadetzkyJosef, governatore per lungo tempo del Lombardo-Veneto e figura forte dell’opposizione austriaca alle sollevazioni indipendentiste lombarde e italiane. La percezione negativa del feldmaresciallo da parte degli svizzero-italiani, schierati con gli indipendentisti milanesi, si rivela sul piano lessicale nella gamma di significati metaforici assunti dalla voce radéschi, che giunge a indicare l’individuo ‘prepotente, arrogante, aggressivo, sgarbato’, il ‘discolo, monello’, e sulla base di supposte caratteristiche fisiche l’‘uomo piccolo, magro, striminzito’ (LSI, 4: 226, s.v.). Un sentimento di sprezzo conforme si attesta inoltre nei canti e nel repertorio paremiologico della regione, che di riflesso canzonano e dileggiano la figura di RadetzkyRadetzkyJosef. Così, ad esempio, nei dintorni di Arogno è censito il motto Varda Radeschi, gh’è sciá la primavera, ta metarem sü léra, a batt al furmentón, pim pom.44

Nello stesso contesto storico-culturale un’analoga terminologia, seppure di diversa natura, si è sviluppata attorno al regionalismo lessicale ramina per ‘rete metallica’ (LSI, 4: 244), assunto come sinonimo figurato di ‘confine’ e in particolare di ‘confine politico tra Svizzera e Italia’.45 In questa accezione, ad esempio, il vocabolo è impiegato dallo scrittore valmaggese Plinio MartiniMartiniPlinio nel romanzo intitolato Il fondo del sacco, dove si legge la feroce invettiva del giudice Venanzio, che pronuncia le seguenti parole:

E poi: i maestri! Capissero almeno i maestri che la nostra storia non comincia con Guglielmo TellTellGuglielmo e che a noi il WinkelriedWinkelriedArnold de non ha fatto nessun piacere a farsi bucare come un colabrodo: se io potessi, cominciava a gridare, se potessi andare a Chiasso a strappare la ramina con le mie mani, e strappare tutte le ramine del mondo…46

In forma semplice o mediante composti imperativali, lo stesso termine è poi spregiativamente usato in lingua e nelle varietà dialettali per nominare gli abitanti d’in giù, altra locuzione riportata alla voce ‘italiano’ (1: 701) del RID. Con questo significato, e connessi alla prossimità o al superamento del confine, si attestano così i termini saltaramina, sciüsciaramina e maiaramina, ossia ‘saltatori, succhiatori e mangiatori della linea di confine’. Questi esempi sono poi da porre in rapporto con l’uso nella regione di altri composti imperativali dall’evidente valore spregiativo indicanti metaforicamente l’‘italiano’ e riconducibili, nel meccanismo di costruzione, ai blasoni popolari, spesso legati a presunte caratteristiche fisiche e morali di una comunità o etnia. Questi esprimono il disprezzo per lo straniero e reimpiegano delle comuni strategie offensive e oltraggiose per definire l’individuo proveniente dall’Italia, senza alcun legame con la situazione storica, politica o geografica. Così, sulla base della sua pretesa stupidità (non senza un obliquo riferimento alla povertà degli immigrati), nel luganese il termine sciüsciagera (letteralmente ‘succhia-ghiaia’) diventa sinonimo di ‘italiano’.47 Analogamente, facendo leva su una percezione negativa e insultante dell’omosessualità, allo stesso significato giunge anche la parola sciüsciamanübri, testualmente ‘succhia-manubrio’ (RID, 1: 701).