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Il nome e la lingua

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Z serii: Romanica Helvetica #142
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Per quanto concerne gli altri informatori della Svizzera italiana, la loro collaborazione con MontiMontiPietro dovette precedere quella di DalbertiDalbertiVincenzo. Nella prima versione dell’introduzione al Vocabolario, pubblicata sul «Politecnico» di CattaneoCattaneoCarlo nel 1844, il lessicografo comasco menziona con gratitudine alcuni «colti sacerdoti» delle valli «Tellina, Verzasca, Maggia» e dei monti «del Lario, del Ceresio e del Verbano», mentre il riferimento agli informatori di Blenio e Leventina è aggiunto solamente nel testo pubblicato in volume nel 1845. Anche nel Florilegio, edito l’anno precedente, non sono presenti termini ricondotti o riconducibili al dialetto bleniese, mentre sono frequenti le entrate relative alle varietà della Valle Verzasca e della Vallemaggia, territori nei quali il lessicografo condusse indagini di persona.

Infine, in aggiunta all’elenco di vocaboli, il 14 giugno 1845 DalbertiDalbertiVincenzo trasmette a MontiMontiPietro una versione revisionata della Parabola del figliuol prodigo, da lui allestita su invito del canonico GhiringhelliGhiringhelliPaolo e pubblicata nel volume, già citato, Die Landessprache der Schweiz oder Schweizerische Dialektologie di StalderStalderFranz Joseph: «Ecco la Parabola del Figliuol prodigo, promessa colla mia del 27 scaduto. L’ho corretta dagli errori di stampa, e migliorata come ho saputo dell’ortografia per facilitarne la pronuncia».31 La nuova redazione del testo, oltre a fornire dati lessicali impiegati nel lemmario, è accolta integralmente nel Vocabolario comasco di MontiMontiPietro al capitolo Parabola del Figliuol prodigo narrata nel capo XV dell’evangelo di San Luca tradotta in dodici dialetti della diocesi di Como, assieme a omologhe versioni nel dialetto di Como e delle tre pievi del Lario, nelle varietà valtellinesi di Livigno, di Semògo, di Teglio, di Albosaggia, di Montagna, e in quelle svizzero-italiane di Poschiavo, di Valle Maggia, di Valle Verzasca e di Leventina.32 Per concludere, una spia del particolare interesse di MontiMontiPietro per il suggestivo dialetto della Valle di Blenio è forse documentata dal fatto che la versione della Parabola in questa varietà è l’unica con l’aggiunta di un sottotitolo dialettale («Drà rengua dré Vall d’Bregn»), forse debitore del modello dei Rabisch.

3. Francesco CherubiniCherubiniFrancesco e la Svizzera italiana
3.1. Le varietà svizzero-italiane nel Vocabolario milanese-italiano

I repertori lessicografici sette-ottocenteschi avevano, è risaputo, un intento didattico molto diverso dall’uso e dagli interessi odierni. Non si ponevano infatti l’obiettivo di documentare la forma vernacola in quanto tale ma intendevano offrire un sussidio per «arrivar dal noto all’ignoto», con le parole di ManzoniManzoniAlessandro, cioè, nella fattispecie, per giungere dal milanese alla lingua italiana.1 La prima edizione del Vocabolario milanese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco è stata infatti uno strumento indispensabile nel laboratorio degli scrittori milanesi e più ampiamente lombardi del primo Ottocento.2 Ad esempio, lo stesso ManzoniManzoniAlessandro, che padroneggiava due lingue, il dialetto milanese e il francese, ricorse assiduamente al Vocabolario durante la prima rielaborazione dei Promessi sposi.3 Tuttavia, in merito ai problemi linguistici incontrati nella redazione del suo romanzo, nella nota lettera del 25 febbraio 1829 a Giuseppe BorghiBorghiGiuseppe, lo scrittore afferma:

Il Vocabolario? Ma per cercare una parola nel Vocabolario, bisogna saperla. E poi quante mancano! quante sono di quelle che l’uso ha abbandonate, e nel Vocabolario stanno imbalsamate, se volete, ma non vive certamente! Sapete a che mi bisogna ricorrere tante volte, per arrivar dal noto all’ignoto? al Vocabolario francese-italiano, perché so il vocabolo o la locuzione francese, e d’italiano nulla. Bel turcimanno per un italiano il Vocabolario francese! Il quale poi per lo più mi dà una perifrasi (perché l’autore, pur facendo un Vocabolario, non ha mai pensato ad interrogare l’Uso vivente, e forse non ha mai pensato che ci fosse una cosa simile), o mi dà un vocabolo col quale non so quanto abbia a fidarmi.4

In funzione del suo scopo pratico, destinato in modo particolare a un pubblico milanese, la prima edizione del repertorio di CherubiniCherubiniFrancesco si orientava esclusivamente sul vernacolo cittadino. Inoltre, il Vocabolario del 1814 fu compilato sulla scorta di una vasta collezione di opere scritte in dialetto milanese, senza o con scarse indagini sulla lingua viva, salvo precise eccezioni motivate, ad esempio, dalla mancanza di una sufficiente bibliografia vernacolare. Ne riferisce il lessicografo nella nota Al lettore che introduce la prima edizione del repertorio:

E per incominciar dalla parte milanese, dirò come io non registrai voce che usata non ritrovassi dagli autori qui abbasso accennati, ad eccezione di qualche recente usatissimo vocabolo de’ termini d’arte, pe’ quali non avendo noi alcun autore che ne abbia scritto, mi convenne interrogar con ogni cura i vari artisti, e più d’uno per ciascun’arte, nel che, ajutato e dalle particolari mie circostanze e dalla premura di ben fare, mi sono con ogni maggior esattezza adoperato.5

Il metodo di lavoro adottato per l’edizione del 1814, che pur preannuncia in alcuni settori le indagini che saranno condotte alacremente dal lessicografo negli anni seguenti, porta alla compilazione di un lessico selettivo, eccessivamente libresco secondo il parere di alcuni celebri lettori. Tra questi ManzoniManzoniAlessandro, il quale nella citata lettera a BorghiBorghiGiuseppe ribadisce:

Un gran tesoro è per me il vocabolario milanese; e non potrei dire abbastanza quanto io pregi quel lavoro, e ne sia grato all’autore: ma, come lavoro umano, ha i suoi difetti; e il principale è certamente quello d’esser fatto un po’ troppo sui libri, e un po’ poco sull’uso.6

Inoltre, il Vocabolario del 1814 si mostra ben più limitato anche in termini di estensione della ricerca rispetto all’editio maior. La seconda edizione del repertorio lessicografico, funzionale innanzitutto alla ricostruzione del termine toscano partendo dal lemma milanese, presenta delle ambizioni anche più latamente etnologiche e storiche. Il Vocabolario si propone infatti di documentare la lingua ma anche le tradizioni, il folclore e la storia cittadina o regionale. Questo sviluppo nella concezione dell’opera lessicografica trasforma sensibilmente lo strumento e le conseguenti esigenze di compilazione: il reperimento di termini dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato, ossia di attività che si praticavano prevalentemente fuori dalla città di Milano, impone un’indagine sul campo e la forzatura dei confini urbani stabiliti per l’allestimento del primo Vocabolario. Nell’edizione accresciuta CherubiniCherubiniFrancesco si rivela più sensibile alle sottovarietà dialettali del milanese. Lo dimostra sin dalle pagine introduttive, nelle quali propone una suddivisione diastratica del dialetto, concepita su di un binomio che diversifica le varietà dei borghi cittadini dalle varietà campagnole: «il dialetto di ogni paese si suddivide in cittadinesco e contadinesco»; questa polarità era già implicitamente attiva nella prima edizione, come si deduce dalla tavola delle abbreviazioni.7 E sebbene il punto focale della ricerca rimanga la varietà urbana, documentata anche con ricerche sulla lingua corrente, motivate da ragioni pratiche e dal nuovo interesse culturale, la seconda versione del Vocabolario conferisce rinnovata importanza alle varietà extraurbane, in special modo al brianzolo.8 Come indica la nota che introduce l’editio maior, il campo d’indagine è esteso ai territori circostanti la città di Milano, sino alle più remote regioni dell’area linguistica lombarda:

E parimente ancorché per far tesoro dei molti vocaboli proprj delle ferriere, delle carbonaje, delle petraje, e di molti ancora fra i pertinenti all’agricoltura, alla casearia, alla caccia, alla seterìa, alla navigazione, alla pesca, e a più altri miracoli siffatti dell’industria umana, io sia uscito di città e del suburbio e corsone in cerca fin ancor al lembo ultimissimo del territorio.9

Il riorientamento del Vocabolario pone però il problema di determinare e fissare dei nuovi confini linguistici. Di fatto, irradiata dal centro culturale di Milano, l’indagine del lessicografo si sviluppa in un’area sovrapponibile alla moderna geografia dialettale della famiglia lombardo-occidentale, con alcune aggiunte. Più precisamente, la ricerca lessicale di CherubiniCherubiniFrancesco giunge sino ai «monti della Valsassina colle rive lariense e leccense che s’hanno a’ piedi, e l’Adda fin presso Lodi per una linea quasi perpendicolare da tramontana a mezzodì; alla Valle Assina fin presso Como, al Lago Maggiore e al Ticino fin presso Pavia per una curva declinante da tramontana a ponente e da ponente a mezzodì», ovvero sino a quelli che «sono da considerarsi al grosso come confini naturali del parlar milanese propriamente detto»: vale a dire, pressappoco, le attuali province di Milano, Pavia, Lodi, Lecco, Como e Varese.10 Questi limiti sono elusi per ragioni pratiche, nella misura in cui la dilatazione dell’area coperta dal Vocabolario poteva soccorrere «una sì notabile porzione di gente che a nessun altro Vocabolario può ricorrere fuorché al Milanese per voltare nella lingua illustre d’Italia molti vocaboli e modi suoi particolari».11 Alla potenziale utilità del repertorio per gli abitanti della Svizzera italiana l’autore fa breve menzione in una nota della postilla introduttiva Al lettore:

 

Per le cose dette sopra è chiaro che nel rispetto delle voci agrarie e tecniche questo Vocabolario potrà giovare in buona parte anche a molti Comaschi, Bergamaschi, Cremaschi, Lodigiani, Pavesi e Novaresi, come pure ai Bassi Valtellinesi e a molti terrieri del Canton Ticino negli Svizzeri.12

Benché CherubiniCherubiniFrancesco sostenga di essersi attenuto alle delimitazioni stabilite («io ho avuto occhio a non uscire dai confini sopra detti»), nella versione accresciuta del Vocabolario sono registrate alcune voci riconducibili alle varietà svizzero-italiane.13 Queste testimoniano, oltre a un interesse più ampiamente culturale per la lingua e per le tradizioni lombarde, anche extra-urbane, l’ambizione di fornire uno strumento lessicografico funzionale su scala regionale e non limitatamente milanese. Le voci svizzero-italiane accolte nel repertorio sono sostanzialmente distinguibili in due tipologie: una prima, costituita da termini di origine svizzero-italiana diffusi nella varietà urbana milanese da lavoratori stagionali provenienti dalle valli prealpine; una seconda, relativa a parole di diffusione e uso esclusivamente ticinese. I termini introdotti nel dialetto cittadino dagli svizzeri attivi a Milano sono testimonianza dello sforzo sostenuto dall’autore in funzione di una più esaustiva documentazione della lingua viva, cioè non libresca, che faceva difetto alla princeps, nonché di un crescente interesse linguistico anche per la storia e l’origine delle parole censite. I lemmi esplicitamente ricondotti a un’origine svizzero-italiana nella versione ne varietur, che trascrivo di seguito, sono assenti nei volumi del 1814:

Ciocchée [1: 289] (coll’o largo) (in alcune ville e sul lago di Como). Campanile. Dal romanzo Cluckèr degli Svizzeri confinanti.

Formaj de cavra [2: 160, s.v. formaj] (che talvolta con voce svizzera dicesi Crèn). Cacio caprino.

Crodà [1: 364]. Cadere. Il vero Decidere de’ Lat. La nostra voce è d’origine romanzo-svizzera Curdar, iou crod, io cado.

Crós [1: 366] dicono alcuni con voce romanza-svizzera quello che più comun. diciamo Cavall de la nos. V. à Cavall de la nos [1: 264] (che altri dicono con voce svizzera Cros). Concamerazione o Dissepimento della noce. Ciò che i Franc. chiamano Zeste e i Tedeschi Nussattel. Il PeschieriPeschieriIlario nel Diz. parm. dice parergli che l’abate Colombo volesse chiamarlo Frullo […].

Fòira [2: 145] si sente spesso in bocca de’ montanari svizzeri che vengono tra noi a esercitare l’arti del cioccolattiere, del lattajo, ecc. per Soccorrenza, diarrea; voce provenzale e franc., fouiro, foire.

Garàbbi [2: 201] dicono alcuni mattonieri e fornaciai, forse per voce imparata dai forestieri e specialmente dagli Svizzeri che vengono a lavorar di mattoni nel Milanese, quella Specie di rastro che i nostri fornaciai dicono Roàbbi. V.; e così Garabbià o Garabbià-indree l’appianare la terra con esso rastro.

Gaslètt e Gaslìn [2: 204]. Castellina. Casella. Mucchio di tre noccioli con uno sopra per giocare. V. Giugé ai gandoll in Gandólla. Queste voci Gàsla, Gaslètt, Gaslin sono d’origine romanzo-svizzera (Caschlett mucchio di quattro cose) regalateci per avventura dai Leventinesi, dai Blenniesi, dai Rivierani che vengono fra noi a lavorar di cioccolata.

Marascìtt [3: 46]. … Voce delle Valli svizzere italiane prossime al Lago Maggiore che equivale a Bimbi. In Milano si usava anni sono per denotare que’ bimbi che andavano a maschera nella così della Fachinàda. V. «Ecco i fachin coi zoeur e i marascitt | Vegnen sgiò allegrament dal Lagh maggior».

Nagòtt. Nagòtta. [3: 159] Nulla. Niente; e con voci poco usate Neente. Nonnulla. Noncovelle – Dal lat. Ne gutta quidem dice il Var. mil. e sulle sue tracce anche il Balestrieri in una nota alla Brand. Cam. Men. In realtà però noi avemmo questo Nagòtt dai Leventini i quali dicono alla romanza Nagutta – V. anche in Niént. > Niént [3: 172]. Niente. Nulla – Per noi la voce Niént è propia delle persone colte; le altre dicono Nagòtta (V.). Anche il volgo però dice Niniént (niente niente) per quasi, pressoché e simili.

Benché impreciso (il tipo NE-GUTTA si attesta infatti in tutto il nord Italia), l’ultimo lemma citato testimonia che queste voci si inseriscono generalmente in un contesto diastratico basso della varietà dialettale milanese, coerente con la loro origine rusticana o campagnola: un livello della lingua scarsamente documentato nella prima versione del repertorio a causa delle fonti impiegate. Gli sviluppi prodotti tra la prima e la seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano emergono chiaramente al lemma Crètta, già attestato nella princeps e accresciuto nell’edizione definitiva con una nota relativa all’origine svizzero-italiana del termine e alla sua irradiazione nella città di Milano:

Crètta (a) [CHERUBINICherubiniFrancesco 1814, 1: 110 ]. A ‘credenza’ posto avverbialmente co’ verbi vendere, dare, pigliare, lavorare e simili, vale vendere o comprare ecc. senza ricevere o dare il prezzo subito, ma per riceverlo o darlo in altro tempo, che perciò dicesi anche Vendere, comprare, ecc. pe’ tempi.

Crètta [1: 362]. Credenza. Voce che s’usa avv.co co’ verbi Vendere, Pigliare, e sim., e vale vendere o comprare, ecc. senza ricevere o dare il prezzo sùbito, ma per riceverlo o darlo in altro tempo, che perciò dicesi anche Vendere, Comprare, ecc. pe’ tempiCretta, voce comunissima fra i bottegaj, è pretta voce romanza dataci dagli Svizzeri confinanti, e una delle moltissime voci nostrali che provano l’infinito ibridismo della nostra popolazione; ibridismo che nasce specialmente per mezzo delle genti montanine finitime le quali concorrono in Milano per esercitarvi le arti del lattajo, del torniajo, del muratore, dell’imbiancatore, del cioccolattiere, del lattivendolo, dell’oste, del vinattiere, ecc., e a seconda o terza generazione sogliono porre sede stabile fra noi.

Nella seconda edizione del vocabolario, dunque, sono copiose le attestazioni di termini svizzero-italiani non testimoniati nella varietà milanese, quindi esclusivi dei territori esterni o limitrofi all’area d’indagine prestabilita. Queste voci, come prevedibile, sono legate al mondo rurale e contadino. Esse documentano infatti una terminologia concernente l’arte casearia, un interesse costante negli anni per il lessicografo, pur senza trascurare l’àmbito naturalistico e folclorico, con parole attinenti alla sfera semantica della flora, della fauna e di altri aspetti della vita e della quotidianità nelle Prealpi svizzero-italiane:

Bróva o Bróa. [4: 34] Vale (almeno sul Lago di Lugano) quella parte della ripa donde incomincia a sprofondarsi. Per es. L’è subet-lì la brova. Il lago s’abbassa tosto; il lago ha poca tratta di basso fondo.

Capèlla. [1: 214] Sul Lago Maggiore verso Brissago e altri paesi vicini chiamano così quel fungo che i bot. dicono Phallus impudicus, cioè il Lumacone ignudo.

Casoeù. [4: 48] Caciuola. In alcune parte del Cantone svizzero del Ticino a noi confinante si dà questo nome alle forme del così detto Battelmàtt o Formaj gras (V.) quando sono piccine.

Pitìn [3: 361]. Cecino. È voce di Brissago sul Lago Maggiore, e indica il Membrino de’ fanciulletti.

Dàrbia. Darbioeù. [2: 12] In Val Blenio, a Olivone, a Biasca, ecc. in Val d’Orta, chiamasi così quel cerchiello da caciuole che nei monti a noi più vicini dicono Fasséra, Facciroeù, Quacciroeù, ecc. V.

Grampèlla [2: 251]. v. delle Valli svizzere. Pattino da ghiaccio.

Mezza-pàsta, [3: 102] e comunemente Formaj de mezza pasta come dicono i Locarnesi e i Luganesi, o Formai bastard come dicono i Valmaggini… Quella specie di formaggio Battelmatt (V.) in cui fu lasciato poco fior di latte.

Nàta [3: 164]. Gli Svizzeri del Canton Ticino chiamano così il cacio fatto sui pascoli alpini (alp) allorché è fresco di non oltre due settimane; dopo il quale tempo e più assodato lo dicono semplicemente Formaj magher.

Natin [ibidem]. I Bellinzonesi chiamano così il piccolo cacio casalingo o sia fatto in casa, quell’istesso che i Locarnesi dicono Formagella e il Valmaggini Mòtta. Questo medesimo cacio i detti Bellinzonesi chiamano Toma se d’infimissima natura.

Órc [3: 218]. Cretino. Gozzuto. Così chiamasi nei monti di Bellinzona chi ha da natura quei difetti che lo fanno il riscontro del Crétin o del Goîtreux delle Alpi savojarde.14

Robioeùra. [4: 63] I Luganesi chiamano così propriamente quella Caciuola di latte caprino che oltrepassa le tre once di peso, e la quale altri Svizzeri ticinesi dicono Formaggin gross o Formaggin così in questo caso come s’ella sia minore delle tre once.

Romp. [4: 129] Sost. Così chiamano nel Canton Ticino e in altri luoghi de’ nostri monti la Vite mandata sugli alberi. Questa gallica voce è antichissima qui da noi.

Sèrra. [4: 196] Tura. Chiusura artefatta nell’alveo de’ fiumi attraversanti le Valli svizzere-italiane, ove dalle così dette sovende (V.) vanno a posare e raccogliersi gli alberi recisi nella valle. > Sovénda [4: 254]. Così chiamasi in alcune valli novaresi e svizzere prossime al Lago maggiore, e specialmente nella Valvegezzo, quelle Strade che altrove diconsi Brov o Tracciù, nelle valli prossime al Lago di Lugano Ov, e in quelle vicine al Lago di Como Vôgh. La Sovenda però è alquanto diversa dalla semplice Voga e dal Tracciù, in questo che dove le ultime vie sono quasi affatto naturali e terree, quella prima viene artificialmente ridotta a una specie di via glaciale, ed ecco per qual modo. Si fa una strada inclinata e più che si può diretta la quale attraversi ogni vallicella, ogni burrone, e ciò profittando del fondo ove puossi, e dove no costruendola a foggia d’argine con rami d’alberi, sassi, macie e terra sovrappostavi. Nel cuor del verno questa strada viene ricoperta con un alto strato di neve, e sulla neve si fa che scorra dell’acqua la quale vi si raggeli sì che la strada rassembri tutta un ghiaccio. Sur essa poi i valligiani spingono i pedali (borr) degli alberi recisi nella valle, e ajutandoli in que’ punti ove s’arrestano o si sviano, con poca fatica li fanno precipitar sino al torrente o al fiume che mette foce nel lago e fermar nella serra o sera, specie di tura ciò fatta nel fiume stesso, donde poi coll’occasione dell’escrescenze di primavera o col disserrar la tura li fanno giugnere sino al lago sul quale legati in zattere sono avviati alla loro destinazione.

Vedrècc [4: 482]. V. dell’Alto Ticino, Ghiacciaja perenne. I Glaciers de’ Francesi, le Vedrette de’ Friulani e dei Tirolesi.

Infine, alcune voci svizzero-italiane sono menzionate come termine di paragone nelle definizioni di lemmi milanesi ad esse affini. Con questi riferimenti, riscontrabili in tutta l’opera e comprendenti varietà e lingue diverse, anche lontane dall’area linguistica milanese, CherubiniCherubiniFrancesco crea un impianto assimilabile nel suo funzionamento a un piccolo atlante linguistico avant la lettre. I confronti fra varietà erano tuttavia per il lessicografo un espediente pratico, vòlto non tanto a relazionare i vocaboli con scopi comparativi quanto a migliorare la resa del repertorio, a definire cioè in modo univoco o con la maggior precisione possibile le voci dialettali. Questi riferimenti lessicali vanno dunque interpretati in chiave didascalica, erano cioè funzionali alla precisa trasmissione del significato del termine lemmatizzato:

Fonsg farree o ferree [2: 152] (che sul Lago Maggiore verso Brissago ecc. dicono Cablòtt, verso Soma Fonsg de pescia, nel Comasco Capelèt, sul Pavese Varioeù, e in altri paesi del Regno Levrin, Legorsèla, Brisòto, Bianchin, Porchì, Nòna). Fungo porcino. Ghezzo. Ceppatello buono di selva. Moreccio. Porcino. Fungo di color lionato, ch’è il Boletus bovinus o esculentus de’ botanici.

 

Moléra. [3: 124] Arenaria. Pietra arenaria. Cote arenaria. Selce molare. La base di questa nostra arenaria è il quarzo. Se ne fanno le coti da taglio, e perciò dicesi Molera da Molà (arrotare). È la Molasse degli Svizzeri […].15

Strében [4: 328]. Zuccherino. Specie di dolce che i Luganesi chiamano Struben.

Pìzz. s. m. [3: 363] Colla. Il Col degli Svizzeri e degli Alpigiani, come Col di Tenda, ecc. […].

Vóga [4: 531]. … Così chiamansi ne’ nostri monti prossimi al Lago di Como quelle Strade a incanalature, le più volte naturali e talora ajutate con canali di legno, per le quali dall’alto del monte si fanno scorrere fino al piano le legne che si tagliano sul monte stesso. Queste medesime strade sul Lago Maggiore diconsi Tracciù, nei contorni di Varese Brov, sul Luganese Ov o Ogh, nelle valli novaresi o svizzere vicine Sovend, e nel Tirolo Tovi. Anche gli Scanón de’ colli brianzuoli sono affini a tali vogh – il grido usato nell’avvallare per queste vie le legne è Abao, forse perché i Genovesi soliti occuparsi in simili lavori dicono altrettanto, come per dire abbasso.

L’effettiva tangenza di queste voci con le varietà della Svizzera italiana è stata verificata da LuràLuràFranco, il quale, salvo poche eccezioni, ha ritrovato tutti i termini ricondotti da CherubiniCherubiniFrancesco alla regione prealpina nei materiali del Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, talvolta con minime differenze morfologiche o fonetiche.16 Queste parole, anche quelle impiegate esclusivamente fuori dall’area milanese, non trovano invece riscontro nei due principali elenchi lessicali procurati a CherubiniCherubiniFrancesco da informatori ticinesi, oggi conservati in forma manoscritta presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Le voci svizzero-italiane presenti nel Vocabolario milanese-italiano non derivano quindi dal già menzionato repertorietto leventinese allestito verso la metà degli anni Venti da Stefano FransciniFransciniStefano (nel quale si legge solamente casöö/chiasö per ‘Cacio, formaggio. Dicesi quasi solo di quelle forme di formaggio le quali sono piccolissime’) e non si ritrovano, successivamente, nei documenti luganesi compilati dall’abate malcantonese Giuseppe RossiRossiGiuseppe.17 Così come non si verificano tangenze fra questi e i vari materiali linguistici svizzero-italiani raccolti da CherubiniCherubiniFrancesco e conservati in forma d’appunti negli zibaldoni comprendenti le carte relative al progetto della Dialettologia italiana.18 Insomma, se per la prima parte delle voci indicizzate, quelle relative alle presenze svizzero-italiane accolte nella varietà urbana milanese, è economico ipotizzare che risultino da un’indagine del lessicografo presso le botteghe cittadine, e forse dal contatto con alcuni artigiani di origine svizzera, è più difficile congetturare per quale via siano giunti a CherubiniCherubiniFrancesco i termini di uso esclusivamente svizzero-italiano, se non da un’inchiesta sul campo. LuràLuràFranco, tuttavia, ritiene probabile per la voce òrc una fonte scritta: in questo caso, infatti, il lessicografo non impiega l’h per segnalare l’occlusiva, come è invece consuetudine nel repertorio. È dunque presumibile che CherubiniCherubiniFrancesco copiò passivamente la parola senza adattarla alle norme grafiche di resa fonetica, che mostrano nondimeno alcune oscillazioni interne anche nelle opere a stampa.

In ogni caso, l’assenza delle voci svizzero-italiane censite nel Vocabolario nei tentativi di descrizione lessicografica di questa varietà è eloquente riguardo al metodo di lavoro di CherubiniCherubiniFrancesco. In particolar modo, questo fatto suggerisce che nel laboratorio del lessicografo i vari cantieri non sempre erano comunicanti, in ragione dell’estensione e della ricchezza delle sue indagini, ma anche dello scarso rigore metodico, testimoniato nei codici che raccolgono una cospicua quantità di appunti eterogenei e disordinati. Quando invece le varie ricerche comunicavano fra loro lo facevano perlopiù in funzione del vasto disegno della Dialettologia italiana.