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Il nome e la lingua

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2. Francesco ChiesaChiesaFrancesco. Lingua e letteratura nella Svizzera italiana

Di faccia a Campione (lago di Lugano) è un’alta montagna, che vista appunto da quel paesello, presenta lo stesso profilo del Duomo di Milano. Il che è una prova non lieve della paternità attribuita ai Maestri Campionesi del nostro Duomo. L’immagine lungamente veduta dal bimbo non può non aver echeggiato, nella fantasia dell’uomo, guidando così la sua architettonica mano.

C. DossiDossiCarlo, Nota azzurra n. 4425

2.1. L’italofilia di ChiesaChiesaFrancesco

Nel primo decennio del secolo XX, quando la figura di Francesco ChiesaChiesaFrancesco (1871-1973) iniziava a imporsi come riferimento culturale nel Ticino, la sua posizione ideologico-identitaria si allineava sostanzialmente alla filoitalianità di SalvioniSalvioniCarlo e del gruppo di promotori di una sezione locale della società Dante Alighieri, di cui il poeta fu convinto sostenitore.1 Prima di allora l’identità etnico-culturale della Svizzera italiana non era per lui una questione urgente. Al contrario, come dichiarava nei già menzionati Colloqui con Piero BianconiBianconiPiero, ChiesaChiesaFrancesco maturò la consapevolezza della propria italianità, e più ampiamente della peculiare situazione culturale della Svizzera italiana, solo all’inizio del secolo:

Andiamo piano… Per ciò che tocca la nostra italianità, il nostro essere di italiani svizzeri, fino all’inizio di questo secolo la mia inconsapevolezza fu pressoché perfetta. Avevo ormai trent’anni; e non mi consola ricordare che molti altri, più che trentenni, erano del pari inconsapevoli.2

Un orientamento solidamente filo-italiano da parte di ChiesaChiesaFrancesco si manifestò almeno fino al 1912. Ad esempio, in un articolo nel quale sono esposte alcune riflessioni sull’Università nella Svizzera italiana, apparso il 15 agosto del 1912 sulla rivista fiorentina «La Voce» in forma di responsiva a un invito di PrezzoliniPrezzoliniGiuseppe, il poeta afferma la totale conformità di Ticino e Lombardia, esclusa beninteso la componente politica. Fra i numerosi passi rilevanti a tale proposito, trascrivo il più significativo:

Il Ticino è un pezzo schietto di alta Lombardia: vallate perfettamente simili all’Ossola, alla Bregaglia, alla Valtellina; laghi tagliati dal confine politico; verso mezzogiorno, colline e piani uguali a quelli della Brianza e del Varesotto.

Nessuna terra fu dalla natura così tenacemente unita a terra, come il Ticino all’Italia circostante. E similmente la storia, la tradizione, la fisionomia etnica della gente, l’arte, gli usi, i dialetti.3

Allo stesso anno risale la stesura del manifesto di presentazione e promozione della nuova raccolta di racconti intitolata Istorie e favole (1913), nel quale emerge un chiaro sentimento italofilo accompagnato da una certa diffidenza nei confronti della Svizzera. Questo testo, redatto dall’editore modenese Angelo Fortunato FormìgginiFormìgginiAngelo Fortunato e avallato dal poeta, che lo revisiona e rimanda all’autore con una lettera del 30 ottobre 1912, impiega una terminologia sensibilmente connotata. Il bando allude infatti alle dinamiche di potere che ordinavano la Confederazione all’epoca dell’ancien régime. FormìgginiFormìgginiAngelo Fortunato definisce il poeta ticinese non come cittadino ma come «suddito Svizzero», ribadendo così la sua italianità e legittimando il suo inserimento nel mercato editoriale italiano:

La folla non conosce ancora in Italia Francesco ChiesaChiesaFrancesco: egli è suddito Svizzero e vive ai piedi delle Alpi, fuori e schivo di ogni conventicola letteraria italiana. Ciò spiega come e perché il nome del ChiesaChiesaFrancesco ancor molto non suoni, e pochi abbiano notizia della sua arte, che è pura e forte manifestazione dell’ingegno della anima italiana, e che tanto più cara a noi dovrebbe essere se la nostra lingua e gli spiriti di nostra gente sono assurti a così nobili vette di ispirazione di espressione fuori dai confini del nostro stato, ma pur sempre nel territorio ideale della italianità.

Parallelamente, nel primo decennio del secolo XX la spinta nazionalistica proveniente dagli Stati limitrofi, nei quali si diffusero teorie di nazionalismo linguistico ed etnico, minacciò l’unità pluriculturale della Confederazione.4 Se la Svizzera di lingua tedesca era più consapevole della propria identità culturale e nella Svizzera italiana la principale preoccupazione in questo senso era costituita – come anticipato – dalla difesa dell’italianità, nella Svizzera francese la situazione assunse forme e prospettive diverse. L’idea di nazione fondata sulla coesione entico-linguistica veicolata dai maggiori stati europei in questo giro d’anni, sommata al cambiamento dell’equilibrio linguistico della Confederazione in ragione della perdita di prestigio della lingua francese, suscitò fra gli intellettuali francofoni una profonda riflessione sull’identità Svizzera e incoraggiò la ricerca di uno spirito comune.5 Questa corrente fu riconosciuta dalla fine del secolo XIX con il nome di helvétisme, ovvero con una denominazione che reimpiegava il termine elvetico, in uso nel secolo XVIII per definire una Svizzera “naturale”, indipendente dall’ordinamento e dalle dinamiche politiche della Confederazione.6 L’ideatore e il principale promotore del movimento elvetista fu lo scrittore e accademico friburghese Gonzague de ReynoldReynoldGonzague de. Dapprima circoscritta al milieu della storia letteraria, questa corrente assunse presto una dimensione politica, vòlta a sviluppare e consolidare una cultura nazionale unitaria. Ovvero, ad adempiere a una necessità patriottica, intesa come coesione e consolidamento dello Stato federale, nel quadro storico sopra delineato.7

L’opera sulla quale poggia l’elvetismo è la poderosa Histoire littéraire de la Suisse au XVIIIe siècle, alla quale ReynoldReynoldGonzague de attese tra il 1909 e il 1912.8 L’obiettivo dichiarato di questo studio era quello di stabilire il canone di un movimento letterario svizzero e di dimostrare così l’esistenza di uno spirito nazionale. A questo scopo, l’intero primo volume è dedicato alla figura di Philippe-Sirce BridelBridelPhilippe-Sirice (1757-1846), un autore di mediocre qualità ma centrale nel proposito dell’opera. Da un lato BridelBridelPhilippe-Sirice è posto all’origine della letteratura romanda; dall’altro, per le sue Poésie helvétiennes, eloquenti sin dal titolo, è considerato «le père de l’helvétisme littéraire».9 Nell’introduzione a questa raccolta di poesie, BridelBridelPhilippe-Sirice stabilisce e presenta due aspetti peculiari del “poeta svizzero”, i quali, in assenza di una lingua nazionale unitaria e distintiva, sono necessariamente di tipo tematico. Il primo è ancorato alla morfologia geologica della Svizzera. In particolare, il Doyen promuove le Alpi come elemento caratterizzante, emblema dell’origine e della libertà elvetica:

Cette originalité dans la description des paysages et des moeurs constitue la Poésie nationale […] Le poëte Suisse ne présentera que les tableaux de la région qu’il habite. Il s’enfoncera dans les Alpes, et se pénétrera de leur spectacle solemnel et sublime.10

La seconda tipicità della poesia svizzera, secondo BridelBridelPhilippe-Sirice, consiste invece nell’esaltazione patriottica della storia nazionale e delle sue leggende:

Le Poëte Suisse choisira les épisodes dans l’histoire de la Patrie; moisson vaste et fertile qui appelle les ouvriers. Il dira la valeur, la sagesse et la modération des trois Auteurs de la liberté helvétique; il peindra le dévouement héroïque d’Arnold de WinkelriedWinkelriedArnold de, et les femmes s’armant pour défendre Zurich assiégé; il présentera ce respectable hermite Nicolas, qui fit tomber les armes des mains des suisses divisés, et devint leur arbitre […].11

Benché la teorizzazione proposta dal Doyen fosse in primo luogo funzionale alla propria legittimazione artistica, ottenuta secondo dei canoni tematici auto-imposti, ReynoldReynoldGonzague de ne condivise i principi fondativi in favore del suo proposito.12 Anche l’elvetismo novecentesco fu così fondato sul culto di una tradizione storica comune e sul concetto dell’ex alpibus salus patriae, ritenuto il nucleo costitutivo dell’esprit suisse.13 In questa coppia di elementi, desunti dalla teoria di BridelBridelPhilippe-Sirice, il friburghese trova quanto serve alla «autoreprésentation mythique et symbolique – indispensable à toute nation».14

A riprova dell’isolamento del Ticino e del Grigioni italiano dalle dinamiche culturali del tempo, è significativo il fatto che l’opera di ReynoldReynoldGonzague de – a dispetto dell’obiettivo affermato nel titolo – trascuri la tradizione letteraria svizzera in lingua italiana.15 Il primo volume dell’Histoire littéraire de la Suisse au XVIIIe siècle è dedicato all’origine della letteratura romanda, identificata nel caso esemplare del Doyen BridelBridelPhilippe-Sirice, mentre il secondo tomo concerne BodmerBodmerJohann Jakob et l’École suisse: nella prospettiva del friburghese, dunque, la storia letteraria della Svizzera si componeva unicamente di opere in lingua francese e tedesca.

Nonostante questo fatto, e anzi proprio con l’intenzione di gettare le basi per una più ampia collaborazione culturale in un periodo di instabilità, nell’inverno del 1912 ReynoldReynoldGonzague de spedì a ChiesaChiesaFrancesco la propria ricerca e lo invitò a tenere una conferenza a Ginevra l’anno successivo.16 Questo scambio è testimoniato da una lettera inviata al ticinese il 27 dicembre 1912, nella quale le relazioni culturali tra il Ticino e la Svizzera romanda sono definite una «nécessité nationale».17 Trascrivo questo episodio della corrispondenza fra i due, condotta, con spirito elvetista, in lingua italiana o francese a seconda dello scrivente:

 

Cher Monsieur,

Le plus joli cadeau de Noël que j’aie reçu, et celui auquel j’ai été le plus sensible, ce fut votre volume d’Istorie e favole. Je vous sois infiniment gré de m’avoir envoyé cette belle ouvre d’art en échange d’un volume aussi indigeste que le mien, lequel, entre parenthèses, est loin de mériter les éloges que vous lui décevrez.

Je sais très mal l’italien, mais j’éprouve une grande volupté à le lire, surtout quand c’est votre italien à vous, si pur et si ferme, si clair et si profond, où les mots retrouvent leur sens primordial. Et je pense aux paysages du lac Majeur, au moment où les Alpes s’abaissent, montrent une terre rouge couverte d’arbres verts, et reprennent un rythme calme et ‹ill.›, entre le ciel et les eaux.

Nous devrions entretenir des relations plus suivies, entre Romands et Tessinois. Cela est, à l’heure actuelle, une nécessité nationale. Et l’exemple des intellectuels suisses au XVIIIe s. est une leçon pour nous. Mais je ne desespère pas vous voir à Genève en 1913.

Votre cordialement dévoué,

ReynoldReynoldGonzague de18

Come si desume dalle ultime righe della lettera, il coinvolgimento di ChiesaChiesaFrancesco, considerato il più importante uomo di cultura di quel Ticino, va probabilmente ricondotto al progetto della Nuova società elvetica, che maturava nella Svizzera romanda in quel giro d’anni: circostanza che giustifica d’altro canto l’esclusione di SalvioniSalvioniCarlo, residente in Italia e profilato in direzione italofila. Le intenzioni di quest’ultima, fondata a Berna nel 1914 sul modello della settecentesca Società elvetica, erano presenti in nuce nel manifesto del 1912 redatto all’insegna della motto Pro helvetica dignitate ac securitate dallo scrittore francese Robert de Trazde TrazRobert, dallo storico della lingua Alexis FrançoisFrançoisAlexis e dallo stesso ReynoldReynoldGonzague de.19 L’adesione alla società da parte di ChiesaChiesaFrancesco avvenne senza indugi, benché il poeta ticinese, per sua scelta, non assunse mai ruoli di responsabilità all’interno dell’organizzazione. Questa sua decisione è documentata nella lettera a ReynoldReynoldGonzague de del 12 gennaio 1914, nella quale si legge:

Posso promettere già fin d’ora la mia adesione all’Helvetica, non solo per la stima e per l’affetto che debbo ai promotori, ma anche perché trovo nobile e urgente lo scopo che la Società si propone. Nulla infatti è pericoloso per la Svizzera quanto la sua decadenza morale, e chi sa e può deve cercar di porvi riparo. Ma io desidero non essere altro che un semplice gregario.20

La prima manifestazione di adesione all’elvetismo da parte di ChiesaChiesaFrancesco risale a pochi mesi dopo lo scambio epistolare citato sopra, del dicembre 1912. Stante la cronologia sarà allora inevitabile congetturare che il pensiero e l’opera di ReynoldReynoldGonzague de abbiano influito sull’orientamento ideologico-identitario del poeta ticinese. Come prima testimonianza di questa conversione ideologica, il 9 marzo del 1913 ChiesaChiesaFrancesco fu invitato a tenere un discorso per gli elvetisti ginevrini, organizzato con l’intenzione di

fortifier l’esprit suisse dans ce qu’il a de meilleur et de plus élevé, de proclamer l’intime et libre collaboration des trois Suisses à une oeuvre supérieure et de rattacher plus étroitement l’âme tessinoise à la patrie commune en lui réservant une place d’honneur.

Queste parole introducono il discorso tenuto da ChiesaChiesaFrancesco nella plaquette stampata lo stesso anno a Ginevra con un disegno di Ferdinand Hodler in copertina, raffigurante un fante medievale simbolo dell’esprit suisse (a questo proposito, si pensi agli affreschi dello stesso pittore che illustrano la Ritirata di Marignano dipinti sulle pareti del Landesmuseum di Zurigo tra il 1899 e il 1900).21

Nel discorso ginevrino, ChiesaChiesaFrancesco accoglie positivamente e promuove anche per il Ticino la nozione dell’«atmosphère morale» proposta da ReynoldReynoldGonzague de nella sua Histoire littéraire de la Suisse au XVIIIe siècle, l’idea cioè di un’unità nazionale di carattere morale, che permetta di conservare e sviluppare autonomamente le singole tradizioni.22 Questo fondamento permette al poeta, d’altra parte, di rifiutare i caratteri coesivi della presunta cultura artistica e letteraria “svizzera”, che ReynoldReynoldGonzague de desume dalle pagine del Doyen BridelBridelPhilippe-Sirice. Ovvero, ChiesaChiesaFrancesco non può avallare come cardine di un’identità culturale condivisa la celebrazione della storia svizzera e il mito delle Alpi o dell’uomo alpino, semplicemente poiché questi argomenti sono inconciliabili con le vicende e le tradizioni della Svizzera italiana:

Sì, atmosfera morale! Non si potrebbe dire più chiaro né più giusto. Il sentimento che ci riunisca sempre più stretti potrà essere solo di carattere morale. Non basterebbe la storia: noi Ticinesi, ad esempio, e forse anche altri confederati, possiamo ammirare la bellezza della storia svizzera, afferrarne l’intima significazione, ricavarne anche materia di vita, ma solo indirettamente, come studiosi, mancandoci la coscienza d’avervi preso parte.23

Sulla teoria dell’uomo alpino, invece, ChiesaChiesaFrancesco manifesterà il proprio scetticismo alcuni anni dopo, in un biglietto scritto nel novembre del 1919 al cognato Brenno BertoniBertoniBrenno in merito a un discorso sull’arte ticinese tenuto da quest’ultimo a Berna, nel quale l’avvocato impiega la retorica dell’homo alpinus, che risulta tuttavia rara nei suoi interventi: «Egli è l’uomo della specie alpina».24 Dal canto suo, ChiesaChiesaFrancesco nella sua lettera nega tale specificità, ritenuta pretestuosa e funzionale a un progetto ideologico (BertoniBertoniBrenno era promotore di un elvetismo allineato a quello transalpino), e rivendica l’etnia lombarda del popolo ticinese:

Mi pare artificiosa anche la tua teoria dell’uomo alpino. Io, francamente, non conosco neppur un caso di analogia e neppure di somiglianze fra scrittori ed artisti dei due versanti. Piaccia o non piaccia, noi siamo proprio dei lombardi, come i Valtellinesi, i Comaschi, come gli Ossolani.25

Le parole conclusive della prolusione tenuta a Ginevra bene rappresentano come ChiesaChiesaFrancesco percepiva la struttura identitaria della Confederazione, unita secondo la sua visione etnico-culturale «non nella base ma nel vertice della vita».26 A fondamento della coesione confederale il poeta colloca una comune volontà di fratellanza, che «compensa e consola il difetto di parentela». Il suo ideale di Willensnation, inteso con ampi margini di autonomia, è felicemente reso in clausola all’allocuzione con la similitudine del tempio greco, le cui colonne paiono perpendicolari e indipendenti l’una dall’altra ma sono in realtà lievemente convergenti e disegnano una «piramide di cui non vediamo la cima». Così, per ChiesaChiesaFrancesco, anche le regioni linguistiche della Confederazione, perfette nella loro individualità e ben salde sulla propria base culturale, che dà stabilità all’intera struttura identitaria, devono tendere verso un obiettivo condiviso, un punto d’ideale tangenza. Vale la pena trascrivere l’intero passaggio:

Voi sapete quale sia la più squisita e, direi quasi, commovente singolarità del tempio greco. le colonne del tempio greco non sono rigorosamente perpendicolari, ma tutte lievemente oblique, tutte impercettibilmente inclinate verso un sol asse; di guisa che, se viste ad una ad una sembrano dritte sulla loro base, libere nel loro contegno, giuste e perfette nella loro individualità, rivedute insieme, tutte appaiono, come sono, consenzienti. L’occhio non avverte l’obliquità di quelle linee marmoree; ma, seguendone l’ascensione, inconsapevolmente s’innalza fino al vertice ideale in cui tutto il tempio converge e sta… Il tempio greco è una piramide di cui non vediamo la cima, alta più su delle stelle, lucente più che di marmo; è il miglior esempio ch’io conosca di quel che dovrebbe essere la vita: una convergenza di tutti verso un asse comune: tanto discreta e perfetta che nessuno però sembri né si senta meno dritto. Così dunque la vita; così, soprattutto, la vita della nostra patria!27

Nello stesso anno, al primo seguirono altri due discorsi nei quali venne messa a punto e si profilò la personale interpretazione dell’elvetismo di ChiesaChiesaFrancesco. Con la traduzione d’autore dell’orazione ginevrina, questi furono successivamente raccolti e stampati a Lugano nel 1914 in un opuscoletto dal titolo Svizzera e Ticino: a riprova della scarsa rilevanza che aveva il Grigioni italiano nei discorsi sull’italianità, forse poiché considerato demograficamente marginale e suscettibile di maggiori influenze tedesche.28 D’altro canto, la denominazione “Svizzera italiana” sarà in alcuni casi parsa adeguata o preferibile al nome cantonale, del quale era ritenuta sostanzialmente un sinonimo, proprio poiché essa esplicita l’aggettivo etnico; l’italianità cara allo scrittore era così ribadita sin dal nome.

Procedendo in ordine cronologico, in occasione di un concerto del Männerchor di Zurigo svoltosi a Lugano, il 22 giugno ChiesaChiesaFrancesco lesse una prolusione celebrativa – condotta per il vero non sempre con toni lusinghieri29 – costruita attorno alle identità artistico-culturali del Ticino e della Svizzera di lingua tedesca, presentate in termini dialettici. In maniera più esplicita ma non sostanzialmente diversa da quanto osservato sopra, nel discorso l’oratore insistette sulla naturale diversità dei popoli che formano la Confederazione e sull’italianità del Ticino, ritenuto più legato alla propria patria culturale di quanto non fossero la Svizzera tedesca e quella francese, caratterizzate da maggiore autonomia in rapporto alle rispettive culture nazionali. La contingenza storica rese tuttavia necessaria una prudenziale introduzione a tale concetto, al fine di scongiurare eventuali accuse di scarso lealismo elvetico se non di sciovinismo italofilo e irredentista:

Noi siamo, lo sapete, un popolo cordialmente devoto alla patria comune, ed intorno alla lealtà del nostro sentimento non è lecito dubbio. Ma anche sapete che noi siamo d’un’altra razza. Siamo un popolo italico: più italiano che non sia francese la Svizzera romanda, tedesca la Svizzera tedesca […] Gli applausi che avete uditi sono il riconoscimento entusiastico della vostra arte mirabile, da parte di un popolo il quale, pur essendo a voi fratello nella famiglia svizzera, è tuttavia per lingua, tradizione, animo, costumi, profondamente da voi diverso.30

L’adesione di ChiesaChiesaFrancesco ai propositi sostenuti da ReynoldReynoldGonzague de non stemperò il suo sentimento italiano e la solerzia con la quale difese la “lingua del sì”. In alcuni passi del discorso tenuto il 22 giugno si ripresentano infatti il tono e gli argomenti con i quali era condotta la tutela dell’italianità prima del ’12, potremmo dire sulla scia del modello salvioniano di cui sopra. Nel testo, ad esempio, ChiesaChiesaFrancesco polemizza sulla presenza nel Ticino di edifici dall’architettura inequivocabilmente tedesca – nel passo identificata nei tetti aguzzi, ad angolo acuto, di queste ville – e sulla diffusione di scritte in caratteri gotici, collocate sugli edifici pubblici della regione; e quest’ultima rivendicazione, condivisa da politici e intellettuali sensibili all’argomento linguistico, risulterà in una legge sulle insegne pubbliche:31

Lasciamo agli spiriti illusi e superficiali l’errore di compiacersi ogni qual volta una villa a erti pioventi sorge tra gli ulivi dei nostri laghi, od una scritta tedesca appare sulla facciata d’un edifizio latino.32

Come lasciano intuire gli esempi convocati a testo, ChiesaChiesaFrancesco sostenne una forma di elvetismo peculiare, conformato alle necessità e alla situazione della Svizzera italiana. L’influsso delle teorie di ReynoldReynoldGonzague de non portarono lo scrittore a riorientare esclusivamente verso il nord i propri sforzi. In altre parole, ChiesaChiesaFrancesco non intese favorire le relazioni con la Confederazione a scapito dei contatti con l’Italia, che rimase l’insostituibile riferimento culturale per il Ticino. Al contrario, solo guardando al sud la Svizzera italiana poteva aggiornare e sviluppare la propria cultura, una condizione necessaria per adempiere ai «devoirs intellectuels» che la regione italofona aveva «envers la Suisse».33 Con questi interventi pubblici ChiesaChiesaFrancesco tentò di conciliare la difesa dell’italianità della regione con la struttura identitaria confederale. Infatti, se nell’ottica filoitaliana sostenuta dallo scrittore fino al ’12 le proposte di unificazione patriottica o nazionalistica erano percepite come minacce per la cultura autoctona del Ticino, nella rinnovata prospettiva elvetista tali propositi diventano al contrario una concreta possibilità di conservare intatto il proprio carattere. E per farlo, la Svizzera italiana doveva e deve dialogare con entrambi i fronti, senza precludere alcun canale di scambio:

 

Il paese donde i Maestri Comacini si sparsero, operai latinissimi, durante secoli e secoli per tutta Europa […] la terra che verso la gran Valle del Po rovescia le sue acque, orienta le sue case e che tuttavia nella direzione delle Alpi sa rivolgere i suoi affetti fraterni; la piccola terra che nulla più varrebbe né per sé né per voi se di spirito italiano non si nutrisse continuamente: la Svizzera italiana vi saluta commossa, o fratelli d’oltr’alpe!34

Con lo scopo di allinearsi in prospettiva elvetista alle due maggiori regioni linguistiche, e non potendo condividere gli attributi dell’anima comune stabiliti da BridelBridelPhilippe-Sirice e promossi da ReynoldReynoldGonzague de per la Svizzera francese e tedesca, ChiesaChiesaFrancesco si propose di definire e legittimare uno “spirito ticinese”.35 Questa iniziativa aveva una doppia funzione: da un lato intendeva nobilitare la storia della regione, che necessitava di prestigio culturale per consolidare la propria presenza e autonomia nelle dinamiche confederali; dall’altro, pur senza compromettere il naturale legame che le univa, mirava a differenziare la Svizzera italiana dalla patria culturale, analogamente a quanto praticato sin dal secolo XVIII nel resto della Confederazione. In sostanza, ChiesaChiesaFrancesco ambiva a mettere a punto una «soluzione di compromesso», conciliante a un tempo la tutela dell’italianità autoctona e la fedeltà alla patria politica.36

Influenzato dal regionalismo lombardo della scuola del DossiDossiCarlo, in particolare dalle pagine luciniane sul mito comacino, il poeta trovò nella storia dell’arte regionale la soluzione a tale proposito: per il prestigio secolare dell’attività artistica locale e per «il suo carattere popolare e collettivo».37 Questa prospettiva è presentata nel terzo discorso raccolto all’interno dell’opuscoletto elvetista Svizzera e Ticino. Nell’orazione inaugurale pronunciata il 10 settembre 1913 in occasione della prima esposizione d’arte della Svizzera italiana, ChiesaChiesaFrancesco individua il fondamento dello “spirito ticinese” in un «sentimento estetico collettivo», ancorato alla tradizione artistica autoctona che affonda le sue radici nella rinomata scuola dei maestri comacini:38

Esposizione d’Arte della Svizzera italiana vuol dire, se non sbaglio, impegno, da parte vostra, di presentare una raccolta d’opere degne delle nobili tradizioni artistiche del nostro paese; impegno di dimostrare che non solo nella lingua, nei costumi, nella storia, ma anche nell’arte la Svizzera italiana ha un suo modo inconfondibile d’essere, di sentire e di operare.39

ChiesaChiesaFrancesco giunge dunque a sostenere l’esistenza di un carattere propriamente ticinese, peculiare rispetto al resto della Confederazione e distinto dall’indole italiana in senso nazionale. Contraddicendo alcune sue precedenti affermazioni, nel senso di uno sviluppo del suo pensiero ma anche di una consistente e fosca ambiguità, lo scrittore asserisce che «il Ticino è un paese, un popolo, un’anima», fondando questa affermazione sulla base del presunto sentimento estetico collettivo di cui sopra, legittimato dalla cospicua storia artistica delle Prealpi lombarde.40 E la coscienza di tale tradizione è necessaria, in questa prospettiva, per acquisire la consapevolezza dell’individualità etnico-culturale della Svizzera italiana e tutelarne di conseguenza gli aspetti singolari:

Nel solo sentimento artistico un popolo può attingere la convinzione della propria individualità, la coscienza della propria storia, la passione delle proprie cose, la volontà di difenderle. Quell’intuito e quell’istinto che noi chiamiamo attitudine artistica, sono le stesse forze che rendono e serbano una gente fedele alla sua terra, alla sua lingua, alla sua razza.

Il Cantone Ticino è, ripeto, un paese in cui il senso della bellezza è antico e popolare. Ecco la ragione precipua per cui, nonostante l’angustia delle nostre condizioni, la confusione e la debolezza della nostra convivenza e molte altre difficoltà e miserie, ho parlato con tanta fede e speranza di un’anima ticinese. La quale saprà, nella famiglia confederata, serbarsi leale e cordiale sorella, senz’essere men figlia della Gran Madre.41

Questa sorta di «nazionalismo cantonale», come è stato definito – in modo forse un po’ eccessivo, che andrebbe ridimensionato o almeno spiegato alla luce della contingenza storica – da Silvano GilardoniGilardoniSilvano, è un concetto sostanzialmente retorico, privo cioè di fondamenti storico-critici e impiegato in funzione politico-culturale.42 Lo “spirito ticinese” teorizzato dallo scrittore trova infatti la sua legittimazione nel peculiare contesto storico del tempo, come compromesso tra un’italofilia e un elvetismo intransigenti, e va incluso negli sforzi prodotti dallo scrittore al fine di integrare la Svizzera italiana nei dibattiti identitario-culturali della Confederazione. Teorizzando un’individualità locale, etnica e folclorica, ChiesaChiesaFrancesco distanzia il Ticino dall’Italia rendendo più accettabile e legittimando nel quadro confederale l’italianità della regione.

In questa prospettiva si colloca anche il contributo dello studioso alle iniziative culturali svizzere a sfondo patriottico, costante a partire da questi anni. Ad esempio, ChiesaChiesaFrancesco è il curatore dei volumi ticinesi dedicati alla casa borghese nell’ambito dell’iniziativa nazionale promossa dalla Società svizzera degli ingegneri ed architetti.43 Questo progetto, come altre organizzazioni culturali del tipo di Pro Helvetia, nate negli anni fra le guerre, promuovono patriotticamente una Svizzera multiculturale e plurilinguistica, segnando di fatto una maturazione rispetto al concetto di confederazione tardo-ottocentesco, che sosteneva un’idea della Svizzera unitaria, con il baricentro orientato ovviamente – data la proporzione demografica – verso la Svizzera di lingua tedesca. In questo clima sono concepite per esempio le Schweizerische Landesausstellungen (o Esposizioni nazionali) di Zurigo nel 1883 e di Ginevra nel 1898, lo stesso anno dell’inaugurazione del Landesmuseum di Zurigo.44

La partecipazione attiva del poeta nella vita culturale svizzera non stempera tuttavia la sua solerte difesa dell’italianità del Ticino. Anche dopo l’adesione alla linea di pensiero elvetista proposta da ReynoldReynoldGonzague de, ChiesaChiesaFrancesco rimase convinto sostenitore di una forma di iperfederalismo (che non spiaceva all’aristocratico friburghese, d’altronde) e della severa tutela delle “stirpi” confederate.45 Come anticipato, il concetto di Willensnation era da lui interpretato secondo una formula personale, con ampi margini di autonomia concessi alle regioni culturali, che lo scrittore ha rappresentato mediante tre eloquenti similitudini. Oltre all’analogia del tempio greco, osservata sopra, ChiesaChiesaFrancesco impiega altre due immagini che bene sintetizzano il suo concetto di elvetismo federalistico: una prima, che assimila il Ticino a un ramo della pianta italica sporgente nell’orto svizzero; e una seconda, che recuperando un’immagine biblica propone una Svizzera divisa nelle arche di Sem, Cam e Jafet, in opposizione all’ideale unità insita nell’arca di Noè.46