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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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La lettera, inoltre, consente di orientarsi con maggiore agilità e sicurezza fra i materiali di lavoro riuniti da CherubiniCherubiniFrancesco nel codice M 67 suss. della Biblioteca Ambrosiana. Tra questi non è conservata la lista del 28 settembre 1849, che, come riferisce l’incipit della missiva fu rispedita all’informatore dopo la consultazione: «Mi fo premura di rinviarle la Nota de’ Vocaboli ticinesi onde mi favorì giorni sono». Nel codice si trovano però quattro carte (cc. 47-51) di pugno dell’abate RossiRossiGiuseppe nelle quali si legge un Parallelo di voci Mantovane e Ticinesi seguite da una Nota di alcune Voci e Modi di dire del dialetto del Malcantone, entrambe integralmente riversate nel Dizionariuccio.17 Questi documenti, datati al 9 novembre 1849 da un appunto autografo di CherubiniCherubiniFrancesco, sono strettamente imparentati con la lista del 28 settembre 1849 e la successiva lettera: a partire dal ritrovamento di quest’ultima nel Vocabolario mantovano-italiano, del quale l’abate probabilmente si servì per compilare il Parallelo di voci Mantovane e Ticinesi. Se questo primo catalogo lessicale, del quale non si fa parola nella missiva al sacerdote, fu allestito presumibilmente nel corso del mese di ottobre e fu di conseguenza usato da CherubiniCherubiniFrancesco per perfezionare il Dizionariuccio, il secondo potrebbe essere invece una versione aggiornata della lista del 28 settembre 1849. Infatti, nella Nota di alcune Voci e Modi di dire del dialetto del Malcantone è inserito il lemma Ponsgeratitt per ‘Rusco aculeato’, come richiesto nella missiva del 2 ottobre 1849. Nel documento questo lemma, come altri cinque (Fasgia, Lamprecch, Sgaviscia, Zanavra e Ponsgiarattitt; quest’ultimo aggiunto in coda all’elenco da CherubiniCherubiniFrancesco), è biffato dal lessicografo con una riga verticale che ne segnala l’utilizzo e che permette di supporre un impiego parziale del catalogo, limitato cioè alle novità rispetto alla nota del 28 settembre di cui questo manoscritto potrebbe essere una bella copia approntata per CherubiniCherubiniFrancesco, da conservare come le precedenti.

Data per buona questa ipotesi, il vocabolario subì dunque degli aggiornamenti, seppur puntuali e limitati, anche dopo il 2 ottobre 1849, ovvero in una data posteriore rispetto a quanto segnalato nelle prime carte del codice. A sostegno di ciò, allo stesso periodo va fatto risalire un ulteriore foglio redatto dall’abate e conservato tra le carte di CherubiniCherubiniFrancesco, che come i precedenti si pubblica in appendice. Anche questo documento, contenente Alcune voci del Dialetto del Malcantone seguite da una manciata di Voci del Mestiere del Fornaciajo e del Dialetto Brianteo (destinate al Vocabolario milanese-italiano), è impiegato per integrare il Dizionariuccio con i pochi vocaboli che contiene.

3.2.1. La struttura del lemmario

Il manoscritto del Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano è allestito di principio seguendo i criteri di compilazione che si sono assestati con la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano: a questo modello ci si è dunque attenuti anche per conformare le voci del repertorio nell’edizione presentata in appendice.

Come nei vocabolari dialettali del Settecento e nelle opere maggiori di CherubiniCherubiniFrancesco, la struttura del lemmario è di tipo omonimico, ovvero registra tante entrate quante sono le accezioni. Quindi, ad esempio, sostantivo per ‘giorno’ e infinito verbale per ‘dire’ sono lemmatizzati singolarmente. La caratterizzazione degli omonimi non è però sistematica. A questo proposito, nel caso citato il lemma dialettale è seguito dal corrispettivo in italiano, senza ulteriori specifiche: «. Dì. Giorno» e «. Dire».

Coerentemente con l’ampiezza limitata del repertorio, nel Dizionariuccio si attestano un massimo di tre pseudomonimi. La voce Squarà, ad esempio, è lemmatizzata tre volte: con il significato di ‘smottare, franare’, di ‘diroccare’ e di ‘squarciare, schiantare’. Sono invece più frequenti le coppie. In alcuni casi queste ultime sono evidentemente legate sul piano semantico: ad esempio il verbo Balitgà per ‘cullare’ e ‘barcollare’; o addirittura risultano sinonimiche, come nel caso di Répar per ‘tura’ e ‘argine’. In altre occorrenze, invece, i due significati sono più distanti a causa di scivolamenti semantici di vario tipo. È il caso di Scibèga per ‘cervo volante’ o ‘tristanzuolo’, e ancora, spigolando fra i numerosi lemmi che si potrebbero citare, di Tizzon per ‘tizzone’ o ‘fuggifatica, tempellone’. Facendo ordine tra gli omonimi, tendenzialmente nel manoscritto si ha prima il significato proprio della voce, poi la sua estensione.

Connesso a questo fatto, in altri casi il termine lemmatizzato è seguito da sinonimi o varianti formali:

Biòt. Lombrico. Dicono anche Briòt.

Burlàch o Burlat de ref. Gomitolo.

Buratìn. Identico al Balanin.

Chiòs che anche dicono Meuda o Piànca. … Campo ricinto e prossimo all’abitato.

Facc. Fagg. Fatto.

Fafi. Lo stesso che Baràgoi, Bagaj (castagne).

Intrècchen o Introcchen. … Congegni di macchine, opifizi, ecc.

Iserèt, Iseron. … Isolette nella Tresa.

Oài. Ovài. No. Punto.

Sluscia e slusciada. Acquazzone.

Tripée per Scarètt. V.

Quando invece i sinonimi sono singolarmente lemmatizzati nel manoscritto si genera un sistema di rimandi tra le voci, una circolarità da dizionarietto compiuto, anche se imperfetta. Questo fatto è indice dei limiti strutturali del Dizionariuccio; tuttavia anche nelle opere maggiori non sono infrequenti imprecisioni di questo tipo, seppur generate dall’ampiezza e dalla ricchezza dei repertori.1 Esemplificando corrivamente, giandèll rimanda a nos (‘noce’) e ribeba a zanforgna (‘scacciapensieri’), mentre i doppioni oài/ovaj per ‘no, punto’ o ‘certo che no’ e can/cagn per ‘cane’ sono lemmatizzati singolarmente e non sono collegati.

L’ultimo esempio menzionato documenta inoltre come questo repertorio, contrariamente alla prassi dei lessici dialettali del tempo, non registra solamente i lemmi distanti per fonetica dalla forma toscana ma comprende anche gli omofoni o quasi omofoni. Sono numerosi i casi di questo tipo presenti nel repertorio: bandella, cispa, falò, fontana, nassa, quatro, sgualdrina, vacca, verità, vòlta e altri. Questa scelta testimonia l’adozione dei criteri di compilazione stabiliti con l’editio maior del Vocabolario milanese-italiano. Infatti, nella nota Al lettore che introduce la prima edizione dell’opera milanese, il lessicografo afferma che

non altre voci si troveranno registrate in questo Vocabolario se non quelle che, o totalmente o in gran parte diverse dalle toscane, sono le ignorate dai più […] né vedrai fatta parola di que’ vocaboli che o per semplice troncamento di sillabe o di qualche prima od ultima lettera, o per una leggiera trasposizione o prolungazione di lettere diversificano dalle voci di buona lingua italiana.2

La decisione, secondo quanto scrive CherubiniCherubiniFrancesco nel passo citato sotto, non incontrò tuttavia il favore dei lettori. L’autore scelse perciò di adeguare i propri criteri alla volontà del suo pubblico e di includere nella seconda edizione del repertorio anche le parole dialettali omofone (o quasi) al corrispettivo italiano:

E siccome venne da molti rimproverata nel Saggio mio primo di questo libro l’omissione delle locuzioni milanesi non molto dissimili dalle italiane, in sul rispetto del non potere i lettori star certi alla loro italianità per la sola omissione, attribuibile assai volta a trascorso di memoria, così nel presente Vocabolario ho registrato tutte quante le locuzioni del parlar milanese indistintamente, con questa differenza però che dove nelle diverse dalle italiane ho abbondato in definizioni e spiegazioni, nelle simili, dalle voci o dalle frasi dei due linguaggi in fuora, non ho aggiunta pur sillaba altra qualunque […].3

Come anticipato, lo scrupolo e l’operosità di CherubiniCherubiniFrancesco non si traducono nella coerenza interna al lessico e alla struttura delle voci, perlopiù assente nel manoscritto del Dizionariuccio come nelle opere maggiori. La caratterizzazione dei lemmi, specie degli omonimi, risulta ad esempio asistematica. Analogamente a quanto si verifica nei repertori lessicografici più noti, nel codice ambrosiano si registrano numerati casi nei quali le voci sono grammaticalmente categorizzate, fra questi: Ciuida per ‘colpo mortale’, indicato come sostantivo femminile. Alcuni lemmi sono invece distinti per genere: così Do per ‘due’, indicato come femminile, e Stabbi maschile distinto da Stabbia femminile, entrambi per ‘stalla’. Di poco più numerosi sono gli aggettivi lemmatizzati con la relativa indicazione grammaticale. Quando presente, questa è però funzionale al collegamento tra l’aggettivo lemmatizzato e il sostantivo che definisce. Per intenderci: amnos (‘faldoso, scheggioso’) è aggettivo che definisce il legno; oppure, scorobiò è aggettivo che caratterizza l’uovo (‘infecondato’). Vediamo alcuni lemmi:

Amnos (agg. di legno). Faldoso, scheggioso.

Dèzzi. Agg. di Póm. V. [Pom dezzi. Mela Tosa?]

 

Faveroeùla. Agg. di Brùgna.

Lamnós. Agg. di Ass. … Asse che se ne va a lastre, a strati perché si sfalda (quasi ‘laminoso’).

Redesìv. Agg. di Fégn. V. [Fegn redesiv (Lugan.). Fieno agostino.]

Scorobiô. Agg. d’Oeuv. V. [Oeuv scorobiô. Uovo infecondato.]

Sotùrnio. Sornione. Agg. di Temp. V. [Temp soturnio. Tempo torbidiccio.]

Nel manoscritto del Dizionariuccio le entrate risultano difformi e asimmetriche. Le didascalie relative ai registri di appartenenza, ad esempio, sono inserite occasionalmente e senza una coerenza o una strategia complessiva evidente. Così è sporadicamente indicato il tono scherzoso di alcune voci, tra le quali Cà di can per ‘macello’, prona per ‘somaro’ e sciòber per ‘ciabattino’; oppure il registro gergale di termini come il furbesco scabia per ‘vino’, biotta per ‘pelle’ e crivella per ‘fame’. Altri lemmi sono invece ricondotti all’idioletto infantile, come Bóbò per ‘vacche’, o alla terminologia tecnica del gioco, per esempio Cópp per ‘coppe’ o il sintagma venga l’osto per ‘venga l’oste’. Infine, di numerose parole è indicato il significato figurale, fra le quali bandéra per ‘fedifrago’, ordenà per ‘castrare’, rangià per ‘conciare per le feste’ e róvra, che equivale metaforicamente a ‘ignorantaccio’.

Oltre che sul piano del significato, un’analoga difformità si rileva anche nell’apparato di annotazioni fonetiche, che si riduce ad alcuni appunti relativi alla distinzione tra vocali alte (o strette) e basse (o larghe). Queste sono indicate occasionalmente, con buona probabilità là dove il compilatore o l’informatore – note analoghe si ritrovano nelle liste di RossiRossiGiuseppe – lo sentivano più necessario: in sostanza nei casi in cui l’articolazione fonetica del parlante ticinese risultava anomala o più lontana dalla pronuncia del termine equivalente in toscano o nel dialetto milanese. Spigolando tra le voci, nel lemmario si legge:

Canvétt (e stretto) Cantinetta. Canovetta. Il nostro Cantinìn.

Cavréta (e stretto). Capretta.

Fumèla (e larga). Ajuola.

Galabrota (o largo). Galavergna. Nebbione fitto.

Quarèla (e larghissima). Guajo.

Tanscét (e stret.). Ventricello. V. Scherz.

Tògia (ò largo). Sinonimo di Petògia. V.

Simili didascalie concernono anche le indicazioni di tipo diastratico. Ovvero, attivano la bipartizione preannunciata nella nota introduttiva, secondo la quale ogni varietà si distingue in una sottovarietà «cittadinesca» e in una «contadinesca». Le annotazioni relative agli ambiti di appartenenza sono però molto rare nel manoscritto del Dizionariuccio, nel quale si attestano unicamente quando sono registrate due forme sinonimiche riconducibili alle sottovarietà menzionate. Si riscontrano così le coppie ascètta (v. cont) e azzetta [azza] (v.citt), per ‘matassa’ o ‘matassina’, marù (v. cont) e matùr (v. citt) per ‘maturo’; benché in realtà quest’ultima non sia una voce cittadina ma un italianismo, che documenta la carenza d’informazione scientifica di CherubiniCherubiniFrancesco, perfettamente legittima al tempo. A conferma di ciò, nel manoscritto si incontrano voci non vernacolari lemmatizzate come tali: così manigoldo per ‘Bravaccio, diritaccio’, oibò per ‘certo che no’ e pòlizza per ‘vaglia’. A tale proposito, è considerevole che nella lista delle Sopraggiunte compilata dall’abate RossiRossiGiuseppe sia appuntata la nota «voce italiana» a fianco degli italianismi entrati nel dialetto, si veda ad esempio: cioncà (‘cioncare’), garett (‘garretto’), maran (‘marrano’) eccetera. Questo scrupolo è però limitato al catalogo delle Sopraggiunte e pare motivato proprio dal contesto nel quale è prodotta la lista: i lemmi segnalati come italiani sono infatti inclusi da MontiMontiPietro nel Vocabolario comasco senza specifiche e la notazione di RossiRossiGiuseppe andrà dunque intesa come puntualizzazione o correzione all’entrata, non diversamente da quanto osservato in precedenza per il versante semantico. Questo tipo di sensibilità da parte dell’informatore non si traduce però nella notazione sistematica, che viene meno in tutti gli altri elenchi trasmessi a CherubiniCherubiniFrancesco; e anche in C47 si leggono i lemmi manigóldo e nulaténent, due italianismi registrati senza alcuna avvertenza in proposito. Rimane tuttavia significativo il fatto che le voci trascritte dalla lista dell’abate, nella quale sono esplicitamente segnalate come italiane, siano lemmatizzate nel Dizionariuccio senza alcuna indicazione; questa peculiarità è d’altro canto legittimata dallo scopo sostanzialmente pratico dell’opera, prevalente sull’interesse descrittivo o linguistico.

Le rare didascalie con indicazioni geografiche poste accanto alle entrate del lemmario certificano l’orientamento luganese del repertorio, pur con alcune notevoli eccezioni: ad esempio, la voce biaschese pól/a per ‘ragazzo/a’ o il verbo del dialetto leventinese sosnà, che vale ‘governare il bestiame’. Entrambi i vocaboli, sensibilmente fuori asse rispetto al baricentro del Dizionariuccio, non sono riconducibili alla prima stesura del manoscritto e non si ritrovano nemmeno nella lista pubblicata da CossaCossaGiuseppe nel ’47, ma vanno cercati tra le informazioni ricevute da RossiRossiGiuseppe nel ’46. Queste parole si ritrovano infatti, assieme ad altre voci (vita vita, matt eccetera) nel breve lessico incluso da FransciniFransciniStefano nella Svizzera italiana, parzialmente copiato dall’informatore nella prima lista (V1) trasmessa per mezzo di VillaVillaGiuseppe. Anche in questo caso, tuttavia, lo spoglio lessicale dell’opera di FransciniFransciniStefano avvenne in maniera non sistematica: in V1-2, e conseguentemente nel Dizionariuccio, confluiscono solo alcune delle voci dialettali comprese nel mannello proposto nello studio storico-statistico.4 L’ipotesi di uno spoglio indipendente o complementare di quest’opera da parte del lessicografo è invece poco economica. Lo testimonia, prima di ogni altro dato, l’inclusione solo parziale, e coincidente con i vocaboli trasmessi dall’informatore nella lista del ’46, dei lemmi raccolti nella Svizzera italiana. Oltre a questo fatto, di per sé probante, a conferma del disinteresse o della negligenza del lessicografo per le raccolte lessicali di FransciniFransciniStefano nell’àmbito di questo progetto, i Vocaboli di Leventina non risultano impiegati nell’allestimento del repertorio. A questo proposito, sul piano filologico una prova è offerta dalla forma del lemmario. Ad esempio, nel manoscritto del Dizionariuccio per la voce sosnà è accolta la sintetica definizione «governare il bestiame», direttamente riconducibile a quanto si legge nella lista V1-2, che copia il lemma dal primo volume della Svizzera italiana: «Governar le bestie quando sono chiuse nella stalla».5 La definizione accolta da CherubiniCherubiniFrancesco risulta invece più distante sul piano testuale rispetto all’entrata compresa nei Vocaboli di Leventina: «Sosnà (retic. sejniunar). Si dice del somministrare al bestiame grosso e minuto l’alimento nelle stalle e fargli quelle altre cure che gli si convengono».6 D’altro canto, ed è un’ulteriore testimonianza della mancanza di metodo e sistematicità nella preparazione del manoscritto, nel Dizionariuccio è in buona parte impiegata la lista inviata da FransciniFransciniStefano a CherubiniCherubiniFrancesco nel luglio del 1824 come contributo al progetto del Vocabolario italiano-dialetti, mai realizzato. Queste voci sono probabilmente confluite in un’elaborazione successiva alla prima stesura dell’ottobre 1845. È però difficile stabilire con certezza quando avvenne l’ampliamento, che documenta in ogni caso degli interventi sul manoscritto ulteriori rispetto a quelli dichiarati dall’autore nelle carte introduttive. Sulla scorta dell’ordinamento del codice nel quale sono rilegati questi documenti, stabilito da CherubiniCherubiniFrancesco, come dimostra la numerazione delle carte di suo pugno, è possibile ipotizzare che il lessicografo impiegò questo breve catalogo in un momento contiguo alla ricezione di V1-2 nel 1846.

Nel manoscritto del Dizionariuccio, secondo un modus operandi diffuso anche nelle opere maggiori di CherubiniCherubiniFrancesco, sono ricorrenti i riferimenti geolinguistici esterni, ad altre varietà dialettali. Nel manoscritto in analisi si rileva le netta preminenza del milanese, al quale si sommano sporadici rimandi al genovese, al brianzolo, al bergamasco eccetera. Trascrivo alcuni esempi scelti fra i molti rinvii presenti nel lemmario:

Colòstra. Colostro. Il nostro Laccion.

Moeùtt. Prominenza. Dosso. Il brianz. Butt.

Quaggiàda. La nostra Caggiada.

Sgarzètta. La nostra Gasgetta

Sgiarmòj. Torso. Il nostro Caruspi.

Squella. La Tazzinna nostra

Rolina. Come noi.7

Come anticipato, questa impostazione comparativa aveva uno scopo pratico, vòlto a individuare con la maggiore precisione possibile il significato dei termini lemmatizzati. Anche perché, analogamente a quanto si verificò con il Vocabolario mantovano-italiano del 1827, compilando il repertorio ticinese CherubiniCherubiniFrancesco non procedeva «dal noto all’ignoto», come nel caso del milanese, ma dall’ignoto all’ignoto (riformulando la locuzione manzoniana), benché si trattasse di un dialetto della famiglia lombardo occidentale, dunque prossimo alla lingua materna dell’autore.8 Nel Dizionariuccio, considerato lo stadio in fieri del manoscritto, il frequente ricorso al corrispettivo milanese avrà prima di tutto guidato il lessicografo, che con rapidi appunti sarà stato più agile nel momento di raccolta lessicale (ad esempio: «Rolina. Come noi»), e parallelamente avrà confortato e reso più sicura la fase di trasmissione dei dati e la loro elaborazione; è notevole che anche l’abate RossiRossiGiuseppe nella lista C47, adottando dei modi tipici di CherubiniCherubiniFrancesco, si serva del rimando al milanese per fornire delle definizioni chiare e precise. Anche in questo senso, dunque, il Dizionariuccio poggia sul ben più cospicuo Vocabolario milanese-italiano. A consolidare questa ipotesi, alcuni dei lemmi registrati nel manoscritto sono privi di un corrispettivo toscano e si limitano a rimandare alla voce equivalente nel milanese. Se per certi termini, ad esempio caggiada (I 182) o spaviggia (IV 263), il traducente toscano è assente anche nel repertorio milanese, che si limita a documentare e definire l’entrata, in altri casi nel Vocabolario milanese-italiano è proposto un corrispettivo in lingua, che non era dunque ignoto all’autore: si vedano, ad esempio, gasgètta (II 204, ‘gazza sparviera’) o elza (II 62, ‘lucignolo’). Quando il rimando è seguito o segue una definizione esaustiva, considerato che il paragone tra varietà dialettali è una consuetudine anche nei vocabolari pubblicati, è forse lecito ipotizzare una sua funzione più propriamente descrittiva, va considerato cioè come un’informazione linguistica priva di immediate intenzioni didattiche.

Oltre al rimando alla varietà milanese, nel manoscritto del Dizionariuccio, secondo un habitus testimoniato nei suoi repertori maggiori, quando un traducente toscano non è reperibile CherubiniCherubiniFrancesco inserisce dei puntini di sospensione fra il lemma e la sua descrizione: uno spazio nel quale idealmente il fruitore può annotare il vocabolo toscano corrispondente. Nel breve scritto che introduce la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano l’autore si sofferma e giustifica questa scelta:

Molte voci milanesi, e specialmente voci d’arti, si troveranno susseguite da varj puntini e spiegate sì, ma sprovviste di corrispondenza italiana. Queste ritengasi voci alle quali io non seppi trovare quella corrispondenza in nessuna delle fonti sovraccennate; ad alcuni o più diligenti o più avveduti lettori di me sarà facile sostituire a varj di que’ puntini le locuzioni degli scrittori; agli altri, potrà chi ha famigliare commercio con i Toscani sostituire con facilità quelle voci dell’uso loro che la mancanza assoluta di quel commercio e i miei vincoli attuali non mi lasciarono modo di avere da essi. Ad agevolare altrui l’empitura di siffatte lacune mi studiai di arrecar della voce vernacola una esattissima definizione e di ajutarla con quelle voci di altre lingue che mi parvero sue equivalenti, e volli altresì tutte in carta incollata e da ciò le copie del libro.9

 

Questa norma redazionale certifica da un lato l’idea del vocabolario come un’opera pratica, e dunque non “chiusa” e senza pretese di esaustività, ovvero suscettibile di integrazioni e ampliamenti anche da parte del lettore; dall’altro, l’impiego di questo accorgimento nel manoscritto del Dizionariuccio, inutile per l’autore in fase di elaborazione (le integrazioni seriori avvengono diversamente), testimonia che nell’allestimento del codice le informazioni lessicali sono configurate e ordinate secondo dei criteri prestabiliti, già orientati alla pubblicazione o perlomeno alla fruizione del repertorio.

Riallacciando il discorso a quanto detto sopra, la struttura interna delle voci è di tipo sinonimico complesso, ovvero al lemma dialettale segue un elenco di corrispettivi di uguale significato. Ad esempio si veda la voce cricca/cricch, definita: «Malapratica. Combriccola. Litigio. Guajo. Viluppo». È però difficile determinare il criterio gerarchico che ordina le serie dei traducenti, forse stabilito sulla base della frequenza d’uso, dell’accettabilità del termine nella lingua comune o dell’espressività della parola (come suggerisce PaccagnellaPaccagnellaIvano per la voce articiocch lemmatizzata nel Vocabolario milanese-italiano del 1814).10 Considerando lo stadio d’elaborazione arretrata del manoscritto, l’ordinamento interno dei lemmi potrebbe anche dipendere più semplicemente dal caso o essere condizionato dalla memoria e dal sapere di CherubiniCherubiniFrancesco, nonché dall’uso dei materiali prodotti dagli informatori. Certo, rispetto alla prima edizione del Vocabolario milanese-italiano, che nella sola lettera A, come segnala DanziDanziLuca, giunge a novantadue traducenti sinonimi per la voce articiocch (‘babbeo’) e a trentaquattro per andé al cagaratt (‘morire’), il lemmario del Dizionariuccio è molto più snello e agile.11 Questa caratteristica rendeva il repertorio più spendibile per il suo intento primario, al contrario del Vocabolario milanese-italiano, che proponendo una copiosa serie di sinonimi doveva generare maggiore confusione e rendere più complesso l’impiego pratico da parte di in un pubblico medio, posto in condizione di scegliere tra liste sterminate di sinonimi la parola italiana più congrua al registro del parlante.12 La pratica di accumulo dei traducenti, oltre a cristallizzarsi e diventare un’abitudine nel laboratorio di CherubiniCherubiniFrancesco, è indice di un’incertezza che l’autore tenta di attenuare proponendo una vasto catalogo di possibili corrispondenti, ampliando cioè le possibilità di traduzione. D’altro canto la «filastrocca di vocaboli», com’è definito da Giuseppe Giusti in una lettera a ManzoniManzoniAlessandro del 1845 il cospicuo repertorio sinonimico sovente allestito da CherubiniCherubiniFrancesco, rischia di causare equivoci e imprecisioni dovute alla stratificazioni di significati approssimativi.13 Il lessicografo ne era consapevole, lo documenta la sua osservazione, relativa al complesso e ricco àmbito della flora e dell’avifauna, compresa nella nota Al lettore collocata in apertura al Vocabolario mantovano-italiano: «Che anzi non è raro il caso (e chi è solito a rifrustar dizionarj ben mi farà ragione di questo mio dire) che uno stesso Vocabolario italiano a forza di sinonimi e di rimandi ti faccia d’uno scricciolo trovar nelle mani un nibbio, e d’un abete un salcio».14

Inoltre, il traducente toscano impiegato da CherubiniCherubiniFrancesco nel Dizionariuccio sconfina spesso in forme desuete, poco spendibili nell’intento primario, razionale e pratico, del repertorio lessicografico. Questa scelta, rigidamente impostata sul modello linguistico trasmesso dagli scrittori toscani, di fatto senza o con minime eccezioni a riguardo, molto risente del suo tempo e dei dibattiti attorno alla questione della lingua che lo animavano. Le forme toscane proposte dal CherubiniCherubiniFrancesco, in questo manoscritto come nel resto della sua opera, generano un serbatoio lessicale ricco di arcaismi e relitti letterari.

In merito alla prima edizione del Vocabolario milanese-italiano, questo difetto era già segnalato dal direttore del «Giornale italiano» Giovanni GherardiniGherardiniGiovanni, che in una recensione del 1814, tra gli elogi per la bontà complessiva e l’utilità dell’opera, rimproverava al CherubiniCherubiniFrancesco l’impiego di un italiano “strano”, ossia letterario e artificioso:

E del pari non crediamo di dover approvare l’aver contrapposto a parecchie voci milanesi non pure le correnti italiane, ma quelle più viete altresì e dimesse, e non da usare da chi rispetta il giudizio che le ripugna, e l’orecchio che a udirle si contorce: il che era in tanto più da schifare, in quanto che è vizio pur troppo comune in quelli che, nati e cresciuti in paese ove la lingua è corrotta e storpia, imparano a ben parlare e scrivere sui libri e sui dizionarj, di tener per belle e purgate quelle voci solamente che più dal volgare dialetto sono diverse, e però di cercarne delle strane, e, quanto più strane le trovano, tanto averle più care, facendo così ridere a cento bocche i savj intendenti dell’italiana favella.15

Anche Carlo TencaTencaCarlo condivide questo parere in uno scritto inedito pubblicato da StellaStellaAngelo con il titolo Notizie su Francesco CherubiniCherubiniFrancesco, che rappresenta una rielaborazione della recensione al volume intitolato Della vita e degli scritti di Francesco CherubiniCherubiniFrancesco. Cenni raccolti dal dottore G.B. De CapitaniDe CapitaniGiovanni Battista apparsa il 9 gennaio 1853 sulla rivista «Il Crepuscolo».16 In questo testo, databile con certezza ad anni posteriori al 1870, è espresso un giudizio analogo in merito alle scelte del traducente praticate nella prima edizione del vocabolario:

Non si dipartì [scil.: CherubiniCherubiniFrancesco] quindi da questo suo concetto, e, nel mentre l’uso intelligente del dialetto milanese gli mostrava quanta naturalezza ed efficacia ha il linguaggio che nasce spontaneo sulle labbra del volgo e come quasi sempre più del linguaggio scritto conferisce alla vivezza del pensiero, non si tolse dalla consuetudine letteraria e non si fé scrupolo, anzi si compiacque di pescare rancidumi e leziosaggini nei vecchi autori, e, quando non gli riuscì di scovare qualche vocabolo italiano, fosse pure antiquato e stantio, da contrapporre a quello milanese, preferì non indicarne alcuno.17

In una redazione anteriore dello stesso articolo TencaTencaCarlo estendeva queste considerazioni all’ultima versione del Vocabolario milanese-italiano, nella quale come detto si assestano il metodo di lavoro e le abitudini replicate in piccolo nel repertorio ticinese. Relativamente all’editio maior, nell’apparato curato da StellaStellaAngelo si legge:

Si poteva, è vero, fargli appunto di qualche inesattezza d’interpretazione, colpa quasi sempre del disadatto ed imperfetto linguaggio italiano a cui soleva ricorrere, di rado effetto di malsicura intelligenza della voce vernacola.18

Nell’introduzione alla seconda edizione del vocabolario CherubiniCherubiniFrancesco risponde a queste osservazioni. Il lessicografo da un lato sostiene le scelte operate nella princeps, orientate a fornire al parlante milanese voci italiane adatte alla scrittura; dall’altro cede alla Crusca il compito di storicizzare, di indicare la terminologia impiegata nella lingua viva e di distinguerne i registri e le sfumature di senso:

Io ho sentito alcuni lamentare nel Saggio di questo libro che pubblicai giovinetto moltissime voci italiane contrapposte alle milanesi non essere quelle comunemente usate in Toscana oggidì, e rappresentarsi colà gli oggetti con altre voci che colle da me suggerite, e spesso ancora con voci simili in sostanza alle nostrali. A questo lamento continuerà a dare luogo in parte anche il libro attuale, perché con esso io intendo somministrare modo a voltare il dialetto milanese nella lingua scritta italiana, non a tramutarlo nel mero parlare toscano il quale, come dissi, è di quella lingua germe utile sì, ma bisognoso d’educazione da parte degli scrittori. Dell’ammissione nella lingua scritta italiana di que’ successivi sviluppi a che un germe vivo si può di tempo in tempo condurre starebbe appunto all’Accademia il darci notizia d’età in età, come da essa dovremmo imparare con quali nomi diversi venga chiamato secondo tempi e penne un medesimo oggetto, o veramente ricever legge che nelle scritture pei rappresentativi delle cose fosse negato alla sinonimìa quell’adito che è bello concederle pei rappresentativi dei loro aggiunti.19