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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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3.2. Un caso esemplare: la posizione di Giorgio OrelliOrelliGiorgio

In questa prospettiva, e anzi oltre questa prospettiva, si pone Giorgio OrelliOrelliGiorgio, tra i maggiori poeti italiani del secondo Novecento. Lo documenta, ad esempio, un passo contenuto in una sua riflessione, pubblicata sul «Giornale del Popolo» il 17 novembre 1992, in merito alla votazione popolare relativa all’adesione della Svizzera allo spazio economico europeo. Nel suo contributo, significativamente intitolato L’universale dimora di ogni scrittore, OrelliOrelliGiorgio si colloca in quanto poeta in un contesto sovranazionale e sovraculturale. L’ideale dimora dello scrittore si situa dunque oltre i vincoli linguistici e la dimensione identitaria nazionale o regionale:

[…] il cosiddetto intellettuale è avvezzo a vivere in un territorio dove domina l’universale, non riesco proprio a concepire uno scrittore che non viva in mezzo all’umanità e non si ponga in rapporto ad essa. Ed è questo il suo modo di essere, di sentirsi europeo, a questo punto quindi il problema viene superato da un concetto molto più ampio.1

I limiti imposti dalla dimensione letteraria nazionale sono d’altronde percepiti anche nelle altre regioni linguistiche, compresa quella tedesca che è convenzionalmente ritenuta l’area con maggiore autonomia rispetto alla Germania. Ne offre testimonianza un editoriale della rivista «DU», nel quale è discussa, con l’autore e l’editore, la preparazione di una biografia di Max FrischFrischMax. In queste pagine, lo scrittore zurighese chiedeva esplicitamente, non senza un intento polemico, «Mach bitte keinen Schweizer aus mir».2 Chiedeva cioè di non ridurre a una lettura patriottica la sua esperienza e la sua opera, che si collocavano naturalmente nello spazio letterario germanofono o più ampiamente europeo. Una considerazione analoga, che giunge dalla critica, vale per un altro scrittore zurighese, nato un secolo prima di FrischFrischMax. Parlando di Gottfried KellerKellerGottfried, considerato tra le più importanti figure della letteratura tedesca del secondo Ottocento, il critico ungherese György LukácsLukácsGyörgy indicava come necessaria alla sua grandezza e originalità la condizione di tedesco fuori di Germania, lontano cioè geograficamente e politicamente dalla nazione tedesca.3 D’altra parte, lo stesso critico svincolava lo zurighese da una precisa e limitante dimensione linguistica e culturale, affermando che «KellerKellerOskar gehört, als einer der grössten Epiker des 19. Jahrhunderts, der Weltliteratur an».4

Riportando la questione alla Svizzera italiana, Giorgio OrelliOrelliGiorgio bene si presta come esempio sul quale riflettere in questa prospettiva. Seguendo la parabola letteraria che lo ha portato ad imporsi come uno dei maggiori poeti in lingua italiana della sua generazione, è infatti possibile ricostruire le tappe di una sua ideale formazione “identitaria”.

Nella forma mentis dello scrittore di “periferia”, a maggior ragione se la marginalità non è solo geografica ma anche politica, la prima ambizione consiste nella conquista del “centro”; si pensi, ad esempio, all’episodio editoriale del Fondo del sacco di Plinio MartiniMartiniPlinio.5 Nel caso di uno scrittore svizzero di lingua italiana è facilmente intuibile che questo “centro” coincida astrattamente con la patria culturale: poco conta, per il vero, se il luogo sia Milano, Torino o Varese. OrelliOrelliGiorgio, che si impose giovanissimo al Premio di Lugano, ottenendo così legittimità di poeta e un modesto prestigio nello spazio culturale ticinese, soddisfò parzialmente questo proposito grazie a ContiniContiniGianfranco. Infatti, nel 1944 il filologo pubblicò sulla rivista ginevrina «Lettres» una Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine nella quale era compreso OrelliOrelliGiorgio, definito «le meilleur poète suisse de langue italienne».6 L’anno successivo, ContiniContiniGianfranco curò per la rivista «Formes et couleurs» un profilo della poesia italiana contemporanea, nel quale incluse la poesia orelliana Sera a Bedretto, edita nella prestigiosa traduzione francese dell’abate Fernand Carrier.7 In una lettera al maestro, spedita da Bellinzona nel novembre del 1945, OrelliOrelliGiorgio esprime la propria riconoscenza per l’inclusione nell’autorevole rassegna, che lo consacrava implicitamente come poeta italiano. Nella missiva, che contiene anche un accenno polemico nei confronti dei sostenitori di una letteratura svizzera, si legge: «Qui devo dirti la mia gratitudine, la mia intima soddisfazione per avermi tu iscritto fra i poeti d’Italia. Già qualcuno si domanda: perché non fra gli svizzeri?».8

In questo senso, nel decennio successivo, un’altra tappa importante della sua esperienza poetica è rappresentata dall’antologia Linea lombarda di AnceschiAnceschiLuciano, che presentava OrelliOrelliGiorgio al fianco di Vittorio SereniSereniVittorio, Roberto ReboraReboraRoberto, Luciano ErbaErbaLuciano, Renzo ModestiModestiRenzo e Nelo RisiRisiNelo.9 Benché la critica espresse da sùbito riserve e perplessità in merito al criterio della selezione, l’antologia patrocinata da un importante critico fu uno snodo fondamentale per l’inserimento dell’esperienza poetica di OrelliOrelliGiorgio nella tradizione italiana. L’anno successivo seguirono le milanesi Poesie, stampate presso le edizioni della Meridiana di Eugenio Luraghi; e, a coronamento di questo percorso, la pubblicazione nel 1962 dell’autoantologia L’ora del tempo nella prestigiosa collana «Lo specchio» di Mondadori, dove uscirono tutte le successive raccolte, fatta salva l’ultima licenziata dall’autore, edita da Garzanti nel 2001.

Tracciato questo parziale percorso poetico-editoriale, possiamo avanzare alcune considerazioni in prospettiva identitaria sui temi e sulla lingua impiegati nelle poesie di OrelliOrelliGiorgio. La lingua letteraria del poeta sino a buona parte della raccolta L’ora del tempo si presenta scarsamente connotata in direzione regionale. Lo stesso ContiniContiniGianfranco, in un’intervista del 1977, parlando delle raccolte in versi e in prosa precedenti a Sinopie, affermava che «non c’è niente di quello che voi chiamate, mi pare, “italiano federale”», e aggiunge: «c’è un momento in cui gli scappa un “avantutto”, nelle traduzioni da GoetheGoetheJohann Wolfgang von: ma nella seconda edizione c’è “anzitutto” a obliterare questo primitivo ticinesismo. Forse il solo ticinesismo che sia rimasto è nei racconti ed è “supponente”»; benché supponente non sia propriamente un ticinesismo, ma andrebbe tutt’al più ricondotto a un uso regionale, ora ampiamente accolto nell’italiano standard.10

Nelle opere giovanili l’impiego di regionalismi, come anche del dialetto o dei dialettalismi, risulta infatti limitato. Il progressivo intensificarsi di macchie di colore regionale, ottenuto mediante la crescente riappropriazione dei tratti linguistici locali che trasferiscono nel linguaggio letterario un lessico mimetico, tipico del parlato, coincide con l’affermazione dell’autore nel milieu letterario italiano.11 Si manifesta cioè quando viene meno l’urgenza da parte di OrelliOrelliGiorgio di rivendicare la propria italianità, anche a scapito dell’identità svizzero-italiana, celata in una lingua poetica priva di tratti idiomatici. Certo, questa congiuntura va considerata con prudenza: negli anni Sessanta, infatti, la poesia italiana si rinnova sul piano stilistico avvicinandosi alla prosa, con la conseguente distensione dei vincoli metrici e l’aumento dell’inclusività lessicale. Anche collocata in questo contesto storico, tuttavia, la graduale riconquista della propria individualità sul piano linguistico sembra indicativa di un processo di legittimazione, nel quale lo scrittore svizzero-italiano definisce dapprima la sua italianità sul modello del centro culturale per poi rivalutare, forte del consenso ottenuto, le proprie peculiarità regionali. In definitiva, sfruttando nell’economia del nostro discorso le celebri etichette linguistico-identitarie coniate per l’autore da ContiniContiniGianfranco e AnceschiAnceschiLuciano, OrelliOrelliGiorgio passa dalla fase giovanile, nella quale il suo stile era quello di «un toscano del Ticino», alla maturità, nella quale accoglie i modi idiomatici caratteristici del «lombardo della Svizzera», come fu definito con largo anticipo nel 1952.12 E proprio la denominazione di lombardo della Svizzera è accolta dallo scrittore per definire gli svizzeri di lingua italiana. Ad esempio, il racconto La dispersione, pubblicato su «Cooperazione» il 22 aprile 1967, si conclude con le seguenti parole:

Così nessuno si rinfrescò, e fu ripresa in fretta quella fatica ginnica: non per molto, in verità; sia perché era scritto che non si doveva continuare oltre una certa ora, sia perché noi lombardi della Svizzera scaricammo su quel caporale un camion d’insulti bilingui, che pareva quasi un esercizio di traduzione: bambo löli, cretino dumm, kaibazück eccetera und so weiter.13

D’altro canto, sul versante tematico OrelliOrelliGiorgio è da subito, e lo sarà lungo tutta la sua esperienza letteraria, strettamente ancorato al proprio territorio. Nel mondo rurale e alpestre della Leventina il poeta trova una realtà antica, vivace e feconda, che gli permette di tornare continuamente sui propri luoghi, marginali anche nella piccola e periferica Svizzera italiana, senza risultare perciò meno interessante nel quadro dell’intera italofonia. Le sue descrizioni del paesaggio alpino così come le sue invettive di paese, anche quando connesse a precisi fatti di cronaca, assumono una portata universale: OrelliOrelliGiorgio conserva così, e anzi mette a frutto, la sua identità regionale senza risultare in alcun caso provinciale o localistico.

 

Per quanto concerne i riferimenti letterari sui quali si è formato il gusto e lo stile del poeta, oltre al lungo apprendistato sui classici latini e italiani (inter alios: OrazioOrazioQuinto Orazio Flacco, LucrezioLucrezioTito Lucrezio Caro, CatulloCatulloGaio Valerio, DanteAlighieriDante, PetrarcaPetrarcaFrancesco, AriostoAriostoLudovico, TassoTassoTorquato, LeopardiLeopardiGiacomo, ManzoniManzoniAlessandro), OrelliOrelliGiorgio si allinea senza sorprese agli scrittori italiani del suo tempo. Grazie a ContiniContiniGianfranco e all’ambiente europeo dell’Università di Friburgo negli anni di guerra, il poeta entra in contatto con le poesie di GattoGattoAlfonso, SinisgalliSinisgalliLeonardo, SabaSabaUmberto, PennaPennaSandro e MontaleMontaleEugenio, in particolare quello delle Occasioni, che fu la base sulla quale si innestarono gli sviluppi più interessanti della sua e più in generale della poesia italiana nel secondo dopoguerra. Se questa situazione, come anticipato, non è insolita o sorprendente nel quadro della storia letteraria italiana, nel contesto culturale retrivo della Svizzera italofona si tratta invece di un fondamentale progresso. Lo stesso OrelliOrelliGiorgio, in un contributo edito postumo dedicato al romanzo L’anno della valanga del cugino GiovanniOrelliGiovanni, riconosce la spaccatura che divise la sua generazione dalle precedenti: «Naturalmente, come già ho fatto intendere, non si deve pensare a una precisa volontà di reazione ai modelli di casa: solo la generazione dei BianconiBianconiPiero, ZoppiZoppiGiuseppe, CalgariCalgariGuido ha fatto di ChiesaChiesaFrancesco un maestro; noi fin dall’età acerba ci nutrimmo d’altro».14

Nell’opera poetica e critica orelliana non va tuttavia sottovalutata l’influenza esercitata dalle tradizioni letterarie tedesca e francese: sono infatti frequenti i riferimenti a BennBennGottfried, HölderlinHölderlinFriedrich e GoetheGoetheJohann Wolfgang von da un lato, a ValéryValéryPaul e MallarméMallarméStéphane dall’altro; questi ultimi fondamentali, accanto ai formalisti russi, anche per la maturazione del suo originale metodo critico. E forse proprio in questo, nella padronanza della lingua francese e tedesca, che si traduce nei frequenti e inventivi innesti plurilingue nei suoi componimenti, va riconosciuta la manifestazione concreta del carattere svizzero di OrelliOrelliGiorgio. Inteso come apertura al pluriculturalismo, strutturale nella Confederazione, che pone la Svizzera italiana su un asse di comunicazione privilegiato con due delle maggiori culture europee.15

3.3. La letteratura “nella” Svizzera italiana

In conclusione, il concetto di letteratura della Svizzera italiana, come osservato nelle pagine precedenti, risulta complesso e inaccettabile sotto più punti di vista. Non pone invece alcun problema, con una minima variazione grammaticale, che implica tuttavia un profondo ripensamento in termini identitari della definizione stessa, il concetto di una letteratura nella Svizzera italiana, ovvero prodotta nel Ticino e nel Grigionitaliano.1 E infatti, la più importante e completa antologia di poeti della regione, pubblicata da BonalumiBonalumiGiovanni, MartinoniMartinoniRenato e MengaldoMengaldoPier Vincenzo nel 1997, si intitola proprio Cento anni di poesia nella Svizzera italiana.2

Le riflessioni sull’identità letteraria della regione, muovendo da una caratteristica sostanzialmente linguistica e culturale, hanno inoltre portato a rinegoziare il significato originario della locuzione etnonimica “Svizzera italiana”. Nella Storia delle quattro letterature della Svizzera CalgariCalgariGuido propone per la prima volta la concezione, oggi largamente accolta nella coscienza culturale e politico-sociale della Confederazione, di una Svizzera italofona estesa oltre i confini cantonali del Ticino:

Nel caso della Svizzera italiana, comprendente in teoria centosettantamila Ticinesi, diecimila Grigioni di lingua italiana e trentamila Ticinesi e Grigioni domiciliati nella Svizzera “interna” […].3

Collocata in una dimensione aterritoriale, che si fonda su lingua e cultura, la definizione di Svizzera italiana si è poi naturalmente estesa all’intera italofonia elvetica. Sotto questa etichetta andranno allora inclusi anche gli scrittori di lingua italiana attivi nelle altre regioni linguistiche della Confederazione: per fare un nome, si pensi al poeta Federico Hindermann, nativo di Biella ma cresciuto e vissuto a Zurigo.4

Alla luce di quanto osservato, la situazione identitaria degli scrittori svizzeri di lingua italiana, seppur classificabile secondo dei criteri univoci, risulta plurima e stratificata. Questa complessità va tuttavia intesa positivamente, come ricchezza. Da qualsiasi prospettiva, il rapporto con l’alterità linguistica e culturale all’interno della Confederazione dovrebbe essere inclusivo, cioè portare al confronto virtuoso e al dialogo, e non costituire una ragione di protezionismo e di chiusura. Sul piano della letteratura, un’interpretazione intelligente dell’assetto culturale della Svizzera porta al consolidamento delle singolarità e all’arricchimento delle rispettive tradizioni: lo dimostrano, ad esempio, le esperienze di importanti scrittori come Giorgio OrelliOrelliGiorgio e Fabio PusterlaPusterlaFabio per il Ticino o Remo FasaniFasaniRemo per il Grigionitaliano, solidamente inseriti nella tradizione poetica italiana e al contempo coinvolti nelle iniziative letterarie elvetiche. In questo senso, a proposito degli impulsi plurimi che plasmano l’identità culturale dello scrittore svizzero di lingua italiana, risulta esemplare la poesia Il sogno (recitativo) dell’ultimo autore citato, che con un tono testamentario compendia le varie influenze che hanno prodotto «l’uomo Remo FasaniFasaniRemo». Concludo allora questa breve riflessione trascrivendo l’autoritratto, che rappresenta in modo efficace l’eterogeneo insieme di aspetti che formano lo spirito dello scrittore. Un ensemble non riducibile alla definizione di poeta della Svizzera italiana, vv. 1-18:

L’uomo Remo FasaniFasaniRemo

di professione prima contadino

dopo insegnante

di fede contestatore solitario,

di patria svizzero,

di parlata e indole lombardo

(alpestre, alpestre molto),

di cultura italiano (fiorentino)

un po’ tedesco (HölderlinHölderlinFriedrich)

e cinese (Li Po),

che tra Coira, Zurigo, Neuchâtel

ha vissuto esattamente finora

in esilio metà della sua vita,

che considera Budda l’Uomo,

Asoka il Sovrano

e dunque osa dichiararsi

cittadino del Mondo,

né disdegna l’esilio – .5

Capitolo quarto. Quasi una conclusione, tra lessico e identità

1. Blasoni e calunnie etniche: «Tra ur svizzer e ur milanés»

Solo che stavolta sono muti, proprio come pesci, né più né meno che il biondocalvo incontrato in ascensore, stavolta impassibile a smentire la nota usuale squisitezza – un bentornato bisbigliato in francese, leggeri inchini – sicché: Tugnìn, tùder, zurùch, pistola sarei per dirgli, come per lunga tradizione un ambrosiano se si imbatte in un alemanno col quale, a causa delle reciproche ignoranze, non c’è verso di comunicare.

V. SereniSereniVittorio, Il sabato tedesco, 1980

1.1. Lessico e identità nella Svizzera italiana

Con la formazione degli Stati nazionali, nel corso del secolo XIX la percezione identitaria della comunità e dell’individuo, e di riflesso dello straniero, si modifica sensibilmente. Questi mutamenti dell’assetto sociale favorirono in Svizzera, come nelle altre nazioni europee, il dibattito sull’inforestierimento, che prese avvio alla fine del secolo XIX e si consolidò nel XX.1 La temperie culturale segnata dal dibattito novecentesco sulla temuta Überfremdung, concentrata in particolare in due periodi, tra il 1930-’50 e il 1960-’70, è bene sintetizzata in un epigramma di FrischFrischMax, contenuto nel saggio Öffentlichkeit als Partner del 1967: «Man hat Arbeitskräfte gerufen, und es kommen Menschen» (‘Cercavamo braccia, sono arrivati uomini’).2

Nel contesto elvetico, in ragione della struttura federalista e pluriculturale che lo organizza, delle dinamiche analoghe si sviluppano anche in “piccolo”, sul versante regionale. Nel Ticino, e più largamente nella Svizzera italiana, la questione identitaria assume tuttavia dei contorni meno netti e si definisce sostanzialmente per negazione: da un lato del vicino italiano, con il quale sono condivisi la lingua e i modelli culturali; dall’altro della patria nazionale, accettata politicamente ma sempre guardata come altra, diversa. Questa dinamica ha generato delle manifestazioni di ostilità e differenziazione che negli anni si sono sedimentate in un lessico eterogeneo per costituzione e origine. Nell’italiano regionale e nelle varietà dialettali sono conservati vocaboli, fraseologie e motti popolari che rappresentano il diverso secondo uno stereotipo negativo, creato sulla base di vere o presunte caratteristiche naturali, spesso vaghe e pretestuose, in opposizione a una visione positiva di sé.

Il lessico impiegato per nominare lo straniero, che almeno in parte ancora condiziona e plasma la visione dell’altro, è entrato stabilmente nell’uso corrente della lingua per via di slittamenti metaforici consueti e oggi d’immediata comprensibilità. Quando invece questi significati si sono persi ci soccorre la documentazione fornita dalla ricca tradizione della lessicografia otto- e novecentesca di area lombarda e segnatamente svizzero-italiana, dalla quale prende le mosse la presente disamina. Nelle pagine seguenti ci si propone di collocare questi materiali in una dimensione storica, ovvero di situarli nel sistema di tensioni alla base del processo di formazione e negoziazione dell’identità ticinese e svizzero-italiana. Uno sviluppo testimoniato, nelle sue manifestazioni più discrete, ma anche più sincere, proprio sul piano linguistico.

1.2. La percezione del vicino lombardo o italiano

Per la denominazione svizzero italiano (s.v. svizzero) i vocabolari dialettali e gli affini repertori lessicologici svizzeri di lingua italiana non riportano lessemi connotati, ossia con una significato marcato o eloquente in senso identitario. D’altro canto, come anticipato, il materiale lessicografico permette di misurare il progressivo formarsi di un’identità ticinese o svizzero italiana in negativo osservando lo sviluppo di una terminologia dall’evidente valore spregiativo, relativa da un lato all’italiano, in particolar modo al lombardo e piemontese, e dall’altro allo svizzero tedesco, in cui si manifesta inequivocabilmente il senso di distacco e di alterità da due culture percepite entrambe, pur in modi peculiari, come diverse e distanti. Un’identità che si forma dunque reattivamente tra ur svizzer e ur milanés, espressione che nella varietà di Caslano vale, con ironico understatement, ‘in mezzo alle natiche’.1

Nei dizionari e repertori della Svizzera italofona la ricerca onomasiologica attorno alla voce “italiano” rivela, oltre a una forma prevedibile e non connotata quale italián, a cui andrà certo aggiunta la voce aferetica ’taliàn, attestata nel dialetto milanese e comune nell’Italia settentrionale, un numero cospicuo di termini connotati negativamente.2 Anche italián e ’taliàn, benché apparentemente neutri, possono sottendere una serie di attributi aleatori e opinabili, in genere negativi, ed assumere così un «tono “emozionale”»;3 da cui ad esempio la fraseologia fè ’l taglián documentata nella bassa Leventina con il significato di ‘fare lo gnorri, il finto tonto’ (LSI, 3: 74). Più trasparente, in ragione del passaggio da geonimico a etnico, che rende di per sé sprezzante l’espressione, è invece il valore delle denominazioni geografiche diffuse nell’Italia settentrionale per indicare gli individui provenienti dal meridione, come bassa italia (o bassitalia), napoli e calabria.

Il termine napoli, ad esempio, implica una lunga serie di presunte caratteristiche naturali tradizionalmente legate alla provenienza partenopea.4 Secondo questi stereotipi, già nel Cinquecento la voce giunge a significare per estensione ‘sudicio’ o ‘mal vestito’. Lo documenta la Lettera a la signora Delitia del commediografo e poeta veneziano Andrea CalmoCalmoAndrea, che scrive: «Vedé anche a che muodo vago vestio, con i mie drapi scovolai, caminando adasio, che mai no m’infango e le mie forze le porto honeste, azzò che no sia tegnuo da napolitan».5 Secondo una ben diversa ma altrettanto negativa caratteristica attribuita al napoletano, la denominazione geografica è impiegata in forma aggettivale con il significato di ‘sussiegoso, cerimonioso, enfatico’ o di ‘furbesco, in modo abile, accorto’ (GDLI, 11: 174). Ne derivano l’avverbio napolitanamente e il sostantivo napoletaneria, entrambi di lunga tradizione. Il primo si legge, con il significato di ‘maliziosamente, scaltramente’, in una battuta di Mastro Andrea nella nona scena dell’atto terzo della Cortigiana (1534) di AretinoAretinoPietro: «Voi deste a gambe, e non bisognava; e per amor vostro il signor Parabolano, il quale vi ha rimandato a casa invisibilium, mi ha fatto fare una bravata napolitanamente».6 Sempre nel Cinquecento, il secondo è impiegato per definire l’atteggiamento ossequioso in una lettera del 15 dicembre 1540 del poeta fiorentino Luigi AlamanniAlamanniLuigi all’umanista Benedetto VarchiVarchiBenedetto, nella quale è scritto: «Non vi paiano queste napolitanerie, perché, essendo noi fiorentini tutti due, non vi bisognano tra noi questi sospetti».7 Di grande fortuna è anche l’impiego di napoli per ‘fannullone’, di cui si trova traccia ad esempio alla voce nàpoletân del Vocabolario milanese-italiano coi segni per la pronuncia (1897) di Francesco AngioliniAngioliniFrancesco, nella quale il termine è discusso in quanto stereotipo e in base a ciò è rivalutato: «Il nostro popolo chiama nàpoletân i fannulloni, gli accidiosi e fa male, perché mantiene nel linguaggio la tradizione di quei lazzaroni napoletani che il nuovo regime a poco a poco va distruggendo».8

 

Con un significato analogo, attorno alla metà dell’Ottocento, prima dunque delle cospicue migrazioni interne che hanno consolidato nella lingua l’uso di espressioni affini a quelle osservate, si attesta nella Svizzera italiana la voce calabria, per la quale l’identità geografica determina l’identità sociale, con metonimia di luogo per persona che marca negativamente l’espressione. Nel manoscritto del Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco è compreso il lemma calabria (batt) con la seguente definizione: «Non far nulla. Dicesi de’ bottegai, e la dicono anche Batt brochett». Il termine è suggerito al lessicografo milanese dall’informatore Giuseppe RossiRossiGiuseppe di Sessa. Lo testimonia il citato catalogo di Sopraggiunte al Vocabolario della Diocesi di Como, nel quale si legge: «Batt brochett, o calabria. Dicesi di Artigiano od Operajo costretto a rimanere inoperoso per mancanza di lavoro». Alla luce di tale definizione risulta chiara l’origine dell’espressione, connessa alla presunta inerzia dei lavoratori meridionali, in questo caso genericamente rappresentati dal calabrese.

La sovracategorizzazione degli etnici è consueta nelle varietà svizzero-italiane, ed è in prevalenza connessa alle attività lavorative praticate tradizionalmente nella regione da gruppi di persone provenienti da determinate regioni dell’Italia. Così, in ragione dei numerosi taglialegna trentini che hanno lavorato nella Svizzera italiana, trentín giunge a designare genericamente il ‘boscaiolo’, straniero o meno, e con ulteriore scivolamento metonimico un peculiare tipo di sega.9 Lo stesso principio, cioè l’uso dell’etnico in luogo della professione praticata abitualmente da una comunità, genera nel Ticino una cospicua terminologia affine. Ad esempio, nella Leventina il vocabolo valtonlín o voltolín, oltre al significato proprio di ‘valtellinese’, passa a indicare il ‘ciabattino’; nel luganese genovés significa anche ‘zappatore’; e nella varietà della Valle di Blenio piasentìn è impiegato per ‘venditore girovago di stoffe’.10 Se l’uso e di conseguenza il significato di questi blasoni etnici si sono generalmente persi nel territorio della Svizzera italiana, resiste invece, perlomeno nelle valli alpine e in particolare nelle varietà della Leventina, l’impiego figurato dell’etnico bèrgum per ‘servo agricolo’. Questo termine è inoltre accompagnato da espressioni ad esso connesse che generalizzano la figura del bracciante stagionale proveniente dal bergamasco secondo prevedibili tratti stereotipati, così fa ‘l bergum giunge a significare ‘fare il prepotente’.11 La vitalità di questo blasone e il suo passaggio nell’italiano regionale della Leventina sono documentati, ad esempio, da un brano del romanzo L’anno della valanga di Giovanni OrelliOrelliGiovanni, nel quale si legge: «Tu vai in pensione senza un graffio, e ricco e grasso più di quei scemi che van fuori in California a fare il bergamasco per gli altri: a mungere vacche tutto il santo giorno, altro che America delle balle»12; analogamente al tipo bergamino, diffuso con un significato simile nella pianura lombarda.

Tuttavia non sempre la categorizzazione generica degli etnici porta con sé tratti negativi o manifesta una presunta superiorità di sé. Ad esempio, nel Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco al lemma toscàna (fa) si legge ‘godere il pappato, fare buon pasto, fare mirabilia, far buoni affari’. Oltre a quello gastronomico e finanziario, il prestigio storico della Toscana nell’ambito della cultura e delle arti ha fatto sì che gli architetti, intagliatori, scultori o artigiani di questo settore emigranti dal Ticino erano soprannominati toscani dai propri conterranei, con un appellativo che pare del tutto privo di sfumature negative.13 La formazione di questi vocaboli, connotati negativamente o positivamente, si rifà a una tipologia diffusa sin del Medioevo. Ad esempio, dal secolo XIII gli usurai nell’Italia centrale erano anche detti caorsini per via della città francese di Cahors, dedita all’usura. Lo testimonia BoccaccioBoccaccioGiovanni nel suo commento alla Commedia dantesca, dove annota il verso «del segno suo e Soddoma e Caorsa» (Inf. XI 50) con le seguenti parole: «[…] per la qual cosa è tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo noi, che come l’uom dice d’alcuno, egli è Caorsino, così s’intende che egli sia usuraio».14 Lo stesso DanteAlighieriDante nel XXVII del Paradiso sfrutta questo stereotipo per inasprire la sua invettiva contro il pontefice francese Giovanni XXIIDuèse (Giovanni XXII)Jacques, nativo di questo luogo, vv. 58-60:

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi

s’apparecchian di bere: o buon principio,

a che vil fine convien che tu caschi!

Allargando la geografia di riferimento, agli esempi sopracitati si possono affiancare una serie di vocaboli affini: ad esempio beduin (ossia ‘abitatore della steppa [bādiya]’), che nella Svizzera italiana è documentato, seppur meno diffusamente dei precedenti, con il significato di ‘italiano’ (VSI, 2: 320, s.v.); probabilmente con la mediazione del Mezzogiorno d’Italia, identificato spregiativamente nell’Africa o in un meridione molto vago e generico. Questo termine s’inserisce d’altra parte nell’uso consueto, perlomeno nell’Italia centrale e settentrionale, di denominazioni etniche, con riferimento in particolar modo al continente africano (si pensi allo stesso africa), in accezione metaforica e negativa. Spigolando fra i molti esempi: baluba (plurale di muluba, denominazione di un popolo di lingua bantu stanziato nella Repubblica Democratica del Congo), mau mau (nome con il quale si riconoscevano i seguaci del movimento indipendentista che si è opposto alla dominazione coloniale inglese in Kenya nei primi anni cinquanta), zulù (nome di una popolazione sudafricana).15

Nella Svizzera italiana, e più largamente nell’Italia settentrionale, sono inoltre registrate espressioni che fanno ricorso a un tratto sociale caratterizzante, come la voce terón (LSI, 5: 491, s. v.), di diffusione e comprensione nazionale, e badin/badolìgn (con la variante caratterizzata da suffissazione espressiva) o badöla, impiegate nell’Italia settentrionale e segnatamente in area linguistica lombarda.16 Queste ultime voci derivano direttamente da badile (<BATILLUM, REW 992). La voce badin, in un primo momento, ha indicato i terrazzieri o braccianti stagionali impiegati nel settore agrario.17 Nella Svizzera italiana, poiché gli stagionali erano in prevalenza lombardi, il termine è diventato sinonimo di ‘operaio lombardo’ e, con un ulteriore scivolamento semantico, è giunto a indicare genericamente l’‘italiano’, perdendo qualsiasi legame con l’àmbito lavorativo. Tuttavia, in alcuni casi il termine acquistava un significato geografico anche più specifico, come a Palagnedra nelle Centovalli, dove badin «oltreché nel senso di terrazziere, è usato per designare gli abitanti del Lago Maggiore da Pallanza in giù» (VSI, 2: 29). Al contrario, in altre situazioni era sentita la necessità di aggiungere una specifica geografica per distinguere il badin d’ingió (ibidem), cioè lo stagionale proveniente da fuori, da un ipotetico badin autoctono. Il significato di tale distinzione assumeva però, allora più di oggi, forme diverse e una portata varia e mobile, anche all’interno del territorio cantonale. Infatti, a Sonvico, a nord di Lugano, la voce badin indicava «il bracciante agricolo del basso Luganese, ingaggiato a giornata da chi ha bisogno della sua opera: i è su i badín da ngiú a segá, ‘son su [da noi] i contadini della parte bassa del distretto a falciare’» (ibidem). L’impiego della voce badin con un particolare valore etnico o geografico è testimoniata anche al sud della frontiera svizzera. Nel milanese, ad esempio, la stessa terminologia designava, con inversione geografica, i braccianti dell’alto milanese – della Brianza e soprattutto del bergamasco – che si prestavano a lavori stagionali nelle pianure del basso milanese. Lo documenta, fra gli altri, CherubiniCherubiniFrancesco nel Vocabolario milanese-italiano: «Nel Basso Milanese chiamano per tal nome que’ contadini dell’Alto Milanese che in alcune stagioni scendono ad ajutare nei lavori agrarj della pianura».18 E sul modello della voce appena citata, lo conferma AngioliniAngioliniFrancesco nel suo repertorio milanese: «Operante della bassa del milanese. Il contadino che in alcune stagioni dell’anno scende dall’alto milanese ad aiutarci nei lavori agrari della pianura».19 Sempre in area lombarda e con lo stesso significato, cioè in riferimento agli agricoltori provenienti dalle valli che scendono in pianura per lavorare al fianco dei contadini nelle stagioni più impegnative, il termine è presente anche nel dialetto parmigiano: «Giornante. Lavoratore di campi che per lo più scende dagli appennini al piano durante la sfogliatura de’ gelsi e la mietitura ed offre a prezzo l’opera sua a’ contadini del piano».20