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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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Un’antologia è anche opera di coraggio, specialmente quando incida su materia viva. Non si aspetti di ricevere solo plausi. Le si dirà, in specie, che ha voluto dare un’idea un po’ ufficiale delle nostre lettere. Per mio conto, credo che molte inclusioni siano state dettate da ragioni editoriali, e molte esclusioni da ragioni contingenti, dal desiderio di non scendere sotto una certa data di nascita ecc. Ce ne sono però due che non so, le confesso, spiegarmi: l’omissione totale di Vincenzo CardarelliCardarelliVincenzo e di Eugenio MontaleMontaleEugenio, due nomi da far onore a qualsiasi letteratura, coniugata con la suspicione gettata su Giuseppe UngarettiUngarettiGiuseppe (limitato nella presentazione concreta all’Allegria) mi par tale da mutilare pressoché totalmente la nostra letteratura d’oggi nella lirica meno contestabile.35

Riprendendo il discorso lasciato poco sopra, lateralmente al Circolo AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista curò una vivace rubrica sul supplemento quindicinale La pagina letteraria del quotidiano «Corriere del Ticino», dove firmò articoli e recensioni, in parte con lo pseudonimo montaliano Arsenio.36 In tempo di guerra, la sezione culturale del giornale, come peraltro il palinsesto della Radio Monte Ceneri, offrì a critici e agli intellettuali italiani fuoriusciti uno spazio al riparo dall’occhiuta censura fascista dove discutere e diffondere senza coercizione le proprie opinioni.37 Alla «diffusione apostolica» della letteratura italiana contemporanea promossa nel Ticino collaborò nei panni di editore anche l’avvocato luganese Pino BernasconiBernasconiPino, curatore della fortunata Collana di Lugano. L’operoso clima letterario del tempo è bene rappresentato proprio da due preziose iniziative editoriali, inconcepibili fuori dalla contingenza bellica: nel 1943 BernasconiBernasconiPino pubblicò la plaquette montaliana Finisterre, giunta nel Ticino con la mediazione di ContiniContiniGianfranco; e nell’agosto del 1944 comparve la raccolta Ultime cose (1935-1938) di Umberto SabaSabaUmberto, portata a Lugano da AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista.38

ChiesaChiesaFrancesco non fu del tutto estraneo alle iniziative del Circolo. Il primo fascicolo della Collana di Lugano, dedicato alle opere e alla vita dello scultore Vincenzo VelaVelaVincenzo, è curato proprio dallo scrittore, con toni di patriottismo italofilo che proseguono idealmente la poderosa biografia dell’artista scritta a inizio secolo da Romeo ManzoniManzoniRomeo.39 ChiesaChiesaFrancesco fu inoltre coinvolto come giurato del Premio Lugano, istituito nel 1942 a corollario del ciclo di conferenze. La giuria, composta da ChiesaChiesaFrancesco, AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista, ContiniContiniGianfranco, Piero BianconiBianconiPiero, Renato RegliRegliRenato, Pino BernasconiBernasconiPino e Basilio BiucchiBiucchiBasilio, il 13 febbraio del 1943 premiò il romanzo Signore dei poveri morti dello scrittore e pittore Felice FilippiniFilippiniFelice. L’incapacità di ChiesaChiesaFrancesco di comprendere le esigenze di rinnovamento sentite dalle più giovani generazioni trova esemplare manifestazione proprio nelle vicende che seguirono la premiazione di FilippiniFilippiniFelice. Il suo romanzo, «poco ligio alle strettoie della grammatica e fortemente intinto di spiriti dialettali», fu sostenuto dalla commissione ma non convinse ChiesaChiesaFrancesco, che «avrebbe preferito dare il suo voto a meno sapida ma più castigata penna», ovvero quella Adolfo JenniJenniAdolfo, con la raccolta di prose intitolata Annate.40 Un’occhiata di scorcio dietro le quinte ci è data da BianconiBianconiPiero, che documenta la frattura interna alla giuria: ChiesaChiesaFrancesco «ammise che il premio andasse pure a codesto sbrigliato scrittore, a patto che si medicassero le più sanguinose offese alla buona regola: al che il ContiniContiniGianfranco ribatté che il premio gli fosse assegnato a patto che il testo rimanesse illeso…».41 L’assetto della commissione fu confermato per l’edizione successiva, ma all’inizio del 1944 ChiesaChiesaFrancesco decise di lasciare la giuria, che quell’anno premiò Né bianco né viola di Giorgio OrelliOrelliGiorgio. L’attribuzione del premio al giovane poeta e l’abbandono non del tutto pacifico di ChiesaChiesaFrancesco generarono sospetti e polemiche, consolidati dal rapporto che legava ContiniContiniGianfranco al premiato.42 In merito alla reazione di ChiesaChiesaFrancesco, AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista scrive in una lettera a BianconiBianconiPiero del 12 maggio 1944:

Avrà visto l’offensiva contro OrelliOrelliGiovanni e il premio in generale. Mi ha stupito la risposta – poco gentile verso la giuria – di ChiesaChiesaFrancesco. Ma che farci? Siamo in tempi calamitosi, e la tempesta conviene anche alle nostre piccole faccende letterarie.43

Dopo la guerra, il ruolo di ChiesaChiesaFrancesco nelle questioni culturali e politiche del Ticino si fece sempre più marginale. Dal 1960 pubblicò opere tutto sommato dimenticabili e dimenticate, prevalentemente presso editori locali, fatti salvi i non trascurabili Sonetti di San Silvestro editi a Milano da Scheiwiller nell’anno del suo centenario.

3. Letteratura “nella” Svizzera italiana o letteratura “della” Svizzera italiana?
3.1. La storia di un concetto

Discutere dell’identità letteraria significa discutere di un concetto elusivo, non sovrapponibile allo spazio geografico o politico. Per la Svizzera, e a maggior ragione per l’italofonia svizzera, risulta allora eccessivo parlare di una nazionalità del gusto letterario e artistico, sulla scorta di un’unità ideale concepita nel Cinquecento da VasariVasariGiorgio con la raccolta Le vite de’ più ecccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (1550) e largamente consolidata in Europa con la cultura del romanticismo.1 Partendo da questo presupposto, mi sembra tuttavia inevitabile, a corollario di quanto osservato finora, storicizzare il concetto di letteratura regionale e riflettere sul nodo critico-identitario che distingue la letteratura della Svizzera italiana dalla letteratura nella Svizzera italiana.

Per farlo, è necessario inquadrare rapidamente la tradizione delle lettere nella regione e ricostruire lo status quaestionis sull’argomento attraverso le prospettive di scrittori e studiosi. Come anticipato nei due capitoli precedenti, contrariamente al prestigio artistico guadagnato nei cantieri di tutta Europa dagli architetti, scultori e artigiani provenienti dalle Prealpi lombarde, il contributo offerto dalla regione alla storia della letteratura italofona è molto ridotto.2 Tolti alcuni nomi di minori attivi tra il secolo XVI e il XVIII (CiceriCiceriFrancesco, GenoraGenoraGiacomo, FossatiFossatiGiuseppe, RivaRivaGiampietro, SoaveSoaveFrancesco), si può affermare senza grossi rischi che la belletteristica nella Svizzera italiana inizi sostanzialmente alle soglie del Novecento con Francesco ChiesaChiesaFrancesco, dopo un secolo nel quale la lingua era materia esclusiva di studiosi e politici, o peggio di legulei e burocrati. Questo stato delle cose giustifica il rammarico di FransciniFransciniStefano, il quale nella prima metà dell’Ottocento si domandava «come, con tanti studianti, abbiamo contribuito e contribuiamo così scarsamente alla gloria letteraria d’Italia».3 Nei primi anni del secolo successivo, in una nota pubblicata sulla rubrica Varietà del BSSI, in risposta a un equivoco in merito alla provenienza dell’editore e annotatore secentesco delle poesie di Jacopone da TodiJacopone da Todi, tale Frate Francesco TresattiTresattiFrancesco di Lugnano in Teverina, anche SalvioniSalvioniCarlo constatava con dispiacere l’esiguo apporto della regione alla tradizione delle lettere italiane:

Per quanto anch’io mi debba dolere che il Canton Ticino, così poveramente rappresentato nella storia delle lettere nostre, non abbia titolo a gloriarsi nemmeno del buon frate Tresatti, non poteva però tacere una si facile verità e lasciare che si formasse e radicasse la leggenda di Tresatti luganese.4

Sull’impulso del contesto storico, forte del prestigio letterario acquisito in quegli anni da ChiesaChiesaFrancesco e del consolidarsi della linea di pensiero elvetista, si produce tra le guerre una rivalutazione apologetica della qualità e della continuità, o addirittura della coerenza, di una letteratura della Svizzera italiana, con il pretestuoso e goffo tentativo di accostare alla cospicua tradizione di artisti e architetti della regione una altrettanto ricca presenza di letterati.5 Il più vistoso risultato di tale proposito è la pubblicazione nel 1936 della poderosa antologia in due volumi intitolata Scrittori della Svizzera italiana, ideata dal Consigliere di Stato Giuseppe CattoriCattoriGiuseppe e curata fino alle morte, avvenuta nel 1932, da Angelo NessiNessiAngelo, al quale subentrò una commissione diretta da Brenno BertoniBertoniBrenno e composta da Giuseppe ZoppiZoppiGiuseppe, Arminio JannerJannerArminio, Francesco Dante VieliVieliFrancesco Dante, Emilio Bontà, Mario JäggliJäggliMario, Carlo SganziniSganziniSilvio e Luigi SimonaSimonaLuigi.6 L’opera, filoelvetica sin dal frontespizio, allestito secondo il gusto dell’editoria tedesca, propone una visione unitaria degli autori svizzero-italiani, cioè suggerisce – forse anche in opposizione all’Italia fascista – la presenza di tratti distintivi «dell’individualità etnica del Ticino», con le parole della Prefazione scritta dal Consigliere di Stato Enrico CelioCelioEnrico.7

BertoniBertoniBrenno, che aveva una visione pragmatica e realistica del quadro storico-politico del tempo, e di conseguenza accettava e incentivava il ruolo di mediatore culturale di una terra di frontiera come il Ticino, fu probabilmente troppo radicale per quanto concerneva la negoziazione e la definizione di un esprit suisse nelle arti. Di questa sua posizione offre testimonianza indiretta una lettera scritta da Angelo Oliviero OlivettiOlivettiAngelo Oliviero a PrezzoliniPrezzoliniGiuseppe il 4 agosto 1912.8 OlivettiOlivettiAngelo Oliviero riparò in Ticino in seguito alla repressione dei moti di Milano del 1898 e si stabilì a Lugano dove nel 1900 aprì uno studio legale e notarile con BertoniBertoniBrenno.9 A causa di alcuni articoli pubblicati sul Giornale degli italiani di Lugano, nei quali denunciava l’intedeschimento della Svizzera italiana, nel maggio del 1912 fu allontanato dalla Confederazione. La missiva, scritta nei mesi immediatamente successivi all’espulsione, è carica di risentimento nei confronti del Ticino e dei ticinesi, ritenuti ignoranti e servili al volere confederato. Per descrivere il filoelvetismo dell’ex-socio, OlivettiOlivettiAngelo Oliviero fa riferimento proprio al concetto di “letteratura svizzera”:

 

Il ticinese ha due odi: quello dell’Italia e quello della cultura. Ella non può immaginare come e quanto noi siamo odiati da codesta razza di tersiti, bastardume etnico innominabile. Ed ogni persona colta è il nemico del popolo! […] I pochissimi uomini colti del Canton Ticino sono quelli che aspirano alle cariche di Berna e Losanna e affatto prostituiti ai Tedeschi e odiatori dell’Italia per interesse, propugnatori anzi di una letteratura svizzera (!!) come il mio ex-socio Brenno BertoniBertoniBrenno.10

In effetti, BertoniBertoniBrenno fu convinto sostenitore di un uno spirito collettivo, di una coscienza nazionale che avrebbe espresso nelle lettere e nelle arti un peculiare carattere svizzero. Questa idea si ritrova anche nel già menzionato discorso che BertoniBertoniBrenno tenne il 9 novembre del 1919 a Berna, in occasione della prima esposizione di “arte ticinese” organizzata oltralpe:

E volete che cinque, sei, otto secoli di questo regime non abbiano dato nulla di comune all’anima degli svizzeri trilingui? O diremo che pur essendosi acquistata una coscienza comune e formato un comune ideale, questa comunione d’anime non possa avere nulla da esprimere nella sua letteratura e nella sua arte? Non è più giusto ammettere una parentela spirituale fra RousseauRousseauJean-Jacques e PestalozziPestalozziJohann-Heinrich, fra BodmerBodmerJohann Jakob e BridelBridelPhilippe-Sirice, fra SpittelerSpittelerCarl e Francesco ChiesaChiesaFrancesco?11

Per quanto concerne le lettere, l’esistenza di una letteratura della Svizzera italiana, ovvero di una tradizione con degli sviluppi autonomi rispetto alla letteratura italofona e ravvicinabile a una presunta letteratura svizzera, era sostenibile e fu sostenuta unicamente sulla base di argomentazioni retoriche, motivate da questioni ideologiche e sentimentali. Un esempio a tale riguardo è documentato nell’articolo La Svizzera come idea, edito il 1 agosto del 1928 sul quotidiano ticinese «Il Dovere». Nel testo, BertoniBertoniBrenno oppone la presunta sincerità, pacatezza e onestà della letteratura svizzera alla supposta magniloquenza e alle filosoferie delle letterature genericamente definite come straniere. Sulla base di questo assunto, ChiesaChiesaFrancesco è distanziato da D’AnnunzioD’AnnunzioGabriele in favore di una sua vicinanza, di modi e di poetica, agli scrittori svizzeri Gottfried KellerKellerGottfried e Conrad Ferdinand MeyerMeyerConrad Ferdinand, tra i maggiori dell’Ottocento tedesco:

Letteratura sincera, pacata, onesta; agli antipodi dell’esaltazione, del sofisma, della morbosità di cui sono piene le recenti letterature straniere, Francesco ChiesaChiesaFrancesco è in questo senso un novelliere perfettamente svizzero. La sua arte, a mille miglia di quella di D’AnnunzioD’AnnunzioGabriele, è vicinissima a quella di Goffredo KellerKellerGottfried e di Corrado F. MeyerMeyerConrad Ferdinand.12

L’affermazione del carattere «perfettamente svizzero» di ChiesaChiesaFrancesco è ovviamente pretestuosa, come infondata e inconsistente risulta più in generale la definizione di una letteratura svizzera. L’orientamento elvetista di BertoniBertoniBrenno, allineato con le idee promosse nella Svizzera romanda a inizio secolo, è sotto questo punto di vista oltranzistico. Gli stessi teorici dell’elvetismo ritenevano infatti non fosse plausibile parlare di una letteratura nazionale, alla quale preferivano il concetto di «confédération littéraire», una sorta di trasposizione del patto federalistico sul piano letterario.13 Ovvero, gli elvetisti romandi auspicavano un quadro letterario nazionale plurimo e diversificato, che mettesse in comunicazione le individualità linguistico-culturali della Svizzera senza mescolarle: secondo il principio, caro a ReynoldReynoldGonzague de, di unità nella diversità. A tale proposito, l’inconsistenza del concetto di letteratura svizzera è ribadito dal friburghese nella prima lettera spedita a ChiesaChiesaFrancesco, con la quale prende il via una corrispondenza episodica ma protratta nel tempo. L’ultimo paragrafo della missiva, scritta il 21 gennaio del 1912 da Ginevra, legge:

Je n’ai jamais cru (sauf à mes débuts), qu’une littèrature suisse fût possible, et je me suis battu contre M. Virgile RosselRosselVirgile qui défendait cette idée. La raison en est que nous n’avons pas de langue suisse. Mais enfin, les Tessinois sont des Suisses et ils ont comme tels, des devoirs à remplir, même des devoirs intellectuels, envers la Suisse. D’ailleurs, le premier de ces devoirs serait d’apprendre à connaître la Suisse, telle qu’elle est, telle qu’elle fut, avant le règne du Mufle et l’an de l’hègire 1848. Il y a, au moment où je vous écris, un mécontentement général et de l’inquiétude dans la jeunesse, sans distinction de partis, d’originès, des voyances. En outre, c’est le plus important, nous sentons tous que nous avons le même esprit, la même manière de pensée, les mêmes besoins, – esprit, manière de pensée, besoins diamètralement opposés à ceux de nos pères. Et ceci me semble significatif, grave, essentiel. Que fait et que pense la jeunesse tessinoise? et ne pourrait-on pas prendre contact avec elle? et comment?14

Nell’epoca dei crescenti nazionalismi, la necessità di definire una coesione nazionale a livello culturale era motivata, lo si deduce anche dalle parole di ReynoldReynoldGonzague de, da un’urgenza politico-identitaria indipendente da questioni propriamente tecniche, ovvero da un’effettiva comunanza di stili e temi letterari. La mancanza di un’identità tra lingua e nazione, da cui la conseguente impossibilità di concepire una letteratura svizzera, è supplita con la coesione morale: sovrapponendo il patto politico a quello culturale, potremmo parlare di un’ipotetica Willensliteratur. Tuttavia, sulla base del concetto che regola la prospettiva degli elvetisti romandi, cioè l’idea di una possibile «union dans la diversité», sarà più corretto parlare di letterature della Svizzera.15 E di letterature della Svizzera hanno infatti parlato gli studiosi che si sono occupati di storicizzare la questione delle lettere in prospettiva nazionale. A questo proposito è rilevante la visione dei professori titolari tra gli anni Quaranta e Cinquanta delle cattedre di letteratura tedesca, francese e italiana del Politecnico di Zurigo. Ad esempio Fritz ErnstErnstFritz, professore di letteratura tedesca, nel saggio Helvetia Mediatrix del 1945 presentava la Svizzera dei secoli XVIII e XIX in ottica comparatista, cioè come mediatrice culturale tra il mondo germanico e quello latino, riconoscendo implicitamente la pluralità delle letterature nazionali elvetiche; la sua lettura, nel contesto della difesa spirituale della Svizzera contro il fascismo e il nazismo, assumeva un significato anche politico, proponeva cioè la Confederazione come modello di scambio e pacifica convivenza tra culture, teso a scongiurare nuovi conflitti europei.16 Più puntuali sono le considerazioni di Charly ClercClercCharly, professore di letteratura francese, che nel saggio L’âme d’un pays del 1950 dedica un intero capitolo alla definizione dello “scrittore svizzero”. Prendendo le mosse da un’oscura citazione da Cité et pays suisses di ReynoldReynoldGonzague de («Voulez-vous que je vous apprenne ce que c’est, un écrivain, un artiste suisse? Un talent qui n’émigre pas»), ClercClercCharly conduce una riflessione sulle letterature svizzere in lingua tedesca e francese che lo porta a negare l’esistenza dell’“écrivain suisse”. Il capitolo si chiude con le seguenti parole:

S’ils [scil.: gli scrittori di nazionalità svizzera] ont du talent, nous saurons le reconnaître. Nous saurons les accueillir et les goûter, sans même désirer qu’ils arborent d’autre signe distinctif que leur talent. Et, à moins qu’ils n’y tiennet expressément, nous n’ajouterons pas, en parlant d’eux, l’adjectif suisse au mot écrivain.17

Infine, Guido CalgariCalgariGuido, professore di letteratura italiana, palesava dal titolo del saggio Storia delle quattro letterature della Svizzera la sua posizione in merito alla conformazione della tradizione letteraria nazionale, o meglio: delle tradizioni letterarie, distinguibili sulla base delle regioni linguistiche.18

Sul piano regionale, questa definizione sottintende tuttavia l’esistenza di una tradizione letteraria della Svizzera italiana distinta da quella italiana tout court. Se per le altre letterature nazionali la questione del rapporto con la patria culturale non sussiste, nel caso dell’area romancia, o si presenta con minore salienza, nel caso delle aree germanofona e francofona, per la Svizzera italiana il legame con la Lombardia o più generalmente con l’Italia è invece necessario, in quanto si situa alla base dell’identità etnica, storica e culturale del territorio. La negoziazione del concetto di letteratura della Svizzera italiana pone dunque problemi maggiori di quelli che si verificano per la Svizzera francese e tedesca. Pur confluendo nell’invaso della letteratura nazionale, queste ultime conservano infatti un carattere precipuo e maggiore autonomia nel quadro della francofonia e della tedescofonia, in ragione delle tradizioni politiche distinte, di un diverso orientamento confessionale e di una cospicua tradizione di scrittori ed editori, maturata attorno a città e centri culturali di prestigio internazionale.19 Fattori, questi, assenti nella regione italofona della Svizzera, che ha costruito la propria identità in secoli di costante dialogo con l’Italia e non può di conseguenza definirsi come Sonderfall linguistico o letterario rispetto alla Lombardia.

Su queste basi, sono convinti e concordi i pareri formulati da studiosi e scrittori in merito alla definizione di letteratura della Svizzera italiana. Così Arminio JannerJannerArminio, professore all’Università di Basilea, negava con decisione la possibilità di una letteratura svizzero-italiana nel suo articolo Italianità del Ticino e della letteratura ticinese del 1934:

Non si può certo parlare di una letteratura svizzero-italiana come si parla di una letteratura svizzero-tedesca o romanda […] Poiché vi sono sì scrittori ticinesi ma non vi è una letteratura della Svizzera italiana. I nostri scrittori (penso ai letterati) furono in ogni epoca storica esclusivamente influenzati da idee e forme letterarie che venivano dall’Italia, o che vi venivano attraverso l’Italia.20

Recuperando un’espressione impiegata nel 1918 da Francesco ChiesaChiesaFrancesco, già di memoria fransciniana, JannerJannerArminio definisce «prodotti dell’Italia svizzera» le opere letterarie degli scrittori ticinesi, suggerendo un ribaltamento della consueta gerarchia etnonimica.21 Senza risvolti polemici, lo studioso intende così sottolineare l’importanza in àmbito storico-letterario della matrice linguistica e culturale italiana, prevalente sull’appartenenza nazionale svizzera.

Altrettanto risoluta è la posizione di Padre Giovanni PozziPozziGiovanni, professore di filologia italiana all’Università di Friburgo, il quale nega l’esistenza di una letteratura regionale sovrapponendo l’attuale situazione politico-culturale del Ticino a quella della Lombardia austriaca dei secoli XVIII e XIX:

[…] tutte le volte che il Ticino produrrà della buona letteratura, essa non sarà né ticinese né svizzera italiana, ma italiana soltanto. E come no? Giorgio OrelliOrelliGiovanni è forse più svizzero di quanto non fosse austriaco il PariniPariniGiuseppe? od il PortaPortaCarlo? Che se alla grandezza del PortaPortaCarlo la qualifica di milanese non risulta stretta, quella di ticinese non risulterà mai abbastanza larga per nessuno, neanche nell’ipotesi di un futuro molto migliore del presente.22

 

La riflessione di PozziPozziGiovanni, che sembra negare qualsiasi carattere di elveticità ai letterati ticinesi, suggerisce implicitamente due ulteriori considerazioni: definendo italiana la «buona letteratura» prodotta nel Ticino il filologo lascia intendere, inversamente, che solo un’ipotetica letteratura di basso livello si potrebbe collocare in prospettiva regionalistica o provinciale; al contempo, per le ragioni di cui sopra, PozziPozziGiovanni considera la qualifica di ticinese non paragonabile ad altre etichette geografiche consuetamente impiegate nel linguaggio della storia letteraria.

A tale proposito, più interessanti mi sembrano le riflessioni di Fabio PusterlaPusterlaFabio, un poeta tra i più importanti del panorama contemporaneo della letteratura italiana tout court. Nei panni del docente universitario, in un recente articolo intitolato Riflessioni metodologiche sul rapporto tra letterature regionali e culture europee (che prolunga idealmente un intervento del 1987: Le ragioni di un disagio: dubbi metodologici sulla “letteratura della Svizzera italiana”), PusterlaPusterlaFabio ragiona sulla situazione culturale e letteraria della Svizzera italiana.23 Secondo il poeta è innegabile che la regione abbia delle caratteristiche peculiari, anche più complesse di quelle di altre periferie dell’italofonia, in quanto collocate in un quadro nazionale plurilingue e multiculturale, che vanno però contestualizzate e inserite nel bacino della letteratura italiana: «la Svizzera italiana è assai più piccola come dimensioni geografiche e demografiche, e dispone di una tradizione assai più limitata nel tempo rispetto alle altre regioni linguistiche elvetiche, per potersi illudere, anche solo per un istante, di definirsi in sé, come un isolotto italofono dotato di regole proprie», scrive l’autore.24 In prospettiva storica, PusterlaPusterlaFabio propone una soluzione semplice ed efficace per definire la cultura della Svizzera italiana, ovvero la colloca idealmente nel binomio centro-periferia che ha definito per secoli il policentrismo italiano: in questo schema la Svizzera italiana è la provincia che guarda al centro culturale ed economico di Milano.25

Da un’intuizione analoga muove una domanda posta da MontaleMontaleEugenio a ChiesaChiesaFrancesco nell’àmbito dell’intervista Poeta di frontiera del 1952. Come si deduce dal dialogo, l’intervistatore percepiva gli scrittori svizzeri di lingua italiana e francese come periferici rispetto alle letterature nazionali, assimilandoli a tutti gli scrittori lontani geograficamente dai centri di cultura. E in questo senso, proprio l’organizzazione pluricentrica dell’Italia avrebbe limitato, secondo MontaleMontaleEugenio, il sentimento di marginalità e di distacco degli svizzero-italiani rispetto alla loro patria culturale:

E tale è la sorte di quegli scrittori svizzeri, italiani e francesi soprattutto, che non può dirsi scrivano nella lingua del loro Paese perché la loro patria non ha una lingua sola e debbono cercare oltre frontiera quello spazio, quella eco, quello sfondo che la piccola Elvezia ad essi non potrebbe consentire. Anch’essi hanno sicuramente il loro pubblico; ma ne hanno uno che è meno tangibile di chi scrive in un centro e parla da un centro. Scrittori periferici compiono un processo diverso, e inverso, degli altri autori, e il loro discorso ha spesso i caratteri di un soliloquio o di un dialogo con chi non risponde. «Da ciò consegue» dico a Francesco ChiesaChiesaFrancesco, tanto per dargli esca «quella sorta di “complesso d’inferiorità” che si avverte in certi scrittori della Svizzera romanda… per fortuna, o per disgrazia, l’Italia non ha una Parigi e forse per questo voi scrittori ticinesi non vi sentite, nei riguardi degli altri scrittori italiani, dei parenti poveri». «È vero» mi dice ChiesaChiesaFrancesco «parenti poveri non ci sentiamo. Ma nemmeno ricchi».26

Attualizzando la situazione, in un presente che di fatto sgretola la tradizionale dicotomia, PusterlaPusterlaFabio constata che con la scomparsa della polarità centro-provincia «ogni cosa viene inghiottita da un’informe e fantasmatica periferia, che è forse il vero luogo della nostra contemporaneità».27 Questa riflessione è alla base della dialettica tra letteratura regionale e letteratura europea suggerita sin dal titolo del contributo, che problematizza il superamento del canone unitario di stampo desanctisiano, legato cioè al concetto di nazione, in favore di una concezione della letteratura al passo con i tempi, che dalle province muova immediatamente verso l’Europa. Semplificando, tolta la dimensione patriottica della letteratura, il problema dell’identità letteraria svizzero-italiana tende a scomparire o quantomeno a porsi con altri parametri e in maniera meno stringente.