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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

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CAPITOLO XIII

Sfasciandosi per tal modo gli ordini pubblici, facea pur la Sicilia bella mostra al di fuori: grosse e frequenti città, valide fortezze, monumenti, industria agraria e cittadinesca, commercio, lusso, scienze, lettere. Le quali parti di civiltà sendosi maturate sotto la dinastia kelbita che più o meno le promosse, noi le verremo esponendo in questo e nel capitolo seguente, recando la storia letteraria sino al fin della guerra normanna; e farem anco parola dei dotti, i quali non trovando patria sotto il giogo cristiano, vollero serbarne schietto il simulacro nell'esilio, sì che andarono raminghi in Spagna, Affrica, Egitto ed Oriente, nella prima metà del duodecimo secolo. Con essi porremo quei pochi di cui s'abbiano notizie senza data certa. E serbiamo al sesto libro i dotti musulmani, del paese o stranieri, segnalatisi in Sicilia sotto i Normanni; e gli altri che conseguiron fama fuori l'isola dopo la metà del duodecimo secolo.

Tra il novecensettantatrè e il millecinquantaquattro dell'èra cristiana, tra il mercatante Ibn-Haukal che appuntava maraviglie e vizii in qualche osteria di Palermo, e l'Edrisi prole di principi, che stendea la descrizione dell'isola sotto gli occhi di re Ruggiero, vissero in Sicilia due eruditi i quali ci lasciaron alcun cenno geografico. Scrittori entrambi di storia o cronica del paese, l'uno verso il millecinquanta per nome Abu-Ali-Hasan; l'altro, alla fine del secolo, l'illustre filologo Ibn-Kattâ': ed entrambi ebbero alle mani memorie più antiche. Fiorì anche nell'undecimo secolo il geografo spagnuolo Bekri, due cenni del quale su la Sicilia si trovano presso uno scoliasta.1038 Dobbiamo i frammenti di Abu Ali e d'Ibn-Kattâ' all'erudito Iakût; il quale pubblicò il milledugentoventotto il Mo'gem-el-Boldân, ossia Dizionario geografico, e par abbia tolto da loro quasi tutte le notizie che dà sulla Sicilia.1039 Si scoprono nel Mo'gem pochi nomi raddoppiati e altre mende inevitabili in compilazioni di tal fatta, non gravi errori da scemar fede all'opera.

Al dire d'un cadi Abu-Fadhl, citato da Abu-Ali, si noveravano in Sicilia diciotto città e più di trecentoventi rôcche;1040 ed Ibn-Kattâ' attestava aver letto nelle annotazioni d'un anonimo ch'erano nell'isola ventitrè cittadi, tredici fortezze1041 e innumerevoli gruppi di case rurali.1042 Coteste due notizie pur si riferiscono entrambe alla seconda metà del decimo o alla prima dell'undecimo secolo; nè fa caso il divario, quando le appellazioni città, fortezza, o rôcca corron sì vaghe ed arbitrarie appo gli Arabi come appo noi quelle di città, terra, o villaggio. Il numero diverso delle città non prova dunque mutata la condizion delle cose, è però diversa l'età degli eruditi che le scrissero. Quanto alle rôcche annoverate dal primo, tornano a un di presso a quel che oggi diremmo Comuni; perchè allora tra guerre straniere e guerre civili, le popolazioni amaron siti forti ed alpestri, e quelle chiamate al piano dall'agricoltura o dal traffico ebbero sempre qualche castello su nel monte dove potersi rifuggire.1043 La più parte dunque delle rôcche d'Abu-Fadhl eran le acropoli degli abitatori di quelle masserie e villaggi, dei quali avea perso il conto l'annotatore citato da Ibn-Kattâ'. In oggi il numero dei Comuni risponde a un di presso a quello d'Abu-Fadhl; ma non sarebbe sì malagevole a noverar le borgate rurali, che scemarono a mano a mano dalla istituzione alla abolizione della feudalità, dal conquisto normanno al parlamento del milleottocento dodici.1044

I nomi di città notati nel Mo'gem, i quali senza troppo discostarci dal vero possiamo supporre tolti da Abu-Ali e Ibn-Kattâ',1045 sono in ordine alfabetico: Adornò,1046 Alcamo, Boèo,1047 Bonifato,1048 Carini,1049 Castrogiovanni, Catania,1050 Cefalù, Corleone, Demona,1051 Gelso,1052 Khalesa,1053 Marsala, Mazara, Messina,1054 Milazzo,1055 Mineo, Palermo, Partinico, Patti, Sciacca, Scopello,1056 Siracusa, Trapani,1057 che sommano a ventiquattro; e tolto il raddoppiamento di Marsala chiamata Boèo da Abu-Ali, farebbero appunto il numero d'Ibn-Kattâ'.1058 Col nome di beled (paese) Iakût aggiugne Camerata, Termini e Girgenti, scaduta al certo nel decimo secolo dopo la ribellione. Chiama beleda (terra) Cinisi, Tusa e Mascali; boleida (paesetto) Villanuova;1059 kala' (rôcca) Taormina, Tripoli, Aci e Bellût (Caltabellotta); kerîa (villaggio) Mili,1060 Giattini1061 e Sementara;1062 dhia' (podere o villa) Kerkûd,1063 e dà senza qualificazione Oliveri, e Caronia.1064 Ma è da notare che le terre minori non si ricordano nel Mo'gem per la importanza loro, ma perchè occorreano nella storia letteraria degli Arabi, che l'autore si propose d'illustrare con sì vasto dizionario geografico.

 

Le terre minori e villaggi che si leggono in Edrisi e altri scrittori arabi del duodecimo secolo e nei diplomi infino al decimoquinto, sommano quasi a novecento; dei quali se una parte fu fondata da coloni cristiani nel secol duodecimo, altrettanta per lo meno si dee supporre distrutta nella guerra normanna; onde lo stesso numero si può anco ritenere innanzi il conquisto.1065 I nomi d'origine arabica, o berbera, o son prettamente arabici,1066 o si scernono per note etimologie di schiatte1067 e per voci ch'entrino nelle appellazioni composte: ain, gar, ras, menzîl, rahl, kala' burgi:1068 e dinotano a un di presso i novelli nodi di popolazione formati nell'epoca musulmana da una parte dei coloni arabi e berberi, mentre un'altra parte prendeva a stanziar nelle ville, castella e città ch'erano in piè; onde non perdeano i nomi antichi.1069 I novelli, senza contarvi quei di fiumi, monti, cale e capi disabitati che moltissimi pur ve n'ha d'origine arabica,1070 tornano a trecentoventotto, dei quali dugentonove in Val di Mazara, cento in Val di Noto e diciannove in Val Demone. Se risguardiamo all'area di ciascuna valle1071 cotesti numeri confermano ciò che sappiam dalla storia, che i Musulmani occupassero tutto il Val di Mazara, e avessero posto qualche presidio in Val Demone. E dimostrano il fatto accennato soltanto dalle croniche, dico le grosse colonie che si sparsero in Val di Noto.1072

 

Descrizioni di città non avvene, fuorchè di Palermo per Ibn-Haukal; pur si raccoglie qua e là qualche particolare. Sappiamo da Bekri, e però innanzi la guerra normanna, che Siracusa, grande città, occupava la penisola, congiunta alla spiaggia per sottile istmo, tra il maggiore e il minor porto, tra i quali era condotto un fosso che si varcava sopra un ponte; che l'era circondata di triplice muro, credo io, dalla parte dell'istmo; e che il gran porto apprestava stazione d'inverno alle navi.1073 Ibn-Herawi, nel duodecimo secolo, narrava che nelle parti orientali di Catania rimanessero le tombe d'una trentina di martiri musulmani1074 quivi uccisi nel primo secolo dell'egira; e che tra Catania e Castrogiovanni fosse il sepolcro d'Ased-ibn-Forat, conquistatore della Sicilia. D'altra sorgente, che sembra più antica, abbiamo Catania chiamarsi anco la Città dell'Elefante, da un simulacro di pietra in figura di questo animale, e ammirarvisi bei monumenti dei tempi andati, e chiese con pavimenti di marmo bianco e nero.1075 Cefalù, al dir d'Abu-Ali, era forte città, guardata da un castello sovra alta rupe a cavaliere della spiaggia;1076 Castrogiovanni, maraviglia del secolo, gran città su la vetta d'un monte che fa centro all'isola, avea scaturigini abbondanti, terre da seminato e giardini, chiusi tutti entro il muro che torreggiava lì a mezz'aria.1077 Non obliò il diligente Iakût di notare la postura astronomica delle tre città primarie, Palermo, Messina e Siracusa, secondo il Kitâb-el-Melhema, ossia “Libro della Divinazione”1078 attribuito a Tolomeo, composto da qualche astrologo arabo o siriaco; il quale sapea leggere forse nei destini, ma sbagliava, come i contemporanei, le latitudini e longitudini.1079

Più sodi ragguagli ritraggiamo in questo tempo dell'Etna, sì mal noto ai primi cosmografi arabi. Masûdi, scrivendo a Bagdad nella prima metà del decimo secolo, aveva ignorato il gran monte di Sicilia, o confusolo con l'Isola di Vulcano; favoleggiato che nelle eruzioni saltasser fuori strane sembianze d'uomini mozzi del capo; che il fuoco rischiarasse la terra e il mare oltre cento parasanghe;1080 nè conoscea bene altro prodotto vulcanico che le pomici, adoperate a levigare le pergamene e tavolette da scrivere e stropicciare i piè nel bagno.1081 Ma Abu-Ali-Hasan vide i luoghi e forse alcuna eruzione. “Il monte del fuoco, dic'egli, altissimo sovrasta al mare tra Catania e Mascali, non lungi da Taormina: gira la base tre giornate di cammino; abbondante di alberi fruttiferi; irsuto di boschi la più parte di castagne, nocelle, pini e cedri;1082 ricoperto la cima di neve anche la state, ammantata di nugoli; ma il verno è tutto neve dal capo al piè. Sorgongli intorno molti edifizii e maestosi avanzi dei tempi andati, e rovine che danno a vedere la frequenza del popolo che vi soggiornava; di che narrasi, Tûra antico re di Taormina1083 aver messo in campo sessantamila combattenti. In su l'alto s'aprono spiragli1084 ond'esce fuoco e fumo; e talvolta il fuoco scorrendo da alcun lato brucia che che trovi, poi si fa scorie, come quelle del ferro, onde gli si dà nome di akhbâth;1085 dove oggi non spunta fil d'erba, nè animale vi s'arrischia.”1086 Al tempo d'Abu-Ali spesseggiarono gli incendii nella costa orientale, poich'egli scrive che alcuni anni il fuoco scendea come rivo infine al mare e tanto sfolgorava, che parecchie notti in Taormina e altre terre non si acceser lumi e si viaggiò per que' paesi come se fosse giorno.1087 Così egli ch'era nato o avea fatto dimora in Sicilia. Un cristiano di Calabria di quell'età, rassegnando le maraviglie della Sicilia, non descrive conflagrazioni dell'Etna, ma ne fa supporre seguíte di recente, poichè riflette che tanti filosofi de' tempi antichi e de' suoi proprii avean sottilizzato su l'origine di quel fuoco senz'altra conchiusione che d'accrescere i dubbii e provar la ignoranza dei mortali.1088 Bekri, contemporaneo e straniero, parla solo del borkân in due isolette adiacenti, dalla parte di settentrione, al certo Stromboli e Vulcano: prodigio di natura, dove tacendo il vento meridionale s'udiva un terribil fragore come di tuono.1089 Altri scrivean del fuoco perenne dell'Etna al quale uom non osava appressarsi; ed aggiungeano maravigliando che la materia ignita tolta dal suo luogo si spegnesse incontanente.1090 Le medesime eruzioni che Abu-Ali, o alcuna più recente, vide il dotto e devoto Siciliano Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, rifuggito a Bagdad; dov'ei narrava, forse il millecentoventidue,1091 al viaggiatore Abu-Hâmid da Granata, il fuoco dell'Etna risplendere talvolta a dieci parasanghe, in guisa che non occorre fiaccola nè lucerna nei villaggi o strade di campagna. Tra le fiamme, proseguia, scagliansi in alto massi di fuoco, somiglianti a balle di cotone, i quali infrangendosi ricadon a terra e si fan pietra bianca, o in mare e tornano in pietra nera e porosa, l'una e l'altra lieve da galleggiare sull'acqua. Aggiugnea suoi prodigi: i sassi e la sabbia, tocchi da quel fuoco, avvampar quasi bambagia, e divenir polve negra simile all'antimonio; ma l'erbe e le vestimenta non accendersi alla lava, che consuma soltanto le pietre e gli animali, sì com'è scritto del fuoco della gehenna.1092 Un altro barbassoro musulmano di Sicilia affermava al viaggiatore Herawi dopo il millecentosettantatrè, che un uccello color di piombo in forma d'una quaglia solea svolazzare dal fuoco dell'Etna e rituffarvisi, ed era appunto la salamandra; ma io non ho visto altro che pomici nere, aggiugne Herawi.1093 Tanto ricaviamo dagli Arabi su la storia naturale dell'Etna: nel che non ho voluto metter da canto nè le minuzie nè le favole, e con Herawi son giunto infino alle eruzioni della seconda metà del duodecimo secolo, ricordate ormai dagli scrittori latini. Notevol è che Edrisi, dicendo del Monte del Fuoco, non faccia motto delle eruzioni, e poi descriva minutamente, anzi che no, i fenomeni di Stromboli e Vulcano. E ciò parmi indizio di lungo riposo dell'Etna nella prima metà del duodecimo secolo dopo gli incendii dell'undecimo, supposti fin qui su debolissimi argomenti,1094 e provati adesso dalle testimonianze di Abu-Ali e d'Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim.

Dall'Etna faremo principio alle produzioni minerali della Sicilia, tra le quali Masûdi pone il diaspro ch'ei tenea rimedio al mal di ventre, applicandolo esteriormente; ed anche, non so come, base del corallo.1095 Del diaspro par che dica Iakût supponendo trovarsene montagne in Sicilia:1096 ch'è esagerazione, non tutta bugia. Si cavava dall'Etna il sale ammoniaco, gran capo di commercio con la Spagna ed altri paesi.1097 Delle pomici abbiam già detto, adoperate dagli Arabi nel bagno e nello scrittoio;1098 e Bekri supponea costruite di pomici di Sicilia le volte del teatro romano a Susa.1099 In lista con le ricchezze minerali del Mongibello Abu-Ali ponea l'oro, argomentandolo dalle note miniere d'Ali, ovvero da qualche pirite; ed immaginò, non so per qual errore, l'Etna aver preso nome in lingua rûmi dall'oro che chiudea nelle viscere.1100 Con ciò narrano si cavasse nell'isola ogni altro metallo d'uso comune, argento, rame, ferro, piombo, mercurio.1101 L'autor della vita di San Filareto parla del cristallino e lucente salgemma di Sicilia.1102 Gli Arabi contemporanei noverano l'antimonio, l'allume e il vitriolo.1103 Lo zolfo e la nafta, adoperati allora nei fuochi da guerra e non ignoti ai Musulmani di Sicilia nell'undecimo secolo,1104 par non si fossero cavati nell'isola che alla fine del duodecimo.1105

L'abbondanza delle acque di fonti o fiumi accennata per le generali da Iakût,1106 sembra veramente maggiore dell'attuale, ove si risguardi alla descrizione particolareggiata che faceane Edrisi il millecencinquantaquattro ed ai fiumi ch'ei dice navigabili a barcacce di trasporto ed or più nol sono.1107 E così dovea intervenire per la distruzione dei boschi che s'è fatta dal duodecimo secolo in qua;1108 la quale non credo incominciata per man degli Arabi, poichè il sapiente agricoltore rispetta i boschi, e lo sciocco e affamato li taglia. Di notizie precise, Abu-Ali ne fornisce su le due regioni boschive che per natura sono le principali dell'isola: l'Etna e la catena d'Apennino. Della prima delle quali abbiam fatto parola. Dell'altra Abu-Ali afferma, le eccelse montagne e spaziose valli sopra Cefalù abbondar d'ogni maniera di legname atto a costruzioni navali.1109 Il monaco Nilo loda i cedri di Sicilia, i cipressi e i pini dritti e maestosi, i cui rami servivan di fiaccole.1110

Vengon poscia le ubertose produzioni dei giardini, dei campi e della pastorizia lodate da Bekri;1111 le frutta d'ogni colore e sapore che non mancavano state nè verno, scrive Iakût, forse da Abu-Ali;1112 le mèssi che coprivano la più parte dell'isola secondo Ibn-Haukal;1113 lo zafferano che vi germogliava spontaneo;1114 il cotone e il canape coltivati a Giattini1115 e altrove; il primo dei quali sembra venuto dell'Affrica;1116 gli ortaggi che parean troppi ad Ibn-Haukal.1117 Nessuno scrittore arabo fa menzione degli ulivi, che in Sicilia comunemente si credono accresciuti in quella età, perchè i contadini soglion chiamar saracinesco qual veggano più possente di ceppo, e pittoresco di tronco e rami. Nel che i contadini s'accostano forse al vero, e gli altri no. La coltura dell'ulivo in Sicilia risalisce al quinto secolo innanzi l'era volgare, nè mai si abbandonò, ma decadde al par che tante altre sotto i Romani, nè rifiorì sotto gli Arabi; poichè sappiamo dell'olio che l'Affrica vendeva alla Sicilia nel nono, undecimo e duodecimo secolo.1118 Parmi piuttosto che l'isola debba ai Musulmani le melarance e altri agrumi ch'or son capo sì ricco di commercio;1119 ed anco la canna da zucchero,1120 i datteri1121 e i gelsi, o almeno la seta.1122 Al contrario se la vite non si sbarbicò per ogni luogo, se i poeti arabi di Sicilia lodarono il vin del paese con tal fervore anacreontico, i vigneti scemarono contuttociò sotto la dominazione musulmana; e sì lentamente si rifornirono in due secoli, che la Sicilia facea venir vini da Napoli verso la fine del decimoterzo.1123

Le razze equine di Sicilia, ricordate dagli Arabi nell'undicesimo secolo,1124 fornivano, al dir d'un autore cristiano, animosi destrieri, d'egregie forme e vario pelo;1125 abbondavano i muli1126 dalla zampa sicura nelle montagne, adoprati alla soma ed al tiro;1127 e con quelli, asini,1128 buoi, vaste greggi di pecore;1129 nè era smessa l'antica educazione delle api. Copiosa la pesca, e nei porti, scrive il monaco Nilo, le ostriche, e le conchiglie che danno la porpora.1130 Le foreste e montagne ripiene di cacciagione.1131 Nè vi mancan le belve, che giovano a spirare il timor di Dio negli animi semplici, riflette il frate,1132 volendo significare al certo i lupi. Gli Arabi, avvezzi ad altro che spauracchi da bambini, noveravano tra i pregi della Sicilia non esservi lioni, leopardi, iene, nè grossi serpenti, e gratuitamente aggiugneano nè vipere, nè scorpioni.1133

L'ubertà del paese non si riconoscea dalla sola matura, come direi forse trattando d'altri tempi; chè possentemente l'aiutava la industria degli abitatori, sulla quale dà un po' di lume il “Libro dell'agricoltura” d'Ibn-Awwâm, spagnuolo della metà dell'undecimo secolo, sagace compilatore degli insegnamenti d'opere più antiche forse fin dal tempo de' Nabatei, alle quali aggiunse le proprie osservazioni su le pratiche agrarie della Spagna. Da lui sappiamo che il modo più acconcio di piantare gli ortaggi, sopratutto le cipolle e i poponi, era detto alla Siciliana; e la minuta descrizione ch'ei ne fa, risponde appunto a quel congegno di schiene e rigagnoli che si pratica tuttavia in Sicilia.1134 Le voci arabiche d'orticultura che rimangono nel dialetto siciliano, non lascian dubbio sul tempo in cui ebbero origine queste e simili pratiche.1135 Un fiore ch'è forse la malvetta rosata,1136 si chiamava in Spagna al tempo d'Ibn-'Awwâm Malva siciliana, onde sembra venuto di Sicilia.1137 Quinci passò in Spagna una composizione di mostarda con miele e senape, descritta per filo e per segno in un luogo d'Ibn-Besâl.1138 Ma importantissima sopra ogni altra la pratica di porre il cotone in terreni ingrati che Ibn-Fassâl citato da Ibn-'Awwâm riferisce ai Siciliani, e la dice imitata con profitto nelle costiere di Spagna.1139 Un altro trattato arabico d'agricoltura ricorda che i Siciliani sarchiassero fino a dieci volte il terreno da seminare a cotone.1140 Rimase in Sicilia l'utile pianta nel duodecimo secolo;1141 e infino alla metà del decimoterzo;1142 ma allo scorcio del decimoquarto se n'era ita, seguendo quasi la schiatta arabica, in Malta, Stromboli e Pantellaria:1143 ed appena par che cominci a tornare adesso nelle spiagge di Pachino e su le sponde del Simeto.

In fatto d'opificii abbiam ricordo del prezioso drappo, al certo di seta, detto di Sicilia, del quale si trovò una catasta tra i tesori d'Abda, figliuola del califo fatemita Moezz, morta in Egitto in su la fine del decimo o principio dell'undecimo secolo.1144 Che innanzi quell'età si lavorasse la seta in Sicilia lo prova d'altronde la biografia del pio Abu-Hasaa-Hariri,1145 e v'accenna il nome di Kalat-et-Tirazi, castello in oggi abbandonato presso Corleone,1146 non che il regio Tirâz di Palermo, avanzo dell'industria arabica nel duodecimo secolo, di che sarà detto a suo luogo. Similmente abbiam pochi cenni del commercio, per non curanza degli scrittori o dispersione degli scritti. Oltre la esportazione del sale ammoniaco testè ricordata,1147 sappiamo la importazione dell'olio da Sfax,1148 e la frequente navigazione dalla Sicilia a Mehdia e Susa.1149 I patti di Hasan-ibn-Ali del novecencinquantadue1150 ci attestano l'importanza del traffico tra l'isola e Reggio; nè picciola parte dovea tornare alla Sicilia dalle relazioni commerciali ch'ebbe coi Musulmani la costiera di Terraferma bagnata dal Tirreno. Lasciando le regioni dal Tevere in su, lo conferma Ibn-Haukal per Napoli, Salerno, Amalfi;1151 lo conferma il doppio nome di Keitona-el-Arab che ritenne il Promontorio Circeo fino al tempo di Edrisi; nome analogo a quel che davano ad una città nelle parti meridionali della Sardegna,1152 ed a quel c'ha tuttavia la Catona in faccia a Messina.1153 Maggiore d'ogni altra prova è che a Salerno, fors'anco a Napoli e Amalfi, si contraffacea, non per frode ma per bisogno del commercio, la moneta d'oro di Sicilia,1154 come infino ne' tempi nostri v'ebbero belli e buoni colonnati di Spagna battuti in altri paesi.

Ove ponghiamo mente al genio randagio degli Arabi, alla comunanza di leggi, usi, costumi e in gran parte anco di schiatta, dei Musulmani che teneano il bacino occidentale del Mediterraneo, non staremo in forse che la Sicilia partecipò delle arti e lusso della Spagna e costiera d'Affrica, sì come è provato che ebbe analoghe vicende politiche e cultura di lettere. Così anco dei monumenti. Perirono nella guerra normanna quasi tutti que' dei Musulmani; e pur non vi ha menomo dubbio del loro splendore, quando l'autor della vita di San Filareto lodava i tempii ed altri sontuosi edifizii delle città maggiori della Sicilia;1155 e il conte Ruggiero, dopo averci lavorato per trent'anni con ferro e fuoco, scrivea patetico in un diploma del millenovanta, delle vaste e frequenti rovine delle città e castella saracene; de' vestigii di lor palazzi, fabbricati con mirabile artifizio, adatti, non che ai comodi, ad ogni lusso e delizia della vita.1156 Nel sesto libro toccheremo l'architettura arabica sotto i Normanni, alla quale dobbiam tutti i monumenti che avanzano in Sicilia del medio evo, da pochissimi in fuori. Dico due o tre, da che la iscrizione neskhi intagliata a mo' di fregio nelle mura del palagio della Cuba, porta il nome di re Guglielmo secondo e la data del millecentottanta.1157 Bagni di Cefalà e il palagio della Zisa sembrano più antichi, alla gravità della scrittura cufica che altra volta li coronò;1158 e il palagio e bagno di Maredolce, ancorchè non vi si trovino iscrizioni, parrebbe contemporaneo; ma rimanendo sempre incerta l'epoca, e sendo state racconce le fabbriche di poi, e la Zisa anche abbellita dai Normanni, non vi si può fondare giudizio su l'arte arabica di Sicilia nell'undecimo secolo. Questo sol noterò, che le linee di prospetto del cubo allungato e dell'arco aguzzo dei tempi normanni si trovano nelle cornici delle iscrizioni arabiche di Sicilia dell'epoca musulmana. Qui un rettangolo sormontato da una punta in forma di mitra vescovile;1159 lì inscritto dentro il rettangolo un arco spezzato in tre lobi alla foggia che s'è chiamata moresca.1160

Avvien sempre che sfugga alla più cruda rabbia di guerre o persecuzioni qualche monumento di minor mole, per trascuranza o stanchezza delle mani vandaliche, per capriccio o gusto d'alcun uomo: e così parecchie iscrizioni arabiche della dominazione musulmana rimasero in Sicilia, senza contar quelle de' tempi normanni delle quali si dirà a suo luogo. Quantunque i rami pubblicati dal Di Gregorio sian delineati così così, e io non abbia avuto sotto gli occhi migliori disegni delle iscrizioni inedite, potrò pur toccare la calligrafia lapidaria, la quale col disegno architettonico e coi rabeschi tenea luogo di tutt'arte grafica appo i Musulmani.1161 Ci occorse già far parola delle iscrizioni della torre di Baich in Palermo,1162 e del castello di Termini;1163 l'una perduta, se non che abbozzossi il disegno d'alcun brano; e l'altra pessimamente delineata, e temo adesso ita a male: entrambe del decimo secolo. Alla medesima età mi par da riferire la leggenda intagliata nel vecchio edifizio dei bagni di Cefalà, logora da lungo tempo, e in oggi, mi si dice, dileguata del tutto.1164 Le iscrizioni conservate sono sentenze coraniche scolpite in colonette di marmo che si tolsero dalle moschee e si murarono nelle chiese, ovvero epitaffii svelti dalle tombe, collocati in musei o case private. La scrittura cufica, semplice, robusta, con poche fioriture, e nessun ghiribizzo qual si notava nella torre di Baich,1165 appar anco nei due cippi sepolcrali del Museo di Verona,1166 in altri due di casa Calzola a Pozzuoli,1167 nei tre di Marsala, Siracusa e Messina, che non hanno data;1168 in quello del Museo Daniele a Caserta,1169 e in un picciol marmo di casa Emmanuele a Trapani,1170 e un altro del Museo di Messina:1171 le quali forme di caratteri, molto svariate e pur tutte appartenenti alla classe che ho posta, non differiscono dallo stile dei monumenti analoghi sparsi da Cordova infino a Bagdad. Frammisto a quello si vede nella stessa epoca in Sicilia, sì come in ogni altro paese musulmano, con linee più tortuose e bizzarre, il cufico ornato e talvolta intralciato di rabeschi, che si è chiamato impropriamente scrittura carmatica. Bellissima in questo stile, nè sopraccarica di capricci è la lapide sepolcrale di Oma-er-Rahman che si trovò pochi anni addietro in Palermo, dove manca la data, ma sembra alla vista del decimo o undecimo secolo.1172 Similmente dell'epoca musulmana le iscrizioni coraniche delle Chiese delle Vergini e San Francesco d'Assisi in Palermo,1173 del convento dei Francescani in Trapani,1174 che son più o meno ornate, ma di bella struttura di caratteri; e l'altra assai logora e ignuda, nè di forme eleganti, di una colonna nel portico meridionale della cattedrale di Palermo.1175 Un bel neskhi, o corsivo, modificato a forme monumentali, spoglio di ornamenti e notato di punti diacritici, si scorge in una pietra sepolcrale di Mazara, in parte logora, se il vizio non è nella stampa ch'io n'ho alle mani.1176 È scritto in neskhi grossolano, con qualche punto diacritico e qualche errore di grammatica, l'epitaffio mutilo che si serba nella Biblioteca comunale di Palermo: e stava su la tomba d'un Abu-Hasan-Ali, morto il trecencinquantanove dell'egira.1177

Farò cenno in ultimo delle monete dei Musulmani di Sicilia, su le quali manca un lavoro compiuto, nè io potrei provarmici, nè sarebbe da stenderlo qui.1178 Mi ristringo pertanto ai risultamenti, ritraendoli dall'accurato catalogo del Mortillaro, aggiugnendo qualche altra notizia che s'è pubblicata appresso e le monete inedite del Museo parigino. Degli Aghlabiti, dei quali è si povera la numismatica, rimangono poche monete siciliane.1179 Per lo contrario abbondano le fatemite; sì che ve n'ha di tutti i califi che regnarono di fatto o di nome in Sicilia, da Obeid-allah fondatore della dinastia fino ad Abu-Tamim-Mostanser-Billah, o meglio al quattrocentoquarantacinque dell'egira dopo caduta la dominazione kelbita:1180 un centinaio di monete, la più parte d'oro, due sole d'argento e non poche di vetro di varii colori, che sembran usate in luogo dei quattrini di rame.1181 Hanno leggende cufiche; formole fatemite, molte con data e col nome della Sicilia. Quelle d'oro, quando se n'è fatto saggio, si son trovate di buona lega. Son tutte del peso d'un grammo più o meno, che torna alla quarta parte del dinâr omeiade, abbassida e fatemita: di certo il robâ'i, ossia quartiglio, del quale si legge nei ricordi arabici della Sicilia nel decimo e duodecimo secolo.1182 Picciola e comoda moneta come gli odierni cinque franchi d'oro, coniata tuttavia sotto i Normanni con leggende arabiche, e chiamata tari in un diploma greco, e tareni nelle croniche e carte latine di quel tempo.1183

Il commercio musulmano di Sicilia, non che mantener suoi robâ'i nell'isola sotto la dominazione normanna, avea costretto ad usarli, fin dai principii del decimo secolo, Napoli, Salerno, Amalfi; ed a batterne in casa propria, ed anteporli a tutt'altro conio. I diplomi latini di Napoli di quel secolo portan le vendite in solidi bizantini e più spesso in tari,1184 dei quali quattro faceano un solido bizantino, ch'era lo stesso del dinâr arabo. Dai medesimi atti si rileva che i solidi scarseggiavano o mancavan del tutto alla metà del secolo, ancorchè sempre si notassero come moneta legale; e che rimanea quasi solo conio corrente d'oro il tari.1185 Da un'altra mano i musei del regno di Napoli ci mostrano quartigli d'oro della stessa forma e peso di que' di Sicilia, col nome del califo fatemita Moezz (953-975); se non che comparisce la mano straniera, al cufico men franco, e la lega men buona, e si mostra talvolta alla scoperta, aggiugnendo in mezzo dell'impronta arabica “Salerno” e altre lettere latine: e perfino stampò la croce tra le sentenze unitarie dei Fatemiti, o scrisse sul dritto il nome di Gisulfo principe di Salerno (1052-1076) e sul rovescio quel di Moezz morto un secolo innanzi.1186 Parmi non cada in dubbio che i tari dei diplomi napoletani fossero appunto i robâ'i di Sicilia, e le copie più o men fedeli che se ne faceano nell'Italia meridionale. La voce tari, ignota di là del Garigliano, ignota nelle altre province bizantine, si accosta per articolazioni ed accento a dirhem o dirhim pronunziata velocemente dagli Arabi trihm,1187 ed al plurale terâhîm o trâhîm e trâhî, mangiandosi l'ultima consonante e battendo l'accento sull'ì. Le bocche italiane ne fecero tari. Nè questa è conghiettura, ove si ricordi il tari denominazione di peso, che risponde senza dubbio al dirhem, il quale gli eruditi di Sicilia scrissero tari-peso, ma il popolo credo l'abbia detto sempre trappeso, rendendo nella prima sillaba la volgare pronunzia arabica.1188 Così i Napoletani e i Siciliani del medio evo ripigliavano dagli Arabi il vocabolo drachma, che quelli aveano tolto dai Bizantini e mutato in dirhem.

1038Lo scoliasta è Ibn-Scebbât. Gli estratti di Bekri, sono pubblicati nella mia Biblioteca Arabo-Sicula, p. 209, seg., del testo, secondo un MS. di M. Alphonse Rousseau.
1039Quest'opera di Iakût è la principale raccolta di notizie di geografia descrittiva che ci rimanga su i paesi musulmani del medio evo. Si veggano i ragguagli che ne dà M. Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXIX, seg. Ormai ve ne ha in Europa varii MSS., si che si può sperar quanto prima una buona edizione del Mo'gem. Ritraggo la data della pubblicazione dal MS. del British Museum, 16,649. Prolegomeni, fog. 3, recto. Gli articoli su la Sicilia e sue città e terre, che io ho dato nella detta Biblioteca, p. 105 a 126 del testo, son tratti dai due soli MSS. di Oxford e British Museum. I nomi stessi leggonsi nel Compendio del Mo'gem intitolato Merasid-el-Ittilâ', pubblicato recentemente a Leyde dal professor Juynboll; ed io li ho posti nella Biblioteca, p. 127 a 132. Iakût non conobbe forse l'opera di Edrisi, e di certo non la usò trattando della Sicilia: la sola notizia che s'accordi un po' con Edrisi, è quella di Catania, di cui diremo più innanzi. Oltre i nominati nel testo, Iakût cita in due articoli Ibn-Herawi ed Abu-Hasan-Ali-Ibn-Badîs. Infine i versi ch'ei trascrive da una satira d'Ibn-Kalakis, venuto in Sicilia al tempo di Guglielmo il Buono; gli fornirono un sol nome geografico novello, cioè Oliveri; e nessuna notizia importante: D'Ibn-Kalâkis diremo nel Libro VI.
1040Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 115.
1041Ibidem: ecco il passo di Iakût: “Ho veduto scritto di propria mano d'Ibn-Kattâ' su la coperta del Târîkh-Sikillîa (Storia di Sicilia) queste parole: Trovo in alcuna copia della Sîrat-Sikillia la nota marginale che sono in quest'isola ventitrè città ec.” La voce sirat significa “Memoria, cronica,” ma non sappiamo se qui sia nome generico o titolo speciale del libro.
1042Dhia' che vuol dir propriamente “podere demaniale” e in generale podere, possessione rurale. Come ogni podere avea i suoi proprii coloni o agricoltori, così il nome si estendeva agli abituri pochi o molti; e però il significato può variare da Masseria o villa infino a Villaggio.
1043Questo fatto fu generale in Europa nel medio evo. Ma in Sicilia, tra istituzioni e configurazione del suolo, dura fin oggi. All'infuori di alcune regioni dove l'agricoltura è progredita per eccezione, gli abitatori battuti e impoveriti non hanno avuto alacrità che basti a scender dalle loro vette per avvicinarsi alle terre da coltivare e alle strade.
1044Il numero dei comuni attuali è di 352, cominciando da Palermo e terminando a San Carlo che ha men di 300 anime. Secondo Abu-Ali, nell'XI secolo si contavano almeno 340 tra città e rôcche. Spiegherò nei VI libro la osservazione che qui accenno su la diminuzione dei villaggi.
1045Ibn-Haukal, del quale copiò tanti squarci l'autore del Mo'gem, non dicea forse d'altra città che Palermo.
1046Il Mo'gem e il Merâsid hanno Ads”n”t che si dovrebbe leggere Otranto. Ma anzichè supporre l'errore di trasferirsi quella città in Sicilia, parmi si debba mutare la t finale in w e leggere Adsernô.
1047Il Mo'gem, citando Abu-Ali, dice che el-B”iâw era “città” importante anzi che no, sol promontorio occidentale, nel luogo “men coltivato e men ferace dell'isola.” Senza dubbio dunque Lilibeo, al quale già gli Arabi davano l'attuale forma di Boèo mutando in articolo arabico le prime due sillabe. Occorrendo intanto il nome di Marsa-Ali (Marsala) nei fatti storici del 1040, come dicemmo nel capitolo precedente, p. 420 di questa volume, è da supporre che quella città, nella prima metà del secolo avesse già doppio nome, il nuovo di Porto d'Ali e l'antico mutato in Boèo, ovvero che coesistessero le due terre, l'una crescente, e l'altra in decadenza.
1048Così addimandasi tuttavia il monte che sovrasta ad Alcamo, nel quale il Fazzello, Deca I, lib. VII, cap. IV, afferma che sorgea l'antica Alcamo, tramutata nel sito attuale per comando di Federigo d'Aragona il 1332. Potrebbe darsi che Alcamo fosse stata sempre dove è oggi. Edrisi (1154) la chiama menzîl ossia stazione, e Ibn-Giobair (1184) beleda ossia terra: il che prova che non era fortezza nel XII secolo. Da un'altra mano il castello sul monte si chiama tuttavia Bonifato, e nel XII secolo era lì presso un villaggio dello stesso nome, con 600 salme di territorio, come si scorge da un diploma del 1182 presso Del Giudice, Descrizione del Tempio di Morreale, appendice, p. 14. Posto ciò, non abbiam ragione di supporre che Iakût dia, come due città, due nomi diversi della stessa. Rivedendo i diplomi citati dal Fazzello e dal D'Amico nel Dizionario topografico, ricercandone altri, ed esaminando con occhio d'archeologo i ruderi di Bonifato e le vecchie mura d'Alcamo attuale, si potrà sciogliere il nodo.
1049Nel testo è K”r”b”na. Non dubito che sia da aggiugnere un punto alla b arabica, e leggere Karîna.
1050Nel testo si legge in due articoli Katâna e Katânîa, date entrambe come città, ed è probabile che le due notizie vengano da fonti diverse.
1051Manca in Edrisi; e i diplomi del XII secolo non ne parlan come di città esistente. Ragione di più per supporre che Iakût abbia preso questo nome da Abu-Ali o da Ibn-Kattâ'. Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 468, seg., del I volume.
1052Il Mo'gem ha Giâlisuh; e un diploma arabo e latino del 1182 per la chiesa di Morreale, ha nell'arabico Giâlisû, e nel latino (al genitivo) Jalcii: che pare trascrizione di alcun dei chierici francesi che in quel tempo venivano a mettersi in prelatura in Palermo. Il vero nome sembra l'italiano “Gelso” che ritien tuttavia quel podere. Nel secolo XII si noverava tra i villaggi, come si vede dal detto diploma. Qual maraviglia dunque che nell'XI fosse stata, come dice Iakût, “città nello interno della Sicilia?” Il sito risponde a tramontana di Corleone.
1053Nel X secolo era cittadella o città distinta da Palermo e contigua, come si vede da Ibn-Haukal, p. 296 del presente volume. Gli Arabi d'Affrica teneano città distinte Mehdia e Zawila, Kairewân e Mansuria, poco più o poco men distanti che Palermo e la Khalesa nel X secolo. La distinzione era ragionevole, sì per la importanza delle popolazioni, e sì per l'agevolezza di mantenersi in una città, quando l'altra fosse occupata dal nemico. Iakût avverte che ai tempi suoi, al dir d'un Abu-Hasan-ibn-Bâdis, la Khalesa era quartiere dentro la città di Palermo.
1054Messina nello stesso articolo del Mo'gem è detta prima boleida e poi medina. Quest'ultimo in un libro attribuito falsamente a Tolomeo; il primo senza citazione. Se si riferisse ai tempi in cui Messina par mezzo abbandonata? Si vegga il Lib. II, cap. X, p. 427 del volume I.
1055Mîlâs nel Mo'gem è data come villaggio; nel Merâsid come città. Vi si legge inoltre Milâs “forte rôcca su la spiaggia” che potrebbe essere l'attuale Mili nello Stretto di Messina, o piuttosto variante d'ortografia, come Katâna e Katânîa.
1056In oggi è nome d'una tonnara nel golfo di Castellamare. La ricorda come terra abitata un diploma del 1098 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 294: ed è detta villaggio in due del 1170 e 1251 che cita D'Amico, Dizionario topografico, agli articoli Cetaria e Scupellum. Cetaria, città antica secondo Tolomeo, forse detta così dalla pesca dei tonni che vi si facea come oggi. Scopello fu colonia di ghibellini lombardi rifuggiti in Sicilia, ai quali poi l'imperatore Federigo II concedette la città di Corleone.
1057Per manifesto errore, Trapani è messa due volte con ortografia diversa, e la prima volta, con la forma Itrâbinisc è data come beleda (terra).
1058Si noti il gran divario con la geografia di Edrisi, nella quale si dà il nome di città alle sole: Castrogiovanni, Catania, Girgenti, Marsala, Mazara, Messina, Noto, Palermo, Randazzo e Siracusa. Si vede bene che v'era passato per lo mezzo il conquisto normanno e la immigrazione italiana.
1059Billanoba, patria del poeta siciliano Billanobi, sembra distrutta pria del conquisto normanno; non leggendosi nei tanti diplomi che abbiamo dal fine dell'XI secolo in qua. Billanobi fiorì alla metà di quel secolo, come innanzi diremo.
1060Si vegga la nota 7 della pagina precedente.
1061Giattîn fu patria, secondo Iakût, di un dotto musulmano. Un diploma arabo-latino del 1182 dà il nome in arabico Getîna e in latino Jatina.
1062S”m”ntâr, patria d'un altro dotto, secondo Iakût. Samanteria era massa, ossia podere, della chiesa romana in Sicilia secondo un'epistola di San Gregorio, lib. VII, ep. 62, presso il Pirro, Sicilia Sacra, p. 32.
1063Biblioteca Arabo-Sicula, p. 124 del testo e variante del MS. di Oxford nelle aggiunte, p. 41 della Introduzione. Iakût scrive Kerkûr, che ho corretto secondo Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione, tomo I, p. 274. Il testo del Mo'gem, dice: “Kerkûr una delle ville di Sfax in Sicilia.” Si potrebbe intendere villaggio popolato da uomini di Sfax o meglio correggere “delle ville di Sfax ed altra in Sicilia.”
1064Oltre a ciò nell'articolo “Sardegna” Iakût aggiugne che secondo alcuni era anche nome di città in Sicilia; nota Saklab, quartiere di Palermo; e, con manifesto errore, pone Taranto in Sicilia.
1065Io ho raccolto con pazienza i nomi dei villaggi nel dizionario topografico del D'Amico, nel Pirro, nella Sicilia nobile del Villabianca, nei diplomi delle chiese di Palermo e Morreale, in que' della Commenda della Magione, in que' dati dal Di Gregorio in appendice agli scrittori dell'epoca aragonese, e in altri pubblicati qua e là. Mi propongo di porli in appendice alla versione della Biblioteca Arabo-Sicula.
1066Tali per esempio Godrano (ghidrân, palude), Baida (la Bianca), Abdelali (Abd-el-Ali nome proprio), Zyet (Zeid nome proprio), Chadra e Cadara (Khadra, la verde) ec.
1067Si vegga il Lib. III, cap. I, p. 33, seg. di questo volume.
1068“Fonte, grotta, capo, posata, stazione, rôcca, torre.” La voce rahl entra in cento sette nomi topografici di Sicilia. La voce kala, o kala't, in venti; la voce menzîl in diciotto.
1069Tra i nomi delle 24 città riferiti di sopra v'ha di origine arabica le sole Alcamo, Khalesa, Marsala e Sciacca.
1070Per esempio Wadi-Musa (il fiume di Mosè) il Simeto; Dittaino (Wadi-t-tîn il fiume fangoso) il Chrysas degli antichi; Marsa-s-scegira (Porto dell'albero) la Punta di Circia presso il Pachino; Rasigelbi (Ras-el-kelb o ghelb, la Punta del Cane) presso Cefalù; Oiûn-Abbâs (le fonti d'Abbâs) le Tre Fontane presso Selinunte; Ras-el-Belât (il capo degli archi o del lastricato) il capo Granitola ec.
1071Questa è, secondo gli ultimi dati geografici, 4025 miglia quadrate di Sicilia per le province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta, che rispondono a un di presso al Val di Mazara; 2220 per quelle di Catania e Noto, che rispondono quasi al Val di Noto; e 1180 per la provincia di Messina, che torna all'antico Val Demone. Il quale dopo il XIII secolo fu ingrandito a mezzodì infino a Catania ed a ponente oltre Cefalù. La proporzione dunque della superficie dei tre valli è di 0,52, 0,31 e 0,17; e i 328 luoghi arabici vi stanno alla ragione di 0,64, 0,30 e 0,06. La popolazione attuale (1853) è distribuita così: Donde la proporzione della popolazione in oggi torna a 0,52, 0,30 e 0,18.
1072Si vegga il cap. XI, del lib. III, e i cap. III e XI di questo Libro, p. 213, seg., 258 e 398, seg., del volume.
1073Da Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 211, 212 del testo.
1074Mo'gem, nella Biblioteca Arabo Sicula, aggiunte al testo, p. 40 della Introduzione. Quest'Ibn-Herawi, pare lo stesso che Ali-ibn-Abi-Bekr da Mosûl detto Herawi come oriundo di Herat: il quale fu in Sicilia dopo il 1175. Iakût dà come dubbia questa tradizione dei sepolcri dei Tabi', ossia Musulmani della generazione dopo Maometto.
1075Da Iakût, Mo'gem e Merâzid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 123 e 131. La notizia precedente è data con la lezione di Katânîa e la presente di Katâna, delle quali d'altronde il compilatore riconosce l'identità. Ei non dice da chi abbia cavato questa seconda notizia; non copiata al certo da Edrisi. Questo autore nota il doppio nome di Città dell'Elefante, che venia dal simulacro di pietra “messo anticamente in un eccelso edifizio, e adesso trasportato dentro la città nella chiesa dei Monaci” (benedettini). Edrisi in vece delle chiese lastricate di marmo, dice delle giami' e moschee, del fiume intermittente (l'Amenano), del porto frequentato, e di altri particolari ignoti a Iakût. Su l'elefante di lava si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 219 del 1 volume.
1076Mo'gem e Merâsid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 111, e 128 del testo.
1077Mo'gem, op. cit., p. 116, 123 e 130. Qui Iakût non cita Abu-Ali, ma par che tolga le notizie da lui. Aggiugne che la giusta ortografia fosse Kasr-ianih e che il secondo fosse nome rûmi (latino o greco) d'un uomo. Già era avvenuta la trasformazione di cui dissi Lib. II, pag. 280 del 1º vol.
1078Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXXII.
1079Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 112, 117, e 126 del testo. Le longitudini, sembrano prese dalla “cupola d'Arîn” al modo di alcuni antichi geografi arabi, su la quale si confrontino Reinaud, op. cit., p. CXL, seg.; e Sédillot, Mémoire sur les systèmes géographiques des Grecs et des Arabes, Paris 1842, in 4º. Il falso Tolomeo dà a Palermo 40° di longitudine e 35° di latitudine, oroscopo la Vergine e casa di regno a dieci gradi dell'Ariete ec.; a Messina, 39° longitudine, 38° 40′ latitudine, oroscopo il Sagittario, casa della vita a 9° 27′ di quel segno; a Siracusa, 39° 18′ longitudine, 39° latitudine, oroscopo la Zampa del Lione, casa della vita a 13° del Cancro, casa del regno ad altrettanti dell'Ariete ec. Gli errori degli Arabi su la posizione geografica di Palermo giunsero fino ai tempi d'Abulfeda, come si vede nella costui Géographie, versione di M. Reinaud, tomo II, p. 273, seg., dove la longitudine è notata 35° dall'isola del Ferro; e la latitudine, 36° 10′ ovvero 36° 30′. Nondimeno Abu-Hasan-Ali, astronomo di Marocco, segnava più correttamente latitudine 37° 30′, e più scorrettamente longitudine 45° 20′; presso Sédillot, Instruments astronomique des Arabes tomo II, p. 204. Per comprendere od po' il gergo del Kitâb-el-Melhema, dirò, a chi non sta saputo in astrologia, che la posizione si determinava su i segni del zodiaco. Quello che spunta all'orizzonte in faccia al luogo n'è l'oroscopo principale, il tâli' come dicono gli Arabi. Le “case” della vita del regno e degli altri destini, rispondono ai punti dell'ecclittica divisa in dodici parti uguali facendo capo dal tâli', in un MS. d'astrologia intitolato Kitab-en-Nogiûm, Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 1146, fog. 13 recto, la casa della vita è appunto all'oroscopo, e quella del regno al quarto scompartimento a sinistra; il che non risponde al sistema del falso Tolomeo. Anche le denominazioni son alquanto diverse; e il campo al sistemi era libero in vero agli astrologi.
1080Trecento miglia.
1081Marûg-ed-Dseheb e Tenbîh nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 1, 2. Masudi alle altre favole aggiugne che perì nell'Etna Porfirio, autor dell'Isagoge.
1082Il testo ha Arzen che i dizionarii arabi definiscono vagamente albero di legno durissimo da far bastoni, ma è precisamente il cedro. Non si noverano tra gli altri alberi le querce.
1083Questo personaggio par favoloso. Edrisi chiama Tûr il monte di Taormina, santuario famoso; e questo ricorda la falsa etimologia di πόλεν Ταύρου καὶ μενύας, su la quale facea sì gravoso scherzo l'arcivescovo Teofane Ceramèo.
1084Kazwini, trascrivendo questo passo come nel Mo'gem, aggiugne la voce “sulfurei,” ch'è giudizio forse suo proprio e non d'Abu-Ali.
1085È il plurale di khebeth, scoria. Questa voce, non è rimasa nel dialetto siciliano, nel quale la lava impietrata si chiama “sciara:” e parmi bella e buona la voce arabica scia'râ che significa propriamente “irsuta” e in sostantivo “luogo coperto di piante” e “bosco”.
1086Presso il Mo'gem, p. 118, 119 della Biblioteca Arabo-Sicula, testo arabo. Il medesimo passo di Abu-Ali è trascritto da Kazwini, nell'Agiâib-el-Mekhlûkât, p. 166; e nello Athâr-el-Bilâd, p. 143, seg., dei testi pubblicati dal Wüstenfeld.
1087Iakût e Kazwini pongono questo fatto in fin della citazione d'Abu-Ali, dopo le parole “e dicesi esser quivi (nell'Etna) miniere d'oro; ond'è che i Rûm lo chiamavano il monte dell'oro.” Quel “dicesi” potrebbe interrompere la citazione; il che gli Arabi dinotano ordinariamente con la voce “finisce” ma spesso la dimenticano.
1088Vita di San Filareto presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, pag. 607.
1089Presso Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.
1090Mo'gem, op. cit., p. 116. L'autore non cita in questo luogo. Si vegga anche Kazwini, 'Agiâib, p. 166, seg., e nell'Athâr, p. 143, seg.
1091Abu-Hâmid si trovò in quell'anno a Bagdad. Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, introduzione, p. CXII.
1092Tohfet-el-Albâb di Gharnati, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 74, 75. Il passo del Corano a che allude l'autore è nel verso 22 della sura II.
1093Kitâb-el-Asciârât di Herawi, ibid., e se ne vegga la versione inglese del professor Samuele Lee, in appendice allo Ibn-Batuta's Travels, Londra, 1829, in 4º, p. 6. Herawi venne in Sicilia dopo il 1173, e morì ad Aleppo il 1215. Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXVII, seg.
1094Si vegga in questo periodo la Storia critica delle eruzioni dell'Etna del canonico Giuseppe Alessi.
1095Tenbîh, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 2.
1096Il nome è guasto in tutti i MSS. La buona lezione mi sembra iascf (in francese yachf) variante di iascb che adopera Masûdi. Come ognun vede, l'una e l'altra è il latino jaspis, d'origine semitica, del quale i Francesi han fatto jaspe. Gli Arabi rendono indistintamente con una f o una b la p che manca in loro alfabeto. Ognun sa la copia, mole e qualità dei diaspri e soprattutto delle agate di Sicilia. Gli antichi favoleggiavano su le proprietà mediche dell'agata, più o meno, come Masûdi.
1097Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 118.
1098Si vegga a p. 439.
1099Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.
1100Mo'gem, op. cit., p. 116, 118. L'etimologia sembra piuttosto confusa col Πλοῦτος che ai tempi dei Pagani, come ai nostri, era il Dio dell'oro e dell'inferno.
1101Mo'gem, op. cit., p. 116 e 118. Si ricordi anche la miniera di ferro presso Palermo, di cui Ibn-Haukal.
1102Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.
1103Mo'gem, op. cit., p. 118.
1104Ibn-Hamdîs in una poesia che ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 565, dice de' fuochi lanciati dall'armatetta siracusana in una impresa contro i Cristiani.
1105Iakut non ne fa parola, nè Edrisi. Il primo che li accenni è Ibn-Scebbât, Biblioteca Arabo Sicula, testo, p. 210, negli estratti non già di Bekri, ma del continuatore per nome Ibn-Ghalanda.
1106Mo'gem, op. cit., p. 115.
1107I fiumi di Lentini, Ragusa e Mazara.
1108I diplomi dell'XI e XII secolo dicono di foreste e boschi or distrutti, come la foresta del monte Linario presso Messina, il bosco Adrano tra Prizzi e Bivona ec. L'Etna perde molto dei suoi da un secolo in qua. Il Monte Pellegrino di Palermo fu terreno boschivo fino al XV secolo. Edrisi dice della Benît (Pineta) a ponente di Buccheri ec.
1109Mo'gem, op. cit., p. 111.
1110Vita di San Filareto, l. c.
1111Squarcio dato da Ibn-Scebbât, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.
1112Mo'gem, op. cit., p. 116.
1113Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 295 del volume, e un altro squarcio d'Ibn-Haukal trascritto nel Mo'gem, op. cit., p. 119, ove leggiamo “La più parte del terreno di Sicilia è da seminato.”
1114Mo'gem, op. cit., p. 116. Il testo dice: “e la terra di Sicilia produce lo zafferano.” Tutto questo squarcio par si debba attribuire ad Abu-Ali.
1115Mo'gem, op. cit., p. 110.
1116Ibn-Haukal dice del cotone coltivato a Cartagine ed a Msila. Descrizione dell'Affrica, versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, serie III, tomo XIII.
1117Si vegga sopra, cap. V del presente Libro, p. 299 a 307.
1118Si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 206 del volume I, nota 2; e il Lib. II, cap. X, p. 415 dello stesso volume. Per l'XI secolo l'attesta Bekri; pel XII i diplomi.
1119Le poesie arabiche a lode del re Ruggiero, delle quali si tratterà a suo luogo, descrivono le piantagioni di agrumi nella villa regia di Favara o Maredolce presso Palermo. Un diploma del 1094 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 770, dice di una Via de Arangeriis presso Patti. Da un'altra mano si sa che varie sorta di melarance vennero dall'India in Siria ed Egitto dopo il principio del quarto secolo dell'egira e decimo dell'era cristiana. Veggasi una nota di M. de Sacy all'Abdallatif, Relation de l'Egypte, p. 117. Probabilmente la Sicilia, la Spagna, e con esse gli altri paesi in sul bacino occidentale del Mediterraneo ebbero gli aranci e i cedri in questo medesimo tempo dalla Siria e dall'Egitto.
1120La canna da zucchero, secondo Ibn-Haukal, e però nel X secolo, si coltivava in Affrica (versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, III serie, tomo XIII); secondo Ibn-Awwâm, e però nell'XI, era notissima in Spagna; un diploma del 1176, parla di un molino da cannamele in Palermo; e però non è dubbio che cotesta industria risalisse in Sicilia all'XI o anche al X secolo.
1121La piantagione di datteri a San Giovanni dei Leprosi fuori Palermo, posta accanto a un oliveto, è ricordata in un diploma del 1249 presso Mongitore, Sacræ domus Mansionis… Monumenta, cap. IV. Fu tagliata nel XIV secolo dall'esercito angioino che assediò Palermo.
1122Edrisi dà il nome di Nahr-Tût “fiume Gelso” al fiume detto oggi Arena a mezzogiorno di Mazara, e dice dell'abbondanza della seta prodotta a San Marco in Val Demone.
1123Si scorge da due diplomi del 1284, e dalla Cronica di D'Esclot, cap. CX, dei quali ho fatto cenno nella Guerra del Vespro Siciliano, edizione di Firenze, 1851, cap. X, p. 209.
1124Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 116.
1125Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo li, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.
1126Mo'gem, l. c.
1127Vita di San Filareto, l. c. La versione latina del Padre Fiorito ha: ad vehicula trahenda aptissimi; ma mancando il testo greco, non siam certi se si tratti di carri o di lettighe.
1128Mo'gem, l. c.
1129Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc. Si ricordin anco i grandi armenti dell'emiro Iûsuf, cap. VIII del presente Libro, p. 354 del volume.
1130Vita di San Filareto, l. c.
1131Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc.
1132Vita di San Filareto, l. c.
1133Mo'gem, op. cit., p. 116 a 118. In Sicilia le vipere e gli scorpioni sono assai più rari e men letali che in Affrica, Egitto ed Oriente.
1134Libro de Agricultura, su autor… ebn el Awam Sevillano, versione spagnuola di Banqueri, col testo arabico, Madrid, 1802, in folio, tomo II, p. 193 e 231. Si tratta d'una specie di popone, detta in arabico Nefâq, credo quel che in Sicilia si dicono meloni da tavola, ovvero i meloni d'inverno.
1135“Nuara” (in arabico nowâr, secondo Ibn-'Awwâm, tomo II, p. 213) si addimanda l'aja di poponi, zucche, cocomeri; “vaitali” (ar. batîl) il rigagnolo dei giardini: “gebbia” (ar. giâbia), un gran serbatoio d'acqua per irrigare gli orti ec.
1136La malvetta rosata, come la chiamiamo in Sicilia, è il Pelargonium radula roseum dei botanici.
1137Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 296.
1138Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 418.
1139Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 104.
1140Kitab-el-Felaha, d'Aba-abd-Allah-Mohammed-ibn-Hosein, citato da M. Cherbonneau in una Memoria su la Culture arabe au moyen-âge negli Annales de la Colonisation algérienne, giugno 1854.
1141Diploma del 1140, pel quale si concedono alla Chiesa di Catania “duas terras ad bombacea” presso De Grossis, Decacordum, tomo I, p. 77. Edrisi nota che il cotone si coltivava in gran copia a Partinico.
1142Ibn-Sa'id, Kitâb-el-Badi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 137, e Mokhtaser Gighrafia, op. cit., p. 134, con la correzione a p. 43 dell'introduzione, ove si tratta di Pantellaria.
1143Fazzello, Deca I, lib. I, cap. 1.
1144Abu-Mehasin, Storia d'Egitto, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 660, fog. 103 recto, facendo parola di Rascida e Abda figliuole di Moezz, nate innanzi il 972 e morte sotto il regno di Hâkem (996-1021), dice aver la prima lasciato il valsente d'1,700,000 di dinâr, in drappi di varie sorte e profumi, e la seconda un moggio di smeraldi, tanti quintali d'argento ec., e trentamila scikke (o sciukke) siciliane. Questa voce significa taglio d'abito, nè sappiam se sia nome generico ovvero appellazione speciale di questo drappo. Se in quelle cifre si sente l'odor delle mille e una notte, il cronista ch'ebbe alle mani Abu-Mehasin, non inventò quella maniera di drappo. D'altronde abbiam fatto cenno del gran lusso degli Zirîti in Affrica: e le ricchezze dei despoti son talvolta di quelle verità verissime che han sembiante di favola.
1145Si vegga il cap. XI del Lib. III, p. 230 di questo volume.
1146Si chiama volgarmente Calatrasi. Tirazi vuol dire artefice del tirâz, ossia opificio regio delle vesti di seta ricamata. Si vegga su questo indizio di Kalat-et-Tirazi una nota nell'erudita opera di M. Francisque-Michel, Récherches sur les étoffes de soie au moyen âge, Paris, 1852, in 4º, tomo I, p. 77, al quale io ho dato questa notizia e in cambio ne toglierò cento, spigolate nelle antiche poesie francesi, che serviranno a illustrare questa industria siciliana nel XII e XIII secolo.
1147Si vegga la p. 443.
1148Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.
1149Op. cit., p. 480, 488.
1150Si vegga il cap. II di questo Libro, p. 247, seg.
1151Ho dato il testo di quel paragrafo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 10.
1152Edrisi, Géographie, versione di M. Jaubert, tomo II, pag. 266 e 69. In quest'ultimo luogo M. Jaubert non so perchè abbia preferito la variante Fîlâna.
1153Keitûn nel dialetto, arabico di Siria ed Egitto, vuol dire, ripostiglio o magazzino. Viene dal greco Κοιτὼν che, dal significato primitivo di letto, passò a quelli di camera, albergo, e, presso i Greci del medio evo, guardaroba e stazione di navi: i quali si veggano nella nuova edizione del Thesaurus di Enrico Etienne.
1154Si vegga il fine del presente capitolo.
1155Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, d'aprile, p, 607.
1156Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 842.
1157Io pubblicai questa iscrizione nella Revue Archéologique di Parigi, del 1851, p. 669, seg. Alcuni eruditi palermitani vorrebbero mantenere alla Cuba un altro secolo o due d'antichità, supponendo l'iscrizione più moderna dell'edifizio. Ma non riflettono che la non è incisa in lapide, ma proprio scolpita in giro delle mura, senza vestigie di racconciamenti.
1158Girault de Prangey, Essai sur l'architecture arabe, Paris 1841, tavola XIII, nº 3, 4.
1159In una colonna della cattedrale di Palermo, presso il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 137.
1160In due iscrizioni sepolcrali presso Di Gregorio, op. cit., p. 146, 152.
1161V'ha l'eccezione delle effigie d'uomini e animali in qualche monumento, come i lioni dell'Alhambra ec. Ma in Sicilia non se ne vede alcun esempio. I mosaici d'animali nella sala della Zisa in Palermo, appartengono ai tempi normanni.
1162Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 302, seg., del volume.
1163Si vegga il cap. IV di questo Libro, p. 274.
1164Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 188, ne diè un disegno preso ad occhio, come si usava al suo tempo, e ridotto, nel quale ei confessò non poter leggere che qualche sillaba; ed io stento anche a questo. Si vegga, del resto, la nota della pagina precedente. Il disegno di poche lettere che veggiamo nell'opera citata di Girault de Prangey, Essai ec., mostra la bellezza dei caratteri e la trascuranza di chi li avea ritratti prima. L'amico Saverio Cavallari che mi ragguagliò qualche anno addietro della distruzione dei caratteri, n'avea fatto altra volta un disegno che fin qui non ci è riuscito di trovare.
1165Si ricordi che il miglior disegno è quel pubblicato dal Fazzello.
1166Il conte Annibale Maffei vicerè di Sicilia li tolse di Palermo e recò a Verona. Scipione Maffei pubblicò le iscrizioni nel Museo Veronese, p. 187, e indi il Di Gregorio nel Rerum Arabicarum, p. 146 a 149. Alla interpretazione attesero G. S. Assemani e il Tychsen. Son le solite formole e brani del Corano, coi nomi proprii; l'uno dei quali mi par vada letto Ibrahim-ibn-Khelef-Dibâgi (in vece di Ibrahimi filii Holaf Aldinagi), morto il 464 (1072); e l'altro è Abd-el-Hamîd-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Scio'aïb, morto il 470 (1078). Secondo il Lobb-el-Lobâb di Soiuti, l'appellazione Dibagi, vuol dire “operaio di seterie,” ed era anche nome patronimico nella discendenza del califo Othoman-ibn-'Affân.
1167Presso Di Gregorio, op. cit., p. 144 e 152, il quale tolse l'interpretazione da quelle pubblicate dall'abate De Longuerue e da Adriano Reland. La prima dà il nome dello sceikh e giurista sagacissimo Ahmed-ibn-Sa'd-ibn-Mâlek-(ibn-Abd?)el-'Azîz bisognoso (dell'aiuto) del Signore (non Gubernatoris jurisperiti sapientis Ahmedis filii Saad ben el Malak potentissimi qui pauperis instar est erga dominum suum), morto il 413, (1023); e la seconda di Mohammed-ibn-Abi-Se'âda (non filii ebn Saadh) morto il 444 (1052 non 471, ossia 1079). Le quali iscrizioni non ben disegnate nè ben trascritte in caratteri arabici, e però male interpretate, o furon tolte di Sicilia o Reggio, o provano il soggiorno e morte nei dintorni di Napoli di due Musulmani di Sicilia, Affrica o Spagna, che vi fossero andati, il primo forse per faccende pubbliche o rifuggito, e il secondo per mercatura.
1168Presso di Gregorio, p. 164, 165, 166. I due primi non si possono interpretare senza più esatti disegni. Nell'ultimo, il secondo rigo, mal deciferato dal Di Gregorio, nè ben corretto da Fraehn, Antiquités Mohammed., tomo I, p. 15, va letto: (Iddio vivente) “stante” e poi la sentenza del Corano, sura XXXII, v. 21, (voi avete) “nell'inviato di Dio, un bel conforto. Questo è il sepolcro d'Abu-Bekr…”
1169Presso Di Gregorio, p. 171, il quale sbagliò tutto, fuorchè una formola e la data. Va letta così: … (Benedica) Iddio al profeta Maometto e sua schiatta… (Chi spende il proprio avere in servigio) di Dio, fa come l'acino di frumento, dal quale germoglian sette spighe… (Iddio prospera) cui vuole: immenso egli è e sapiente [sura II, verso 263]… (sepolcro di)… ibn-Hosein, Rebe'i (?), Fâresi… morto… l'anno 417 (1026).
1170Presso il Di Gregorio, p. 141. La leggenda mal trascritta dal Di Gregorio è “Nè (spero) aiuto che in Dio,” sentenza tolta dal Corano, sura XI, verso 90.
1171Pubblicata da Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze, tomo II, p. 25.
1172Un lucido di questa iscrizione ch'era messa da architrave in una finestra, mi fu mandato il 1853 dai signori Agostino Gallo e Saverio Cavallari. Sendo inedita, mi par bene darne la versione: “In nome del Dio clemente e misericordioso; che Iddio benedica al profeta Mohammed e sua schiatta. “Ogni anima assaggerà la morte, nè avrete vostro guiderdone che il dì della Risurrezione. Chi sarà campato dal fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà allor felice: perchè la vita di quaggiù non è altro che roba d'inganno.” [Sura III, v. 182.] Questo è il sepolcro di Oma-er-Rahman (cioè la serva di Dio) figliuola di Mohammed, figlio di Fâs; la quale morì il primo…”
1173Presso Di Gregorio, op. cit., p. 138 e 140.
1174Op. cit., p. 141. Il Di Gregorio lesse male l'ultima frase, nè credo ben l'abbia corretta il Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze ec. Parigi, 1845, tomo II, p. 24, tavola XV. Parmi si debba leggere thikati Allah, “La mia fidanza (è) Dio.”
1175Presso Di Gregorio, op. cit., p. 131. Non si può deciferare sul rame che ne pubblicò il Di Gregorio con la interpretazione di Tychsen. Ma di certo non v'ha una sillaba del verso 55 (si corregga 52) della sura VII, che credette leggervi il professore di Rostock.
1176Mi fu mandata a Parigi il 1844 dal principe di Granatelli. Il lato leggibile è a dritta di cui guardi. Nei due primi righi son le formole; nel terzo, un frammento della sura XXXVIII, verso 67; nel quarto “… sepolcro del cadi Kkidhr…;” il quinto e sesto non si scorgono bene; nel settimo “… di Dio sopra di lui (morto) il venerdì cinque…;” nell'ultimo: “quattro e novanta e…” mancando il secolo che sarebbe il quarto o quinto della egira (1003, o 1100). A destra e sinistra corrono due righi perpendicolari a mo' di cornice, che non ho potuto leggere.
1177Presso il Di Gregorio, op. cit., p. 154. La lezione e interpretazione di Tychsen, date dal Di Gregorio, difettano in molte parti, e sbagliano la data ch'è pur chiarissima. Ecco come leggo questa iscrizione, mettendo tra parentesi le parole da supplirsi, e indicando con punti le altre che mancano: “(In nome di Dio) clemente e misericordioso, (e benedica Iddio ec.) (Dì loro: Grave annunzio; e voi ne ri-)fuggite [sura XXXVIII, verso 67, 68]. Questo è il sepolcro dello sceikh… il Kâid egregio Abu-Hasan-Ali figliuolo del… il giusto, e benedetto il trapassato Abu-Fadhl… (figlio del)… e benedetto il trapassato Abd-Allah, figlio di Moha(mmed)… (figlio del)… e benedetto il trapassato Ali, figlio di Tâher… (che sia benigno) Iddio a lui. Il quale morì la notte del giovedì, cinque del mese… (e fu sepolto?) il venerdì, l'anno trecento cinquantanove (969-70)… (morì attestando non esservi altro Dio) che Allah ed essere Maometto l'inviato di Dio.” L'errore che notai nel testo è di porre il nominativo Abu in luogo del genitivo abi nei due luoghi dove occorre.
1178Si ricordi l'avvertenza fatta nella Introduzione, p. XVI e XXIV.
1179Si vegga il Lib. I, cap. III, V e VI, ed il Lib. III, cap. I, p. 283, 284, 296, 297, 321 del volume I, p. 5, 6 di questo volume, e s'aggiungano le seguenti: Oro, anno 268, (881-2) di grammi 1,05 nel Museo di Parigi. In fin della leggenda del rovescio parmi leggere la voce robâ'i. Si confronti con quella simile pubblicata da Castiglioni e notata da Mortillaro, Opere, tomo III, p. 352, nº IX. Oro, anno 295, (907-8) di grammi 4,25 nel Museo di Parigi col nome del parricida Abu-Modhar-Ziadet-Allah. In queste monete non si legge il nome di Sicilia, ma i dotti le credono siciliane dall'opera. Le altre monete aghlabite di Sicilia notansi dal Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, seg., nº I a XII.
1180Si vegga il catalogo nelle opere di Mortillaro, tomo III, p. 357, seg., dal nº XIII all'LXXXIX. Quivi l'ultima con data dell'anno e del paese è del 439, (1047-8). A queste 77 monete sono da aggiugnere le seguenti:
1181Il Mortillaro, vol. cit., p. 176, seg., 339, 340, citando il Tychsen ed altri, ha sostenuto quest'uso dei vetri improntati; e mi par s'apponga al vero. Ei nota, anche a ragione, la mancanza assoluta di monete arabiche di rame battute in Sicilia; alla quale non credo si possa opporre la moneta pubblicata dal principe di San Giorgio Spinelli, Monete cufiche dei principi longobardi ec., p. 31, nº CXXX. Prima, perchè non v'ha data di anno nè di luogo; e secondo, per essere molto dubbia la leggenda Emir-el-Mumenîn che l'autore credè scoprirvi. Resta a trovare il paese e l'età in che fu coniata questa e altre monete di rame, certamente musulmane, che il principe di San Giorgio dà nella tavola IV.
1182Nei varii MSS. questa voce è scritta senza mozioni. È da leggere o la prima vocale, come in aggettivo numerale distributivo che nel nostro caso significa “di quei che vanno a quattro” (in un dinâr) proprio il latino quaterni. Ho fatto già parola di questa sorta di moneta siciliana, nel cap. VII del presente libro, p. 334 del volume. Le autorità sono, in ordine cronologico: 1º Ibn-Haukal, Geografia, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 11, secolo X; 2º Ibn-Khallikân nel luogo che cito al cap. VIII, p. 334, il qual autore trascrive le parole d'Ibn-Rescik, che visse nell'XI secolo, ma riferiva un fatto del X; 3º Ibn-Giobair, stessa citazione, XII secolo; 4º diploma arabico di Sicilia del 1190 presso Di Gregorio, De supputandis apud arabes temporibus, p. 40, 42. Una trentina di dinâr d'oro, tra omeiadi e abbassidi, che ho pesati nel Museo di Parigi, sono per lo più di 4 grammi traboccanti. Dieci dinâr fatemiti d'Egitto mi han dato lo stesso risultamento: il migliore arriva a grammi 4,35, e il più scadente a grammi 3,45.
1183Ne diremo più distesamente nel sesto Libro.
1184Il singolare nei detti diplomi è tare.
1185Regii Neapolitani Archivii Monumenta, Napoli, 1845, seg., in 4º. Il tari vi occorre per la prima volta in un diploma di Gaeta del 909, tomo I, parte I, p. 9, dove si vegga l'erudita nota degli editori. Poi negli atti privati stipolati a Napoli infino al mille, i prezzi son pagati per lo più in tari d'oro. Nel documento CCXL, anno 996, dato di Napoli, tomo II, p. 143, si legge “auri solidos XIII de tari ana quadtuor tari per unoquoque solidos,” la quale proporzione è replicata, con più o meno errori di grammatica, nei documenti CCXXXIII, anno 993, p. 129, e CCLV, anno 977, seg., 178. Si vegga anche il diploma del 1076 dell'Archivio della Cava, citato da M. Huillard-Breholles, nelle Recherches sur les Monuments et l'histoire des Normands etc. dans l'Italie Méridionale, publiées par les soins de M. le duc de Luynes, p. 166, dove si fa menzione di soldi d'oro, ciascun dei quali tornava a quattro tari di moneta d'Amalfi.
1186Monete cufiche battute dai principi longobardi ec. interpretate… dal principe di San Giorgio Domenico Spinelli. Nella prefazione dell'erudito signor Michele Tafuri, p. XXII, seg., si accenna la lega inferiore a quella di Sicilia; e in una nota, p. 227, la differenza dei caratteri. Le monete di cui trattiamo son le prime trenta della raccolta. Il peso varia da 18 a 23 acini di Napoli, cioè da 0,80 ad un grammo. Debbo aggiugnere che, accettando le conchiusioni generali dei dotti editori, non son d'accordo in tutti i particolari. Per esempio, varie leggende non mi sembrano ben trascritte; non tengo punto provata la cronologia che distribuisce coteste monete ai principi di Salerno; nè che tutte sieno state coniate in Salerno. Ve n'ha forse d'Amalfi; e forse è di Napoli il nº XXVII.
1187Il dal arabico è suono partecipante della d e della t; e trascrivendolo in latino o greco, si rendea sempre con la t: per esempio da dâr-es-sen'a, “tarsianatus,” donde noi abbiam fatto “arzana' e arsenale.”
1188Il dirhem, peso, parte aliquota dell'ukîa (uncia) e differente secondo i paesi, si adoperava esclusivamente per l'argento. Dal peso in argento nacque la denominazione di moneta ch'era usata fin dai tempi di Maometto; e rimase sola moneta nisâb, ossia legale, in che si ragionava la decima, il prezzo del sangue ec. Il dirhem, moneta effettiva, fu poi diverso. Or il robâ'i tornava a tre dirhem nisâb, poichè il dinâr si ragionò dodici. Naturalmente gli Arabi di Sicilia, nel commercio, chiamavan quella moneta d'oro “un tre dirhem,” e nell'uso bastava dire trâhîm al plurale. Il vocabolo tari, introdotto in tal modo presso gl'Italiani di Napoli e poi presso i Normanni e Italiani di Sicilia, restò denominazione di moneta d'oro; mentre da un'altra mano i Normanni di Sicilia, usando il sistema degli Arabi, ebbero il dirhem moneta ed anche il dirhem, o tari, peso di argento. Indi la voce tari-peso o trappeso. Spariti con la dinastia normanna i tari d'oro, la voce tari restò come denominazione di peso e moneta d'argento. Gli eruditi del secolo passato arrivarono, dopo molti errori e ricerche, a distinguere i tari dei diplomi antichi da quei che aveano alle mani e che valeano quasi la quarta parte dei primi, cui chiamarono per questo tari d'oro. Il dotto Conte Castiglioni sbagliò, come parmi, negando cosiffatta etimologia della voce tari.