Za darmo

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1

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CAPITOLO X

La carrozza che doveva condurre Emilia e la zia a Tolosa fu alla porta di buonissim'ora. La signora Cheron comparve alla colazione prima che vi giungesse la nipote, e piccata dall'abbattimento in cui la vide quando comparve, glielo rimproverò in un modo poco acconcio a farlo cessare. Non senza molta difficoltà, Emilia potè ottenere di condur seco il cane tanto amato da suo padre. La zia, premurosa di partire, fece avanzare la carrozza; la vecchia Teresa stava sulla porta per congedarsi dalla sua padrona. « Dio vi accompagni, signorina, » le disse.

Emilia non potè rispondere che stringendole teneramente la mano.

Molti degl'infelici che ricevevano soccorsi da suo padre, erano dinanzi alla porta del giardino, e venivano per salutare l'afflittissima Emilia. Essa distribuì tutto il danaro che aveva in tasca, e si ritirò nella carrozza con un profondo sospiro. I precipizi, l'altezza gigantesca dei Pirenei, e tutte le altre magnifiche vedute, rammentarono a Emilia mille interessanti rimembranze; ma questi oggetti d'ammirazione entusiastica, non eccitavano più allora in lei che il dolore ed i dispiaceri.

Valancourt intanto era ritornato a Estuvière col cuore tutto pieno di Emilia. Qualche volta si abbandonava ai sogni di un avvenire felice, più spesso cedeva alle inquietudini, e fremeva dell'opposizione che potrebbe trovare nei parenti di Emilia. Egli era l'ultimo figlio di un'antica famiglia di Guascogna. Avendo perduto i genitori nell'infanzia, la sua educazione e la sua tenue legittima erano state affidate al conte Duverney, suo fratello maggiore di vent'anni. Egli aveva un'elevazione di spirito ed una grandezza d'animo che lo facevano brillare negli esercizi in allora chiamati eroici. La sua sostanza era diminuita ancora per le spese della sua educazione; ma il fratello maggiore parea pensare forse che il suo genio e i suoi talenti avrebbero supplito alle ingiurie della fortuna; offrivano essi una prospettiva brillante a Valancourt nella carriera militare, il solo allora che potesse essere abbracciato ragionevolmente da un gentiluomo; ed in conseguenza entrò al servizio.

Aveva ottenuto un congedo dal reggimento, quando intraprese il viaggio dei Pirenei, all'epoca in cui aveva conosciuto Sant'Aubert. Il suo permesso stando per ispirare, aveva perciò maggior premura di presentarsi ai parenti di Emilia: temeva di trovarli contrari ai suoi voti. Il suo patrimonio, col mediocre supplemento di quello di Emilia, sarebbe bastato ad entrambi, ma non potea soddisfare nè la vanità, nè l'ambizione.

Frattanto le nostre viaggiatrici avanzavano: Emilia si sforzava di mostrarsi contenta, e ricadeva nel silenzio e nell'abbattimento. La Cheron attribuiva la sua malinconia al dispiacere di allontanarsi dall'amante; persuasa che il dolore della nipote per la morte del padre non fosse che un'affettazione di sensibilità, costei faceva di tutto per metterlo in ridicolo.

Finalmente giunsero a Tolosa. Emilia essendovi stata molti anni addietro, glie n'era rimasta una debolissima rimembranza. Restò sorpresa del fasto della casa e dei mobili; forse la modesta eleganza cui era assuefatta, fu la cagione del suo stupore. Seguì la Cheron traverso una vasta anticamera piena di servi vestiti di ricche livree, entrò in un bel salotto ornato con più magnificenza che gusto, e la zia ordinò che servissero la cena.

« Son contenta di trovarmi nel mio castello, » diss'ella abbandonandosi su di un gran canapè; « ci ho tutta la mia gente intorno; detesto i viaggi, sebbene dovessi amarli, perchè tutto ciò che vedo fuori di qua, mi fa sempre trovare ogni cosa più bella nel mio palazzo. Ebbene! non dite nulla? Perchè sì muta, Emilia? »

Questa trattenne le lacrimo che le sfuggivano, e finse di sorridere. La sua zia si diffuse molto sullo splendore della casa, sulle conversazioni, e finalmente su ciò che aspettava da Emilia, il cui riserbo e la cui timidezza passavano ai di lei occhi per orgoglio ed ignoranza. Ne prese motivo par rimproverarla, non conoscendo ciò ch'è necessario per guidare uno spirito, il quale, diffidando delle proprie forze, possedendo un discernimento delicato, e immaginandosi che gli altri abbiano maggiori lumi, teme di esporsi alla critica, e cerca rifugio nell'oscurità del silenzio.

La cena interruppe l'altiero discorso della signora Cheron, e le riflessioni umilianti ch'essa vi mescolava per la nipote. Dopo cena, la Cheron si ritirò nel suo appartamento, ed una cameriera condusse Emilia al suo; salirono una larga scala, traversarono diversi corridoi, scesero qualche gradino, e passarono per uno stretto andito in una parte remota della casa; infine la cameriera aprì la porta di una stanzuccia, e disse esser quella destinata per la signora Emilia: la fanciulla, rimasta sola, si diede in preda a tutto l'eccesso del dolore che non poteva più contenere. Coloro che sanno per esperienza a qual punto il cuore s'affezioni agli oggetti anche inanimati allorchè ne ha preso l'abitudine, quanto stenti a lasciarli, con qual tenerezza li ritrovi, con qual dolce illusione crede vedere gli antichi amici, costoro soli comprenderanno l'abbandono in cui si trovava allora Emilia, bruscamente tolta dall'unico ricetto ch'ella riconoscesse dall'infanzia, e gettata sopra un teatro e fra persone che le spiacevano ancor più pel carattere che per la novità. Il fido cane di suo padre era con lei nella cameretta, l'accarezzava, e le leccava le mani mentr'ella piangea. « Povera bestia, » diceva essa; « non ho più nessun altro che te per amico. »

CAPITOLO XI

Il castello della signora Cheron era vicinissimo a Tolosa, e circondato da immensi giardini; Emilia, alzatasi di buon'ora, li percorse prima della colazione. Da un terrazzo che si estendeva fino all'estremità di questi giardini, scoprivasi tutta la Bassa Linguadoca. Emilia riconobbe le alte cime dei Pirenei; e la sua immaginazione le dipinse tosto la verzura ed i pascoli che sono alle falde di essi. Il suo cuore volava verso la sua placida dimora. Provava un piacere inesprimibil nel supporre di vederne la situazione, sebbene potesse appena scorgerne i monti. Poco occupata del paese in cui si trovava, fissava gli occhi sulla Guascogna, ed il suo spirito pascevasi delle rimembranze interessanti destate in lei da tal vista.

Un servitore venne ad avvertirla che la colazione era pronta.

« Dove siete stata così di buon'ora? » disse la Cheron quando entrò la nipote. « Non approvo queste passeggiate solitarie. Desidero che non usciate tanto presto la mattina senz'essere accompagnata. Una fanciulla, che al castello della valle dava appuntamenti al chiaro di luna, ha bisogno d'un poco di sorveglianza. »

Il sentimento della propria innocenza non impedì il rossore di Emilia. Essa tremava, e chinava gli occhi tutta confusa, mentre la zia le lanciava sguardi arditi, ed arrossiva ella stessa: ma il di lei rossore era quello dell'orgoglio soddisfatto, quello di una persona che si compiace della propria penetrazione.

Emilia, non dubitando che la zia non intendesse parlare della sua passeggiata notturna prima di lasciar la valle, credè dovergliene spiegare i motivi; ma essa, col sorriso del disprezzo, ricusò di ascoltarla.

« Non mi fido, » le disse, « delle proteste di alcuno; giudico le persone dalle loro azioni, e proverò la vostra condotta per l'avvenire. »

Emilia, meno sorpresa della moderazione e del silenzio misterioso della zia, di quello nol fosse stata dell'accusa, vi riflettè profondamente, e non dubitò più non fosse Valancourt ch'ella avea veduto la notte ne' giardini della valle, e che la zia poteva bene aver riconosciuto. Intanto, non lasciando un soggetto penoso se non per trattarne un altro che non eralo meno, parlò di Motteville e della perdita enorme che la nipote faceva nel suo fallimento. Mentr'essa ragionava con fastosa pietà degl'infortunii che opprimevano Emilia, insisteva sui doveri dell'umanità e della riconoscenza, facendo divorare alla povera fanciulla le più crudeli mortificazioni, ed obbligandola a considerarsi non solo sotto la di lei dipendenza, ma sotto quella ben anco di tutta la servitù.

L'avvertì allora che in quel giorno si aspettava molta gente a pranzo, e le ripetè tutte le lezioni della sera precedente sul modo di contenersi in società: aggiunse che voleva vederla abbigliata con gusto ed eleganza, e poscia si degnò mostrarle tutto lo splendore del suo castello, farle osservare tutto quanto brillava d'una magnificenza particolare, e che si faceva distinguere nei vari appartamenti; dopo di che si ritirò nel suo gabinetto di toletta. Emilia si chiuse nella sua camera, tirò fuori i suoi libri, e ricreò lo spirito colla lettura, fino al momento di vestirsi.

Quando i convitati furono riuniti, Emilia entrò nella sala con un'aria di timidezza che non potè vincere, per quanto vi si sforzasse. L'idea che la zia l'osservava con occhio severo, la turbava vie maggiormente. Il suo abito di lutto, la dolcezza, l'abbattimento della sua bella fisonomia, non meno che la modestia del contegno, la resero interessantissima a quasi tutta la società. Riconobbe essa Montoni ed il suo amico Cavignì, che aveva trovati in casa di Quesnel; avevano questi nella casa della Cheron tutta la famigliarità di antichi conoscenti, ed anch'essa sembrava accoglierli con molto piacere.

Montoni portava nel suo contegno il sentimento della superiorità: lo spirito ed i talenti co' quali poteva sostenerla obbligavano tutti gli altri a cedergli. La finezza del suo tatto era fortemente espressa nella sua fisonomia; ma sapeva dissimulare quando bisognava, e potevasi notare spesso in lui il trionfo dell'arte sulla natura. Aveva il viso lungo e magro, eppure lo dicevano bello; elogio forse più da attribuirsi alla forza e vigoria dell'anima, che delineavansi in tutti i suoi tratti. Emilia concepì per lui una specie d'ammirazione, ma non quell'ammirazione che poteva condurre alla stima; essa vi univa una specie di timore, di cui non sapeva indovinare il motivo.

 

Cavignì era giocondo ed insinuante come la prima volta. Sebbene quasi sempre occupato della signora Cheron, trovava il mezzo di parlar con Emilia. Le indirizzò da principio qualche motto spiritoso, e prese in seguito un'aria di tenerezza di cui ella si accorse benissimo, e che non la spaventò. Ella parlava poco, ma la grazia e dolcezza delle sue maniere l'incoraggirono a continuare; non fu interrotta se non quando una giovine signora del circolo, che parlava sempre, e di tutto, venne a mescolarsi ai loro discorsi; questa signora, che spiegava tutta la vivacità e la civetteria francese, affettava d'intender tutto, o piuttosto non vi mettea nemmeno affettazione. Non essendo mai uscita da una perfetta ignoranza, s'immaginava che non avesse nulla da imparare; obbligava tutti ad occuparsi di lei, divertiva talvolta, stancava dopo un momento, e poi era abbandonata.

Emilia, quantunque ricreata da tutto quanto aveva veduto, si ritirò senza rincrescimento, e si abbandonò volentieri di nuovo alle rimembranze che tanto le piacevano.

Passarono quindici giorni in una folla di visite e di dissipazioni; Emilia accompagnava per tutto la Cheron, si divertiva di rado, e annoiavasi spesso. Fu colpita dell'apparente istruzione e delle cognizioni di cui facean mostra intorno a lei le persone che componevano la conversazione; non fu se non molto dopo che riconobbe l'impostura di tutti quei pretesi talenti. Ciò che la ingannò maggiormente fu quell'aria di brio continuato, e soprattutto di bontà ch'ella osservava in ciascun personaggio. S'immaginava che un'affabilità consueta e sempre pronta ne fosse il vero fondamento. Finalmente, l'esagerazione di qualcuno, meno abile degli altri, le fece sospettare che, se il contento e la bontà sono i soli principii d'una dolce amenità, gli eccessi smoderati ai quali uno si abbandona ordinariamente sono il risultato della più perfetta insensibilità.

Emilia passava i momenti più graditi nel padiglione del terrazzo. Vi si ritirava con un libro, per godere della sua malinconia, o col liuto, per vincerla. Assisa cogli occhi fissi sui Pirenei e sulla Guascogna, essa cantava le ariette più interessanti del suo paese, imparate nell'infanzia.

Una sera, Emilia suonava il liuto nel padiglione con un'espressione che veniva dal cuore. Il sole all'occaso illuminava ancora la Garonna, che fuggiva a qualche distanza, e le cui acque erano passate dinanzi alla valle. Emilia pensava a Valancourt; non ne avea udito più parlare dopo il suo soggiorno a Tolosa; ed ora, lontana da lui, sentiva tutta l'impressione che aveva fatta sul proprio cuore. Prima di aver conosciuto Valancourt, non aveva incontrato alcuno, il cui spirito ed il gusto si accordassero tanto bene col suo. La Cheron avevale parlato di dissimulazione, di artifizi; pretendeva essa che quella delicatezza, cui ammirava nell'amante, non foss'altro che un laccio per piacerle, eppure essa credeva alla di lui sincerità. Un dubbio nondimeno, per debole che fosse, bastava opprimerle il cuore.

Il rumore d'un cavallo sulla strada, sotto la sua finestra, la scosse da questi pensieri: vide un cavaliere il cui personale ed il portamento le rammentavano Valancourt, giacchè l'oscurità non le permetteva di distinguerne i lineamenti. Si tirò indietro temendo d'esser veduta, e desiderando al tempo stesso di osservare. L'incognito passò senza guardare, e quando si fu ravvicinata alla finestra, lo vide nel viale che conduceva a Tolosa. Questo lieve incidente la rese di cattivo umore, e, dopo alcuni giri sul terrazzo, tornò presto al castello.

La Cheron rientrò più ruvida del solito; ed Emilia non fu contenta se non quando le fu permesso di ritirarsi nella sua cameretta.

Il giorno dopo essa fu chiamata dalla zia, la quale ardeva di collera, e che, appena la vide, le presentò una lettera.

« Conoscete voi questo carattere? » le disse con voce severa, e guardandola fiso, mentre Emilia esaminava la lettera con attenzione.

– No, signora, io non lo conosco, » le rispose.

– Non mi fate perder la pazienza, » disse la zia; « voi lo conoscete, confessatelo subito, esigo che diciate la verità. »

Emilia taceva e stava per uscire. La Cheron la richiamò.

« Oh! voi siete colpevole: vedo adesso che conoscete il carattere.

– Ma se ne dubitavate, signora, » disse Emilia con dignità, « perchè accusarmi di aver detto una bugia?

– È inutile negarlo, » disse la signora Cheron; « vedo dal vostro contegno che voi non ignorate il contenuto di questa lettera. Son sicurissima che in casa mia, e senza mia saputa, avete ricevute lettere da quel giovine insolente. »

Emilia, indispettita dalla villania di quell'accusa, ruppe il silenzio, e si sforzò di giustificarsi, ma senza convincere la zia.

« Non posso supporre che quel giovine avrebbe ardito scrivermi, se voi non l'aveste incoraggito.

– Mi permetterete di rammentarvi, signora, » disse Emilia con voce timida, « alcune particolarità d'un colloquio che avemmo insieme a casa mia: vi dissi allora con franchezza di non essermi opposta che il signor Valancourt s'indirizzasse alla mia famiglia.

– Non voglio essere interrotta, » disse la signora Cheron; « io.... io… perchè non gliel'avete proibito? » Emilia non rispose. « Un uomo sconosciuto a tutti, assolutamente straniero; un avventuriere che corre dietro ad una ricca fanciulla! Ma almeno, sotto questo rapporto, si può dire ch'egli si è ingannato d'assai.

– Ve l'ho già detto, signora, la sua famiglia era conosciuta da mio padre, » disse Emilia modestamente, e fingendo di non avere udita l'ultima frase.

– Oh! non mi fido niente affatto del suo giudizio favorevole, » replicò la zia colla sua solita leggerezza. « Egli aveva idee così guaste! Giudicava la gente alla fisonomia.

– Signora, poco fa mi credevate colpevole, eppur lo giudicavate dalla mia fisonomia. »

Emilia si permise questo rimprovero per rispondere in qualche modo al tuono poco rispettoso col quale la Cheron parlava di suo padre.

« Vi ho fatta chiamare, » soggiunse la zia, « per significarvi che non intendo essere importunata dalle lettere o dalle visite di tutti i giovinastri che pretenderanno adorarvi. Questo signor di Valla… non so come lo chiamate, ha l'impertinenza di chiedermi che gli permetta di offerirmi i suoi rispetti; ma gli risponderò come va. Quanto a voi, Emilia, lo ripeto una volta per sempre, se non vi uniformate alla mia volontà, non m'inquieterò più per la vostra educazione, e vi metterò in un convento.

– Ah! signora, » disse Emilia struggendosi in lacrime, « come posso io aver meritato questo trattamento? »

La Cheron in quell'istante avrebbe potuto ottenere da lei la promessa di rinunziare per sempre a Valancourt. Colta dal terrore, non voleva più acconsentire a rivederlo; temeva d'ingannarsi, e temeva finalmente di non essere stata abbastanza riservata nella conferenza avuta alla valle. Sapeva benissimo di non meritare i sospetti odiosi formati dalla zia, ma era tormentata da infiniti scrupoli. Divenuta timida, e dubitando di far male, risolse di obbedire a qualunque suo comando, e glie ne fece conoscere l'intenzione; ma la Cheron non le prestava fede, e non iscorgeva in lei che l'artifizio, o la paura.

« Promettetemi, » disse alla nipote, « che non vedrete quel giovine, e non gli scriverete senza mio permesso.

– Ah! signora, » rispose Emilia, « potete voi supporre ch'io fossi capace di farlo?

– Io non so cosa supporre; la gioventù non si capisce, chè manca troppo di buon senso per desiderar di essere rispettata.

– Io mi rispetto da me stessa, » replicò Emilia; « il padre mio me ne ha sempre insegnata la necessità. Egli mi diceva che, colla mia propria stima, otterrò sempre quella degli altri.

– Mio fratello era un buon uomo, » soggiunse la Cheron, « ma non conosceva il mondo. Ma… in somma, non mi avete fatta la promessa che esigo da voi. »

Emilia fece la promessa, e andò a passeggiare in giardino. Arrivata al suo padiglione favorito, sedette vicino alla finestra che guardava in un boschetto. La calma di quella solitudine le permetteva di raccogliere i suoi pensieri e di giudicare da per sè della sua condotta. Si rammentò il colloquio avuto al castello, e si convinse con gioia, che nulla poteva allarmare il suo orgoglio, nè la sua delicatezza; si confermò nella stima di sè medesima, e della quale sentiva tanto bisogno. In ogni caso, si decise a non alimentare una corrispondenza segreta, e ad osservare la medesima riserva con Valancourt allorchè lo incontrerebbe. Nell'atto che faceva queste riflessioni, versò alcune lacrime, ma le asciugò prontamente, quando sentì camminare, aprire il padiglione, e, girando la testa, ebbe riconosciuto Valancourt. Un misto di piacere, di sorpresa e terrore s'impadronì tanto del suo cuore, che ne fu vivamente commossa. Impallidì, arrossì, e restò alcuni istanti nell'impossibilità di parlare, e di alzarsi dalla sedia. Il volto di Valancourt era lo specchio fedele di ciò che doveva esprimere il suo: la di lui gioia fu sospesa quando s'accorse dell'agitazione di Emilia. Rinvenuta dalla prima sorpresa, essa rispose con un dolce sorriso; ma una folla di contrari affetti assalirono nuovamente il di lei cuore, e lottarono con forza per soggiogar la sua risoluzione. Era difficile conoscere se la vinceva in lei o la gioia di veder Valancourt, o la paura de' trasporti ai quali si abbandonerebbe la zia allorchè saprebbe quest'incontro. Dopo qualche parola altrettanto laconica che imbarazzata, lo condusse in giardino e gli domandò se avesse veduta la signora Cheron.

« No, » diss'egli, « non l'ho veduta, mi fu detto ch'era occupata, e quando ho saputo ch'eravate in giardino, mi sono affrettato di venirvi a trovare. » Poi soggiunse: « Posso io arrischiare di dirvi il soggetto della mia visita senza incorrere nel vostro sdegno? Posso io sperare che non mi accuserete di precipitazione, usando del permesso che mi accordaste, d'indirizzarmi ai vostri parenti? »

Emilia non sapea che cosa rispondere, ma la sua perplessità non fu di lunga durata, e fu di nuovo assalita dal terrore allorchè, alla svolta del viale, vide la signora Cheron. Ella aveva ripreso il sentimento della propria innocenza, ed il suo timore ne fu affievolito in guisa, che, in vece di evitare la zia, le andò incontro tranquillissima con Valancourt. Il malcontento e l'impaziente alterigia con cui li osservava la Cheron sconcertarono però Emilia: comprese che quell'incontro sarebbe stato creduto premeditato; presentò il giovane, e, troppo agitata per restar con loro, corse a chiudersi in casa, ove aspettò lungamente e con estrema inquietudine il risultato della conferenza. Non sapeva immaginarsi come l'amante avesse potuto introdursi in casa della zia prima di avere ottenuto il permesso che domandava. Ignorava essa una circostanza che doveva rendere inutile questo passo, nel caso ben anco che la Cheron l'avesse accolto. Valancourt, nell'agitazione del suo spirito, aveva obliato di datare la sua lettera; in conseguenza, non avrebb'ella potuto rispondergli.

La signora Cheron ebbe un lungo colloquio con Valancourt, e quando rientrò in casa, il suo contegno esprimeva più cattivo umore che quell'eccessiva severità di cui aveva fremuto Emilia.

« Finalmente, » disse la zia, « ho congedato quel giovinetto, e spero che non riceverò più simili visite, mi ha assicurata che il vostro abboccamento non era concertato.

– Signora, » disse Emilia commossa, « voi glie ne faceste domanda?

– Certo che glie l'ho fatta! non dovevate credermi imprudente tanto da pensare che l'avrei trascurata.

– Cielo » sclamò la fanciulla; « quale idea si farà egli di me, signora, se voi stessa gli dimostrate tali sospetti?

– L'opinione che si farà di voi, » ripigliò la zia, « è d'or innanzi di pochissima conseguenza. Ho messo fine a questa faccenda, e credo che avrà qualche opinione della mia prudenza. Gli lasciai travedere che non era una stolida, e soprattutto non tanto compiacente da soffrire un commercio clandestino in casa mia. Quanto fu indiscreto vostro padre, » continuò poi, « d'avermi lasciata la cura della vostra condotta! Vorrei vedervi accasata; se dovessi trovarmi importunata più a lungo da quel signor Valancourt, o da altri pari a lui, vi metterò certamente in un chiostro. Ricordatevi dunque dell'alternativa. Quell'audace ha avuto l'impertinenza di confessarmi che la sua sostanza è tenuissima, ch'egli dipende da suo fratello maggiore, e che questa sostanza dipende dal suo avanzamento nella carriera militare. Stolto! avrebbe almeno dovuto nascondermelo se voleva persuadermi. Egli aveva dunque la presunzione di supporre ch'io avrei maritata mia nipote ad un uomo nullatenente, ad un miserabile che lo confessa egli stesso… »

 

Emilia fu sensibile alla sincera confessione fatta da Valancourt; e quantunque la sua povertà rovesciasse le loro speranze, la franchezza della sua condotta le cagionò un piacere che superò momentaneamente tutti i suoi affanni.

La Cheron continuò: « Egli ha altresì creduto bene di dirmi che non avrebbe ricevuto il suo congedo se non da voi, ciò ch'io negai positivamente. Conoscerà così esser sufficientissimo che non lo aggradisca io, e colgo questa occasione di ripeterlo: se voi concerterete con lui il menomo abboccamento a mia insaputa, preparatevi ad uscir di casa mia all'istante.

– Come mi conoscete poco, se credete che sia, necessario un ordine simile! »

La signora Cheron si mise alla toletta, essendo invitata per quella sera ad una conversazione. Emilia avrebbe voluto dispensarsi dall'accompagnarla, ma non ardì domandarlo pel timore d'una falsa interpretazione. Quando fu nella sua camera, diè libero sfogo al proprio dolore: si ricordò che Valancourt, sempre più amabile per lei, era bandito dalla sua presenza, e forse per sempre. Essa impiegò nel pianto quel tempo che la zia consacrava ad abbigliarsi. Quando si rividero a tavola, i suoi occhi tradivano le lacrime, e ne fu duramente rimproverata. Fece grandi sforzi per parer lieta, nè le riuscirono affatto infruttuosi.

Andò colla zia dalla signora Clairval, vedova di certa età, e stabilita da poco tempo a Tolosa in una villa del marito. Ella aveva vissuto diversi anni a Parigi con molta eleganza: era naturalmente allegra, e dopo il suo arrivo a Tolosa, aveva date le più belle feste che vi fossero vedute.

Tutto ciò eccitava non solo l'invidia, ma anche la frivola ambizione della signora Cheron, e non potendo gareggiare nel fasto e nella spesa, voleva almeno esser creduta l'intima amica della Clairval.

A tal uopo, le usava le maggiori cortesie; e quando si trattava di essere invitata da lei, taceva qualunque altro impegno. Ne parlava da per tutto, e si dava grandi arie d'importanza, facendo credere che fossero amiche intrinseche.

Il divertimento di quella sera consisteva in una festa da ballo ed una cena. Il ballo era d'un genere affatto nuovo. Si danzava a diversi gruppi in giardini estesissimi. I grandi e begli alberi sotto i quali si dava la festa, erano illuminati da infiniti lampioni disposti con tutta la varietà possibile. Le diverse fogge aumentavano l'incanto di quella scena. Mentre alcuni ballavano, altri, seduti sulle erbose zolle, parlavano con libertà, criticavano le acconciature, prendevano rinfreschi o cantavano ariette accompagnandosi colla chitarra. La galanteria degli uomini, le civetterie delle donne, la leggerezza e il brio delle danze, il liuto, il flauto, il cembalo, e l'aria campestre, che i boschi davano a tutta la scena, facevano di questa festa un modello piccantissimo dei piaceri e del gusto francese. Emilia considerava questo quadro ridente con una specie di diletto malinconico. Sarà facile comprendere la sua sorpresa allorchè, gettando a caso gli occhi su di una contraddanza, riconobbe l'amante che ballava con una bella e giovine signora, e sembrava aver per lei le più premurose attenzioni: si volse tosto volendo condurre altrove la zia, che discorreva con Cavignì senza avere veduto Valancourt. Un'improvvisa debolezza l'obbligò a sedere, e l'estremo pallore che comparve sul di lei volto, fece credere ai circostanti ch'ella fosse incomodata. La Cheron continuava a parlare con Cavignì, e il conte di Beauvillers, che si era occupato di Emilia, le fece alcune maligne osservazioni a proposito del ballo, alle quali ella rispose quasi con incoerenza, tanto l'idea di Valancourt la tormentava, tanto essa era inquieta di restare sì a lungo vicino a lui. Le osservazioni del conte sulla contraddanza l'obbligarono intanto a fissarvi gli occhi, che nello stesso momento s'incontrarono in quelli di Valancourt. Tremò e voltò via tosto gli sguardi, ma non senza aver distinta l'alterazione di lui nel vederla. Si sarebbe volentieri allontanata all'istante medesimo da quel luogo, se non avesse pensato che questa condotta gli avrebbe fatto conoscere troppo l'imperio ch'egli aveva sul di lei cuore. Si provò a continuare il discorso col conte, il quale le parlò della dama che ballava con Valancourt: il timore di lasciar travedere il vivo interesse ch'ella vi prendeva, l'avrebbe senza dubbio tradita, se gli sguardi del conte non si fossero fissati allora sulla coppia di cui parlava.

« Quel giovine cavaliere, » diss'egli, « sembra un uomo compito in tutto, fuorchè nel ballo: la sua compagna è una delle bellezze di Tolosa, e sarà ricchissima. Voglio sperare che saprà fare una scelta migliore per la felicità della sua vita, di quel che non l'abbia fatto per la contraddanza; m'accorgo ch'egli imbroglia tutti gli altri. Mi sorprende però che quel giovane, col suo bel portamento, non abbia imparato a ballare. »

Emilia, alla quale batteva forte il cuore ad ogni parola, volle troncare il discorso informandosi del nome di quella signora: prima che il conte potesse risponderle, la contraddanza finì; ed Emilia, vedendo che Valancourt si avanzava verso di lei, si alzò tosto, e andò accanto alla zia.

« Ecco qua il cavaliere Valancourt, signora, » le disse sottovoce; « di grazia ritiriamoci. » La zia si alzò, ma il giovane le aveva raggiunte; egli salutò la signora Cheron con rispetto, e sua nipote con dolore. Siccome la presenza di quest'ultima gl'impediva di restare, passò oltre con un contegno, la cui tristezza rimproverava a Emilia di aver potuto risolversi ad aumentarlo: se ne stava essa pensierosa, allorchè il conte Beauvillers le tornò accanto.

« Vi domando perdono, signorina, » le disse egli, « di un'inciviltà involontaria. Quando criticava così liberamente il cavaliere nel ballo, ignorava ch'ei fosse di vostra conoscenza. » Emilia arrossì e sorrise. La Cheron però gli rispose: « Se voi parlate del giovane passato poco fa, posso assicurarvi che non è, nè di mia conoscenza, nè di quella della signorina Sant'Aubert.

– Gli è il cavaliere Valancourt, » disse Cavignì con indifferenza.

– Lo conoscete voi? » riprese la signora Cheron.

– Non ho con lui nessuna relazione, » rispose Cavignì.

– Non sapete i motivi che ho di qualificarlo d'impertinente? Esso ha la presunzione di ammirare mia nipote.

– Se, per meritare l'epiteto d'impertinente, basta ammirare madamigella Emilia, » soggiunse Cavignì, « temo che ve ne siano molti, ed io m'inscrivo nella lista.

– Oh! signore, » disse la Cheron con sorriso forzato, « mi accorgo che imparaste l'arte dei complimenti dopo il vostro soggiorno in Francia; ma non bisogna adulare le fanciulle, perchè esse prendono l'adulazione per verità. »

Cavignì girò un momento la testa, e disse con voce studiata: « A chi si possono dunque allora far complimenti, signora? Perchè sarebbe assurdo di rivolgersi ad una donna, il cui gusto è già formato: essa è superiore a qualunque elogio. »

Terminando questa frase, egli guardava Emilia di soppiatto, e l'ironia brillava nei di lui occhi. Essa lo intese, ed arrossì per la zia; ma la Cheron rispose: « Voi avete perfettamente ragione, signore; una donna di gusto non può, nè deve soffrire un complimento.

– Ho inteso dire al signor Montoni, » soggiunse Cavignì, « che una donna sola ne meritava.

– Da vero, » esclamò la Cheron con un sorriso pieno di fiducia; « e chi sarà mai?

– Oh! » replicò egli: « è facile conoscerla. Non vi è certo più di una donna al mondo che abbia insieme il merito d'inspirare la lode e lo spirito di ricusarla. » Ed i suoi occhi si voltavano ancora verso Emilia, la quale arrossiva sempre più per la zia.