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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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La prima è impiegata dal poeta in un articolo pubblicato sull’«Àdula» all’indomani della sconfitta italiana a Caporetto. Il testo, dall’eloquente titolo Viva l’Italia!, era teso ad esprimere la solidarietà del Ticino al vicino Regno d’Italia, ma manifestava tra le righe un chiaro sentimento anti-tedesco, che suscitò non poche rimostranze nella Confederazione:

Noi, ramoscello estremo della gran pianta italica, proteso e conserto nell’orto elvetico, tremiamo mentre la furiosa scure teutonica s’affanna a percuotere il tronco. Ma il tronco è duro quanto ferro, e non si spezza e non si piega e scaglia le sue schegge negli occhi dell’assalitore. È lo stesso legno ond’era fatto il Carroccio che Federico Barbarossa conobbe.47

ChiesaChiesaFrancesco dà notizia delle polemiche suscitate da questa metafora in un discorso pronunciato il primo dicembre dell’anno successivo in occasione dell’inaugurazione della filiale luganese dell’Istituto librario italiano di Zurigo, poi pubblicato in forma scritta sulla Cronaca cittadina del «Corriere del Ticino». Nell’orazione il poeta non si limita a difendere l’immagine proposta l’anno precedente, ma giunge a riformulare la denominazione “Svizzera italiana” rovesciando sostantivo e attributo; come già fatto, in ben altro contesto storico e con altra intenzione politico-identitaria, da FransciniFransciniStefano negli anni trenta dell’Ottocento. Questo sintagma, impiegato da ChiesaChiesaFrancesco ancora decenni più tardi nei Colloqui con Piero BianconiBianconiPiero, condensa la sua percezione di fondo della regione italofona della Svizzera, sostanzialmente immutata dalla giovinezza alla vecchiaia: ovvero di un territorio etnicamente, culturalmente e linguisticamente italiano, ma pacificamente inserito nel quadro politico elvetico. Oltre a ciò, nel brano che si trascrive emerge ancora una volta e chiaramente il significato attribuito da ChiesaChiesaFrancesco alla locuzione “Svizzera italiana” (o “Italia svizzera”), limitata al solo Cantone Ticino:

In una certa occasione, io paragonai il Cantone Ticino ad un ramo estremo della gran pianta italica proteso ed inserto nell’orto elvetico. Ci fu chi non trovò di suo gusto quell’immagine, ed io risposi che l’immagine poteva essere malpropria o infelice, ma che la cosa era ed è veramente così. Il Cantone Ticino, secondo la definizione ortodossa, è la Svizzera italiana; ma io credo che meglio e senz’eresia, si possa dirlo l’Italia svizzera.48

La similitudine biblica, invece, è usata da ChiesaChiesaFrancesco in un discorso pronunciato il 9 aprile 1919 durante un raduno della Federazione goliardica ticinese svoltosi a Bellinzona. In questa occasione, con toni fortemente polemici, il poeta oppone all’immagine dell’arca di Noè, pensata come rappresentazione di una Confederazione coesa, che raggruppa una moltitudine di razze differenti, un’immagine metaforica della Svizzera iperfederalista, raffigurata con le arche di Cam, Sam e Jafet, corrispondenti alle maggiori regioni linguistiche, le quali navigano separatamente nella tempesta verso una meta concorde:

No! Noi diremo ai nostri confederati. Non è necessario ripetere così alla lettera la storia del Patriarca. Sem, Cam e Jafet possono ben fabbricarsi ciascuno la propria nave e le tre navi andar concordi nella tempesta… Ad ogni modo, niente arca di Noè. Piuttosto perire, ma nella nostra casa.49

Come documentano gli esempi osservati, ChiesaChiesaFrancesco si pone in maniera ambigua e a tratti discorde nei confronti della Confederazione. E anche le sue collaborazioni transalpine tendono sostanzialmente al proposito di difesa dell’italianità e dell’autonomia culturale del Ticino, senza mai mostrare un investimento in direzione elvetica che vada oltre al rispetto della convivenza stabilita con il patto federale del ‘48. Questa tendenziale ambiguità permise allo scrittore di conservare buoni rapporti da ambo le parti, in Svizzera e in Italia, anche quando in quest’ultima si impose la politica totalitaria e nazionalista del fascismo. Con scarsa lungimiranza ChiesaChiesaFrancesco fu infatti sostenitore dell’Italia mussoliniana, nella quale vedeva «una benefica scrollata, un salutare sgretolamento di certi decrepiti edifizi».50 Nel clima delle tensioni nate con la fine della Grande Guerra, durante la quale la Svizzera era divisa in due fazioni, a sostegno degli alleati la latina e degli imperi centrali la tedesca, le relazioni del poeta con il regime fascista generarono l’ostilità e la preoccupazione del governo centrale.51 Tuttavia, lo scrittore motivava i frequenti contatti con l’Italia di MussoliniMussoliniBenito sostenendo che per il Ticino mantenere vive le relazioni con la cultura ufficiale e con le istituzioni consolidate era una necessità, a prescindere dalle questioni ideologico-politiche; in questa prospettiva, fatta salva una malcelata simpatia per il regime, poco cambiava se l’Italia non era più quella di tradizione liberale e risorgimentale, alla quale si riferivano gli italofili ticinesi a inizio secolo, ma quella nazionalista e dittatoriale del fascio.52 Lo testimonia, ad esempio, una lettera inviata a BertoniBertoniBrenno il 5 aprile 1931, nella quale il poeta dichiara di anteporre alle passioni politiche la salute del Cantone, che rimane a suo dire la principale ragione dei suoi legami con l’Italia fascista:

E c’è di mezzo anche la questione del fascismo e dell’antifascismo. Argomento sul quale non è facile essere brevi, vero? Io m’accontento di dirti questo: che se in Italia, anziché le camicie nere trionfassero oggi le camicie rosse, cercherei (con qualche sforzo) di tenermi in buone relazioni con le camicie rosse. E questo non per considerazioni d’interesse (come può pensare il volgo), ma perché il Canton Ticino deve essere amico dell’Italia…53

D’altra parte, è certo che ChiesaChiesaFrancesco beneficiò di questa situazione per affermarsi come letterato fuori dai confini cantonali, nel resto della Svizzera e in Italia. I più importanti riconoscimenti italiani – il premio del Romanzo Mondadori (1927), il dottorato honoris causa dell’Università di Roma con visita a MussoliniMussoliniBenito (1928) e il premio Angelo Silvio NovaroNovaroAngelo Silvio dell’Accademia italiana (1940) – giunsero infatti al tempo del fascismo e almeno in parte riflettevano gli interessi del regime per lo scrittore, ritenuto un sicuro canale di penetrazione culturale e ideologica nella Svizzera italiana.54 Ma se ChiesaChiesaFrancesco fu consacrato anzitempo come “vate” del Ticino e fu molto celebrato in vita, le sue simpatie fascisteggianti hanno almeno in parte contribuito, assieme alla posizione letteraria conservatrice e per certi versi retriva, all’immeritato disinteressamento per la sua opera da parte di lettori e critica che si è verificato dopo la morte.55

In conclusione di questo primo paragrafo, per osservare la questione da un’altra prospettiva, è significativa la visione dal basso, trasmessa in una poesia di Giorgio OrelliOrelliGiorgio, dell’adesione nicodemica o ambigua di ChiesaChiesaFrancesco al fascismo. In chiusura al testo intitolato Raccontino 1948, raccolto nella silloge Il collo dell’anitra del 2001, l’autore inscena l’incontro con due cacciatori di Sagno, il paese di ChiesaChiesaFrancesco, che alludono con toni sibillini ai traffici intrattenuti dal poeta con l’Italia fascista, II 13-26:

quando, nel gran silenzio del picchio, sentii delle voci,

parevano risate,

e vidi due giovanotti velluteggiare tra l’erica

e le betulle, due cacciatori che mi vennero allegri

incontro; di Sagno, dissero; dico: «Di Sagno? il paese

del ChiesaChiesaFrancesco, Francesco, il poeta? Poco fa

gli avete fatto festa, per i settantacinque mi pare».

«Eh, se fosse per lui …», dice l’uno,

«somiglia a quello che ha inventato l’ostia»;

e l’altro: «A Sagno avevamo la Posta

noi, mi ricordo, fin dentro alla guerra,

al ChiesaChiesaFrancesco dall’Italia arrivavano pacchi

e pacchi e pacchi …»

«Ah», dico, «libri,

saranno stati libri».56

2.2. La lingua italiana: dalle Lettere iperboliche al Galateo della lingua

Oltre che promotore della voce svizzero-italiana nel dibattito identitario nazionale, ChiesaChiesaFrancesco fu il regista occulto delle manovre di difesa culturale attuate nel Cantone Ticino tra il 1924 e il 1950, ovvero dei postulati inclusi nel cahier de doléances riconosciuto dagli storici con il nome di “rivendicazioni ticinesi”.1 A questo contenzioso con la Confederazione si aggiunse sul piano cantonale un più ampio protezionismo, segnatamente per quanto concerne il patrimonio artistico, che si manifestò ad esempio con l’avversione per la moderna architettura razionalista. A tale proposito, sono significative le polemiche suscitate dalla costruzione alla fine degli anni Venti dell’Albergo Monte Verità, progettato dall’architetto tedesco Emil Fahrenkamp, e del Teatro san Materno di Ascona, costruito nel 1928 dall’architetto e pittore Carl WiedermeyerWiedermeyerCarl per la ballerina Charlotte BaraBaraCharlotte. Queste opere, tra i maggiori esempi dell’architettura razionalista tedesca nel Ticino, furono percepite come un segnale della penetrazione del gusto architettonico transalpino nelle tradizioni del territorio svizzero-italiano. ChiesaChiesaFrancesco, in quanto presidente della Commissione cantonale dei monumenti storici e artistici, fu interpellato in merito ed espresse giudizi severamente negativi, che congiunti all’analogo parere di altri esperti portarono il governo a negare l’autorizzazione per la costruzione di edifici in questo stile.2

La più solerte e costante difesa dell’italianità del Ticino fu tuttavia promossa da ChiesaChiesaFrancesco in àmbito linguistico. Questa particolare sensibilità è giustificata dalla rilevanza entico-culturale che lo scrittore attribuisce alla lingua, ritenuta la depositaria del carattere profondo di un popolo. Lo testimonia efficacemente, ad esempio, un passo contenuto nel manifesto della Dante Alighieri redatto dallo scrittore ticinese nel 1909, che vale la pena citare per esteso:

 

Il linguaggio non è, come molti suppongono con troppa leggerezza, un accidente, un mezzo fortuito ad esprimere pensieri che si possa senza danno sostituire o deformare; è invece un elemento essenziale nella vita d’ogni popolo; è un’attività la quale fiorisce bensì eternamente, ma radica profonda, e chi la crede un semplice capriccio della superficie, erra come chi negasse le ragioni intime del cuore perché non se ne ode il battito a fior di pelle. Quando un popolo si lascia logorare o storcere l’uso della lingua, segno è che ha perduto o sta perdendo le energie caratteristiche del proprio essere, e presto o tardi non sarà nemmen più popolo, ma accozzaglia di uomini estranei a sé stessi e agli altri.3

In anticipo sulla riflessione relativa all’identità della Svizzera italiana, suscitata nel 1909 sull’impulso di questa iniziativa, ideata da SalvioniSalvioniCarlo, ChiesaChiesaFrancesco condusse un’attività in favore della tutela e della promozione della lingua italiana nel Ticino già a cavallo tra i due secoli.4 La prima espressione del progetto di rinvigorimento culturale condotto da ChiesaChiesaFrancesco nella regione, che poi si produsse prevalentemente nel settore scolastico, letterario e storico-artistico, va riconosciuto nella fondazione e direzione, condivisa con il giornalista e prosatore locarnese Angelo NessiNessiAngelo, del periodico quindicinale «Piccola rivista ticinese», stampato irregolarmente in un insolito formato oblungo tra il 1899 e il 1901.5 Questa iniziativa non era tesa unicamente a promuovere la letteratura e l’arte, i principali argomenti della rivista, ma voleva fornire al contempo un modello linguistico e morale per far fronte all’impoverimento culturale del Cantone.6

Il progetto che motiva l’iniziativa editoriale è esposto nel dialogo, attraversato da chiari intenti programmatici, del curatore con un fittizio signore Cirra, dal nome attribuito ad Apollo nella Commedia dantesca; lo suggerisce la terzina posta in esergo al dialogo, Par. I 34-36: «Poca favilla gran fiamma seconda. | Forse di retro me con miglior voci | si pregherà perché Cirra risponda». La conversazione esplicita, con i toni iperbolici che saranno caratteristici della fortunata serie di lettere omonime pubblicate a puntate sulla rivista, la volontà di sostituire a quello «degli avvocati e dei tribuni» un modello linguistico più alto, veicolato dalla letteratura. Trascrivo di seguito l’intero brano:

Hai ragione, Apollo; noi siamo tutti un poco guasti dall’uso retorico al quale nascemmo, secondo il quale esercitammo le prime voci, i primi passi. Tu non puoi immaginarti a quale eccesso sia arrivato l’abuso delle iperboli, delle circonlocuzioni, di tutte le figure più strane e contorte, nel linguaggio ordinario del mio paese, paese finora senza letteratura. E peggio si è che la gente in buona fede attribuisce talvolta valore di verità esatta a quel che dovrebbe essere invece ripreso come una metafora goffa od un’iperbole grottesca. Nel linguaggio dei nostri giornali e dei nostri comizi, le parole assassino, ladro, traditore e salvatore della patria ricorrono così frequenti che guai a noi se alcuno si argomentasse a giudicarci secondo quel che parrebbe dal nostro vocabolario! Ebbene, io credo che questi vizi stupidi del nostro stile dipendano più da difetto di cultura artistica, che da difetto di verace sentimento. Siamo violenti, iperbolici, oscuri, prolissi, perché da parecchi non si sente e non si ama la bellezza della discrezione, la grazia pura della verità. Ecco perché la creazione di una rivista letteraria mi sembra opera di notevole importanza; ecco perché sono venuto a invocare il tuo nume, o Apollo.7

Le stesse Lettere iperboliche, nelle quali con sferzante satira sono rilevati gli aspetti più negativi della regione, spesso individuati nelle abitudini della classe dirigente e borghese, si propongono come modello linguistico.8 Come modello di una lingua scritta di registro alto, còlta e arcaizzante, nella misura in cui abbondano le forme lessicali desuete (nepoti; riescire; magazzeno; o l’uso frequente dell’i prostetica: istesse, ispiccare, ispavento), quelle letterarie (cheta; dubbiare; tonitruante) e i giri sintattici ricercati, seppur sempre accomodati alla misura giornalistica dei testi.9 Questo linguaggio letterario, fitto di similitudini e metafore, anche ampie o continuate, è arricchito di inserti latini, di riferimenti storici e di citazioni letterarie (da DanteAlighieriDante soprattutto, ma anche da OvidioOvidioPublio Ovidio Nasone, da ManzoniManzoniAlessandro eccetera): a segno che ChiesaChiesaFrancesco intendeva proporre da un lato un modello formale, di scrittura, e dall’altro un modello culturale, di lettura e studio. Questo stile, come suggerisce il passo citato, è messo a punto per una ragione precisa. Ovvero, come detto, si pone in alternativa agli usi iperbolici e roboanti diffusi nell’amministrazione e nel gergo avvocatesco della regione, uno dei bersagli privilegiati delle lettere e ben noto all’autore, diplomato in legge e impiegato per tre anni al tribunale di Lugano.

Quello promosso con le Lettere iperboliche è un modello di lingua alta e letteraria, ideato dunque come esempio per l’espressione scritta. D’altro canto, ChiesaChiesaFrancesco si occupò di correggere e migliorare anche l’italiano corrente dei cittadini ticinesi, in particolare, è lecito supporre, mediante l’insegnamento nel Liceo cantonale e con le numerose attività culturali promosse in Ticino nel corso dei decenni.10 Nonostante alcuni bozzetti apologetici della situazione linguistico-culturale regionale, inclusi con precisi intenti politico-culturali nell’articolo Il Canton Ticino pubblicato nel ’13 su «La Voce» o nell’opuscoletto fiorentino Svizzera italiana del 1931, ChiesaChiesaFrancesco accoglie dentro al Novecento il topos del “cattivo italiano” parlato nella Svizzera italiana, di cui abbiamo seguito le tracce fin dal secolo XVIII.11 Secondo questo luogo comune, non del tutto inesatto, l’italiano parlato nella Svizzera sarebbe pesantemente contaminato dall’influsso del francese e del tedesco, e soprattutto subirebbe nel parlato l’interferenza del robusto fondo dialettale lombardo. In questo senso, la sua protratta riflessione sulla lingua, funzionale in primo luogo ad allineare la propria espressione a una dizione toscaneggiante, priva di qualsiasi carattere regionale o idiomatico, portò lo scrittore ad allestire un prontuario di norme linguistiche, trasmesso alla Radio Svizzera di lingua italiana (allora Radio Monte Ceneri) nei primissimi anni Quaranta. Le conversazioni lette in queste occasioni, prefate dal direttore del Dipartimento della Pubblica istruzione Giuseppe LeporiLeporiGiuseppe, sono raccolte nel volumetto Galateo della lingua, stampato dalla tipografia Leins & Vescovi di Bellinzona nel 1942.12

Questa pubblicazione è la sintesi degli sforzi prodotti da ChiesaChiesaFrancesco per la difesa della lingua italiana nel Ticino, da lui condotta con principi normativi tardo-manzoniani, conservatori. Nella sua prospettiva, l’impegno linguistico va ricondotto alle urgenze identitario-culturali del tempo. Lo documenta un passo della prima parte della lezione eponima al libello, nella quale ChiesaChiesaFrancesco riprende sostanzialmente l’idea presentata nel manifesto della Dante Alighieri, citato sopra:

Ma che c’entra la lingua? Vediamo. Tutti (o almeno tutti coloro che hanno avuto tempo di pensarci) sanno che la lingua rappresenta un valore essenziale nella vita e nella civiltà di ogni popolo; e che la parola non è un semplice, fortuito mezzo di espressione, ma è lo stesso spirito nostro in quanto si esprime […] Anche nel nostro paese (e dobbiamo felicitarcene), si sa che non saremmo più noi se la lingua nostra più non fosse.13

Sulla base di tale convinzione, lo scrittore impose agli ascoltatori radiofonici un suo Galateo della lingua italiana, ovvero delle «norme di buona creanza» linguistica, dei «modi puliti e cortesi» per regolare le «relazioni quotidiane».14

Il volumetto, costituito da pagine storiche e pagine normative, si compone di nove brevi lezioni nelle quali è proposto un campionario di errori frequenti: un’introduzione anepigrafa; Difetti ed errori del nostro italiano parlato; Ancora circa i difetti e gli errori più comuni del nostro italiano parlato; Parlare, leggere, recitare; e infine l’eponimo Galateo della lingua, suddiviso in cinque parti leggermente più estese delle precedenti. Come emerge dal titolo delle conversazioni, il proposito di ChiesaChiesaFrancesco era quello di fornire informazioni storiche sulla lingua, per rendere la popolazione consapevole della storia dell’italiano, e soprattutto quello di dare alcuni consigli pratici per migliorare l’espressione corrente dei ticinesi. La lingua con la quale è redatto il Galateo è di per sé un valido esempio di un italiano elegante e controllato, privo di svolazzi e facilmente comprensibile dagli ascoltatori: una lingua profondamente diversa da quella delle Lettere iperboliche. E possiamo supporre che anche la lettura radiofonica di ChiesaChiesaFrancesco fosse condotta con una dizione esemplare. Infatti, benché i nastri con le registrazioni siano andati persi o distrutti, rimangono numerose testimonianze indirette della pronuncia severamente controllata del poeta. MontaleMontaleEugenio, ad esempio, nell’articolo Poeta di Frontiera, apparso sul «Corriere della Sera» nel 1952, riferendosi a una conversazione con il ticinese rilevava la sua «voce arguta, senza inflessioni lombarde» e aggiungeva: «Non è così forse, nei fatti, ma si direbbe che ChiesaChiesaFrancesco abbia lungamente risciacquato i suoi panni in Arno. Pochi lombardi parlano come lui».15 A questa si può sommare l’autorevole testimonianza di Bruno MiglioriniMiglioriniBruno, il quale, nel suo intervento al simposio luganese per i cento anni dello scrittore, affermava: «Continua soprattutto nel raccomandare caldamente una perfetta pronuncia: e tale pronuncia personalmente Francesco ChiesaChiesaFrancesco ha raggiunto con un autodisciplina che appunto meriterebbe di essere più vastamente seguita».16

Le parole di MiglioriniMiglioriniBruno invitano a osservare più da vicino le pagine del Galateo, in buona parte dedicate alla promozione di una pronuncia corretta, secondo la visione puristica o tardo-manzoniana dell’autore. ChiesaChiesaFrancesco impone cioè un modello toscaneggiante e giustifica la propria posizione con argomenti di carattere storico:

Qui occorre che c’intendiamo bene, perché è cosa che tocca la questione fondamentale. Tutti sanno che cosa sia quella che chiamiamo lingua letteraria, l’italiano che adoperiamo scrivendo e, salvo casi particolari, parlando. È uno dei dialetti italiani, il toscano (o, più esattamente, il fiorentino) il quale, per tante ragioni, diventò lingua letteraria di tutta la nazione […] Ora, non si comprende bene perché, avendo noi, come tutte le altre regioni di stirpe italiana, accettato il toscano nelle forme scritte, dobbiamo rifiutarne le forme orali […] No, accettare il vocabolario, l’ortografia e la sintassi d’un idioma, vuol dire accettarne anche, per quanto ci è possibile, la pronuncia.17

Le cause più frequenti delle deviazioni della pronuncia ticinese dalla norma toscana sono identificate da ChiesaChiesaFrancesco in tre principali fattori, ovvero: l’influsso della fonetica dei dialetti locali, l’interferenza di quella del dialetto milanese e l’ignoranza dei parlanti.

Per quanto concerne la prima, l’autore riconduce a un’abitudine linguistica dialettale tipicamente lombardo-alpina l’impiego delle vocali anteriori arrotondate in parole come müro, üno, , nonché la palatalizzazione del gruppo consonantico sc-, per scuola, scala, schifo, ad esempio. Cui si aggiunge un difetto comune ai dialetti settentrionali, vale a dire lo scempiamento delle consonanti geminate. ChiesaChiesaFrancesco ritiene vada fatto uno sforzo in questo senso, poiché «pronunciare debolmente le doppie di libretto, perfetto, ombrello, fratello, correre, arrivare e così via, significa conferire al nostro discorso un tono di mollezza che non è nella sua natura, deprimere i rilievi, diminuire il chiaroscuro».18

 

Oltre a ciò, nel Galateo è rilevato il naturale influsso delle varietà vernacolari sull’apertura e la chiusura delle vocali toniche nell’italiano standard parlato nella regione. Un ticinese pronuncerà, ad esempio, vénto, spécchio e pòsto sul modello dei corrispettivi dialettali vént, scpécc, pòsct.19 Tuttavia, per quanto concerne questo aspetto, l’autore osserva che le varietà lombardo-alpine nella maggioranza dei casi assecondano l’uso toscano. Ad esempio, nei dialetti regionali si pronuncia quést, sélva, béstia, méssa, nonché i diminutivi in -etto o -etta, con la e chiusa come vuole il vocalismo fiorentino. L’uso scorretto di quèsto, sèlva, bèstia, mèssa nell’italiano regionale va allora ricondotto, osserva con perspicacia ChiesaChiesaFrancesco, all’influsso della varietà di prestigio milanese, nella quale abbondano «i suoni larghi e grassi».20

Infine, l’autore richiama l’attenzione degli ascoltatori (e dei lettori) sulla necessità di differenziare la sonorità di s e z tra le sorde (sangue, calza) e le sonore (esangue, garza). Ancora più importante, poiché da essa dipende il significato della parola, è la distinzione delle vocali toniche nelle coppie minime: di fóro (‘buco’) e fòro (‘piazza’), ad esempio, o di colléga (dal verbo collegare) e collèga. L’incertezza dei parlanti ticinesi, secondo l’esperienza dell’autore, non si limita all’apertura delle vocali, ma si manifesta anche più grossolanamente nello «spostamento dell’accento tonico fuori della sillaba su cui indiscutibilmente deve cadere».21 Secondo l’autore, ad esempio, nel Ticino si usa erroneamente mòllica in luogo di mollìca, lòmbrico invece di lombrìco o ancora erùdito al posto di erudìto. Una sottile incertezza si palesa, per il vero, anche negli esempi riportati nel Galateo: per il verbo irritare lo scrittore rifiuta la più comune pronuncia sdrucciola (ìrrita) in favore di quella latina (irrìta), che viene invece scartata nel caso di gratuìto per il quale è preferita la forma con accento ritratto (gratùito). Nelle sue riflessioni, ChiesaChiesaFrancesco giunge alla conclusione che questo tipo di errori da parte dei parlanti ticinesi non sono «determinati da tirannia della pronuncia locale, ma da difettosa conoscenza della lingua».22 Per correggere tali imperfezioni, indipendenti dalle abitudini dialettali o idiomatiche, nel volumetto si invita dunque all’esercizio e allo studio, da condurre con il sostegno di adeguati sussidi didattici e lessicografici.

Sempre collegato alla pronuncia, nella quarta lezione della serie (Parlare, leggere, recitare) sono forniti alcuni consigli sulla dizione e la recitazione di un testo, poiché

non ne viene per necessaria conseguenza che quel perfetto pronunciatore di parole singole sia anche un buon parlatore, un buon lettore, un buon recitatore. Proprio come non si può ritenere che chi sappia ricavare dal violino le note giuste, sia anche, per questo solo fatto, un buon violinista.23

In sostanza, l’autore richiama gli ascoltatori all’esigenza di allenare la lettura, perché leggere «è un’arte» e come tale è «una cosa che bisogna studiare».24 Per il vero, i suggerimenti avanzati in proposito da ChiesaChiesaFrancesco non sono particolarmente originali o innovativi. Per quanto concerne la lettura in versi, l’autore ritiene necessaria una «delicata esaltazione, che non deformi la giustezza della voce né la naturalezza del tono».25 La ricerca di una precisa e controllata naturalezza è il principale consiglio proposto anche per la lettura della prosa, accompagnato dalla raccomandazione di evitare da un lato la monotonia, dipendente dalla pigrizia del lettore, e dall’altro l’artificiosa cantilena, generata da presunti abbellimenti e da alterazioni inserite ad arte nella dizione.26

Nella serie di letture eponima al volumetto, l’autore presenta un campionario di errori ricavati dai numerosi giornali cantonali e dalla lingua della prosa legislativa e avvocatesca, caratteristica del Ticino. Cioè allestisce un elenco dei difetti della lingua scritta, ai quali affianca di volta in volta un’alternativa corretta o preferibile. In questa seconda sezione, costituita da una serie coesa in cinque parti, distinta dalle conversazioni precedenti, ChiesaChiesaFrancesco si occupa di vagliare gli errori grammaticali, considerando in particolare le preposizioni, gli avverbi e i verbi; l’uso improprio del lessico, compresi alcuni elvetismi o regionalismi; le scelte di stile, in particolare per quanto riguarda la costruzione delle metafore.

Per quanto concerne la grammatica, l’autore rileva soprattutto incertezze relative all’uso delle preposizioni. Le cause di tale difetto sono duplici, da un lato risentono del sostrato dialettale e dall’altro dell’influsso della lingua francese. Nel Ticino, ad esempio, è frequente la sostituzione della preposizione di con da (es. strada coperta da neve, offerte corredate da certificati). La ragione di tale errore, come osserva ChiesaChiesaFrancesco, risiede nel fatto che nelle varietà dialettali locali è assente la particella di, in luogo della quale si impiega da.27 In compenso, nella Svizzera italiana si abusa del di come articolo partitivo, assecondando un abitudine francese. Ad esempio, «il Gran consiglio nomina delle commissioni speciali» invece di nomina le commissioni speciali, o ancora «si potrà procedere a delle votazioni eventuali» invece di si potrà procedere alle votazioni eventuali. Benché non si tratti di un errore strictu senso, così facendo, sostiene ChiesaChiesaFrancesco, s’incastra nelle frasi «una parola superflua, difforme dall’indole della nostra lingua, spiacevole all’udito».28 Un’influenza analoga si verifica anche nell’uso improprio della preposizione in, piegata nell’uso alle abitudini dell’en in lingua francese: ad esempio, nell’italiano regionale è diffusa la particella in per il complemento di materia (la casa in legno da maison en bois, la ringhiera in ferro da grille en fer eccetera), che invece richiede la preposizione di.

La rassegna di errori relativi agli avverbi è invece più breve. L’autore richiama l’attenzione sull’uso improprio – ancora oggi diffuso – di sùbito come avverbio di luogo (la mia casa è quella sùbito dopo questa), che propone di sostituire con immediatamente o modificando la formulazione della frase.29 Non diversamente, anche per quanto concerne i verbi sono individuate alcune ricorrenti storture dell’italiano regionale ticinese. Con ironia, ChiesaChiesaFrancesco scrive:

Il verbo come ognuno sa, è il re d’ogni discorso umano; ma da noi, repubblicani anche in grammatica, non si è tanto disposti a riconoscere la dignità regale del verbo, e ci si affanna a sostituirgli un qualunque sostantivo, anche se deforme.30

Così, per aggiungere due esempi proposti dall’autore, si attestano nel Ticino frasi come «decreto A in modificazione del decreto B» invece della più semplice formulazione il decreto A che modifica il decreto B, oppure analogamente ufficio alle dipendenze in luogo di ufficio che dipende. A questa, ChiesaChiesaFrancesco aggiunge altre due deformazioni del verbo ricorrenti nella lingua scritta della Svizzera italiana. La prima, tipica del lessico giuridico, è l’uso smodato del participio presente: insomma, la riduzione del verbo ad aggettivo. Così, in luogo del più corretto decreto che autorizza è generalmente preferito il costrutto decreto autorizzante. Benché nella rassegna allestita da ChiesaChiesaFrancesco sia documentata una tendenziale omissione del verbo in favore di forme sostitutive, nel Galateo è discusso anche un fenomeno opposto. Nei giornali e nei testi di legge redatti nel Ticino trova largo spazio l’uso dei verbi riflessivi, che sostituiscono il verbo diretto o il passivo, in alcuni casi generando dei buffi equivoci. Uno di questi, per citare un caso riportato nel volumetto, riguarda il regolamento della professione del barbiere, per la quale si prescrive che «Le salviette di stoffa ed i panni per lavare la testa debbono lavarsi dopo ogni uso, od almeno stirarsi a caldo» (invece di vanno lavate dopo ogni uso, od almeno stirate a caldo). L’autore aggiunge ironicamente: «Brave quelle salviette così ben addomesticate che si lavano da sé e perfino si stirano a caldo!».31