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Il nome e la lingua

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D’altronde, nessuno al tempo poteva sospettare l’esistenza di una lingua diversa da quella dei libri per compilare un dizionario.20 Dunque, più che il registro libresco andrà considerata peculiare e significativa la rarità dei vocaboli toscani scelti come traducenti dal CherubiniCherubiniFrancesco, che denota un certo compiacimento linguaiolo e ribobolaio comune a vari lessicografi italiani coevi. Questa “moda puristica” si verifica ad esempio nel PatriarchiPatriarchiGasparo, nel Foresti, nel Sant’AlbinoSant’AlbinoVittorio eccetera.

Un numero non indifferente di traducenti italiani impiegati nel Dizionariuccio sono indicati come desueti già nel TommaseoTommaseoNicolò-BelliniBelliniBernardo, un vocabolario di poco posteriore alla redazione del repertorio ticinese. Spigolando fra i lemmi e cercando di coprire l’intera estensione del lemmario, trascrivo di seguito alcune entrate rilevando con il corsivo le voci giudicate antiquate nel Dizionario della lingua italiana (1861-1879):

Gròll. Guascotto. Malcotto. Menestra grolla. Castegn groll. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 2: 1243)

Joeubia. Giobbia. Giovedì. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 2: 1074)

Lantorgnà. Lellare. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 2: 1805)

Leppà-su. Colleppolare. Rubare. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 1: 1494)

Lepra. Nabisso. Fistolo. Facimale.21 (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 3: 426 e II 620)

Lôd. Lodorént. Sucido. Lordo. Lutulento. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 2: 1924)

Poregà. Brancicare. Palpare. Mantrugiare. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 3: 105)

Segrì. Sagrare. Bestemmiare. Infuriare. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 4: 502)

Tarùcch. Testereccio. Capassone. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 1: 1195)

Tròll. Rigoglioso, vegnentoccio: contrario di “vizzo”. (cf. TOMMASEOTommaseoNicolò-BELLINIBelliniBernardo, 4: 1752)

Come emerge da questa breve campionatura, una buona parte dei traducenti risulta leziosa o obsoleta. Questi vocaboli non erano praticati o praticabili nella lingua viva, nel parlato, a maggior ragione se funzionali a un repertorio lessicale di livello diastratico basso, campagnolo. Come documentano le tangenze del lemmario con gli elenchi allestiti da RossiRossiGiuseppe, i termini sinonimici che seguono la traduzione piana sono solitamente aggiunti da CherubiniCherubiniFrancesco: ad esempio, alla voce poregà l’abate indicava solo il primo traducente ‘brancicare’; non diversamente, al lemma segrì nella lista dell’informatore segue la chiosa ‘Bestemmiare, Dar nelle furie’; infine per il termine tròll la traduzione di RossiRossiGiuseppe si limita alla definizione «Tùrgido. Dicesi per lo più di ortaggi. Il suo contrario è vizzo, appassito». In linea con questa tendenza, CherubiniCherubiniFrancesco sostituisce le perifrasi impiegate dall’informatore con il termine tecnico, si veda ad esempio la voce gatt: in C47 leggeva ‘Ciondoli del fiore delle noci e delle castagne’, sostituito dal lessicografo in ‘Amento’. In altri casi, con minime modifiche, CherubiniCherubiniFrancesco preferisce la forma più antica di un vocabolo: così, al lemma scios, per il quale l’abate in V1-2 propone ‘Soccida di bestiame’, l’autore del Dizionariuccio impiega la forma più arcaica ‘Soccita’. Detto questo, sembra che anche RossiRossiGiuseppe si adatti, come già osservato per i rinvii al milanese e le snelle annotazioni fonetiche, alle abitudini e agli usi del lessicografo. Nella lista C47, ad esempio, alla voce luccià si legge ‘Ustolare, Spirare. Quasi cacciar fuori le luci’, mentre per groll è impiegato l’arcaismo ‘Guascotto’, poi accolto da CherubiniCherubiniFrancesco. Nell’elenco V1-2, dove si ritrova questo aggettivo, sono usati gli altrettanto desueti ‘battisoffiola’ e ‘mantrugiato’ come traducenti di strafugnò e fifa.

Tuttavia, scorrendo queste poche testimonianze emerge una motivazione che potrebbe almeno parzialmente legittimare le scelte di CherubiniCherubiniFrancesco, secondo una tendenza tipicamente manzoniana e dunque propria della cultura e della forma mentale del suo tempo: infatti, parte dei traducenti desueti inclusi nel Dizionariuccio sono fonicamente vicini al corrispettivo vernacolare, e intendono forse favorire l’apprendimento mnemonico e facilitare il passaggio dal dialetto alla lingua. Si vedano, ad esempio, le coppie joeubia e ‘giobbia’, lodorént e ‘lutulento’ o ancora segrì e ‘sagrare’, che si contano proprio fra quelle non attestate nella terza edizione della Crusca e presenti unicamente nel più inclusivo Dizionario universale del D’AlbertiD’AlbertiFrancesco.22 A questo proposito, è significativa la scelta del traducente ‘colleppolare’, a lato del più comune ‘rubare’, per leppà-su: un termine toscano inusitato nella lingua viva ma per prossimità fonica forse più accettabile o facile da ricordare per i parlanti dialettofoni del Ticino. All’origine di una scelta discussa e apparentemente poco condivisibile va dunque ipotizzata una ragione pratica, consapevole o meno. Questa tendenza, peraltro, si manifesta già nella seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano, nella quale sono impiegati alcuni dei traducenti desueti che si leggono nel Dizionariuccio, a parziale conferma dell’ipotesi proposta sopra. Elencando alcuni esempi, senza pretesa di esaustività: ‘lellare’ torna alle voci Lorenzà (2: 396, s.v.), Lironà (2: 387, s.v.), Lizonà/Linzonà (2: 389, s.v.); ‘sagrare’ è impiegato al lemma sacramentà (4: 89, s.v.), nonché come corrispettivo della locuzione tirà saracch (4: 104, s.v. saràcca/saràcch); ‘giobbia’ è utilizzato nella chiosa a Giubbiànna (2: 232-233, s.v.), una festa tradizionale diffusa tra Lombardia e Piemonte, e alla voce giœùbbia (2: 222, s.v.), dove accanto al traducente comune (‘giovedì’) il lessicografo aggiunge il termine desueto e sente la necessità di confortare questa scelta con una fonte illustre: «Il Bembo usò anche Giobbia».

Gli sforzi di CherubiniCherubiniFrancesco per migliorare i traducenti toscani proposti nei suoi repertori sono stati notevoli. A questo proposito, oltre che collaborare con una rete di informatori toscani, il lessicografo nel 1813 ottenne un congedo scientifico che gli permise di soggiornare per alcune settimane a Firenze e di documentarsi sulla lingua parlata nella città e nella regione.23 Ciononostante, per proporre corrispondenze toscane certe, CherubiniCherubiniFrancesco doveva ricorrere in primo luogo ai vocabolari. Per il Dizionariuccio, un prodotto secondario nel suo vasto laboratorio, lo studioso avrà utilizzato principalmente le proprie opere, con la netta priorità della seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano, al quale rimandano numerosi lemmi contenuti nel repertorio ticinese. Oltre a queste, gli strumenti lessicografici consultati per allestire il manoscritto saranno gli stessi sui quali si fondano anche le sue opere maggiori. CherubiniCherubiniFrancesco, come verificato da DanziDanziLuca e Poggi SalaniPoggi SalaniTeresa, era solito impiegare la ristampa della Quarta Crusca, uscita a Napoli tra il 1746 e il 1748, alla quale affiancava il Dizionario universale (1796-1805) del D’AlbertiD’AlbertiFrancesco: un serbatoio lessicale molto importante per il lessicografo, poiché più eterogeneo e meno sorvegliato della Crusca.24 Lo conferma lo studioso nella nota che introduce la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano:

Conosciuto questo mio sentire in proposito della lingua, non parrà strano a nessuno che io mi sia di preferenza giovato al mio bisogno della Crusca, come non parrà strano che io non mi sia né limitato ad essa sola per non lasciare troppe delle mie voci patrie senza rispondenza italiana, né fatto cieco adoratore d’ogni sua parola per non rivendere alcune volte di quegli errori che tengono sempre dietro nelle faccende umane alle cieche adorazioni. Alla Crusca perciò diedi compagno indiviso il Dizionario universale enciclopedico dell’abate AlbertiAlbertiLeandro da Villanuova, come libro che venne sovvenendo ai bisogni della lingua con quella ricchezza di voci e modi, e specialmente di vocaboli dell’arti, che da tanti anni a questa parte tutta Italia desiderò invano dall’Accademia.25

In caso di necessità, dovuta a lacune o omissioni nei due vocabolari citati, CherubiniCherubiniFrancesco rimedia impiegando in primo luogo i «Dizionari universali della lingua italiana di Verona, di Bologna, di Padova e di Napoli». Ovvero, come comprova l’Indice degli autori che precede il lemmario, nell’ordine: la Crusca veronese, il CostaCostaPaolo-CardinaliCardinaliFrancesco, il CarrerCarrerLuigi-FedericiFedericiFortunato e il Tramater.26 A questi si aggiunge una più minuta e doviziosa lessicografia sette-ottocentesca che si occupò di emendare e integrare criticamente i grandi vocabolari del tempo. CherubiniCherubiniFrancesco nomina, in una gerarchia esclusivamente alfabetica, i filologi «Bregantini, Brambilla, ColomboColomboMichele, MontiMontiPietro, Muzzi, Parenti, Pezzana, Romani, ecc.», i cui scritti si riversano solo parzialmente nell’indice bibliografico del Vocabolario milanese-italiano.27 Oltre alle Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi del GherardiniGherardiniGiovanni, menzionato singolarmente in coda alla stringa di nomi trascritta sopra, nell’Indice degli autori si legge il solo riferimento alle Opere di Giovanni RomaniRomaniGiovanni.28 D’altronde, la tavola dei citati risulta lacunosa già a un rapido confronto, mancano ad esempio autori e opere della tradizione più alta: la Commedia dantesca, il Decameron di BoccaccioBoccaccioGiovanni, l’Orlando furioso di AriostoAriostoLudovico, il Galateo del CasaDella CasaGiovanni e molti altri.

 

Quando i sussidi lessicologici non sono sufficienti, CherubiniCherubiniFrancesco integra i repertori menzionati con l’indagine sul campo e lo spoglio di opere letterarie toscane. L’autore ne riferisce nella nota introduttiva all’editio maior del Vocabolario milanese-italiano:

Una lingua è però sì vasta regione che sempre concede novità di terre agli occhi di quanti si fanno a visitarla; e perciò a moltissime voci milanesi io non potei assegnare le corrispondenti italiane col solo ajuto delle opere già dette. Obbligato per tale insufficienza a far ricorso o alle opere degli scrittori o alla viva favella, preferii per le prime i così detti testi di lingua e le opere dei Toscani bene scriventi, e per la seconda il parlar di Toscana, stendendomi poi a ogni altro scrittore italiano o al favellar comune alla pluralità delle genti d’Italia allorché mi venne meno totalmente il soccorso di quei primi preferiti.29

Se stabilire quali siano le voci registrate dalla «viva favella» toscana risulta oggi difficile, l’Indice degli autori testimonia invece che per raccogliere lessico e fraseologia supplementare il CherubiniCherubiniFrancesco attingeva alla tradizione comica, linguisticamente molto inclusiva.30 Con questa scelta il lessicografo non percorre nuove vie ma si riaggancia alla tradizione cruscante. Infatti gli auctores considerati per l’allestimento del dizionario sono sostanzialmente le stesse fonti vagliate dalla Crusca e dal D’AlbertiD’AlbertiFrancesco, tra cui l’AretinoAretinoPietro, il BerniBerniFrancesco, il BurchielloBurchiello (detto il)Domenico di Giovanni, il FagiuoliFagiuoliGiovan Battista (vissuto in epoca posteriore alla Crusca), il FolengoFolengoTeofilo, il LascaLasca (detto il)Anton Francesco Grazzini, il LippiLippiLorenzo, il RediRediFrancesco, e altri ancora. Tuttavia, come nota Poggi SalaniPoggi SalaniTeresa, seguendo il solco tracciato dal Dizionario universale il lessicografo persegue spogli anche innovativi, in testi prevalentemente sette-ottocenteschi, con particolare attenzione al settore delle terminologie pratiche e tecniche, fra cui: il trattato di cucina di Bartolomeo ScappiScappiBartolomeo, il testo sull’Ornitologia toscana di Gaetano SaviSaviPaolo, le Opere agrarie del sacerdote Ferdinando PaolettiPaolettiFerdinando, il manuale Del modo di piantar e custodire una ragnaja di Bernardo DavanzatiDavanzatiBernardo, l’opera iconografica della Pomona italiana di Giorgio GallesioGallesioGiorgio, o ancora il Corso d’agricoltura pratica del LastriLastriMarco, e molto altro.31

I lemmi del settore professionale e delle arti furono un interesse precoce per il CherubiniCherubiniFrancesco lessicografo, che come detto trovava in quest’ambito i suoi fruitori ideali.32 Questo tipo di voci è centrale anche nel Dizionariuccio, che va ricondotto all’ambiente campagnolo e alla realtà contadina. E forse, al di là della funzione catalizzante svolta dal progetto della Dialettologia italiana, che promosse una ricerca lessicale centrifuga e disparatissima, anche la volontà di arricchire la documentazione lessicale lombarda relativa a queste categorie potrebbe giustificare il tentativo di allestire un vocabolarietto di “provincia”, abbondante di voci tecniche poco frequenti se non assenti nella varietà cittadina. Nel repertorio è infatti copiosa la presenza di termini appartenenti ai linguaggi tecnici e pratici di questo contesto, descritto dai lemmi propri dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’artigianato, dell’arte casearia, della flora e della fauna.

Il notevole impegno in questo àmbito, vòlto cioè alla raccolta di nomi dell’avifauna e della flora, con particolare minuzia per quanto concerne le varietà della vite, sembra voler far fronte e sanare una lacuna denunciata da CherubiniCherubiniFrancesco nella Nota al lettore che introduce la prima edizione del suo Vocabolario milanese-italiano:

Scarseggerò alquanto nell’enumerazione degli uccelli e delle frutta specialmente, o, per meglio dire, delle loro varietà, né io saprei negare essere stata questa la parte più intricata del mio lavoro, e di tanto malagevole e nojosa che fui lì lì per desisterne. Non mi farò già a scusarmi per questo rispetto coll’esempio di chi mi precedette nella compilazione di vocabolarj d’altri dialetti; ma se pur mi è lecito di ricercare per ciò una qualche giustificazione, credo di trovarla e nell’AlbertiAlbertiFrancesco là dove, parlando appunto di frutta e simili (V. le voci Pera, Uva), dice “Che sono essi di tante e di sì varie ragioni, e portano nomi così diversi in ogni paese, che non accade sperare di aver di tutte una precisa notizia”, e nel Fontana là dove dice: “Una delle grandissime difficoltà che vado incontrando nella compilazione di questo Dizionario (economico rustico) mi nasce dai nomi, e particolarmente dai frutti […]”.33

Ad esempio, fra le voci riconducibili a questi campi semantici, nel repertorio si attestano, per l’uva basg d’uga, bastardon, bigordìn, gamba de vigna, manìcc, mastiròla, pè de vigna, uva pedegosa (s.v. pedegos), peganon, rompia, scalvà vigna, uga trolla (s.v. tròll), uga;34 per l’avifauna canta-nòcc, capuscètt cicchcècch, gardelling, pojoeù, pojòra, rossignoeù (per ‘pettirosso’ e non usignolo, secondo un francesismo improprio o una svista dell’abate), sgarzètta, speranzina, spionz, stellin, stôo, tir, verdon, viscarda.35 Dal canto suo anche RossiRossiGiuseppe, con un cospicuo contributo in questo àmbito, ha raccolto l’invito di CherubiniCherubiniFrancesco e ha arricchito il tesoretto lessicale del Dizionariuccio. Per farlo, l’informatore fu forse facilitato dalla consuetudine con la coltivazione della vite, un’attività non trascurabile nel Ticino, e favorito dalla sua passione per la caccia alla piuma, suggerita nella proposta etimologica che segue il lemma jemón: «Fringuel marino. L’ab. RossiRossiGiuseppe di Castelrotto lo crede detto jemón da’ luganesi perché ciba volentieri le gemme delle piante (jemm) che trova in becco a siffatti uccelli da lui uccisi a colpo di fucile».36

Sulla linea di quest’ultimo esempio, nel manoscritto del Dizionariuccio come nelle opere maggiori, CherubiniCherubiniFrancesco non è particolarmente coinvolto dalla moda etimologica che investì gli studi linguistici e dialettologici degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento.37 A questo proposito, nel 1908 SalvioniSalvioniCarlo, in occasione dell’edizione di Due lettere di Stefano FransciniFransciniStefano a Francesco CherubiniCherubiniFrancesco, oltre a manifestare la sua generale stima per i lavori lessicografici del milanese, elogia la sua cautela nelle proposte etimologiche, opponendola alla sventatezza di MontiMontiPietro, della quale si è parlato nel secondo capitolo:

Il milanese Francesco CherubiniCherubiniFrancesco fu, tra i dialettologi dell’antica maniera, uno dei più valorosi e più attivi. Dotato di ingegno e dottrina non comuni, di buon senso e di senso pratico insieme, prudente nel proporre etimologie (qual contrasto in ciò tra lui e Pietro MontiMontiPietro, il pur benemerito autore del Vocabolario dei dialetto della Città e diocesi di Como!), spirito metodico e ordinato, egli regalò alla dialettologia italiana un succinto Vocabolario mantovano-italiano (1827), i cui materiali aveva raccolti lui stesso a Ostiglia, e quel Vocabolario milanese-italiano che, nella sua seconda edizione, può dirsi, per la ricchezza e il buon ordinamento della materia, uno dei migliori di cui la dialettologia italiana si vanti […].38

Queste osservazioni di SalvioniSalvioniCarlo sono in un certo modo anticipate nell’introduzione all’editio maior del vocabolario milanese, nella quale si legge: «Ho accennato le etimologie de’ vocaboli nostrali allorché mi parvero di qualche utilità, non istiracchiate, naturali».39 Le riserve di SalvioniSalvioniCarlo e la prudenza del lessicografo vanno però contestualizzate storicamente: le ricostruzioni etimologiche di CherubiniCherubiniFrancesco, come tutte o quasi quelle precedenti la scoperta del metodo comparativo, che presupponeva basi metodologiche assenti a quest’altezza cronologica, sono per loro natura manchevoli o erronee. E nel caso di etimologie corrette in epoca pre-scientifica si trattò, secondo Max PfisterPfisterMax, di un colpo di fortuna: uno «Zufallstreffer».40

Anche in quest’àmbito, il metodo di lavoro assestato con la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano guida l’allestimento dello snello repertorio ticinese, nel quale si trovano relativamente poche proposte etimologiche, in larga parte limitate alla segnalazione di probabili prestiti da lingue viventi. La buona conoscenza del francese, dello spagnolo, del tedesco e dell’inglese, a cui si aggiungono alcuni rudimenti del provenzale, combinata con una acuta sensibilità linguistica, hanno permesso a CherubiniCherubiniFrancesco di stabilire dei rapporti affidabili e accettabili tra queste lingue.41 Alcune ipotesi etimologiche avanzate nel Dizionariuccio sono infatti sostanzialmente corrette. Ad esempio la voce smesser per ‘coltello’, documentata in varie località del Ticino, è ricondotta al tedesco Messer; o la voce maséta per ‘ragazza discola’, diffusa nel luganese e inclusa sotto il lemma Vèzza, è giustamente collegata al mazette francese (senza rimando al lemma masèta per ‘furbacchiola’, registrato nel lemmario).42 Analogamente a quest’ultimo caso, a lato dell’influenza del tedesco sui dialetti della Svizzera italiana, una caratteristica dell’assetto linguistico regionale ampiamente documentata, nel repertorio sono presenti alcuni francesismi penetrati nelle lingue locali nel corso del secolo XVIII, con minimi adattamenti fonetici o di forma grafica: ad esempio, è lemmatizzata le voce crejón (fr. créjon) per ‘matita’, senza chiose relative alla provenienza; allo stesso modo, i termini mostra (fr. montre) per ‘orologio’ e desgàget (fr. dégagez) per ‘sgaggiati’, indicati come francesismi nella lista C47, e il verbo rangià (fr. ranger) per ‘arrangiare’, ricondotto da RossiRossiGiuseppe al francese nell’elenco V1-2, sono inclusi senza specifiche nel lemmario del manoscritto.43 Questi prestiti linguistici saranno forse risultati palesi per CherubiniCherubiniFrancesco, ma certo non per i potenziali fruitori del repertorietto. Sul piano filologico tale tendenza è forse imputabile all’incompiutezza del Dizionariuccio o alla sua impostazione, per la quale l’aspetto strettamente pratico sembra dunque privilegiato su quello descrittivo.

Anche l’origine latina delle parole è talvolta indicata con precisione. Il verbo compond, ad esempio, lemmatizzato nell’espressione compond i vudasc per ‘raccòrre le legne di viti’, è correttamente ricondotto al latino componere (REW 2103). L’insicurezza del lessicografo, segnalata con un punto di domanda posto in coda alla frase, è però indicativa di un procedimento ascientifico, condotto per approssimazione.44

D’altro canto, anche quando limitate alla comparazione o alla ricostruzione di prestiti fra lingue viventi, parte delle proposte etimologiche presentate nel Dizionariuccio sono inaccettabili. Fra queste, si legge:

Fùrfura (andà in). Andare a caccia di chichessia. Andare ajoni. Andar vagabondo (chi girovaga è il bilico di venir fure, di furare?)

L’espressione andà in fùrfura piuttosto che al verbo ‘furare’, come implicitamente suggerito nella chiosa al lemma, va ricondotta al latino furfur (REW 3595, da cui anche ‘forfora’), ovvero ‘crusca’. Si potrebbe così ricostruire il sintagma andare in crusca o in fuffa, analogo ad altre locuzioni idiomatiche di segno negativo come la farina del diavolo va tutta in crusca, largamente attestate nei repertori lessicografici del tempo, tra cui nel Vocabolario milanese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco.45 Non diversamente, anche l’origine della voce ruscà per ‘lavorare’ è in realtà più trasparente della ricostruzione supposta dal lessicografo: «Ruscà. Lavorare. Faticare. Pare sincope di rusticare». In questo caso, un’ipotesi sull’etimo del termine si incontra anche nel vocabolario comasco di MontiMontiPietro, che alla voce ruschià annota: «V.M. Lavorare. Lat. Rusticari, coltivare i campi». Entrambe le proposte sono errate: la voce dialettale ruscà va probabilmente ricondotta al verbo ruscare diffuso nell’italoromanzo settentrionale, che deriva dal latino ruscum per ‘pungitopo’, dal quale si è giunti a rusco nel significato di ‘scopa fatta col rusco’ e quindi al significato di ruscare per ‘spazzare, scopare, strofinare, fregare’; da qui, è chiaro lo slittamento che porta al significato generico di ‘lavorare’.46 Analogamente, per il lemma cren, correttamente ricondotto alla Val di Blenio, nell’alto Ticino, è proposta un’etimologia inattendibile, generata da un ipotetico collegamento con un toponimo friulano, difficilmente giustificabile anche sul piano storico:

 

Crén. A Olivone chiamano così il cacio pecorino-caprino. In Friuli nel distretto di Plez è l’alto monte Cren ove si fanno caci consimili. Forse di qui la voce.

In questo caso, come segnala la scheda di CeccarelliCeccarelliGiovanna nel settimo volume del VSI, la voce crén deriva da una registrazione errata del lessicografo o da una trasmissione imprecisa di un informatore, precedenti l’allestimento del manoscritto del Dizionariuccio. Infatti, il lemma era già annotato nell’edizione ne varietur del Vocabolario milanese-italiano, alla voce formaj (2: 160): «che talvolta con voce svizzera dicesi crèn». Il termine corretto sarà invece Crenga o Crenca, per ‘formaggella, formaggio magro’.47 Questa inesattezza basta di per sé a inficiare la dubitabile etimologia ipotizzata da CherubiniCherubiniFrancesco. Fra le proposte alternative concernenti l’origine del termine si legge quella di CeccarelliCeccarelliGiovanna, il quale ipotizza una base indoeuropea (S)KER-/(S)KRĒ, con il significato di ‘tagliare, dividere’, a cui va ricondotto, per esempio, l’antico islandese skyr ‘latte cagliato’; o ancora, come possibile soluzione, il cimbro cramen per ‘crosta (di una ferita)’ corrispondente al latino tardo crama.48

Come ultimo esempio, altrettanto inconsistente è l’assunto proposto nel manoscritto sull’origine della voce stôo per ‘poana, nibbio, falco poana’, erroneamente individuata in una consuetudine campagnola:

Stôo. Poana, nibbio, falco poana. Questo nomignolo luganese mi sembra nato dal gridio che le contadine soglion fare contro il nibbio allorchè lo veggono roteare più o men alto a perpendicolo sul pollame. Qui da me a Oliva io li sento spessissimo gridar a tal fine Too Too (quasi al medesimo modo che fan verso i tacchini per istizzirli) e aggiungere anche: Daj al pojan dagli al pojan too, too.

L’etimo del vocabolo, ancora una volta, è più semplice dell’origine onomatopeica ipotizzata da CherubiniCherubiniFrancesco. Infatti la voce stôo andrà direttamente ricondotta all’accipiter gentilis linneano, ovvero all’astore. In questo caso MontiMontiPietro si dimostra più preciso del lessicografo milanese: la voce stôr, lemmatizzata come propria della varietà di Poschiavo nel vocabolario comasco è infatti ricondotta al latino asturStôr. Posc. Sorta di avvoltojo. Lat. Astur»), benché sarebbe più corretto il latino acceptor (REW 68).49

Sempre in ambito etimologico ma con diversa prospettiva, l’indagine lessicale in area ticinese suggerisce a CherubiniCherubiniFrancesco un parallelo con alcuni termini del dialetto milanese, in questo caso non eccepibili. La locuzione fà bórda per ‘il guardar fisso della vacca’ o ‘far grugno’, ad esempio, è riportata dal lessicografo al milanese bordoeù, lemmatizzato in entrambe le edizioni del Vocabolario milanese-italiano. Cito dalla seconda:

Bordoeù. Baco. Befana. Biliorsa. Versiera. Tregenda. Trentovecchia. Aversiera. Trentacanna. Vèrola. Orco. Breusse. Lupo mannaro. Ebreusse.

Fa bordoeu. Far baco o far baco baco. È un certo scherzo che si fa coi bambini coprendosi il volto e dicendo “Baco baco” o “bau bau”, e fra noi: Bordoeu, sett, e ciò perché n’abbiano un po’ di pauriccia da burla. (1 135)

La scheda di Rosanna ZeliZeliRosanna sulla voce borda inclusa nel secondo volume del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana conferma una dipendenza non gerarchica tra i termini menzionati da CherubiniCherubiniFrancesco ma non propone un etimo univoco.50 La parola borda è infatti diffusa in tutta l’Italia settentrionale, con un campo semantico che si sviluppa attorno ai concetti di ‘verme, insetto’, ‘maschera, spauracchio, figura demoniaca’, ‘broncio’, ‘nebbia’ e ‘ignorante’.

Allo stesso modo, risulta condivisibile l’ipotesi avanzata nel Dizionariuccio a proposito dell’origine della magnoeura milanese, ovvero, come indica la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano (3 16), la ‘caviglia quadrata incastrata sul manico della vanga che il contadino impugna nell’atto del vangare’. CherubiniCherubiniFrancesco ricollega questo termine alla voce magnòra lemmatizzata nel manoscritto, per ‘picciuolo di frutto’, sul tipo *MANIA (REW 5329), con il suffisso -ŎLA.51 Il passaggio semantico è credibile e l’impiego metaforico di picciolo con il significato di ‘manico’ è ben attestato nella Svizzera italiana.

Nel manoscritto del Dizionariuccio CherubiniCherubiniFrancesco non registra invece le numerose spiegazioni o proposte etimologiche contenute nel lemmario trasmesso dall’informatore nel 1847, fatta salva l’entrata alla voce jemón citata sopra. La scelta di escludere buona parte delle ipotesi di RossiRossiGiuseppe risulta difficile da spiegare, queste sono infatti generalmente consistenti e condivisibili. In alcuni casi la scelta del lessicografo è giustificabile in ragione dell’eccessiva trasparenza dell’etimo, che sarà stato chiaro anche per i parlanti del tempo, come si verifica al lemma capuscett (per ‘capinera’, «Perché ha una specie di cappuccio nero sul capo»), bandéra (per ‘mancator di parola’ «Forse presa la metafora dallo sventolar della medesima») e cantanógg (per ‘usignuolo’ «Così detto per il suo cantar di notte»). In altre circostanze, per contro, RossiRossiGiuseppe dà prova di sagacia e intuito. Anche queste proposte sono però trascurate da CherubiniCherubiniFrancesco nell’allestimento del manoscritto. Ad esempio, l’abate riconduce la voce taréf per ‘bacato, malescio’, diffusa in tutta l’Italia settentrionale, all’ebraico tārēph per ‘sbranato, dilaniato’, poi giunto al significato di ‘carne illecita, non macellata secondo il rito, o di animale infetto’.52 O ancora, per il nome amnisc, impiegato nel Ticino per indicare l’‘ontano, alno’, l’informatore propone un’intuibile etimologia latina amnis, giustificata dalla natura acquatica della pianta, come conferma il LEI.53 Infine, anche all’entrata genória, per ‘marmaglia, ragazzaglia’, la breve nota che propone l’origine latina genia, da cui la forma semi-dotta genìa, alterata con semplice scambio di suffisso, risulta corretta e ampiamente confermata da un uso settentrionale: ad esempio dal sinonimo znéja in varietà emiliana, zenìa in veneto o da genöria in piemontese.54

In conclusione, il Dizionariuccio si presenta come un repertorio snello, un lessico agile e privo delle lunghe chiose al confine tra la lessicografia e l’etnografia che si leggono nella seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano.55 Tale caratteristica si spiega probabilmente in ragione del fatto che il repertorio ticinese, pur mantenendo un’autonomia e una dignità proprie, poggia di necessità sulla ben più cospicua opera milanese, come suggeriscono i frequenti rimandi a questa varietà menzionati sopra. Ad ogni modo, nel manoscritto si contano pochi casi nei quali è presente un’intenzione che va oltre la traduzione linguistica in favore di una spiegazione enciclopedica, sempre subordinata alla volontà di una più precisa definizione del lemma. Lo dimostra, ad esempio, l’assenza di accenni alla diacronia delle parole, non infrequente invece nel vocabolario milanese. Fra le poche occorrenze di più ampio respiro, la voce campón (‘sanguinerola’, il Phoxinus phoxinus), lemmatizzata in uno degli ampliamenti successivi alla prima stesura, integra la coincisa definizione trasmessa nella lista C47 con precise informazioni sulla livrea e sulle dimensioni del pesce: