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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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Capitolo primo. Medioevo ed età moderna. Il mutare delle denominazioni

1. Prima della Svizzera italiana: etnici e geonimi nei secoli XV-XVIII
1.1. La Lombardia alpina in epoca medievale

In epoca medievale, nel periodo che precedette la conquista da parte dei Confederati dei territori prealpini che oggi formano il Cantone Ticino, il territorio della Lombardia alpina era parte integrante del Ducato di Milano.1 Già dall’Alto Medioevo, prima dell’istituzione del ducato visconteo, la città milanese è il centro economico e culturale al quale guarda la regione. Una testimonianza a proposito è offerta dal vescovo Gregorio di ToursToursGregorio di (ca. 538-594) nel decimo libro della sua Historia Francorum, nel quale descrive la solida resistenza incontrata da una colonna di Franchi giunta dai valichi alpini presso le fortificazioni di Bellinzona, allora in mano longobarda, situate nei Campi Canini.2 Nel brano, in cui è narrata la morte del duca Ollone per una ferita causata da un giavellotto che lo colpì al costato durante l’assalto, il castello è indicato come roccaforte milanese e l’area del lago sulle cui rive sorge il borgo di Lugano è ricondotta al capoluogo ambrosiano, X 3:

Quando poi si accostarono ai confini d’Italia, Audovaldo con altri sei duchi si diresse verso destra e giunse nella città di Milano. Qui organizzarono gli accampamenti tenendosi lontano, nelle campagne. Il duca Ollone, invece, che imprudentemente s’era avanzato fino a Bellinzona, piazzaforte di questa città posta nella regione dei Campi Canini, colpito al petto da un giavellotto, cadde e morì. Allorché questi uscivano fuori a far bottino per procurarsi qualcosa da mangiare, venivano sopraffatti dai Longobardi che facevano irruzione a gruppi sparsi sopra di loro in luoghi diversi. C’era infatti, all’interno del territorio della città di Milano, un lago, che chiamano Ceresio, dal quale esce un fiume piccolo ma molto profondo [il Tresa].3

Il passo situa in maniera piuttosto precisa il toponimo Campi Canini, localizzabile nei pressi della bassa valle del Ticino, nei dintorni di Bellinzona. La prima attestazione del termine è però di alcuni secoli precedente, in età tardo-antica. Nel 354 infatti lo storico romano Ammiano MarcellinoMarcellinusAmmianus (ca. 330-390), descrivendo le operazioni di difesa dei confini imperiali promosse e guidate da Costanzo IICostanzo IIFlavio Giulio (350-361), menziona questo nome di luogo nel quindicesimo dei suoi Rerum gestarum libri qui supersunt, XV 4, 1:

[…] e fu dichiarata guerra ai Lenziesi, tribù alamanna che faceva spesso incursioni per spazi sempre più vasti nei territori romani limitrofi. Uscito [da Milano] per questa spedizione, [Costanzo] giunse nella Rezia e ai campi Canini [presso Bellinzona]: esaminati a lungo i piani [da mettere in atto], sembrò conveniente e utile che lì con una parte dei soldati ›…‹ Arbizione (capo della cavalleria) lì si dirigesse con il nerbo dell’esercito costeggiando il lago di Briganzia [Lago di Costanza] con il proposito di attaccare subito i barbari.4

La testimonianza più importante relativa a questo toponimo è però trasmessa un secolo più tardi nel panegirico dell’imperatore Giulio Valerio MaggiorianoMaggiorianoGiulio Valerio (ca. 420-461), scritto in esametri da Sidonio ApollinareApollinaireSidonio (ca. 430-490) nel 457. Il testo descrive l’invasione a sud delle Alpi di novecento soldati Alemanni, che furono fermati da Burcone, un comandante dell’esercito imperiale di MaggiorianoMaggiorianoGiulio Valerio, nei dintorni dei Campi Cani. Cito il passo in questione dal Carmen V, vv. 373-377:

[…] Conscenderat Alpes

Rætorumque iugo per longa silentia ductus

Romano exierat populato trux Alamannus

perque Cani quondam dictos de nomine campos

in prædam centum nouiens dimiserat hostes.5

Le informazioni offerte da Sidonio vanno oltre la cronaca storica. Nella poesia è infatti suggerita la presunta etimologia del toponimo, che trae origine, a detta del poeta gallo-romano, dal nome di un tale Canus, probabilmente identificabile con un re o capo locale.6 Un etimo alternativo è proposto dal romanista Konrad HuberHuberKonrad, per il quale la denominazione Campi Canini potrebbe essere ricondotta al fatto che, secondo un topos divulgatosi tra i secoli V e VI, gli Alemanni combattevano camuffati con sembianze zoomorfe, mascherati da cani. Dopo la testimonianza di Ammiano MarcellinoMarcellinusAmmianus, l’uso del nome Campi Canini avrebbe allora indicato genericamente il luogo della battaglia contro gli Alemanni. Ovvero, fu impiegato da Sidonio ApollinareApollinaireSidonio e poi da Gregorio di ToursToursGregorio di – che non documentavano i fatti di persona – come topos letterario piuttosto che come precisa localizzazione toponimica, sebbene i riferimenti geografici del turense siano di norma tutt’altro che generici o imprecisi: si osservi a tale proposito quanto scrive della Tresa in chiusura al passo citato sopra.7 In ogni caso, il toponimo resistette a lungo. Nel corso del secolo XIII il nome passò, ad esempio, al convento delle Umiliate di Santa Maria di Pollegio, che compare dal 1256 con il titolo di Santa Maria di Campocanino, estendendo così il territorio dei Campi Canini a nord di Bellinzona, perlomeno fino alla Riviera.8 Il convento è indicato con questo nome anche in un atto notarile rogato da Iohannes de Zornico il 20 maggio 1318 a Pontemoranco (Iragna), e oggi conservato presso l’Archivio di Stato del Cantone Ticino. Sul documento, tra altre persone, è nominato un tale «d.no presbytero michaeli ministro ospitalis ecclesie sancte marie de Campo canino de pollezio».9 Infine, verso la metà del secolo successivo, il toponimo si ritrova in una pergamena del 2 gennaio 1440 relativa a una permuta di terreni situati nel bellinzonese, uno dei quali è detto giacente «in terratoro de Zubiascho ubi dicitur in Campo canino».10

Tornando ai rapporti di quest’area col milanese, lo stretto legame del territorio prealpino con la regione lombarda e con il centro cittadino di Milano è ribadito e documentato in varie fonti. Fra esse va incluso un passo della cronaca dell’inglese Adamo da UskUskAdam de (ca. 1352-1430). Nel suo resoconto, Adamo descrive l’itinerario che da Londra lo conduce verso l’Italia con un rapido elenco di toponimi, che l’autore interrompe per soffermarsi sul difficile passaggio del Monte Gottardo, avvenuto nel mese di marzo del 1401. Superate le Alpi Lepontine il cronista giunge nel borgo di Bellinzona, situato come naturale nello spazio geografico e culturale della Lombardia:

Quid mora? XI. kalendas Marcii, anno Domini 1401, presencium compilator, ut, Deo disponente, proposuit, Londoniis apud Byllyngesgate navem ingressus, prospero flante vento et mari sulcato, in Barbancia terra satis votiva, apun Berwk-super-sabulum, suos gressus versus Romam dirigendo, infra diem naturalem terre applicuit. Et extunc per Dyst, Mestryk, Aquas Grani, Coloniam, Bunnam, Confluenciam, Wormeciam, Spiram, Argentinam, Brisacam, Basiliam, Luceriem et ejus mirabilem lacum, Bernam [sic: Uraniam?], motem Godardi et ejus cacuminis hermitogium, in caruca per bovem tractus, nivis frigoribus quasi peremptus, oculis velatis, ne loci discriminia conspiceret, ad Belsonam [Bellinzona] in Lumbardia Palmarum devenit vigilia.11

Coerentemente con quanto documentato in questo testo, anche i riferimenti agli abitanti del territorio menzionano in alcuni casi la provenienza lombarda, così come il glottonimo analogo definiva fra il basso Medioevo e prima la età moderna la parlata della regione, la «lingua nostra».12 Lo testimonia, ad esempio, una lettera scritta dal commissario Carlo da Cremona ai duchi di Milano l’8 novembre del 1478, ovvero pochi mesi prima della battaglia di Giornico, in un momento di forte tensione tra gli svizzeri e i milanesi. Nella missiva si avvisa il Duca Gian Galeazzo Maria SforzaSforzaGian Galeazzo Maria (1469-1494) che un tale Laurenzio del FurnoFurnoLaurenzio del, conoscitore della lingua lombarda e di quella tedesca, fu inviato a Pollegio per un colloquio con il balivo della Leventina, al fine di scoprire cosa stava capitando in quelle terre. Dopodiché, Laurenzio è mandato a Milano per riferire le informazioni ottenute ai sovrani:

Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini nostri singularissimi, humilima cum recomendatione. Noverint excellentie prelibatarum dominationum vestrarum quod trasmissimus Laurentium del Furno, habitatorem huius terre, harum exhibitorem, qui habet linguam lombardam et theutonicham, pro isto motu Svyziorum ad locum Polezii, in confinibus vallis pro magnificis dominis de Liga confederatorum, ut certiores efficeremus de isto motu ipsorum Svyzerorum, si quicquam de certo habere poterat, qui nobis quod habere et intelligere potuit, retulit […].13

Attestazioni analoghe si trovano inoltre nelle carte delle tesorerie papali di Roma relative al cantiere di San Pietro, dove erano impiegati numerosi artigiani settentrionali. Fra queste, nel periodo del pontificato di Nicolò VParentuccelli (Nicolò V)Tommaso, che diede un notevole impulso all’attività edilizia romana, i registri menzionano, con esplicito riferimento alla sua origine lombarda, un debito contratto nei confronti di un architetto di Lugano per la costruzione di un palazzo presso le sorgive termali di Viterbo:

Magistro Stefano de Beltramo de Doxi da Lughano muratore lombardo de’avere pagati a lui a dì 17 de magio del dicto anno 1454 per parte di pagamenti del lauoro per lui facto e da farsi in nela casa che se fa de comandamento di Nostro Signore a li bagni de la gropta et crutiata de Viterbo ducato d’oro di camera 600.14

 

Non diversamente, fra le carte dell’Archivio Segreto Vaticano si legge un mandato di pagamento in favore di un tale «Domenico de LucarnoDomenico da Locarno [Locarno], lombardo, calcararo», con analogo riferimento etnico.15 Questo mastro, attivo a Roma tra il 1463 e il 1469, è identificato da alcuni studiosi con il Domenico dal Lago di LuganoDomenico dal Lago di Lugano menzionato quale allievo di BrunelleschiBrunelleschiFilippo nel Trattato di architettura del FilareteFilareteAntonio di Pietro Averlino (detto il), dedicato a Francesco SforzaSforzaFrancesco (1401-1466).16 Il trattato, composto presumibilmente tra gli ultimi anni cinquanta e i primi sessanta del secolo XV, è strutturato in forma di un ipotetico dialogo tra l’architetto e il duca attorno alla progettazione della città ideale, la Sforzinda.17 Il mastro luganese è nominato nel sesto libro dell’opera, quando FilareteFilareteAntonio di Pietro Averlino (detto il) discute della progettazione e preparazione delle sculture celebranti le battaglie di Francesco SforzaSforzaFrancesco poste all’entrata del castello, e della necessità di convocare maestri da varie regioni per compiere il lavoro in maniera adeguata:

Ancora dove sentì che fussino buoni maestri di scolpire mandamo: a Siena, dove era uno da Cortona, il quale aveva nome Urbano […]. Venneci ancora Domenico del Lago di Logano, discepolo di Pippo di ser Brunellesco; uno Geremia da Cremona, il quale fece di bronzo certe cose benissimo; uno di Schiavona, il quale era bonissimo scultore; uno catelano.18

Diversamente dai casi precedenti, la denominazione impiegata nel trattato usa un riferimento geografico più ampio del consueto rimando municipale, come talvolta accade per le vallate maggiori della regione, richiamate in sostituzione di un toponimo che probabilmente doveva apparire o risultare inutile in termini orientativi anche a poca distanza dallo stesso.

In questo secolo, come nei seguenti, si recuperano svariate attestazioni affini, in prevalenza riferite ai due maggiori laghi, il Verbano e il Ceresio, e alle contigue vallate cisalpine. Ad esempio, nel 1473, per celebrare la cessazione di una pestilenza, la popolazione luganese decise con un voto pubblico di offrire una cappella alla Madonna delle Grazie nella cattedrale di San Lorenzo.19 La sua costruzione fu completata nel 1494, lo testimonia la lapide posta a lato della cappella, ricostruita in stile barocco tra il 1771 e il 1774, sulla quale si legge un’iscrizione che documenta l’uso del riferimento geografico relativo alla Valle di Lugano. Una denominazione oggi desueta, riferibile al territorio che si estende dal Camoghè al lago Ceresio, seguendo il corso del fiume Vedeggio. Trascrivo di seguito l’epigrafe:

M. CD. XC. IV. DIE XXII MAJI HORA XVI

FVNDATA FVIT HAEC CAPPELLA

SVB VOCABVLO

S. MARIAE GRATIARVM

PROPTER DEVOTIONEM IBIDEM ALIAS INCEPTAM

ANNO M. CD. LXXIII. DIE III MAJI

PROPTER PESTILENTIAM TVNC REGNANTEM IN VALLE LVGANI

CESSAVIT FACTA DICTA DEVOTIONE20

Dieci anni prima, in un contratto rogato l’11 maggio 1484 da tale «Petrus de Muralto», che regolamentava i lavori del falegname e muratore Lorenzo da MassagnoLorenzo da Massagno presso le proprietà della diocesi a Sorengo, si legge una denominazione analoga. Nella pergamena conservata presso l’Archivio di Lugano è vergata la seguente lista di testimoni: «ser Donato de la Ture Mendrixii, habitatore Mendrixii, filio condam domini Gasparis, Francischo de la Barlina, vallis Lugani, filio condam magistri Iacobi, et Iacobo de Miliera, dicte vallis, filio condam Antonii».21

Al tempo, in italiano e nelle altre lingue romanze o germaniche, le denominazioni etniche più ricorrenti facevano riferimento, come noto, alla dimensione di una piccola patria, ovvero a un sentimento di appartenenza comunale. In alcune situazioni, tuttavia, a questa si somma o si sostituisce il più leggibile riferimento alle podestà parrocchiali e vescovili: nel caso delle terre prealpine, dunque, alle pievi e alle diocesi di Como e di Milano. A questo proposito, una testimonianza significativa si trova scolpita nel Duomo di Trento. Sul paramento del coro è collocata una lastra sulla quale si legge un’iscrizione sepolcrale per l’architetto Adamo da ArognoAdamo da Arogno, il primo di una successione di artigiani provenienti dal piccolo paese lombardo attivi nel cantiere trentino; tra cui perlomeno Enrico di Fono da ArognoEnrico di Fono da Arogno, suo figlio ZanibonoZanibono da Arogno e il nipote di Adamo, suo omonimo.22 Nell’iscrizione, collocata verso la fine del secolo XIII, è ricordato l’ultimo giorno del febbraio 1212 come la data d’inizio della ricostruzione del Duomo, avvenuta per disposizione del principe vescovo Friedrich von WangenWangenFriedrich von (1207-1218). L’epigrafe che qui trascrivo, un’indubbia testimonianza del prestigio ottenuto dalla famiglia di Arogno nel cantiere del Duomo, identifica il mastro della Val Mara, oltre che sulla base della provenienza comunale, facendo menzione della giurisdizione diocesana del suo borgo d’origine:

Anno domini MCCXII ultima die februarii presidente venerabile Tridentino episcopo Federico de Vanga et disponente huius ecclesie opus incepit et costruxit magister Adam de Arognio Cumane diocesis et circuitum ipse sui filii inde sui aplatici cum appendiciis intrinsece ac extrinsece istius ecclesie magisterio fabricarunt cuius et sue prolis hic subtus sepulchrum permanet orate pro eis.23

Considerando il ruolo del committente e la collocazione della scritta nell’edificio sacro, si potrebbe sospettare che quest’ultima denominazione etnica sia condizionata dal contesto. In realtà, quest’uso è ben attestato, a quest’altezza cronologica come nei secoli successivi, anche in ambienti laici. Lo si vedrà negli esempi proposti più avanti.

Benché il riferimento al borgo d’origine era certamente il più diffuso, basti pensare ai nomi dati agli artisti provenienti dalla Lombardia prealpina e attivi nei cantieri delle principali città italiane (spigolando: Mastro Pietro da CapolagoMastro Pietro da Capolago, Silvestro da MerideSilvestro da Meride, Dionisio da MendrisioDionisio da Mendrisio, Sebastiano da LuganoSebastiano da Lugano e via dicendo), e nonostante il riferimento diocesano potesse integrarlo o sostituirlo, spesso l’etnico impiegato nel riferimento onomastico era meno preciso.24 Per rimanere nell’àmbito che ci offre il maggior numero di attestazioni, alcuni scalpellini o muratori indicati nei secoli XV-XVI come genericamente lombardi o comaschi potevano essere mendrisiensi, luganesi o anche provenienti dalle valli prealpine e alpine dell’attuale Cantone Ticino.

Passando a un’altra arte, che ha goduto di minor fortuna nella regione, è significativo il caso del celebre cuoco e autore del trattato gastronomico Libro de Arte Coquinaria (ca. 1450) conosciuto come Maestro Martino da ComoMartino da Como, vissuto tra il secondo o il terzo decennio del Quattrocento e la fine del secolo.25 Martino era nativo del piccolo borgo di Torre, in Valle di Blenio, perciò il riferimento alla città di Como non può riferirsi alla podestà vescovile: la Valle di Blenio, assieme alla Riviera e alla Leventina, era infatti parte della diocesi Ambrosiana. Inoltre, la cittadina lombarda, secondo le ricostruzioni storiche, non fu un luogo di particolare importanza nella vita del cuoco, che lavorò dapprima a Milano nelle cucine della corte ducale di Francesco SforzaSforzaFrancesco, poi alla corte pontificia del cardinale Ludovico TrevisanTrevisanLudovico (1401-1465), al quale è dedicato il libro («Coquo olim del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia»), e infine nuovamente a Milano nelle cucine di Gian Giacomo TrivulzioTrivulzioGian Giacomo (ca. 1440-1518).26 La menzione del borgo lombardo va dunque letta come riferimento generico al territorio delle Prealpi, per il quale era impiegato un toponimo che poteva orientare in maniera sufficientemente precisa anche degli interlocutori estranei alla regione.

1.2. Le denominazioni nella Lombardia svizzera

Se nel periodo ducale l’assenza di qualsiasi cenno agli svizzeri nelle denominazioni etniche e toponimiche della regione è naturale, in epoca balivale è lecito chiedersi se il mutamento della situazione politica modifichi questa consuetudine. Con la conquista della Leventina, stabilmente sottomessa al potere urano dal 1480, e con la calata di Uri, Svitto e Nidvaldo in Riviera, Blenio e a Bellinzona, tra il 1495 e il 1503, le estreme valli lombarde passano saldamente nelle mani dei cantoni confederati. Nell’àmbito delle Campagne transalpine, con il favore del papa Giulio IIDella Rovere (Giulio II)Giuliano, durante la spedizione di Pavia del 1512 i confederati estendono il loro dominio alle restanti terre dell’attuale Cantone Ticino, che costituirono durante l’ancien régime i quattro Baliaggi comuni di Locarno, Vallemaggia, Lugano e Mendrisio (dal 1522), fondamentali per il controllo dei valichi alpini.1

Il termine “baliaggio” (fr. ant. baillage), che storicamente indica la dignità e il territorio compreso nella giurisdizione del reggente, deriva dal nome di quest’ultimo, oggi comunemente indicato con la parola “balivo” (fr. ant. baillif), dal latino baiulis/baiula.2 Nella regione della Svizzera italiana l’impiego di questa terminologia – il cui uso, documentato a partire dal De Republica helvetiorum (1576) dell’umanista Josias SimmlerSimmlerJosias, si è assestato e consolidato soprattutto retrospettivamente – si afferma solo dalla metà del Settecento.3 Nei secoli precedenti le terre dei baliaggi italiani sono indicate più semplicemente come suddite alla sovranità degli svizzeri («Marc’Antonio de Marchi et Giambonini del luocho di Gandrio, giurisdittione delli illustrissimi Signori svizzeri»). L’uso della parola “balivo” risulta invece dall’adattamento degli storici al termine tedesco impiegato dagli Stati sovrani nel periodo di sudditanza elvetica, quando l’ufficiale incaricato era comunemente chiamato Landvogt o più semplicemente Vogt.4 Si vedano, ad esempio, gli atti del ricevimento ufficiale del cardinale Federico BorromeoBorromeoFederico avvenuto in Riviera nell’anno 1608, al quale erano presenti il pretore della Val Riviera, tedescamente chiamato landvogt, il prevosto di Biasca di nome Giovanni BassoBassoGiovanni (1552-1629) e altri sacerdoti e autorità civili:

Cum egressus esset de burgo Bellinzonae obvios habuit Praetorem vallis Riperiarum, appellant lingua germanica Lantfocht, et multos alios privatos dictae vallis, R. Joannem Bassum Praepositium Biaschae et multos alios sacerdotes dictae vallis a quibus cum magna laetitiae demonstratione receptus fuit.5

Lo stesso Giovanni BassoBassoGiovanni, citato in quest’ultimo documento, impiega a sua volta il termine Vogt (nella forma focth) in una lettera scritta a Cesare PezzanoPezzanoCesare il 25 settembre 1617, nella quale è discusso un contenzioso tra l’amministratore del baliaggio della Riviera e il sacerdote Jacomo di CrescianoJacomo da Cresciano:

L’altra cosa era, che questo focth delle Riiviere faceva gran instanza per haver da m. p. Jacomo di Cresciano il mal speso nei Trei Cantoni contra d’esso prette, nella causa che VSMR sa. me dissero detti ambasciatori, che havevano commissione delli s.ri di far che ‘l focth si accomodasse, ancora che conoscessero che ‘l sacerdote era inocente, et huomo di bene.6

Assecondando un principio di territorialità, il dominio politico confederato non modificò l’assetto giuridico e confessionale della Lombardia svizzera, che conservò autonomia legislativa e rimase legata alle diocesi di Milano e di Como.7 In questo stato delle cose, il rapporto dell’individuo con la comunità locale, così come le istituzioni tradizionali, quali la famiglia, la parrocchia e il patriziato, svolsero un ruolo centrale sul piano identitario.8 La dimensione comunale fu fondante, le singole comunità erano autogovernate, sul piano politico-amministrativo e religioso, sulla base di statuti locali, di tradizione medievale, riconosciuti dai cantoni confederati, che tutelarono i diritti e i privilegi degli abitanti. Nel contesto d’indipendenza comunale, questi complessi di norme giuridiche e le istituzioni locali erano indissolubilmente legati al concetto di libertà individuale e furono la principale ragione del sentimento aggregativo in ambito municipale, con le conseguenti manifestazioni etnonimiche.

A questo proposito, un brano di una sentenza di condanna a un ladro di Morbio Inferiore risalente al 1540 bene esemplifica la concezione del diritto municipale vigente nei baliaggi italiani e colloca geograficamente, mediante una formula di riverenza analoga ad altre osservate nelle pagine precedenti, le terre di Mendrisio nell’area di dominio svizzero:

 

Sequendo et volendo sequire nelle preditte cose la forma della rassone et de statuti de Mendrisio et Plebe di Balerna et ogni altro megliore modo et via quale meglio possemo et debbiamo atteso la auctorità podestà et bailia ad noi in questa parte atribuita et concessa per li magnifici illustrissimi et potentissimi signori Helvetii delli XII cantoni.9

Usi analoghi per esprimere lo statuto di sovranità svizzera sono documentati prevalentemente nei testi redatti da chierici o persone istruite, e possono variare secondo la cultura e la classe sociale dello scrivente. Per aggiungere un esempio, nell’intestazione degli atti relativi alla visita pastorale del 1591 del vescovo Feliciano Ninguarda nelle pievi comasche si legge una formula affine:

Visitationis personalis sitionum

illustrisimis dominis Helvetijs subiectarum

Diocesis nostrae comensis

factae anno domini 1591

per r.mum D. Felicianum episcopum comensem

pars secunda10

Anche per quanto concerne la consuetudine etnonimica il riferimento alla sovranità svizzera è talvolta aggiunto alle espressioni abituali. Come esempio a tale proposito, si veda la breve notifica di un medico di nome Benedetto della PortaBenedetto della Porta, stilata, in un italiano molto incerto, il 29 settembre 1659:

Notifico io Benedeto della Porta profesore delarte cirugicha alloficio del Ill.tre S.rg lanfocho di aver medicato Angero Realle di ColaAngelo Reale di Cola [Colla, nell’omonima valle] paiese deli Ill.tri S.rg Souiceri di una ferita fata di ponta nel peto nella parte sinistra la quale al mio giudicio non è mortalle ocorendo qualce cosa mentre che io lo seguitaro a medicarlo.11

Nel caso di artigiani o scriventi di media cultura, invece, il riferimento agli svizzeri quando presente è semplice e segue quello patriziale o diocesano. In coda alle usuali formule etnonimiche si sommano sintagmi come «degli suyceri», «stato suizero» o «dominii Elvetii». Ma le occorrenze, in questa situazione come nelle altre, oscillano sensibilmente caso per caso, testimoniando una tendenza facilmente intuibile e spiegabile: ovvero, questo tipo di menzioni sono più frequenti nelle carte redatte nel territorio e aumentano ulteriormente nei documenti ufficiali, allestiti per le autorità svizzere.

Nella Lombardia svizzera il riferimento alla sovranità non era sistematicamente esplicitato nelle denominazioni etniche e geonimiche, in special modo nei documenti vergati lontano dal territorio dei baliaggi comuni. Nel secolo XVI, con il progressivo fissarsi dell’uso cognominale anche per i ceti più modesti, una consuetudine che si è successivamente consolidata con la Controriforma, gli etnonimi oscillano anche più vistosamente, ma i riferimenti alla sovranità politica svizzera si attestano in rare occorrenze e con precise funzioni.12 A questo proposito, riagganciandoci a quanto osservato nelle pagine precedenti, possiamo vagliare la situazione di tre fra i più celebri artisti affermatisi nella vasta schiera di pittori, stuccatori, lapicidi e architetti partiti dai baliaggi italiani e attivi nei maggiori cantieri d’Italia e d’Europa.

Nel tardo Cinquecento è esemplare il caso di Domenico FontanaFontanaDomenico (1543-1607), primo di una serie di mastri provenienti dalle Prealpi lombarde che ebbero un ruolo centrale nell’edificazione della Roma barocca. L’uso etnico a lui riferito è oggetto di minime variazioni nel tempo. Nell’illustrazione che apre il suo trattato Della trasportatione dell’obelisco vaticano e delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di fatte dal Cavallier Domenico FontanaFontanaDomenico architetto di sua Santità, pubblicato a Roma nel 1590 e relativo all’erezione dell’obelisco di Piazza San Pietro, qui trasportato dal circo che sorgeva presso il colle Vaticano nel 1586 su ordine di Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di, l’architetto è indicato con il nome di battesimo seguito dal riferimento al borgo natio e alla giurisdizione diocesana. Nella fascia che incornicia l’effige del mastro, posta al centro dell’incisione a tutta pagina collocata dopo il frontespizio, si legge infatti: «DOMENICO FONTANAFontanaDomenico DA MILI DIOCESE DI COMO ARCHITETTO DI S. SAN. D’ETA D’AN. XLVI».13 L’obelisco, trasportato a Roma da Eliopoli per ordine di Caligola, necessitò di un notevole impegno ingegneristico e di grandi mezzi per essere collocato al centro della piazza. A opera eseguita, sul lato nord del monumento, sotto le insegne papali di Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di, l’architetto firmò la sua impresa ribadendo gli elementi etnici e onomastici presenti nel trattato: «DOMINICUS FONTANAFontanaDomenico EX PAGO MILI AGRI NOVOCOMENSIS TRANSTULIT ET EREXIT». Probabilmente in ragione del prestigio ottenuto con il lavoro svolto nei cantieri capitolini e napoletani, nell’edicola sepolcrale costruita nel 1627 e oggi posta nell’atrio della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli cadono invece le qualifiche municipali e regionali. Nell’iscrizione che trascrivo, FontanaFontanaDomenico è infatti indicato dai figli SebastianoFontanaSebastiano e Giulio CesareFontanaGiulio Cesare come patrizio romano, senza ulteriori riferimenti etnici:

DOMINICUS FONTANAFontanaDomenico PATRITIUS ROMANUS

MAGNA MOLITUS MAIORA POTUIT

IACENTES OLIM INSANAE MOLIS OBELISCOS

SIXTO V PONTIF.

IN VATICANO ESQUILIIS CELIO ET AD RADICES PINCIANI

PRISCA VIRTUTE LAUDE RECENTI EREXIT AC STATUIT

COMES EX TEMPLO PALATINUS EQUES AURATUS

SUMMUS ROMAE ARCHITECTUS

SUMMUS NEAPOLI PHILIPPO II PHILIPPO III REGUM

SESEQ.; AEUUMQ.; INSIGNIVIT SUUM

TEQ; INSIGNIVIT

QUEM SEBASTIANUS IULIUS CAESAR ET FRATRES

MUNERIS QUOQ.; UT VIRTUTIS AEQUIS PASSIBUS HAEREDES

PATRI BENEMERENTISSIMO P. ANNO MDCXXVII

OBIIT VERO MDCVII AETATIS LXIV

Un altro esempio rilevante si trova sempre a Roma pochi decenni più tardi e riguarda il pittore Giovanni SerodineSerodineGiovanni (1600-1630), originario di Ascona sul lago Maggiore, impostosi alla critica moderna come uno dei maggiori del suo secolo. Secondo le più recenti acquisizioni, l’artista nacque a Roma nel 1600, e non come precedentemente ipotizzato ad Ascona nel 1594, ma mantenne vivo negli anni il suo legame con la patria d’origine, nella quale i SerodineSerodineGiovanni conservarono la casa paterna e dove si trovano alcune tele di Giovanni, tra cui la grande Incoronazione della Vergine realizzata poco prima della morte per la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.14 In una monografia del 1954, Roberto LonghiLonghiRoberto pubblica alcuni documenti d’archivio della famiglia asconese, tra cui due redazioni del testamento di Cristoforo SerodineSerodineCristoforo, il padre del pittore, nelle quali si verifica un uso etnonimico conforme alla consuetudine osservata nelle pagine precedenti. Una prima stesura in latino del 13 agosto 1625 legge infatti l’incipit «Dominus Christophorus Serodinus condam Joannis Andreae Serodinis filius, de Ascona Comensis dioecesis mihi Notario cognitus, sanus Dei gratia mente, sensu, corpore, loquela et intellectu, asserens alias et sub die 30 Mensis Septembris 1621 […]».15 Una compilazione successiva in italiano del 19 giugno 1626 ripete gli stessi elementi con due minime variazioni, cade il patronimico e compare il riferimento geografico al lago Maggiore: «Considerando io Christoforo SerodineSerodineGiovanni d’Ascona del Lago Maggiore diocesi di Como, che in questo mondo non vi è cosa più certa della morte et più incerta dell’hora et ponto suo […]».16 Una formulazione analoga è impiegata anche da Giovanni, che in un documento datato del 24 settembre 1624 scrive: «Die 24 7bris 1624, Jo: Baptista filius Christophori Serodani de lacu maiori comen.[sis] dioec.[sis] aetatis suae annor […]».17 Se questi documenti attestano un uso conforme alle aspettative, risulta invece eccentrico l’uso di un particolare «sobriquet toponimico» (così LonghiLonghiRoberto) impiegato in alternativa al nome di battesimo per identificare il pittore. Infatti, alla morte del marchese Asdrubale MatteiMatteiAsdrubale, avvenuta nel 1631, nell’inventario dei suoi beni sono elencati «un quadro dei Farisei, quando mostrano la moneta», ovvero l’opera riconosciuta come Tributo della moneta, conservata alla National Gallery of Scotland di Edimburgo; e un’altra tela raffigurante «quando Santo Pietro e Santo Paolo andarono al martirio», cioè l’Incontro dei Santi Pietro e Paolo sulla via del martirio, oggi a Palazzo Barberini. Entrambi i dipinti sono attribuiti a «Giovanni della Voltolina», ovvero Giovanni della ValtellinaGiovanni della Valtellina (voltolina nelle varietà lombarde), nome dietro il quale va riconosciuto Giovanni SerodineSerodineGiovanni.18 Verosimilmente, la denominazione etnica regionale, in senso ampio, era impiegata per indentificare in ambiente romano il pittore proveniente da un modesto borgo lombardo, genericamente ricondotto alla vallata del fiume Adda. L’equivoco è forse dovuto al fatto che la Valtellina al tempo era soggetta al dominio grigionese delle Tre Leghe, alleate dei Cantoni confederati. Era cioè una terra dipendente dal potere degli svizzeri, seppur mediato dai Grigioni, e proprio come Ascona, situata nel Baliaggio italiano di Locarno, rispondeva alla sovranità dei Dodici cantoni. Inoltre, come buona parte della Lombardia svizzera, la Valtellina era luogo di emigrazione, orientata verso le maggiori città italiane, e gli emigranti dell’una e dell’altra, considerati semplicemente come lombardo-alpini, si confondevano fra loro ed erano facilmente scambiabili.19