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XVII

Luisa uscì sul pianerottolo per aspettare Chérie. La vide salire le scale un po' lenta e col respiro affannoso: la trasse rapidamente nello studio e chiuse l'uscio.

Mirella sedeva come al solito sulla poltrona presso la finestra, col piccolo viso tranquillo rivolto verso il cielo.

«Chérie,» disse Luisa traendola a sedere presso di sè sul divano. «Ho da parlarti.»

«Lo so, lo so,» disse gaia Chérie. «L'ho capito subito iersera quando t'ho vista tornare. Dimmi, dunque, dimmi le buone notizie.»

Luisa tacque esitante.

«Parlami, Luisa.»

«Per me.... per me....» balbettò «sono buone notizie. Per te, Chérie, sorellina mia, per te, se non ti rendi conto di quanto ci accade – potranno essere notizie terribili!»

Chérie la guardò spaventata. «Che cosa vuoi dire?» chiese quasi senza voce.

Luisa si portò la mano alla gola; si sentiva soffocare; aveva la bocca arida. Non trovava nè parole, nè voce per dare alla fanciulla aspettante il messaggio di duplice onta.

«Chérie, mia diletta.... devo parlarti di quella notte.... la notte della tua festa —».

Chérie sussultò. «Ah, no! Non parlarmene! Hai detto quando arrivammo qui che lo dovevamo scordare! Hai detto ch'era stato un sogno.... Perchè, perchè ne riparli!»

«Chérie,» disse Luisa a voce bassa «per te, forse, per te.... è stato un sogno. Ma non per me.»

La fanciulla s'irrigidì, fissandola tesa e intenta. Che cosa intendeva dire?

«Luisa!… Hai detto che tutto era passato – hai detto che tutto sarebbe come prima…»

«Sei certa, tu,» chiese Luisa abbassando la voce e prendendole la mano, «sei certa tu, d'essere come prima?» Chérie la guardava sbigottita, senza comprendere. «Sei certa?» ripetè ancora Luisa.

E dopo un breve silenzio quasi senza voce: «Ti senti.... come prima?»

«Sì.... credo....» mormorò Chérie, spaurita ed esitante. «Non so… forse sono ancora un poco anemica.... un poco scossa…»

«Io.... io non sono come prima.» Luisa pronunciò le parole lentamente tenendo fissi i tragici occhi sulla cognata.

«Perchè? Come? Cos'hai?» chiese Chérie agitata.

«Io devo partire. Vado questa sera stessa col dottore. Egli mi curerà. Egli mi guarirà.»

«Ti guarirà? Ma che male hai? Mi fai paura!»

Luisa si coprì il volto colle mani. «Come dirti?… come dirti?… Ah, con quale brutalità devo aprire i tuoi occhi alla vita!…»

E in quello stesso istante l'ineffabile brivido, il fremito meraviglioso scosse di nuovo Chérie e la fece balzare in piedi con gli occhi allucinati, estatici, e le mani convulse strette al cuore.

«Ancora!… Ancora!… Luisa! Che cos'ho? Che cosa sento?»

Illividita, trasecolante, Luisa la guardava.

«E' come.... un batter d'ali.... è come un palpito – che non è.... del mio cuore....»

«Chérie! Chérie!»

«Che cos'è? – che cos'è?» balbettò Chérie smarrita.

Le braccia di Luisa la circondavano, la stringevano convulse. «E' la cosa terribile. E' la cosa nefanda!… Chérie – tu sarai madre!»

Chérie indietreggiò vacillante, le sue braccia batterono l'aria come se stesse per cadere.

«Madre!» La sua voce era un soffio. «Madre!… Io!» E stette immobile.

Dall'aperta finestra entrava un raggio di sole, uno strale dorato che la innondava di luce e le versava sulle chiome un nimbo rutilante di luminosità. Una trasplendenza estatica era nel fulgido azzurro de' suoi occhi.

Immobile, colle pallide mani protese e il liliale volto alzato al cielo ella pareva ascoltare. Quale voce ultra-terrena giungeva a lei? Quale Annunciazione divina la trasfigurava così?

Stupita e tremante Luisa la guardava. E quasi non osava parlare.

«Chérie!… – che cosa pensi con quel viso estatico?… Chérie, angelo innocente, non temere! Anche tu sarai salvata dall'onta e dal disonore.»

La fanciulla volse su lei le pupille splendenti. Sembrava non comprendere.

Luisa si chinò verso di lei ansante. «Tu non sarai la tragica madre d'una creatura ancor più tragica —».

Ma Chérie colle mani in croce sopra il petto, non ascoltava – non udiva. Nel consacrato atteggiamento di verginale estasi ed umiltà, ella ascoltava un'altra voce – la voce della creatura non nata, che a lei chiedeva il dono della vita.

E a quella voce rispondeva il suo sangue, rispondeva la sua anima, rispondeva l'istinto sublime e trionfale della Maternità.

XVIII

Il dottor Reynolds mantenne la promessa fatta a Luisa.

A Londra, in una clinica privata, l'opera spietata e misericordiosa fu compiuta. La scintilla di vita, non anco accesa fu spenta.

Dal profondo delle tenebre, dalla Vallata della Morte, lentamente, con trepidi passi Luisa risalì verso la vita.

.  .  .  .  

Durante i due mesi ch'ella fu nella clinica non vide nè Chérie nè Mirella; ma la signora Yule, affettuosa e tenera, veniva ogni giorno da Maylands a portargliene notizie, narrando quanto ella stessa e suo marito erano felici di ospitarle al Vicariato.

Poichè nel giorno stesso in cui Luisa era partita col dottor Reynolds dalla casa dei Whitaker, il reverendo Yule vi era andato in persona e, con amabile autorità, vincendo le deboli riluttanze della signora Whitaker, aveva preso le due derelitte fanciulle sotto la sua protezione, conducendole via con sè.

La signora Whitaker a dir vero non si era troppo vivacemente opposta alla loro partenza; ma aveva baciato colle lagrime agli occhi quelle due pallide creature che partivano come erano arrivate – mute, smarrite, poveri fuscelli travolti dal turbine della guerra.

In casa del Vicario di Maylands le due sventurate trovarono asilo, e la innocente Mirella e la tragica Chérie furono ugualmente sacre al suo cuore generoso.

Liliana Yule, la fanciulla cieca, ben presto le adorò entrambe.

Soleva sedersi tra loro due, tenendo tra le sue la mano di Mirella, ed ascoltava estatica i racconti che Chérie le faceva della loro fanciullezza nel Belgio.

Mai non si stancava di udire la descrizione del Pensionnat des Demoiselles Thibaut, dove Chérie era andata a scuola; e voleva la narrazione di tutte le loro gite a Bruxelles, a Ostenda e ad Anversa; fremeva ascoltando gli orrori delle prigioni di Château Steen e le visite al campo di battaglia di Waterloo, dove Chérie si era seduta sulla poltrona di Lord Wellington e aveva bevuto il caffè nella storica camera da letto di quel grande generale. Chérie doveva narrarle la loro vita a Bomal; la breve vacanza a Westende, dove imparavano ad andare in bicicletta sulla sabbia, sotto la direzione dell'uomo-scimmia.... E qui i racconti di Chérie si fermavano.

Liliana coi suoi occhi chiusi e il viso intento sempre alzato verso il cielo come alla ricerca della luce, ascoltava; e la dolce espressione del piccolo viso estatico faceva quasi mancare la voce a Chérie, e le riempiva gli occhi di pianto.

—–

Un giorno arrivò una lettera da Claudio; egli scriveva d'essere quasi guarito della sua ferita; stava dunque per lasciare l'ospedale di Dunkerk per tornare nel Belgio, alle retrovie. Egli mandava il suo pensiero e la sua benedizione a Luisa, alla piccola Mirella, a Chérie. Si sarebbero ritrovati tutti insieme nei bei giorni che presto sarebbero tornati. Chiedeva se avessero notizie di Florian; egli stesso non ne riceveva da gran tempo; l'ultima era stata una cartolina mandata dalle trincee di Loos....

E in quello stesso giorno – era un grigio pomeriggio di Dicembre e nevicava – Luisa, uscita dall'ombra della Vallata della Morte venne, pallido fantasma, a battere alla porta del Vicariato.

E anche a lei fu aperta la casa ospitale e il cuore generoso di coloro che l'abitavano.

Con tenerezza pietosa i suoi passi malfermi vennero guidati al focolare, verso la piccola Mirella che vi sedeva nella sua solita inconsapevole serenità. Solo al vederla Luisa comprese di quanto affetto la sua bimba era circondata. Con un grosso cane di Terranova accucciato ai suoi piedi, la piccina sedeva nella grande poltrona di cuoio del reverendo Yule; i biondi capelli divisi sulla fronte erano legati dalla signora Yule con un nastro celeste; un braccialetto d'oro, regalo di Liliana, le brillava sull'esile polso.

Con un grido di tenerezza riconoscente Luisa le si inginocchiò accanto, baciandole le manine fredde, la bocca silenziosa, gli occhi che non la riconoscevano.

«Mirella, Mirella! Parlami! Dimmi una parola! Dimmi: Ben tornata, mamma!»

Ma le labbra della bimba restarono mute, la sua voce era ancora una fontana chiusa.

L'uscio si aprì e Chérie entrò nella stanza – una Chérie nuova agli occhi di Luisa, quasi estranea nella sua tragica, matronale dignità.

Luisa indietreggiò colpita alla vista di quel mutamento. Poi con un singulto di appassionata pietà le andò incontro e la chiuse tra le braccia.

Chérie con un sorriso ed un sospiro le celò il volto in seno.

XIX

Le feste Natalizie passarono calme e solenni versando il loro balsamo di pace nei cuori feriti delle esiliate.

Ma un giorno ecco arrivare ai profughi belgi rifugiati all'estero l'ordine di ritornare in patria. Era un comando perentorio del Governatore tedesco di Bruxelles a tutti coloro che possedevano case o terreni nel Belgio. Queste proprietà verrebbero confiscate se i possidenti non si presentavano a reclamarle entro un brevissimo termine di tempo.

Luisa entrò nella camera di Chérie colla lettera in mano. Era atterrita e tremante. Chérie ascoltò in silenzio la lettura.

«Ma Chérie! capisci – capisci che ci ordinano di rientrare nel Belgio? Ti rendi conto di ciò che significa questo per noi?»

«Significa – tornare a casa nostra,» mormorò la fanciulla con gli occhi bassi e un'improvvisa vampata di colore sulle guancie smunte.

«A casa nostra! Ma tu ricordi che cosa era la casa nostra quando la lasciammo?» gridò Luisa cogli occhi fiammeggianti.

 

«No,» disse Chérie. «Non ricordo.»

«Casa nostra! Senza Claudio!… Senza Florian! e i nostri amici dispersi… straziati.... uccisi… Ah!» gridò Luisa, e le lacrime, così facili a scorrere nell'estrema debolezza fisica, le rigarono il volto smagrito. «Casa nostra! – con Mirella spettrale e silenziosa, e tu – e tu! —» le nere pupille appassionate sfiorarono per un istante la persona di Chérie e la vergogna e il dolore la soffocarono. «Basta, basta! non ne parliamo più. Non ne parliamo più.» E gettò sul fuoco la lettera.

Ma non così potè distruggere il ricordo di quel richiamo. La possibilità di ritornare in patria – possibilità che fino allora era sembrata così remota, così inverosimile – l'idea di ritornare al focolare che avevano creduto di non rivedere mai più, ora occupava la sua mente e quella di Chérie ad esclusione d'ogni altro pensiero.

Quel rude comando di rimpatrio echeggiava nei loro cuori giorno e notte destando lo struggimento e la nostalgia.

Luisa si trovava ogni notte a sognare quel ritorno: sempre ne scacciava il pensiero con ira e con paura, ma sempre quel pensiero tornava a martellarle il cervello, a stringerle il cuore.

Appena chiusi gli occhi – ecco, si figurava di partire da Maylands, di traversare la gelida e turbolenta Manica, di sbarcare a Ostenda, di passare per Louvain, Tirlemont, Liegi – e arrivare a Bomal!… Traversava correndo le vie del villaggio, giungeva al cancello di casa sua… entrava, saliva le scale, apriva l'uscio della camera di Claudio!… Con una scossa Luisa si destava alla realtà. E un istante dopo ricominciava il sogno.

A poco a poco la nostalgia come un enorme serpe le si attorcigliò al cuore, serrandoglielo, stritolandoglielo nelle sue spire, avvelenando del suo morso virulento ogni ora della sua giornata. La bramosia insostenibile di rivedere la sua patria, di riudire la sua favella la strinse, la straziò; e nulla potè più calmare quella sofferenza. Ripensando la sua patria sanguinante sotto il calcagno dell'invasore, più forte e più struggente si faceva in lei quella tortura che si chiama il male del paese.

Finalmente il senso dell'esilio le divenne intollerabile. Tutto ciò che era inglese la urtava, la feriva; odiava la vista della gente inglese, il suono delle voci inglesi, il modo di pensare inglese. Nelle tempestose acque della Manica che la separavano dalla sua patria dolorosa sentiva sommerso ed affogato il cuore.

Dieci giorni dopo aver detto a Chérie di non parlarne mai più. Luisa non pensava ad altro, non sognava altro che quel ritorno a casa – alla sua casa devastata, profanata. Ivi voleva rifugiarsi, ivi aspetterebbe Claudio, nella fede, nella speranza e nella preghiera. Si sentirebbe più vicina a lui quando il deserto grigio di quelle nordiche acque non li separasse più.

Là, nel giorno beato della liberazione e della redenzione del Belgio, egli la troverebbe, ferma, fedele, aspettante il suo ritorno. – Ah! certo, certo quel giorno non poteva ormai più essere lontano!

.... Ma ahimè, che direbbe Claudio trovando la sua bambina, muta, inconscia, vagante nell'ombra della vita come un piccolo spettro?… trovando sua sorella Chérie —

Luisa, al pensiero di Chérie si torceva le mani piangendo.

Una notte, torturata dall'insonnia, ella entrò nella camera della cognata. Aveva aperto adagio la porta per non svegliarla; ma Chérie non dormiva. Stava seduta accanto al fuoco cucendo e canticchiando piano.

Appena vide Luisa balzò in piedi arrossendo, e cercò di nascondere il lavoro che teneva in mano. Ma Luisa lo vide. Era una mantellina bianca da neonato che Chérie stava ricamando. Allora anche le guancie pallide di Luisa si fecero di fiamma.

«Chérie.» balbettò esitante, «ho pensato.... ho pensato… che cosa diresti se tornassimo davvero a casa?»

«Ma sì, Luisa. Torniamo pure,» acconsentì Chérie, colla blanda serenità di chi non ha altra missione che l'attesa.

«Allora partiremo. Partiremo presto,» disse Luisa febbrile. «Arrivate a Bomal, metteremo la casa in ordine; la faremo bella per quelli che torneranno…»

«Sì,» rispose quieta Chérie.

«Poichè torneranno! Torneranno, e ci troveranno là ad aspettarli. Se pure la tempesta è passata sopra di noi,» la voce le si ruppe in un singhiozzo, «tuttavia Mirella guarirà – lo so, lo sento. E tu, tu – oh, Chérie!» cadde a ginocchi accanto alla fanciulla tremante – «tu devi purificarti, redimerti.... sì! anche tu, anche tu devi distruggere questa fonte di vergogna, d'odio e d'orrore… te ne prego, te ne supplico…»

Chérie volse a lei il volto grave, inesorabile, ispirato.

«Luisa, nessuna tua parola, nessuna tua preghiera può mutare l'animo mio. Ognuna di noi è arbitra dei proprî destini. Ciò che per te è vergogna, odio, orrore – per me è amore, meraviglia, estasi. Non so spiegarlo; io stessa non lo comprendo. Ma sento che prima di distruggere volontariamente questa vita che porto in me, mi strapperei il cuore – vivo e pulsante – dal petto.»

Luisa tacque, impallidendo.

Ma troppo il pensiero del ritorno in patria le stringeva il cuore.

«Chérie.... ma se torniamo a casa?… Pensa – pensa che cosa dirà la gente che ci ha conosciute?»

Chérie sospirò e non rispose.

«E quando Claudio ritornerà – pensa, Chérie! quando Claudio ritornerà!…»

Chérie abbassò il capo e non rispose.

Luisa le si fece più vicino. «E Florian? Hai tu scordato Florian? Florian che ti ama?… che vuol farti sua sposa?»

Gli occhi di Chérie si soffusero di lacrime, ma ancora tacque.

La voce di Luisa divenne quasi un grido. «Chérie, ma non ricordi che il padre di questa creatura è l'abbietto soldato ubbriaco che ti prese e ti legò?… Non pensi che tu – belga – sarai la madre di un figlio tedesco?»

.... Ma Chérie non ascoltava nulla, non pensava nulla, non ricordava nulla.

Non udiva che una voce – la voce del figlio non nato – che attendeva da lei il dono della vita.

E quella voce le diceva che nelle superne lande mattutine dove attendono le creature umane che vivranno, non vi sono nè belgi nè tedeschi, nè vinti nè vincitori. Non vi sono che gli innocenti fiori dell'avvenire – le bianche colombe del Signore, le candide agnella di Gesù…

PARTE TERZA

XX

Il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz giaceva nel pendio interno di un cratere, sotto un cielo vespertino cosparso di nuvolette rosse. Aveva gli occhi chiusi, ma non dormiva. Stava dicendo a sè stesso che bisognava muovere il braccio sinistro. Aveva qualche cosa di anormale quel braccio; un peso infinitamente grave pareva schiacciarlo; se lo sentiva plumbeo e infocato. Certo bisognava muoverlo; bisognava alzarlo e agitarlo nella fresca aria serale perchè vi tornasse la circolazione. Sì, sì, tra un momento avrebbe mosso il braccio.

Presa questa decisione, Feldwebel Karl Sigismund Schwarz si sentì in diritto di riposare da tanto sforzo mentale, e si addormentò.

Si risvegliò più che mai deciso che bisognava muovere il braccio. E per muovere il braccio cosa bisognava fare? Dov'era questo braccio? E lui stesso, Karl Sigismund Schwarz, dov'era?… E cos'era quel violoncello che gli suonava così da vicino?… Se lo sentiva vibrare profondamente nelle orecchie e nella testa: «Zuum… zuum-zuum… zuum-zuum....»

Ah, un momento!… Ecco – adesso sapeva dov'era. Era a Charlottenburg, nel Caffè des Westens e il direttore d'orchestra – l'ungherese Makowsky – suonava il contrabasso. Precisamente. Zuum… zuum-zuum… Gli altri dell'orchestra aspettavano il loro turno per cominciare… Ma intanto cosa diavolo aveva al braccio?

Gemette forte e fece per alzarsi sul gomito destro. Non vi riuscì. Ma nel volgere la testa scorse a pochi passi da lui un uomo in uniforme belga, steso a terra col profilo rivolto al cielo.

Ma allora – si disse Schwarz – non si era a Charlottenburg? No; si era nelle Fiandre, vicino a un'infetta città chiamata Ypres, e lui stava sdraiato in una buca fatta da una mina.

Gettò di traverso un'occhiata al belga; poi urlò forte:

«Olà! dite un po' – cos'ho io al braccio?»

Ma costui non rispose, nè si mosse; e Schwarz riflettè che probabilmente non capiva il tedesco, e che più probabilmente era morto.

Allora Karl Sigismund Schwarz si riabbandonò supino, e stette ad ascoltare il contrabasso che gli ronzava nella testa.

Il tramonto purpureo era svanito in un crepuscolo grigio, quando a sua volta il belga aprì gli occhi. Sospirò e si rizzò a sedere; e vide sdraiato accanto a sè, colle gambe tese e inerti, con un braccio sfracellato e il volto incrostato di sangue, un tedesco ferito.

Costui aveva gli occhi aperti, e il belga lo salutò con un cenno del capo. «Eh bien? Ça va, mon vieux?»

«Verfluchter Schweinehund,» rispose il tedesco. E Florian Audet, non comprendendo l'improperio gli fece un altro amichevole cenno col capo.

Poi tacquero entrambi, occupato ognuno dai propri pensieri.

Florian cercò di comprendere ciò che era accaduto. Mosse prudentemente un braccio; poi l'altro; poi i piedi e le gambe. Indi si spostò un poco colle spalle. Tutto pareva sano. Non sentiva che un dolore sordo alla nuca, una specie di crampo che gli saliva fino alla sommità del cranio. Del resto in complesso niente di male.

Oh, come mai si trovava qui? Riordinò alla meglio gli sconnessi ricordi; c'era stato l'ordine di attaccare… Lui e i suoi soldati si erano slanciati sulla bianca via di Ypres, e traverso i campi verso il sud.... poi – poi un formidabile rombo, una scossa immane....

Ed eccolo a giacere in questa buca, colla terra smossa che ogni tanto gli scendeva a cascate sulla testa e sulle spalle. Chissà il resto della sua compagnia dov'era e come era andato l'attacco?… Si udiva ancora, non molto lontano, il fragore di spari.

Florian tentò di rizzarsi in piedi, ma pareva che il terreno si alzasse con lui; non poteva staccare le mani da terra. Il cratere e il cielo gli turbinavano d'intorno e dovette tornarsi a sdraiare.

Sorse dal tonante oriente la notte, e spense il crepuscolo.

Frattanto il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz era di nuovo nel Caffè des Westens. Sì, sì, era perfettamente così. Il Caffè des Westens. L'orchestra di centomila contrabassi gli rimbombava nelle orecchie, ed egli batteva, a tempo colla musica, il suo braccio pesante sul marmo della tavola; e gridava al cameriere Max che gli portasse qualche cosa da bere.

Max arrivava correndo e gli porgeva un vassoio carico di bevande: grandi schoppen ghiacciati di Münchener e Lager, e bicchieri colmi di limonata gelida – scegliesse. Quale voleva? E Karl non poteva decidersi. Colla gola arsa, collo stomaco in fuoco dalla sete stava a guardare quelle fresche bibite, le birre gelide, le limonate aspre e ghiacciate – e sentiva di non poter prenderne una per non lasciare le altre. Avrebbe voluto versarle tutte insieme sul fuoco che gli ardeva dentro. Vediamo.... beverebbe prima la birra – no, prima la limonata – no, prima la birra....

D'un tratto si avvide che la Wasserleiche – (sapete bene, la Wasserleiche del Caffè des Westens.... quella donna che chiamano «l'Annegata» perchè ha l'aspetto così cadaverico, le carni così verdognole, come se fosse rimasta sott'acqua due giorni e poi ripescata…) ebbene, l'Annegata si slancia sul cameriere e lo abbraccia. E giù i bicchieri dal vassoio!… Ping! – pang! – giù tutti! tutti fracassati! – Ping! – pang!

Quando mai si è sentito dei bicchieri fare un fracasso simile?… E non restava più nulla da bere; nulla – in tutto il mondo!…

Allora il Feldwebel Schwarz si mise a piangere. Egli stesso si udiva gemere e mugolare mentre l'Annegata gli pizzicava il braccio…

E poi non era Max che l'Annegata aveva abbracciato. Già, quella non abbracciava mai gli uomini. No; era la sua amica Mélanie, che adesso stava lì anche lei e rideva colla bocca aperta come ne aveva il vezzo, mostrando il palato roseo e i piccoli denti da lupacchiotto, bianchi e aguzzi.

Il cameriere Max susurrò a Karl Schwarz che se voleva qualche cosa da bere doveva fare la corte a Mélanie. Allora per lusingare quella viperetta Karl volle cantare la canzone della famosa contessa sua omonima:

 
«Unter Bäumen
«süsses Träumen
«liebte Gräfin
«Mélanie!»
 

Ma, strano a dirsi, invece di quelle parole gliene venivamo sulle labbra delle altre:

 
«Die Flundern —
«Werden sich wundern.»
 

Cantò innumerevoli volte questo brano di romanza da Cabaret senza mai arrivare a finirla. Il cameriere Max, sdraiato per terra in mezzo ai bicchieri rotti, applaudiva rumorosamente.

 

Era insopportabile il fragore di quegli applausi; gli penetravano nel cervello, gli spaccavano il cranio.... e Mélanie frattanto non gli dava nulla da bere. Allora cercò di abbracciarla, ma l'Annegata, che non permetteva a nessuno di abbracciare Mélanie, si slanciò su di lui rabbiosamente e gli morse il braccio.

Karl gridò per lo spasimo; e allora anche Mélanie si curvò su di lui, mostrando i suoi denti da lupo, ed anche lei lo morse al braccio.

Gli strappavano, gli sbranavano le carni; non gli riusciva di liberare il braccio da quelle due terribili creature.

«Verdammte Sauweiber!» urlò. E quell'urlo stesso lo svegliò.

Vide il cielo notturno tempestato di stelle: e là accanto giaceva ancora la figura prona del belga. Probabilmente – pensò Karl – quelle belve, Mélanie e l'Annegata, avranno azzannato e sbranato anche costui. Bisognava tenerle lontane ad ogni costo. Perciò egli dovette seguitare a cantare colla sua gola arsa ed arida:

 
«Die Flundern,
«Werden sich wundern…»
 
 
«Die Flundern
«Werden sich wundern…»
 

Gli pareva che queste parole dovessero esercitare qualche occulto potere contro le sue tormentatrici; e così egli continuò a ripeterle per tutta la notte.

.  .  .  .  

Verso le due del mattino Florian Audet riaprì gli occhi e girò il capo per guardarsi intorno. La voce del tedesco ferito – una voce rauca e rantolante – l'aveva strappato al sonno; o al deliquio, forse. Ora, desto, si domandava vagamente che cosa mai potessero significare quelle parole continuamente ripetute: «Die Flundern werden sich wundern....» Forse era qualche frase nazionale, un grido di vittoria o di sfida, come sarebbe: «La libertà o la morte!» o «Tutto per la Patria!» Certo doveva essere qualche cosa di simile.

Il suono mugolante di quelle parole gli si conficcò nel cervello.

Girando appena il capo Florian vedeva, alla sua sinistra, la figura supina del nemico, colle molli gambe distese, i piedi abbandonati rivolti in su negli scarponi gialli infangati, e udiva nel respiro già rantolante il suono spezzato di quelle parole: «Die Flundern.... werden sich wundern....»

Una subitanea immensa pietà lo invase, pietà di quel corpo spezzato accanto a lui, pietà di sè stesso, pietà del mondo intero. Con uno sforzo eroico, poichè gli pareva di avere le membra infrante, egli si volse sul fianco e si trascinò penosamente vicino al moribondo.

Quando l'ebbe quasi raggiunto riposò alquanto, poi si cercò indosso la fiaschetta del cognac, la trovò, l'aprì e tendendo il braccio l'accostò al viso del morente.

«Prends, bois!» disse. Ma il tedesco non si mosse ed in breve il respiro rantolante cessò.

Florian mosse le mani plumbee e si trascinò ancora più vicino all'altro; con un immenso sforzo riuscì a passargli un braccio sotto al capo sollevandoglielo un poco. Allora, alla scialba luce del giorno nascente, vide sgorgare da una ferita che quell'uomo aveva alla testa un fiotto scuro che gli piovve giù per la faccia.

Il tedesco aprì gli occhi: che cosa facevano ora quelle donne diaboliche? Gli versavano del vino caldo sulla testa?… Traverso quel tiepido velo scarlatto gli occhi morenti fissavano Florian pieni di infinito terrore e smarrimento.

Un'onda di mortale debolezza e nausea invase Florian. Allentò il braccio, e su di esso ricadde all'indietro la spaventosa testa insanguinata del nemico. Florian si abbattè accanto a lui svenuto.

Così giacquero per lunghe ore, fianco a fianco, come fratelli – il vivo e il morto, l'ufficiale belga col braccio intorno al soldato tedesco. E così due militi della Croce Rossa li trovarono nei brividi dell'alba, allorchè scesero a sdruccioloni entro il pendio del cratere portando tra loro una barella ripiegata.

Erano entrambi giovanissimi i due militi; avevano troncato a mezzo i loro studi di filosofia all'Università di Bonn allo scoppio della guerra, lasciando da parte Kant e Hegel per intraprendere un rapido corso di chirurgia. Il più giovane dei due – che aveva i capelli biondi come il miele – si dilettava a scrivere delle insensate poesie latine ch'egli asseriva essere nello stile di Lucrezio.

Deposero la barella. Stettero silenziosi e immobili a guardare quelle due figure irrigidite nel fraterno abbraccio; quell'atteggiamento narrava tutta la storia dell'agonia. La mano di Florian poggiava sul petto del tedesco morto tenendo ancora nelle dita rilassate la fiaschetta aperta del cognac; il volto sanguinoso del loro camerata posava fidente sul braccio ripiegato del nemico.

Un'emozione profonda strinse alla gola i due che guardavano. Il più giovane – quello che scriveva i versi latini – si chinò e pose la mano quasi invocando una benedizione, sulla fronte pallida di Florian.

Trasalendo si volse al compagno.

«E' vivo!» esclamò.

L'altro a sua volta toccò la fronte del belga; poi ne sollevò la mano inerte per sentirgli il polso.

Inginocchiati accanto a lui gli versarono dell'acquavite in bocca; indi con tutti i mezzi noti alla scienza, muti, tenaci, persistenti lo contesero alla morte; dopo qualche tempo un tremulo soffio di vita alitò su quelle labbra cenericcie e le spente pupille azzurre oscillarono in uno sguardo vago.

I due tedeschi si rimisero subito in piedi. Finchè il belga giaceva svenuto col braccio attorno al collo del loro morto compagno, egli era per loro un eroe e un amico. Ora, vivo, con gli occhi aperti, era il loro nemico e prigioniero.

Gli rivolsero la parola, non scortesemente, in tedesco; poi, un po' più bruschi, in francese. Ma quegli non rispose. Una stupefazione torpida lo teneva; sembrava paralizzato. Non poteva nè parlare nè reggersi in piedi. Allora lo sollevarono e lo posero sulla barella.

«Poveraccio,» mormorò il più giovane accomodandogli lungo i fianchi le braccia inerti, e indicando al compagno la manica dell'uniforme belga inzuppata di sangue tedesco. «Poveracci! Potevamo tralasciare di salvarlo. Per mandarlo a quell'inferno di Wittemberg, tanto valeva —»

«Già. Povero diavolo,» mormorò l'altro.

«Senti un po'» esclamò il biondo poeta, «e se gli lasciassimo una via di scampo? Perchè non abbandonarlo al caso?… Affidarlo al capriccio della sorte?…

.  .  .  .  

Florian non seppe mai in qual modo e per quali circostanze egli venne a trovarsi sdraiato su una coperta da campo in una cascina per metà demolita. Alzando il capo indolenzito per guardarsi intorno vide accanto a sè, per terra, una scodella di latte, una pagnotta e del cognac. Vi era anche un pacchetto di sigarette, qualche fiammifero ed una tavoletta di cioccolatta. Bevve avidamente il latte, ingoiò un sorso di cognac e si levò in piedi. Traballava e aveva la vista torbida; una terribile vertigine gli dava nausea allo stomaco; tuttavia potè reggersi in piedi e stette così ritto qualche istante appoggiandosi con una mano al muro calcinato. E tutt'a un tratto si avvide di essere completamente nudo. Intorno a sè non una traccia d'indumento, non una vestigia della sua uniforme. Nulla.

In mezzo al pavimento stava un paio di scarpe gialle e fangose che gli ricordavano quelle vedute ai piedi del tedesco ferito sul pendio del cratere. Queste scarpe e la coperta di lana grigia stesa per terra, ecco tutto ciò che avrebbe potuto mettersi indosso.

Nulla rimaneva di quanto era stato suo; perfino il cognac era in una fiaschetta che non aveva mai veduto.

Florian si guardò intorno nel luogo deserto; notò le mura sbrecciate e crollanti, demolite da bombe ed obici; in un angolo un aratro rotto e rugginoso e qualche arnese agricolo poggiavano al muro. Null'altro. Dopo breve riflettere Florian si decise a mettere quelle scarpe. Poi finì il latte, il pane e il cognac. Finalmente annodò in un angolo della coperta la cioccolatta, le sigarette ed i fiammiferi, poi avvolgendosi la ruvida flanella grigia intorno al corpo uscì ad affrontare il mondo.

Era un mondo vuoto e desolato. Sulla strada fangosa che attraversava la pianura non si vedeva che il gonfio cadavere di un cavallo. Giudicando dal sole Florian si disse che potevano essere le sette del mattino. Gli parve di riconoscere la località: doveva trovarsi a due o tre chilometri dal terreno di combattimento del giorno innanzi. Sì, ecco, lì, a sinistra, la via bianca e diritta che va da Poperinghe a Ypres.... ben riconosceva quel duplice filare di alberi…

Ed ora, dove andare? In quale direzione si trovavano le linee belghe? Florian si sentiva ancora assai debole, le ginocchia gli tremavano e nel cervello vuoto non aveva che una confusione di suoni insensati. Le parole che il tedesco morente aveva continuato a ripetere per tutta la notte gli ronzavano nella testa incessantemente, ed anch'egli si trovava a mormorarle sommesso: «Die Flundern werden sich wundern…»