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Il nome e la lingua

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Per quanto concerne il lessico ChiesaChiesaFrancesco rileva tre difetti principali nella lingua corrente del Ticino: l’utilizzo improprio delle parole, l’impiego inconsapevole di dialettalismi entrati nell’uso e la diffusione di un “gergo federale”, ossia di prestiti dal francese e dal tedesco.

Il primo caso, che deriva dalla mancata applicazione o dall’ignoranza dello scrivente, si riduce in sostanza all’utilizzo di vocaboli con un significato inesatto o distorto. Nei giornali ticinesi l’autore trova numerose occorrenze di questo tipo, tra cui, ad esempio, un annuncio di lavoro nel quale si cerca un «pasticcere essenzialmente pratico nella fabbricazione di panettoni». In questa circostanza, il vocabolo essenzialmente andrà probabilmente inteso come sinonimo si specialmente o esclusivamente. Un’ulteriore prova d’ingenuità lessicale è rilevata da ChiesaChiesaFrancesco in un annuncio di cessione d’attività, motivata probabilmente dalla malattia del proprietario che scrive però causa salute, intendendo cioè ‘per problemi di salute’.32

Questa prima tipologia, legata alla cultura linguistica e al lessico dell’estensore, non ha ragioni strettamente connesse con la situazione geografica o politico-culturale del Ticino. Le due successive risultano invece più interessanti a questo proposito. Il robusto fondo dialettale della Svizzera italiana ha infatti un influsso anche sul vocabolario della Dachsprache. In particolare, nel Galateo è proposto l’esempio di due termini che «hanno trovato proprio nel suolo ticinese la loro peccaminosa origine»: il primo è il verbo pertoccare con il significato di ‘spettare, competere a’; il secondo è il sostantivo o aggettivo vallerano, impiegato come sinonimo di ‘valligiano’.33 Entrambe le voci, biasimate dall’autore in quanto dialettalismo penetrato nell’italiano corrente, sono rivalutate da LuratiLuratiOttavio, che le riconduce al linguaggio amministrativo locale. Per quanto concerne la seconda, la voce vallerano (dal latino VALLATOR con suffisso -ANUS) è peculiare della regione e risale alla secolare tradizione notarile e cancelleresca delle comunità autoctone: la prima attestazione è bleniese, del 1280.34 Il verbo pertoccare, d’altro canto, non è una parola di origine ticinese, ma tale è considerata da ChiesaChiesaFrancesco poiché si è conservata esclusivamente nel linguaggio giuridico del Ticino. LuratiLuratiOttavio propone una trafila che dal catalano pertocar ‘tocar, pertanyer’ giunge nel cancelleresco milanese, e da qui si diffonde nei territori limitrofi.35 Questo termine è infatti diffusamente documentato nelle varietà settentrionali, ad esempio nel bergamasco, nel pavese, nel cremonese, nel piemontese e nel milanese.36 Lo stesso ChiesaChiesaFrancesco rileva l’uso del verbo pertoccare nel dialetto di Carlo PortaPortaCarlo, nel quale, secondo l’autore, sono conservati alcuni vocaboli ancora in uso nel Ticino.37 La parola è impiegata, ad esempio, nella seconda parte del celebre Lament del Marchionn di gamb avert, pubblicato a Milano nel 1816, in cui si legge:

E lì cont ona longa filastrocca

el me fa comparì el negher per bianch,

e el me proeuva nient manch

ch’el begliett l’ha scritt lu per fà ona scocca,

e che l’è bell capì

che domà el termen d’asen che gh’è sù,

l’è assee lu de par lu

a desmostrà che nol pertocca a mì.38

O ancora, il verbo si ritrova nella quinta ottava della versione milanese del canto primo dell’Inferno dantesco, allestita nei primi anni dell’Ottocento, vv. 33-40:

stremii anca mì l’istess, e fors pussee,

sbarloggiava quell bosch, quella vallada

dove alla Mort che ghe fa de campee

nessun prima de mì ghe l’ha friccada.

Lì me setti on fregui stracch de stà in pee,

e poeù rampeghi dopo ona fiadada

sul mont desert, in moeud che me pertocca

de tegnimm on genoeugg sempre in bocca.39

La posizione di ChiesaChiesaFrancesco, conservatrice e puristica (in senso ottocentesco), era promotrice di una lingua a base fiorentina e percepiva negativamente le oscillazioni regionali. A tale conformità linguistica, «filtrata attraverso il setaccio-galateo della scuola», andrebbe ricondotta secondo Dante IsellaIsellaDante anche la morfologia diffusamente impiegata nel Ticino per il toponimo Friburgo, «che i ticinesi, toscanizzando con Francesco ChiesaChiesaFrancesco, chiamano Friborgo».40 Questo orientamento, per quanto concerne la presenza di forestierismi, in particolare penetrati dalle lingue federali, era inoltre consolidato dalle ragioni ideologico-identitarie filoitaliche presentate sopra. Non sarà casuale, allora, che nel Galateo della lingua sia minimizzato questo aspetto del linguaggio regionale, nonostante la cospicua presenza di francesismi e tedeschismi nel lessico d’uso corrente della Svizzera italiana. A tale proposito, tra i pochi esempi inclusi in queste lezioni, ChiesaChiesaFrancesco menziona una legge che regola il commercio dei distillati nel Ticino. Questa norma stabilisce che «Non si possono spacciare spiritosi e liquori senza speciale autorizzazione», cioè ‘distillati’ con interferenza di spiritueux francese (accolto anche nel tedesco Spirituosen) derivante dal latino SPIRITUS (REW 8158).41

I consigli pratici forniti da ChiesaChiesaFrancesco nelle conversazioni radiofoniche raccolte nel Galateo non si limitano a segnalare i principali errori e a limare i difetti della lingua parlata o scritta nel Ticino, ma offrono anche alcuni suggerimenti di “stile”. Questi non sono in genere motivati dalla scarsa cura per la lingua dei parlanti o scriventi ticinesi, ma all’opposto si propongono di sensibilizzare alle brutture conseguenti l’uso improprio di un linguaggio enfatico e magniloquente. L’autore constata infatti che «il mondo (o diremo il nostro piccolo mondo) è pieno di buona gente che s’affanna a scimmiottare il modo di esprimersi dei poeti e dei pensatori».42

A un primo livello, questa tendenza si manifesta nell’uso sconveniente di un lessico altisonante, impiegato per innalzare il tono del discorso. A questo proposito, ChiesaChiesaFrancesco scrive:

Tanta brava gente, per effetto di cotesta febbricciattola letteraria, si sente traviata fuori del vocabolario comune, che è sempre il più sostanziale e rispettabile e bastevole a tutto, in cerca del vocabolo peregrino o creduto tale, della locuzione poetica.43

Nel Galateo della lingua è così condannato l’uso di gamma per ‘scelta’ («una meravigliosa gamma di scarpe»), o ancora l’impiego di trascendenza e immanenza con il significato rispettivamente di ‘superiorità’ e ‘permanenza’. Il naturale sviluppo di questa cattiva abitudine linguistica consiste nell’uso metaforico del lessico o nella formazione di immagini metaforiche quando non occorre. ChiesaChiesaFrancesco non si limita a mostrare alcuni esempi locali di tale sproposito (fra cui, per citarne uno, l’impiego di «foro interiore» per ‘coscienza’; l’espressione è anche di ContiniContiniGianfranco, il riferimento al preziosismo metaforico potrebbe dunque non essere casuale44), ma discute il caso di una metafora «nativamente infelice» ideata da D’AnnunzioD’AnnunzioGabriele, quella della bandiera che garrisce impiegata in Notturno: «Tutte le bandiere vittoriose sbattono e garriscono, e si lacerano in lembi che svolano».45 In realtà, l’iniziatore di questa metafora è CarducciCarducciGiosuè, che utilizza l’immagine nella poesia Su i campi di Marengo, inclusa nel sesto libro delle Rime nuove, uscite nel 1887, vv. 33-36:

Solo, a piedi, nel mezzo del campo, al corridore

Suo presso, riguardava nel ciel l’imperatore:

Passavano le stelle su ’l grigio capo; nera

Dietro garria co ’l vento l’imperïal bandiera.46

Con la sicurezza dello scrittore, l’autore del Galateo impiega lungo tutte le conversazioni radiofoniche frequenti metafore e similitudini, rendendo il prontuario un esempio pratico dell’uso corretto ed elegante della lingua. A questo proposito, si potrebbe citare la metafora continuata che chiude il volume e segue una lugubre rassegna dei necrologi pubblicati sui quotidiani cantonali, per redigere i quali ChiesaChiesaFrancesco raccomanda la più sincera semplicità:

E bisogna tener conto della buona intenzione di chi, volendo onorare un povero morto, gli offre un brutto fiore di carta, o un fiore sciupato raccolto per istrada. Ma, nello stesso tempo, dirgli: – Amico, perché quei brutti fiori? Se, passando accanto alla siepe, tu avessi colta una di quelle roselline selvatiche, o ti fossi chinato a cercare fra l’erba una semplice margheritina, e quei fiori alla portata di tutti tu avessi deposto sulla fossa del tuo caro morto, t’assicuro che facevi più onore a lui ed esprimevi più nobilmente la tua tristezza.47

Tuttavia, sulla lingua d’uso agisce nel Ticino un esempio ben più nocivo e fuorviante di quello letterario, che dal canto suo può indurre scriventi modesti all’uso infruttuoso di un lessico ricercato e di ardite metafore. Come anticipato, il modello linguistico più diffuso nella Svizzera italiana è infatti identificato da ChiesaChiesaFrancesco nella lingua legislativa o giuridica, ricca di

espressioni bislacche, goffe, talvolta buffe, francesismi dei più grossolani, latinismi pedanteschi, idiotismi che qualche volta meglio diremmo idiozie, locuzioni del più crudo gergo avvocatesco, parole traviate dal loro senso, neologismi inutili e mal fabbricati, errori di grammatica e di sintassi, costrutti contorti, atrocemente faticosi per dir cose niente difficili, che a lasciar fare alla bocca, l’espressione chiara e piana viene da sé.48

 

L’avversione di ChiesaChiesaFrancesco per il gergo avvocatesco del Ticino ha lungo corso. Già nelle Lettere iperboliche sono presenti caustiche allusioni o riferimenti alla lingua impiegata dagli avvocati, dai politici e dai burocrati del Cantone. Nella lettera XVIII, dell’agosto 1900, si legge ad esempio il seguente brano:

Primo requisito dunque a diventar uomini di Stato: essere patrioti. Secondo requisito: essere buoni repubblicani. E qui pure è necessaria un’avvertenza filologica. Credo di avervi già detto che chi venisse nella Repubblica dell’Iperbole colla semplice scorta di un vocabolario italiano, non riuscirebbe a capire nemmeno un terzo di quest’atti ufficiali, di questi periodici, di queste concioni. È un fenomeno così botanico dei più curiosi; e sarebbe materia di ricerche saporitissime lo studiare a quali strane degenerazioni possano pervenire certi vocaboli italiani trapiantati in terra iperbolica. Ma non divaghiamo.49

ChiesaChiesaFrancesco individua due cause principali all’origine del decadimento della lingua legislativa, che situa indicativamente nel secolo XX. La prima di queste ragioni è sostanzialmente pratico-filologica. Essa va cercata secondo l’autore nel procedimento che ordina la stesura dei testi di legge, i quali sono discussi, ridiscussi e modificati di conseguenza: ne risulta uno scritto composito, che nessuno si occupa di riorganizzare, correggere e perfezionare sul piano della forma. La seconda causa, la più importante, è legata alla scarsa preparazione umanistica degli avvocati e dei legislatori, formati per ragioni di utilità professionale nelle Università svizzero-francesi o svizzero-tedesche. E sono pochi fra loro, sostiene ChiesaChiesaFrancesco, «quelli che hanno saputo attingere, durante gli anni del Liceo, e tener vivo quel senso della lingua, quell’amore della coltura letteraria, quel tanto di gusto che occorrono, oltre che al letterato, a chiunque voglia esprimersi nettamente».50

Il prestigio della lingua giuridica nel Ticino va forse ricondotto al fatto, sul quale si tornerà più avanti, che nell’Ottocento gli scrittori di vaglio nella Svizzera italiana erano da ricercare tra gli studiosi (Emilio MottaMottaEmilio, Carlo SalvioniSalvioniCarlo, Giovanni Andrea ScartazziniScartazziniGiovanni Andrea) e i politici (Stefano FransciniFransciniStefano, Romeo ManzoniManzoniAlessandro, Vincenzo DalbertiDalbertiVincenzo), benché di altra tempra e dotati di ben altro gusto e formazione linguistico-letteraria.51 In assenza di una tradizione letteraria e di letterati autoctoni si è imposto come modello sostitutivo di lingua sostenuta quello della burocrazia, dei giuristi e degli avvocati. In tale situazione, il fatto stesso di aver proposto un riferimento linguistico alternativo ha reso rilevante e preziosa per la Svizzera italiana l’attività letteraria condotta da ChiesaChiesaFrancesco, a prescindere dalla qualità intrinseca delle sue opere.

2.3. La lingua letteraria di ChiesaChiesaFrancesco

Tolte alcune eccezioni, la letteratura nella Svizzera italiana prende avvio, con consapevolezza e precise intenzioni artistiche, solo alle soglie del Novecento, con l’opera di ChiesaChiesaFrancesco.1 Oltre a questo primato, la sua attività di poeta ha assunto grande importanza nell’àmbito della difesa dell’italianità culturale e linguistica del Cantone, senza contare che proprio il prestigio di letterato gli permise di inserirsi, e inserire di conseguenza l’intera regione italofona, nel dibattito su scala nazionale.2 Molto presto ChiesaChiesaFrancesco fu percepito come il simbolo e il riferimento della cultura letteraria, e più ampiamente artistica, nella Svizzera italiana. Lo documenta un passo delle Mémoires di ReynoldReynoldGonzague de, nel quale il friburghese ricorda la ragione per la quale gli elvetisti ginevrini si rivolsero a lui nel 1912:

Lorsque nous nous étions informés pour savoir quel écrivain ou quel artiste tessinois s’imposait avant tout autre, on nous avait répondu: Francesco ChiesaChiesaFrancesco, sans aucune discussion possible. Son recueil de poèmes: I viali d’oro avait fait sensation en Italie même.3

L’attività letteraria di ChiesaChiesaFrancesco, sempre conforme alle normative sulla lingua che impose a sé e agli altri, rappresenta a sua volta un esempio linguistico offerto al Ticino.4 Analogamente a quanto si verifica per molti poeti della sua generazione, la sua opera, conservatrice sul piano ideologico e profondamente manzoniana su quello etico e morale, si rifà da principio al modello letterario di CarducciCarducciGiosuè.5 Scartando dalla traiettoria comune, ChiesaChiesaFrancesco accolse però solo parzialmente le importanti trasformazioni tematiche e formali che sul finire del secolo maturarono in Italia con la poesia borghese e soprattutto con D’AnnunzioD’AnnunzioGabriele e PascoliPascoliGiovanni, di cui introiettò unicamente i caratteri meno innovativi.6

Esemplare a questo proposito, con dei risvolti significativi anche per inquadrare la psicologia e l’orientamento ideologico-identitario di ChiesaChiesaFrancesco, è il poderoso poema epico-civile Calliope, stampato integralmente a Lugano nel 1907 dopo due anticipazioni milanesi.7 Scritto in sonetti, sul modello del Ça ira carducciano, l’opera è disegualmente suddivisa in tre parti (La cattedrale, La reggia e La città) nelle quali, seguendo il filo conduttore dello sviluppo dei modi, delle funzioni e del gusto architettonico, già allora argomento caro e fondante per ChiesaChiesaFrancesco, sono rievocate le tre grandi epoche della civiltà occidentale: il Medioevo, con la costruzione delle grandi cattedrali gotiche; il Rinascimento, con l’eleganza e l’armonia delle corti rinascimentali; e la città, con la moderna società magmatica, complessa e ramificata nell’industria. Nella terza parte, non più concentrata su un simbolo architettonico centripeto ma dilatata in una moltitudine caotica, le immagini visionarie della città sono forse debitrici del Laus vitae dannunziano.8

Nonostante l’originalità del tema e la lodevole volontà di fare una poesia seria, con un robusto impegno civile e morale; e nonostante l’ambiziosa impalcatura progettuale del poema, portato a compimento con grande sforzo, non si può dire che l’opera sia del tutto riuscita: sul piano contenutistico ma soprattutto su quello formale.

Nell’epoca della dissoluzione degli istituti della poesia tradizionale, la scelta di adibire il sonetto a strofa epica è coraggiosa. La forma metrica è internamente alterata (impressionisticamente, sul versante rimico basti il fatto che in tutto il poema ChiesaChiesaFrancesco adotti un solo schema canonico, con struttura ABBA ABBA CDC DCD), in parte per influenza delle innovazioni pascoliane, in parte per le esigenze narrative alle quali è piegato il metro: le quartine si dilatano nelle terzine, il rapporto metro-sintassi è forzato con robusti enjambement, la prosodia versale è segnata da picchi e increspature anomale.9 Ne risulta un procedere in alcuni punti faticoso. Tra la princeps e l’assetto testuale definitivo, ChiesaChiesaFrancesco mette mano, corregge e modifica in alcuni punti la versificazione.10 L’autore ha cercato così di rinvigorire, di svecchiare una forma metrica di lungo corso senza però riuscire a dare il giusto impulso, lavorando eccessivamente alcune articolazioni e mantenendo sugli altri piani della poesia, ad esempio quello linguistico, un materiale tendenzialmente frusto. Per quanto concerne il piano linguistico, tra la princeps luganese del 1907 e l’edizione riveduta stampata a Roma nel 1921 si attestano alcuni tentativi di rinnovamento del lessico. BottaBottaIrene rileva ad esempio la sostituzione di alcuni dei sintagmi: «salia pronto» con «veniva su», di «alma voce» con «bel canto»; nonché l’uso del conio «striscevole» in alternativa a «subdolo».11 In questo senso, come nota SerianniSerianniLuca, l’impostazione classicista di ChiesaChiesaFrancesco non esclude l’insolens verbum: nel poema si leggono infatti parole come «marciapiede», «telegramma», e neologismi derivativi come «aggomitolìo» o «agitìo».12 Ciononostante, nell’edizione definitiva si conservano cospicui tratti arcaizzanti.

Senza entrare più in profondità nell’opera, al fine del nostro discorso Calliope è centrale non tanto per la sua qualità intrinseca quanto per comprendere la psicologia e l’orientamento ideologico-culturale di ChiesaChiesaFrancesco, di base italofila, che lo porterà nel decennio successivo a sviluppare il mito della lombardità comacina, di cui si è parlato nel primo paragrafo del presente capitolo.

Nella già citata lettera di SalvioniSalvioniCarlo a ChiesaChiesaFrancesco, scritta il 12 maggio 1903 all’uscita della prima parte del poema, il glottologo parla di una grazia che si unisce a «una ispirazione veramente poetica e a una vera divinazione del passato».13 L’opera manifesta infatti un’esigenza che sarà ricorrente nel ChiesaChiesaFrancesco poeta e intellettuale: la necessità, per lui italiano culturalmente ma non natione, di ancorarsi e attingere alla storia italiana e a una tradizione artistica stabile e riconosciuta nel tempo.14 Lo stesso concetto dell’identità lombardo-comacina è rivolto al passato. Si fonda infatti sulla base del prestigio medievale dei grandi maestri della regione, poi consolidato dagli architetti partiti dal Ceresio e attivi nei più importanti cantieri dell’epoca barocca, nonché dai numerosi lapicidi, pittori, intagliatori e scultori che dalle Prealpi lombarde si affermarono artisticamente in tutta Europa. D’altro canto, sul piano letterario ne consegue il rifiuto delle esperienze artistiche innovative, in rottura con una rassicurante tradizione poetica. L’idiosincrasia per le avanguardie di inizio secolo e i loro relativi sviluppi non fu mai dissimulata o ritrattata da ChiesaChiesaFrancesco. Ad esempio, il 7 febbraio del 1911, a due anni cioè dalla pubblicazione del manifesto di MarinettiMarinettiFilippo Tommaso, parlando del critico Paolo BuzziBuzziPaolo, legato alla rivista «Poesia», il poeta scriveva all’editore FormìgginiFormìgginiAngelo Fortunato: «Il Buzzi è un uomo d’ingegno, ma storto e guasto da quella violenta forma di mal francese che si chiama futurismo».15 La stessa posizione è ribadita anche pubblicamente nel discorso intitolato Come se parlassi con me stesso, tenuto a Zurigo nel 1928 in occasione del conferimento del Premio Schiller:

I futuristi di Milano drizzavano, fra le vere o presunte rovine, le loro baracche di cartone variopinto e urlavano le loro parole in libertà… Ma, insomma, pochi riconoscevano in quei furiosi movimenti il segno d’una necessità storica, l’inizio d’un qualche cosa.16

Alcuni decenni più tardi, a colloquio con Piero BianconiBianconiPiero, ChiesaChiesaFrancesco prendeva le distanze anche dall’esperienza crepuscolare, che riduceva a infruttuose «effusioni sentimentali» o «piagnistei».17 Questa posizione, che ripercorrendo à rebours la sua opera letteraria potrebbe apparire scontata, è dovuta a una ragione ideologico-sentimentale profonda e consapevole, e non alla contingente marginalità culturale del Ticino nel quale viveva e operava il poeta. Tra le carte di ChiesaChiesaFrancesco, che conservano tracce della sua corrispondenza con numerosi interlocutori d’oltre confine, si trovano alcune lettere di Filippo Tommaso MarinettiMarinettiFilippo Tommaso e di Guido GozzanoGozzanoGuido, per citare solo i nomi di maggior rilievo. ChiesaChiesaFrancesco era dunque in diretto contatto con due poeti che nei primi anni del secolo hanno portato grandi, e nel caso di MarinettiMarinettiFilippo Tommaso anche spregiudicate, innovazioni nella storia della letteratura italiana.18

Una svolta significativa nell’opera di ChiesaChiesaFrancesco si registra verso gli anni Venti, quando si verifica sul piano letterario un riorientamento geografico, con il ritorno al mondo lombardo, «in quanto sostrato e archetipo di quello nativo», e tematico-cronologico, in direzione di un passato prossimo, da intendere come scavo nei ricordi dell’età infantile: opposto dunque al passatismo di Calliope, per esempio.19 Questo sviluppo è stato probabilmente favorito dalla riflessione sull’identità culturale della Svizzera italiana prodotta in ambito civile e politico nel decennio precedente, che sulla scia della scuola di DossiDossiCarlo portò ChiesaChiesaFrancesco a sostenere l’identità regionale comacino-lombarda della Svizzera italiana.20 Da questa prospettiva prende le mosse il romanzo Il tempo di marzo, scritto nel solco dei Racconti puerili del 1921 e pubblicato a Milano da Treves nel 1925. L’opera, accolta con favore in patria e in Italia, pone al centro della narrazione la vita rurale delle vallate ticinesi filtrata dall’esperienza di un giovane di nome Nino. Con questo obiettivo, come già tendenzialmente nei Racconti puerili, l’autore mette a punto una lingua che attinge alla parlata locale.21 Sul piano del lessico e della sintassi si percepisce dunque la spinta dialettale o di un italiano mimetico, popolare: in sostanza, nelle opere degli anni Venti non è più esclusivo «quel toscaneggiare chiamato sifilide del nostro sermone da Carlo DossiDossiCarlo».22 Nelle ristampe che seguirono alla prima edizione si verifica tuttavia una revisione della lingua in direzione puristica, «in nome di vani scrupoli moraleggianti» secondo Piero BianconiBianconiPiero.23 Le modifiche, minime nell’edizione Mondadori del 1937, sono più consistenti nella lezione pubblicata dalla Società degli Editori Italiani di Torino nel 1954. Spigolando fra le pagine delle due versioni: il verbo «bestemmiare» è sostituito con «imprecare», e su quest’onda è biffato anche un «Cristo!»; l’esclamazione «siamo fottuti» è attenuata in «siamo sonati», così come l’apostrofe «crepare di fame» è modificata in «sprofondare sotterra»; infine le irrequiete pecorelle di Lisa sono chiamate «brutte bestie» nella versione ne varietur, in luogo di «porche bestie» dell’originale.24

 

In una lettera spedita da ChiesaChiesaFrancesco a Reto RoedelRoedelReto, e da quest’ultimo pubblicata in un contributo sull’opera, l’autore giustifica le varianti linguistiche tra le due redazioni avanzando ragioni di «buona creanza» e un’idiosincrasia per gli eccessi e le crudezze:

Il nuovo testo presenta qualche modificazione: non di sostanza, ma d’espressione. Qualche ritocco mi è stato suggerito dal desiderio d’esprimermi meglio; qualche crudezza ho temperata per ragioni, direi, di buona creanza, qualche particolare ho ridotto a termine più discreto […]. Rileggendo dopo tanti anni, mi sono accorto dell’eccesso; e qua e là ho temperate alcune crudezze non necessarie e di cattivo gusto. Il libro però rimane quale era; e credo che chi non abbia avuto… l’abnegazione di confrontare, difficilmente avvertirà i segni della revisione.25

Nonostante l’esperienza positiva dei Racconti puerili e Tempo di marzo, ChiesaChiesaFrancesco corregge la propria lingua in direzione di un purismo che non riesce a mitigare, di una norma alla quale sente di dover obbedire per adempiere alla propria italianità, «come chi si senta nonostante tutto straniero».26

A dispetto della memorabile stroncatura indiretta di PapiniPapiniGiovanni, che opponeva negativamente lo scrittore chiavennasco Bertacchi con altri lombardi agli apprezzati scrittori fiorentini («questo bacalare rustichesco mi par cugino del poeta svizzero Francesco ChiesaChiesaFrancesco; puzza di elvetico e valtellinese»), a cinquant’anni ChiesaChiesaFrancesco era già un autore consacrato, con al suo favore le recensioni di importanti critici (tra cui Pietro PancraziPancraziPietro), numerosi riconoscimenti letterari e onorificenze pubbliche.27

Lo scrittore fu così incaricato dai politici, dai giovani intellettuali e dagli artisti del suo presente di un ufficio emblematico: fu considerato il nuovo vate, il portavoce e l’interlocutore incaricato di mediare, per quanto concerneva la poesia e l’arte ticinese, con l’Italia e con le altre culture federali.28 Se da un lato con ChiesaChiesaFrancesco si aprirono gli interessi della borghesia locale sui fatti della cultura, dell’arte e della letteratura, e prese forma una coscienza artistico-intellettuale prima assente, che ebbe l’effetto benefico di sensibilizzare al patrimonio e alle tradizioni artistiche locali, dall’altro si formò in questi anni una sorta di culto per lo scrittore, che impose nella regione il proprio gusto per oltre un cinquantennio senza l’opposizione di personalità forti, cioè senza l’occasione di un dialogo paritario o un salutare confronto. Ne conseguì la diffusione e il consolidamento di una cultura letteraria conservatrice, retriva e disallineata dalle innovazioni prodotte in quegli anni dalle più moderne correnti culturali:29 si moltiplicarono così le prove di un «manzonismo degli stenterelli», con le parole della poesia Davanti San Guido di CarducciCarducciGiosuè.30 ChiesaChiesaFrancesco si fece indirettamente promotore di una sorta di autarchia artistica, coerente con il mito regionalista del genio comacino. Cioè di un tendenziale immobilismo, di un modo di fare e concepire la letteratura anacronistico, accettato e diffuso dalla cultura ufficiale del Cantone, che sentiva la necessità di preservare certi valori a discapito della riforma, dell’ammodernamento.31

In sostanza, l’opera di ChiesaChiesaFrancesco non assecondò e non promosse nel Ticino le esperienze della coeva letteratura italiana, anche a suo personale sfavore, ma pose le basi sulle quali si innestarono le innovazioni successive. Queste furono propiziate dalla contingenza storica. Infatti, negli anni di consolidamento del regime fascista, e con intensità maggiore tra il 1940 e il 1945, il Ticino ospitò persone e iniziative determinanti nell’ambito del rinnovamento artistico e letterario che portò la regione ad aggiornarsi, ovvero a liquidare il passatismo romantico-risorgimentale, conformato alla posizione retriva di ChiesaChiesaFrancesco, per riallinearsi con la cultura italiana contemporanea. Auspice la peculiare circostanza storica, la Svizzera italiana usciva culturalmente risanata dal conflitto mondiale. Nel Ticino, i principali promotori degli scambi culturali in tempo di guerra furono il filologo Gianfranco ContiniContiniGianfranco, professore all’Università di Friburgo dal 1938, e il rappresentante del Ministero della cultura italiano Giovan Battista AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista, noto scrittore e fondatore nel 1941 di un vivace Circolo italiano di lettura a Lugano. Infatti, sebbene la filiazione dell’istituto lasciasse presagire delle implicazioni propagandistiche – il Circolo stesso era concepito nell’ambito di un progetto di propaganda –, AngiolettiAngiolettiGiovanni Battista antepose l’attività culturale alla presunta seduzione ideologica per la quale fu perseguito ed espulso dalla Svizzera al termine del conflitto.32 Prescindendo dall’orientamento politico, il Circolo italiano di lettura ospitò i maggiori scrittori e poeti dell’epoca, pressoché sconosciuti nel Ticino d’anteguerra poiché esclusi dalle antologie scolastiche e difficilmente reperibili nelle librerie e biblioteche. Tra questi: BacchelliBacchelliRiccardo, CardarelliCardarelliVincenzo, CecchiCecchiEmilio, MontaleMontaleEugenio, PalazzeschiPalazzeschiAldo e UngarettiUngarettiGiuseppe.33 A tale proposito, per documentare il gusto e l’orizzonte letterario di ChiesaChiesaFrancesco, è significativo scorrere l’indice dell’antologia Esempi di poesie italiane moderne da lui curata nel 1945 e destinata alle scuole ginnasiali del Cantone. La scelta dello scrittore copre un arco cronologico che va dal Parini all’Alcyone dannunziano, trascurando così le esperienze poetiche di MontaleMontaleEugenio, UngarettiUngarettiGiuseppe e SabaSabaUmberto, per nominare solo alcuni fra gli autori più importanti della prima metà del secolo.34 A riprova di quanto affermato, il canone letterario imposto da ChiesaChiesaFrancesco nella regione ha influito anche sulla configurazione del primo volume, dedicato agli scrittori contemporanei, dell’Antologia della letteratura italiana ad uso degli stranieri curata da Giuseppe ZoppiZoppiGiuseppe per Mondadori nel 1939. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il silenzio su autori come SvevoSvevoItalo, SabaSabaUmberto, CardarelliCardarelliVincenzo e MontaleMontaleEugenio è indicativo di una percezione miope e distorta della letteratura italiana diffusa al tempo nel Ticino. Tornando ai nomi legati al Circolo di lettura, proprio ContiniContiniGianfranco, in una lettera inviata a ZoppiZoppiGiuseppe il 27 giugno 1939, avanzava alcune perplessità in merito a queste omissioni, palesando così la differente prospettiva degli scrittori formatisi nel solco di ChiesaChiesaFrancesco rispetto a quella di studiosi, autori e lettori provenienti dalla vicina Italia: