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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

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Correndo la prima metà del decimo secolo, nacque a Castronovo, nel bel mezzo delle colonie musulmane e dicesi di ricchi genitori, Sergio e Crisonica, un Vitale; il quale educato nelle lettere sacre, ma amando poco lo studio, andò a chiudersi nel Monastero di San Filippo d'Argira. Con altri frati passò a Roma, dice l'agiografia, senza aggiungere il tempo nè il perchè, ai quali noi ci possiamo apporre; e sarebbe per avventura la raccontata vicenda del novecentosessanta, quando una man di Musulmani avesse preso a stanziare nella patria di Diodoro Siculo ed occupato i beni di San Filippo. Fatto per via un miracoluccio a Terracina, e da Roma tornato addietro ad un romitaggio presso Sanseverina di Calabria, San Vitale ripassò in Sicilia, visse d'erbe salvatiche ben dodici anni nelle solitudini dell'Etna, in faccia dell'antico suo chiostro. Ripigliato alfine il cammin della Terraferma, mutò stanza otto o nove fiate tra Calabria e Basilicata; s'abboccò ad Armento con San Luca di Demona che levava grido in quelle parti; e fatto venir di Sicilia un suo nipote per nome Elia, fondò un monastero presso Rapolla, ove morì, come credesi, il nove marzo novecentonovantaquattro. Dei molti prodigii che gli si appongono in vita e in morte, è da notar quello del monastero di Sant'Adriano, dove piombati i Musulmani di Sicilia, i frati fuggirono, fuorchè San Vitale; cui fattosi incontro un Saraceno dispettoso del non aver trovato danari nè bestiame, e tirato a tagliargli la testa, Vitale fe' il segno della croce; una folgore strappò la scimitarra di mano al barbaro e lo atterrò semivivo; se non che il Santo lo facea rinvenire. Trent'anni dopo morte, il corpo di San Vitale fu rubato ai monaci di Rapolla da quei di Turi,996 il cui vescovo recosselo in città come palladio contro gli immondi Agareni di Sicilia che tornavano a dare il guasto alla Basilicata. Di cotest'agiografia, scritta da un Greco contemporaneo, abbiam la sola versione latina che ne fece fare alla fin del duodecimo secolo Roberto vescovo di Tricarico; nella quale la critica può sol rigettare i fatti che trapassano gli ordini della natura.997

Lo stesso parrà della vita di San Luca da Demona, dettata da un discepol di lui così semplicemente che i prodigii cadon dassè e spicca l'opera d'un uom di questo mondo, sagace, affaticante, animoso, ambiziosuccio, ma a buon fine. Si dice al solito nato di parenti nobilissimi, Giovanni e Thedibia; entrato nel monastero di San Filippo d'Argira; passato di lì a Reggio, per apprendere da un Elia, venerabile romito, le discipline dei Santi Padri: ch'ei compitava appena l'ofizio, ma la pratica d'Elia e particolare grazia del Cielo, prosegue l'agiografo, gli apriron la mente ad ogni dottrina, fino i misteri delle sottilità filosofiche. Lesse senza nebbia nell'avvenire che s'aspettavan di nuovo i Saraceni, strumento della vendetta celeste su la Calabria; onde uscito di sua spelonca si messe a predicar contro i peccatori; trascorse fino a Noja, dove soggiornò sette anni in una basilica. Rincrescendogli poi l'aura popolare, se ne andò su le sponde dell'Agri, a fabbricare il monastero di San Giuliano; gli raccapezzò qualche poderetto per carità dei fedeli; fece scomparir, non si sa come, un Landolfo possessore vicino, invidioso della prosperità dei frati; e correndo sempre incontro alla fama, ch'ei facea le viste di fuggire, diessi ad esorcizzare demonii, a sovvenire i poverelli, a curare i malati con impiastri e medicine, scrive l'agiografo, per nascondere la virtù del miracolo. Finchè, al tempo di Niceforo imperatore, calato dalle Alpi un feroce che si messe a depredare le città greche d'Italia,998 San Luca e suoi frati, e tra quelli lo scrittore, ripararono ad un castello vicino. Poi vergognando di vivere a casa de' laici, San Luca adocchiò tra le rupi d'Armento un sito da potersi afforzare senza fatica, e v'innalzò un altro monastero, che fu come l'acropoli d'una colonia basiliana, di tanti chiostri minori e romitaggi e cappelle, sparsi nella provincia, fondati la più parte da San Luca, lavorandoci fin di sua mano; dei quali lo riconobbero abate, e veramente fu capitano. Perchè una volta venuti i Musulmani di Sicilia a dare il guasto, s'erano attendati alla pianura presso una cappella e profanavanla e scorreano i dintorni, riportandone gran tratta di prigioni incatenati. San Luca scortili dall'alto della rôcca, intona i salmi; ritto in su la porta del chiostro fa la rassegna; arma i frati più gagliardi, lascia i deboli in presidio: e con la croce in mano, conduce il bruno stuolo sopra i nemici; i quali si sbaragliarono, gittaron le armi al súbito assalto ed alla vista del Santo, che loro apparve sul mitico destrier bianco, raggiante di luce. Ma ciò non tolga fede alla valente fazione. Con pari animo andò girando ad assistere da medico e padre spirituale i frati della colonia, mentre ardeavi spaventosa moría. Venuta poi di Sicilia a visitarlo una sorella sua per nome Caterina, madre di due altri santi Antonio e Teodoro, fondò presso Armento un monistero di donne. Talchè salito San Luca al sommo della fama claustrale, morì il tredici ottobre novecentonovantatrè, non pur vecchio, s'egli è vero che lo compose nella fossa quel medesimo San Saba stato suo superiore a San Filippo d'Argira. Del quale, nè dei due nipoti di Luca, non si fa memoria altrove, nè si sa come abbiano meritato l'appellazione di santi.999

Similmente s'illustrò in Terraferma, e ci è noto per gli scritti d'un greco di Calabria, San Filareto, del quale accennammo nella guerra di Maniace. Nato di schiatta greca, forse a Traina,1000 mandato a scuola appo un sacerdote, delibò degli studii quanto gli parve abbastanza, dice l'agiografo: giovane frugale, mansueto, assiduo in chiesa, aiutava a lavorare i poderetti paterni e vide la liberazione e il subito precipizio dei Cristiani di Sicilia. Perchè passata la famigliuola a Reggio, indi a Sinopoli, e messosi col padre agli altrui servigii in campagna, gli stenti della vita, la lontananza dalla patria profondamente sbigottirono quell'animo tenero e malinconico. Sperando pace nel chiostro e non sapendo lasciare il padre e la madre, egli unico figliuolo; dopo lunga perplessità lor si fece innanzi, si gittò ginocchioni, svelò il proponimento; ed assentitogli, ruppe in lagrime baciando mani e piedi ai genitori. A venticinque anni proferì i voti nel monastero di Aulina tra Seminara e Palmi, fondato da Sant'Elia di Castrogiovanni,1001 del quale poi solea leggere assiduamente e contemplare la vita; ma nè l'indole sua, nè le condizioni delle cose lo portavano ad imitare il missionario demagogo del nono secolo. Nell'adunanza dei frati solennemente gli furon vestite, dice l'agiografo, le armadure simboliche, la tunica usbergo di carità, il mantello scudo di fede, il cappuccio elmo di speranza, il cingolo freno contro libidine; impugnò a guisa d'asta la croce: e mutato il nome di Filippo in Filareto, dato a tutti il bacio fraterno, lo messero a guardare gli armenti del monastero. Durissima vita a chi era avvezzo a qualche agio ed un po' allo studio.1002 Si sobbarcò pur lietamente; fu specchio d'obbedienza monastica, di pietà, di buoni costumi; e non fece miracoli mai: se non che due anni dopo morte, una luce che usciva dalla sepoltura v'attirò i devoti, indi i malati; e cominciarono le guarigioni miracolose. Era morto Filareto di cinquant'anni, verso il millesettanta. Un piccino, gracile, dal volto ovale, scuro e pallido, dagli occhi azzurri e poca barba, tardo al parlare. Così lo dipinge il monaco Nilo, il quale in tutta l'agiografia ora ripete, or dice passar sotto silenzio i particolari che gli avea sentito raccontare, su le cose domestiche e pubbliche al tempo di sua gioventù. Candide tradizioni, su le quali il compilatore incollò una rettorica nè bella nè brutta, una pietà verbosa ma non ciarlatana, che l'una e l'altra agevolmente si staccano; e ne rimane quel buon documento storico che ci è occorso e ci occorrerà tuttavia di citare.1003

 

Così gli scuri sembianti d'Ippolito e Prassinachio, lo zelo claustrale di Luca di Demona e Vitale da Castronovo, e la rassegnazione di Filareto rispondono alle tre vicende principali della opinione pubblica appo i Cristiani di Sicilia dal principio del decimo secolo alla metà dell'undecimo. Delle altre agiografie di questo tempo, è spuria, a detta degli stessi Bollandisti, quella di Santa Marina.1004 La leggenda di San Giovanni Therista, non regge alla critica: tanti casi da romanzo intessuti sopra un anacronismo.1005 Non meno maravigliose e pur son verosimili e cavate in parte da buone autorità, le avventure di San Simeone, che nacque a Siracusa nella seconda metà del decimo secolo, di padre bizantino e madre calabrese, e morì a Treveri il mille trentaquattro. Soggiornò in Sicilia infino a sette anni, quando il padre per dovere di milizia passava a Costantinopoli, dice la leggenda; e però sembra soldato fatto prigione nella guerra di Manuele Foca, liberato per riscatto. Forse il parlare arabico che il fanciullo avea appreso in Sicilia, lo spinse, fatti ch'ebbe gli studii in Costantinopoli, ad andare a Gerusalemme: ove s'infiammò delle geste dei padri del deserto, volle vivere or frate ora romito a Betlem, al Giordano, al Sinai, in una grotta del Mare Rosso; la comunità del Sinai poi mandollo a riscuotere le grosse limosine che le solea porgere Riccardo conte di Normandia. Così venne a Rouen, dove trovando morto Riccardo (1026) e gretto il successore, passò a Treveri; ed acconciatosi con l'arcivescovo, mostrò a que' buoni Tedeschi esempio di penitenza orientale, chiudendosi tutto solo nella vecchia torre di Porta Negra, ritrovo dei dimonii. Gli assalti dei quali per tanti anni, dì e notte, respinse con sue preci; e si comprende. Ma dopo una inondazione che disertò il paese, accorsa la plebe co' sassi in mano chiamando a morte il frate incantatore della torre, Simeone non se ne mosse più che dei dimonii: proseguì a recitar l'ofizio tanto che i preti racchetarono quel furore. Dopo morte preti e plebe a gara gli attribuirono miracoli. Di certo col dir ch'ei facea delle calamità di Terrasanta, e con quel suo strano tenor di vita in Normandia e in Germania, Simeone da Siracusa fu un dei mille mantici della Crociata.1006

Dal detto fin qui si vede che il Cristianesimo si ristrinse e rattiepidì in Sicilia sotto la dominazione musulmana; ma non ne venne a mancare giammai1007 la credenza nè il culto palese. L'attesta un autore arabo dell'undecimo secolo, con dir preciso che “s'eran fatti musulmani la più parte degli abitatori.”1008 Che se Urbano secondo, nella bolla del millenovantatrè, lamentava la religione spenta nell'isola per tre secoli, non volea significar altro che la misera condizione della Chiesa siciliana e il picciol numero dei Fedeli, se tali pur gli pareano quei di rito greco.1009 Sembra privo d'ogni fondamento il supposto che i Cristiani di Sicilia al conquisto normanno fossero i venuti al tempo di Maniace, poichè questi condusse soldati, non coloni; e i soldati, come si è detto, non tardarono a ripassare in Terraferma.1010

All'incontro la libertà del culto si deve intendere entro i limiti osservati in generale negli Stati musulmani;1011 senza persecuzione o pur insolito rigore, di che non v'ha alcun indizio in Sicilia dal principio alla fine della dominazione musulmana. Ma va messo in forse, come affermazione di cronica moderna e zeppa di errori, che un principe musulmano dell'isola accordasse ai Cristiani di celebrare pubblicamente gli oficii divini e recare l'eucaristia ai moribondi.1012 Va rigettata ritondamente la istituzione d'una confraternita nella chiesa di San Michele del monistero delle Naupactitesse in Palermo, l'anno mille e quarantotto, nella quale fossero ordinate processioni ogni mese e festa annuale ed esequie solenni dei confratelli morti. Il diploma di rinnovazione di quegli antichi statuti, che è serbato nell'archivio della cappella palatina di Palermo, non fa menzione della città, nè il nome topografico che vi occorre1013 appartiene a Palermo nè ad altra terra di Sicilia. Anzi le preghiere da farsi per gli “ortodossi imperatori e il santissimo patriarca e metropolitano” mostrano che il paese ubbidisse all'impero bizantino. Forse Bari o altra città dell'Italia meridionale, dove nelle guerre di re Ruggiero qualche capitano bibliofilo diè di piglio a questo ruolo di pergamena in capo al quale vedea luccicare una Madonnetta bizantina su fondo d'oro.1014

 

CAPITOLO XII

Siam pervenuti adesso al tratto più oscuro di queste istorie. Dopo la esaltazione dell'emiro Iûsuf gli annali arabici della Sicilia cambiano stile; le sorgenti impoveriscono; e pur si tien dietro al racconto sino alla occupazione di Moezz.1015 La guerra di Maniace, passata sotto silenzio dai Musulmani, si ritrae tanto o quanto dai nemici loro. Ma nei venti anni che corsero tra la cacciata dei Moezziani e la sconfitta d'Ibn-Thimna, il nesso degli avvenimenti si spezza; appena v'ha un cenno dell'anarchia seguíta in Sicilia, e più lungo racconto dell'ingiuria di Meimûna che affrettò l'ultima catastrofe. Le notizie biografiche degli uomini di lettere, ancorchè abbondino in quel tempo, dan poco lume su la storia politica. È forza dunque aiutarci a conghietture; adoprare spesso quella forma dubitativa sì spiacente nella storia, sì audacemente scansata dai maestri antichi, per amor dell'arte.

Spento Akhal, rimasa la Sicilia ad arbitrio d'Abd-Allah-ibn-Moezz, ed assalita al medesimo tempo da Maniace; non è dubbio che Moezz, per difendere il nuovo acquisto v'abbia mandato d'Affrica quante forze ei potea. Torme di Berberi, dunque, amiche e non amiche a casa zîrita, adescate con un po' di denaro e molte speranze; masnadieri senza disciplina, di quei che dieci anni dopo, assaliti in casa loro dagli Arabi d'oltre Nilo, spulezzarono trentamila contro tremila alla prima battaglia.1016 Non fecero miglior prova nella giornata di Traina, mescolati con gli Arabi di Sicilia, ch'eran tratti a forza, e lor cominciava a puzzare la dominazione affricana. La strana fuga d'Abd-Allah di fianco verso la marina e indi per nave a Palermo, dimostra l'esercito, non che scompigliato, ammutinato, minacciante l'infelice capitano. Senza ciò, per codardo e inesperto che fosse costui, spronava per la più corta alla capitale, con la speranza di rannodare le genti, in tre o quattro giornate di cammino tra castella e luoghi fortissimi per natura.

Scoppiaron al certo dopo la rotta di Traina nelle milizie siciliane, nella cittadinanza di Palermo e d'altri luoghi del Val di Mazara, le querele che gli annali arabici portan dopo la morte di Akhal, senza l'appunto del tempo, luogo e causa prossima;1017 ma v'ha quella stampa di costernazione d'un popolo che vegga il subisso. Altercavano i Musulmani di Sicilia, avversarii e partigiani di Moezz, rinfacciandosi reciprocamente: “Voleste mettervi in casa gli stranieri! Per dio! che l'è finita bella: ecco il frutto dell'opera vostra!1018” E pentiti gli uni e gli altri, si univano ai danni d'Abd-Allah. Si venne al sangue in Palermo, col presidio o con alcuna schiera leale che tornasse di Traina: il figliuolo di Moezz, perduti ottocent'uomini1019 nella zuffa, si gittò coi rimagnenti su l'armata; e scampò in Affrica. I sollevati rifecero emiro Hasan, soprannominato Simsâm o Simsâm-ed-Dawla (Brando dell'Impero), fratello di Akhal;1020 forse quel desso che cinque anni innanzi s'era ribellato coi Siciliani contro il fratello.

A salto a salto, gli annali arabici continuano dopo la esaltazione di Simsâm, che la Sicilia si sconquassò; ch'uomini di vil condizione, di qua, di là, detter di piglio al comando.1021 Il Kâid Abd-Allah-ibn-Menkût s'insignoriva di Trapani, Marsala, Mazara, Sciacca e di tutte le pianure occidentali; il Kâid Ali-ibn-Ni'ma, soprannominato Ibn-Hawwâsci, di Girgenti, Castrogiovanni e Castronovo con lor distretti.1022 La costiera settentrionale e l'orientale, ch'abbandonaron ultima i Bizantini, par abbian seguíta la sorte di Palermo;1023 se non che il Kâid Ibn-Meklâti occupò Catania qualche anno appresso.1024 La capitale si resse a nome di Simsâm; poi lo cacciò via; e gli sceikhi, ch'è a dire i notabili municipali, presero lo stato.1025 Questo fu il primo periodo dell'anarchia, cominciato con la cacciata di Abd-Allah-ibn Moezz il quattrocentotrentuno (22 settembre 1039 a 9 settembre 1040), chiuso con la deposizione di Simsâm, com'e' pare, l'anno quattrocentoquarantaquattro (2 maggio 1052 a 21 aprile 1053) che una cronologia assegna a termine della dinastia kelbita di Sicilia.1026

Si narra che nel medesimo tempo, l'anno al giusto non sappiamo, combattuta Malta dai Bizantini, ridotti i Musulmani a tale, che il nemico volea da loro tutte le facoltà e le donne; ragunaronsi, considerarono il numero degli schiavi ecceder quello degli uomini liberi; e trassero l'ultimo dado. Profferiscono alli schiavi l'emancipazione e il partaggio dei beni, s'e' vogliono armarsi coi padroni e tutti insieme vincere e godersi la libertà, o morire. A che assentendo gli schiavi, gli uni e gli altri in una sola falange fecero impeto su i Bizantini; li ruppero e cacciarono dall'isola: e dopo la vittoria si compiè la riforma promessa; il nuovo popolo di Malta si ordinò con sì bella concordia, e indi tanta forza in picciola massa, che i Cristiani non osarono assalirlo mai più. Scrivea così un contemporaneo; al quale si potrebbe credere cotesto esempio di felice prudenza senza accettarne tutti i particolari. I nemici erano al certo schiera spiccata dall'esercito di Maniace. Il partito fu preso pubblicamente quando i Bizantini occupate le campagne di Malta strignessero d'assedio la città; o piuttosto nacque in una cospirazione dei Musulmani, soggiogati innanzi il mille quaranta, e sollevatisi appresso, ad esempio della Sicilia.1027

Dove la cacciata dei Bizantini avea dato anco la pinta all'ordine sociale ingiusto e mal fermo, surto dal conquisto musulmano; ma nell'isola piccina lo si racconciò patriarcalmente con una riforma; nell'isola grande gli elementi più complicati, diversi secondo le regioni ed aizzati già dalla guerra civile, non potendo accordarsi, scissero il paese in più Stati. A misura che sgombravano i Bizantini, i Musulmani sottentrarono confusamente. Qui la moltitudine occupò senza trar colpo il castello afforzato e poscia abbandonato dal nemico; là avventossi contro picciol presidio e fecelo in pezzi; a tal altro luogo corse una frotta di disertori berberi dell'esercito di Moezz, o uno stuolo di giund siciliano con la bandiera di Simsâm o senza. Così dobbiamo affigurarci il racquisto della più parte dell'isola, che i Musulmani credean fare di propria virtù, ed era la stoltezza della corte bizantina, la quale gittò in carcere Maniace; era la mente d'Ardoino e la spada delle compagnie italiane e normanne che sbarattavano le schiere greche, come ripassavano il Faro ad una ad una. I legami tra capitale e province spezzati dalla occupazione bizantina; quei degli antichi Musulmani coi nuovi, ossia dei nobili coi popolani, spezzati dalle arti d'Akhal e dal mutare e rimutare i giund per sei anni continui,1028 le plebi corse alle armi, fatte conquistatrici ciascuna dassè; i corpi franchi di Berberi; la rabbia di Siciliani ed Affricani ridesta necessariamente quando fu scosso il giogo zîrita; quello scompaginamento sociale; quell'autorità monarchica rimessa su in un tumulto senza forze proprie nè entrate, toglieano ai Kelbiti ogni modo di rassettare la cosa pubblica. La sconfitta di Simsâm, o certo dello esercito sotto le mura di Messina,1029 dileguò la speranza se alcuna ne rimanea. L'emiro che i Bizantini dicono ucciso, e per sua sventura nol fu, perdè allora il solo dritto che dà comando nelle rivoluzioni. Che sperar, che temere di lui? Lo stormo delli sbaragliati si sparpagliò per tutta l'isola: ognuno s'acconciò in casa propria o nell'altrui, non essendovi forza maggiore che lo respingesse. Questo significano in loro stile gli annali arabici, dei quali abbiam dato il tenore.

Come in natura ogni più strano disordine è ordinato in sè stesso secondo le eterne leggi della materia, così in quel ribollir di tutte le genti che altre vicende avean cacciato insieme in Sicilia, nacquero varii grumi: e ciascuno fece uno stato; e in ciascuno si scopre l'affinità degli elementi che gli davano principio. Lo stato del centro, di cui fu capitale Castrogiovanni, erano territorii agricoli fatti da lunghissimo tempo musulmani; sì che v'era accaduta la vicenda del menomarsi la nobiltà militare, dileguarsi i vassalli cristiani e crescere i popolani dell'antica schiatta; la parte Siciliana come si era chiamata in principio dalla guerra civile. Onde vi prevalsero que' che le croniche appellano uomini di vil condizione, finchè un se ne fece signore: Ibn-Hawwasci, “Il Demagogo,” schiavo, liberto plebeo.1030 Questo stato vincea di potenza ogni altro dell'isola; come si vedrà negli avvenimenti che seguono per quarant'anni. Ibn-Menkût, messo negli annali a capolista degli uomini ignobili che vengon su nella rivoluzione, comanda nella punta occidentale, paese marittimo, sede di antiche colonie arabiche e però di molta cittadinanza d'origine musulmana. Quivi la popolazione sta, o tentenna, tra le due fazioni affricana e siciliana, o vogliam dir nobile e plebea: onde v'ha poco divario con la cittadinanza palermitana; e non guari dopo sparisce questo stato d'Ibn-Menkût, attirato da Palermo o da Castrogiovanni. Palermo fa parte dassè. La costiera orientale, abitata la più parte da vassalli cristiani, obbedisce a Simsâm e poscia al capo della nobiltà,1031 e veggiamo i nobili prevalere nella più illustre città di quelle parti;1032 e la seconda ch'era Catania, tenersi pria dal condottiere berbero Ibn-Meklâti, ma sottomettersi al signor di tutta la regione orientale. In vero Ibn-Meklâti, con que' suoi titoli di “Base dell'Impero” e ciambellan del Sultano, rassomiglia a governatore di provincia per Simsâm.1033 Guerrier di ventura, sia delle antiche colonie berbere, sia disertore dell'esercito moezziano, cacciatosi tra le turbolenze della Sicilia, salito in favor della corte; dopo il naufragio della quale si provò ad afferrare la tavola ch'avea presso. Le divisioni tornano dunque a tre: nobiltà militare, popolo delle province, e cittadinanza della capitale.

Avendo detto abbastanza delle due prime,1034 ci rimane ad investigar gli umori di parte in Palermo. Ab antico, vi prevalse come notammo,1035 la nobiltà, cui seguivano docilmente popolo e plebe difendendo le franchigie coloniali. Cresciuto il popolo di numero, facoltà e lumi, gli rincrebbe la licenza aristocratica; applaudì al primo emir kelbita che la raffrenava: la gemâ', nella quale veniano mancando i nobili proscritti e sottentravano i giuristi popolani, tendea, come un tempo quella di Kairewân, alla costituzione dei primi califi sotto un principe elettivo; quella via di mezzo di libertà, che la turbolenta schiatta arabica smarrì in brev'ora e non potè ritrovarla mai più. Quando la discordia tra nobili e popolo fu matura, quand'Akhal mutò la base del principato dal popolo nei nobili, si parteggiò forse nella capitale, ov'eran ambo gli elementi, e il popolare ch'era il più forte prevalse: come il mostrano quelle soldatesche chiamate dal principe, quell'assedio di ch'egli fu stretto nella Khalesa, ch'è a dir la Metropoli rivolta contro la cittadella che i Fatemiti le avean piantato in seno. Palermo ubbidì al figliuolo di Moezz per difender lo stato dai Bizantini; lo scacciò quando s'accorse che sapeva opprimere ma non difendere; e ristorò il principato kelbita sola áncora di salvezza in quella tempesta. La gemâ' di Palermo par abbia tenuto il cammin dritto, mentre guazzavano nell'anarchia le altre popolazioni a ponente dal Salso: contadini e cittadini delle città minori, dove sogliono essere più stizzose le ire, più procaci gli uomini rozzi, men chiari alla vista gli interessi pubblici. In particolare vi si dovea coltivar meno lo studio del dritto che racchiude ogni idea politica dei Musulmani;1036 e la schiatta siciliana, assai meno mescolata con l'arabica, le si dovea mostrare più ostile.

Per qual vicenda fosse cacciato Simsâm di Palermo si ignora. Ma la Sicilia centrale era perduta; la regione di levante obbediva forse di nome; questo “Brando dell'impero” non era uom di guerra nè di stato, e volle far troppo il re in Palermo, o parve inutile impaccio alla gemâ'. Gli dissero dunque di andarsene con Dio, e vollero provare la repubblica; se pur non aveano esaltato e deposto, tra i Kelbiti e la repubblica, un principe che regnasse qualche anno o qualche mese, Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû, soprannominato Sceikh-ed-Dawla (Anziano dell'Impero) che rifuggissi in Egitto.1037 Si vedrà nell'ultimo capitolo, come la capitale, bramosa tuttavia di ricomporre lo stato, abbia promosso o accettato un re novello di schiatta nobile; il quale finì peggio dei predecessori.

996Antica sede del vescovato di Tricarico.
997Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 86, e presso i Bollandisti, 9 marzo, p. 96. I soli dati cronologici, oltre l'anno della versione, sono la contemporaneità con San Luca di Demona, il titolo di Catapano di Calabria che occorre nel racconto, e il nome del monastero di Armento, il quale si sa fondato nella seconda metà del decimo secolo. La morte septimo idus martii feria sexta ha portato i Bollandisti a notare l'anno 994. Si vegga anche De Meo, Annali di Napoli, tomo VI, anno 994. I nomi dei luoghi in Calabria ove si dice soggiornato San Vitale in romitaggio dopo il ritorno dalla Sicilia, son Liporaco presso Cassano, Pietra di Roseto, Rappaco presso San Quirico, Misanelli, Armento, Sant'Adriano presso Basidia, una cella presso Turi, e infine Rapolla.
998Otone I, come notaron bene il Gaetani e i Bollandisti. E però torna al 968 o 969 nelle scorrerie che abbiamo accennato al cap. VI del presente Libro, p. 311 del volume.
999Vita di San Luca di Demona, versione dal testo greco che sembra perduto, presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 96, e presso i Bollandisti, 13 ottobre (tomo VI), p. 332. Questa seconda e recente edizione è illustrata di erudite annotazioni. Il sant'Elia di Reggio primo maestro di San Luca, fu, al dir dei Bollandisti, lo Speleote che dimorava a Melicocca presso Seminara, op. cit., p. 333, § V. Per error di stampa nel Gaetani è recata quest'agiografia il 13 settembre, quando vi si legge tertio idus octobris, l'anno dell'Incarnazione 993 e del mondo 6493 secondo l'èra alessandrina.
1000Si vegga il capitolo precedente, p. 387.
1001Si vegga il Lib. II, cap. XII, 517 del primo volume.
1002L'agiografo sclama: Ov'era in quelle solitudini il soffice letto, la pulita stanza, il tappeto, le stuoje, i bagni, le brigate di amici, il pan fino, i pesci, l'olio, i condimenti, le frutte, il vino, la lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento? Ma par ch'ei voglia accennare il contrasto con la vita di qualche prelato di Calabria, piuttosto che con quella di San Filareto stesso in gioventù.
1003Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 112, seg.; e presso i Bollandisti 6 aprile (tomo I), p. 605, seg., versione d'un testo greco che sembra perduto.
1004Si vegga il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 109, che se la bevve; e i Bollandisti, 17 luglio (tomo IV), p. 288.
1005Presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 107; e presso i Bollandisti, 24 febbraio (tomo III), p. 479: il primo dei quali lo fa morire il 1054; e i secondi il 1129. Figliuolo d'un conte calabrese che fu ucciso nelle scorrerie dei Musulmani di Sicilia, nacque in Palermo dalla madre condotta in schiavitù, e sposata da un Musulmano; andò in Calabria a battezzarsi e trovare i tesori nascosi del padre; si fece monaco sotto San Nilo (morto il 998), operò in vita molti miracoli, e morendo risanò d'un'ulcera Ruggiero Guiscardo nipote di Roberto, il quale diè in merito grandissimi beni al monastero. Questo Ruggiero Guiscardo, che la storia non conosce, questo sbalzo dalla fine del X alla fine dell'XI secolo, convengon bene alle avventure favolose che abbiamo appena accennate.
1006La vita di San Simeone da Siracusa fu scritta per ordine dell'arcivescovo di Treveri da un Eberwin abate del monastero di San Martino, il quale avea praticato con Simeone nella torre e l'aveva assistito a morte. Si vegga presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 101; o meglio presso i Bollandisti, 1 giugno, p. 87, seg. Si riscontri la Cronica di Sigeberto, anno 1016, presso il Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 555.
1007Si cominci dai Cristiani che compiangeano i prigioni di Siracusa (878) nelle strade di Palermo, Lib. II, cap. IX, p. 408 del primo volume; si scenda via via nel X secolo ai patti di Hasan in Reggio, alla guerra di Taormina e Rametta, al segretario cristiano d'Abu-l-Kâsim, Lib. IV, cap. II, III, VI, p. 247, 257 e 320 di questo volume; e si arrivi nel presente capitolo ai fatti dell'XI secolo, e si vedrà durar sempre il cristianesimo. Di questa opinione sono stati quasi tutti gli scrittori delle cose ecclesiastiche di Sicilia, come si può vedere del Mongitore, Opuscoli d'Autori Siciliani, tomo VII, p. 119, seg. Il Di Gregorio tenne la stessa sentenza, Considerazioni su la storia di Sicilia, lib. I, cap. I. La sentenza contraria è stata di recente sostenuta dal Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 43 a 75; al quale rispose il sacerdote Niccolò Buscemi, Biblioteca Sacra per la Sicilia, (Palermo 1832), vol. I, p. 195 seg., 373 seg., ed egli replicò in varii articoli del Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia del 1834, raccolti poi in un volumetto, p. 17 seg., 133 seg. Io ho citato di sopra alcuni documenti allegati dall'uno e dall'altro, e, com'è naturale, ho tenuto presenti le ragioni pro e contra, ma non posso qui esaminarle partitamente.
1008Nel Mo'gem-el-Boldân di Jakût, Biblioteca arabo-sicula, testo, p. 117.
1009Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 617, nella notizia della Chiesa siracusana. Il comento si trova non solo nei fatti che abbiamo esposto, ma anche in un diploma di re Ruggiero dato il 6642 (1134), il quale attesta la sollecitudine del padre a liberare dagli Agareni la Sicilia e i suoi abitatori cristiani; presso Pirro, p. 975.
1010Questo supposto è del Martorana, Notizie storiche, tomo II, p. 68 a 73; il quale non so se vi sia stato condotto dal Rampoldi che sognò una tregua di tre anni tra i Musulmani e i Bizantini di Sicilia, dopo la partenza di Maniace. Si vegga la risposta del Martorana, p. 16, nota. Il Martorana cadde in errore, credendo che l'appellazione di Greci, sì frequente in Sicilia nello XI e XII secolo, non dinotasse i Siciliani di linguaggio greco, ma necessariamente si dovesse riferire a gente venuta di fresco dalle province bizantine.
1011Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 476 seg. del primo volume.
1012Questa cronica in forma di lettera di Fra Corrado, priore del convento domenicano di Santa Caterina in Palermo, ha una data che risponde al 1290. Si vegga presso Caruso, Bibliotheca Historica regni Siciliæ, tomo I, p. 47, questo cattivo compendio di fatti dal 1027 al 1282, del quale non conosciam tutte le sorgenti ed alcuna si potrebbe supporre versione inesattissima dall'arabico. Oltre gli errori madornali su i fatti e i nomi, vi si nota l'anacronismo d'un secolo nella scorreria dello spagnuolo Meimûn-ibn-Ghania in Sicilia, ch'è messa il 1027 in vece del XII secolo. In ogni modo, ancorchè la storia sembri più tosto alterata da errori di compilazione o di copia che falsata a disegno, non si può fare alcuno assegnamento su l'attestato di Fra Corrado.
1013Girio.
1014La versione latina di questo diploma fa pubblicata dal Di Giovanni, Codex Siciliæ diplomaticus, nº CCXCVIII, p. 347; il testo greco dal Morso, Palermo antico, p. 321, e dal Garofalo, nel Tabularium… capellæ collegiatæ… in regio panormitano palatio, p. 1, seg.; e tutti han creduto si trattasse d'una confraternita in Palermo; massime il Morso, il quale vi fabbricò sopra la strana conghiettura da noi accennata nel cap. V del III Libro, p. 298 di questo vol. in nota. Ma quella preghiera pel patriarca e per gli imperatori (βασιλεῶν) mal conveniva ad un corpo morale esistente in Palermo nell'XI e XII secolo. Il Martorana, Notizie ec., tomo II, p. 219, pensò doversi riferire la fondazione ai Greci bizantini ch'ei suppone occupatori di Palermo nella guerra di Maniace; e mise anco in forse l'autenticità del diploma. Il Mortillaro in un'aspra critica contro Garofalo, Opere, tomo II, p. 67, seg., rincalzò cotesto sospetto. A me non par luogo di credere apocrifa la pergamena; ma tengo certo che la confraternita delle Naupactitesse non sia stata mai in Palermo. Dapprima i nomi dei confratelli sottoscritti, greci la più parte, mi avean fatto pensare ad alcuna delle città ed isole di Grecia assalite dai Normanni di Sicilia; ma consultatone M. Hase, ha notato che tra que' nomi ve n'abbia di forma italiana, e che il nome di un Ruggiero Nanainà ci richiami alla Puglia. Però debbo all'autorità del maestro il pensiero che segno nel testo. Aggiungo che la voce imperatori, al plurale, fa credere rinnovati gli statuti mentre sedea più d'uno sul trono di Costantinopoli; e ciò, dopo il 1048 data del primo diploma, tornerebbe al regno di Costantino Duca (1060-67), il quale si associò i figliuoli, o di questi e della madre (1068); e sarebbe appunto prima della occupazione di Bari per Roberto Guiscardo.
1015Ibn-el-Athîr dà i fatti in ordine cronologico infino agli armamenti dei Bizantini, il 416 (cap. IX di questo Libro a p. 365 del volume); e indi salta al 484 raccogliendo in un capitolo tutti gli avvenimenti dalla abdicazione di Iûsuf, il 388 (998), al compiuto conquisto dei Normanni (1091); nel quale capitolo la data e' particolari scarseggiano da Iûsuf alla occupazione di Moezz (1037), e mancano al tutto d'allora infino alla chiamata dei Normanni (1060). Or appunto alla fine del X secolo, cioè al tempo di Iûsuf, giugne la cronica d'Ibn-Rekîk (Introduzione, p. XXXVII del primo volume). Ibn-Rescîk supplì forse i primi quarant'anni dell'XI secolo, ibid. I cenni su la seconda metà sembrano cavati da Abu-Salt-I-Omeîa o da Ibn-Sceddâd (Introduzione, p. XXXVIII), i quali scrivendo nel XII secolo, quando era giù la dominazione musulmana di Sicilia, o non conobbero o non vollero raccontare tutti i particolari della caduta. Questo concetto si conferma a legger Abulfeda, Nowairi e Ibn-Khaldûn, nei quali si vede manifestamente la stessa lacuna, ancorchè non abbian sempre copiato o compendiato Ibn-el-Athîr, ed abbiano avuto in originale alcune sorgenti. Abulfeda muta un po' la divisione della materia. D'un fiato ei dà nell'anno 336 tutta la storia degli emiri kelbiti di Sicilia, trascritta da un autore ch'è al certo Ibn-Sceddâd: capitolo aggiunto dopo la prima copia o edizione, poich'è scritto di mano d'Abulfeda stesso in margine del MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 750. Poi nel 484 fa un capitolo compendiato, com'ei pare, sopra Ibn-el-Athîr, dov'ei viene a ripetere alcuni fatti del capitolo del 336, non avendo badato a cancellarli quando aggiunse lo squarcio d'Ibn-Sceddâd. Nowairi e Ibn-Khaldûn, dividendo loro storie generali per dominazioni, non per anni, fanno capitoli apposta su le cose di Sicilia; ma vi allogano gli stessi fatti d'Ibn-el-Athîr, più o meno particolareggiati e sempre interrotti nel periodo che notammo. Tutti par abbiano ignorato le storie particolari della Sicilia scritte da Ibn-Kattâ' e da Abu-Ali-Hasan (Introduzione, p. XXXVII, nº I, V).
1016Nel 1052. Si vegga Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 34, 35; e Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 81 verso, e 82 recto, che particolareggia molto più i fatti.
1017Sapendosi di certo dagli autori cristiani che lo sconfitto a Traina fu Abd-Allah-ibn-Moezz, il tumulto che lo cacciò avvenne di necessità dopo la battaglia, non immediatamente dopo la uccisione di Akhal.
1018Traduco quasi litteralmente da Ibn-el-Athîr dove si legge “Per dio la fine dell'opera vostra, ec.;” la qual voce fa supporre un recente e grave caso.
1019Alcuni autori portan trecento; ma è differenza di copia, potendosi scambiare facilmente le due voci arabiche che significano quei due numeri. Qual dei due sia il vero nol so.
1020Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. C, tomo V, fog. 109, recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, stesso anno, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 23; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 181; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 37 verso, seg. Quest'ultimo è il solo che aggiunga il compimento ed-dawla al soprannome Simsâm e mi sembra però più corretto.
1021Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, e Ibn-Khaldûn, ll. cc., i quali copiano con varianti unico testo. Nowairi, l. c., non dice degli uomini di vilissima condizione. E forse copiando come gli altri, saltò quelle parole perchè gli parvero contraddittorie al fatto trovato nel medesimo testo, o altrove, e dato da lui solo; cioè il governo degli Sceikhi in Palermo. Abulfeda, in fin del capitolo su i Kelbiti ch'ei trascrive da Ibn-Sceddâd, dice che s'impadronirono della Sicilia i Kharegi, ossia ribelli.
1022Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Ibn-Khaldûn e Nowairi, ll. cc. I primi tre aggiungon al novero dei regoli Ibn-Thimna; ma Nowairi, ch'è il più diligente di tutti in questo periodo, dice costui surto appresso: e ciò si accorda meglio con gli altri fatti. Ibn-Menkût sembra di schiatta arabica. Questo nome che in un sol MS. di Nowairi si legge con la variante Metkût, non può essere diverso da quell'Ibn-Menkud da cui si addomandò un castello appunto in Val di Mazara, ricordato da Edrisi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 119 della versione latina. Nacque di certo della famiglia e probabilmente fu predecessore d'un Kâid Abu-Mohammed-Hasan-ibn-Omar-ibn-Menkûd, poeta siciliano ricordato da Imâd-ed-dîn nella Kharida, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 43 recto. Un Kaid Abd-Allah-ibn-Menkût, della stessa tribù e forse della stessa famiglia, si vede alla corte di Tamîm, principe zîrita di Mehdia, il 481 (1088-9) presso Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 106 verso, con la variante Menkûr nel Baiân, tomo I, p. 310 del testo arabico. E con le varianti Metkûd, Medkûr, si trova lo stesso nome in Affrica nel XIII secolo presso Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 103, 222. Le dette varianti son dei copisti, nè montano. Quella tra Menkût e Menkûd potrebbe venir dal suono similissimo che hanno quelle due lettere finali nella pronunzia degli Arabi. Infine è da avvertire che l'una e l'altra voce ha significato in arabico. Quanto ad Ibn-Hawwâsci (le ultime tre lettere corrispondenti al ch francese e sh inglese), questo nome si legge anche Hawâs e Giawâs; e li credo errori di copie. Hawwâsci significherebbe “l'agitatore, il demagogo,” e ben converrebbe a quegli che Ibn-Thimna diceva appo i Normanni “servo suo rivoltato” (Leone d'Ostia, lib. III, cap. 45); un che esmut lo peuple et lo chacerent de la cite et se fist amiral (Amato, lib. V., cap. 8). È da avvertire infine che in Ibn-Khaldûn leggiamo Abd-Allah-ibn-Hawwâsci signor di Mazara e Trapani, e non si vede il nome di Ali-ibn-Ni'ma, nè si parla di Castrogiovanni e Girgenti. Viene probabilmente da un rigo saltato nella copia in questo modo: “a Mazara e Trapani Abd-Allah-ibn-Menkût ed a Castrogiovanni Ali-ibn-Ni'ma detto Ibn-Hawwâsci ec.”
1023All'assalto dei Normanni, il 1062, era venuto in soccorso di Messina il navilio palermitano. Diremo a suo luogo del navilio del principe di Sicilia che si trovò il 445 (1053-4) a Susa rivoltata contro gli Zîriti.
1024Nei due MSS. di Nowairi si trova Kelâbi e Meklâbi, ma la giusta lezione data da Ibn-Khaldûn è Meklâti, che differisce dall'ultima pei punti diacritici d'una sola lettera, e dalla prima per questi e per un picciol nodo che segna la m, e che facilmente sfugge alla vista in una scrittura frettolosa. D'altronde Ibn, o Ben, Meklâti, risponde al Benneclerus di Malaterra (lib. II, cap, 2, 3), il quale scrisse probabilmente Benmecletus. Nella Kharida d'Imâd-ed-din, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 36 verso, abbiamo tre lamentevoli versi del poeta siciliano, il Kâid Abu-l-Fotûh figliuolo del Kâid Bedîr (o Bodeir) Sened-ed-dawla, Ibn-Meklâti ciambellan del sultano. Trovandosi nel capitolo tolto da Ibn-Kattâ', erudito e filologo siciliano che morì nel principio del XII secolo, Bedîr o il figliuolo è probabilmente il signor di Catania. Il sultano del quale egli si intitolò Hâgib, (ciambellano) col soprannome di “Base dell'Impero,” pare Simsâm, che in sua misera condizione tenesse corte e desse titoli. In ogni modo Meklâta era tribù berbera e forse ramo di Kotâma, come si legge in Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 172, 227, 294, e tomo II, p. 237.
1025Nowairi, l. c. Gli altri tacciono questo fatto importante.
1026Hagi-Khalfa, compilatore assai moderno, è il solo che porti questa data nel Takwim-et-Tewârîkh (Cronologia), edizione di Costantinopoli, p. 60. Pur si adatta benissimo in mezzo a quel tratto di venti anni che gli annalisti lasciano sì oscuro. S'aggiunga che Ibn-el-Athîr, Abulfeda e Nowairi, i quali non scrivono la data della elezione nè della deposizione di Simsâm, pongono appunto nel 444 (1052-53) il primo passaggio dei Normanni con Ibn-Thimna, che seguì nove anni dopo (1061). Sembra dunque che le croniche lette da loro abbiano confuso la caduta dei Kelbiti con la chiamata dei Normanni. Ibn-Khaldûn s'allontana da ogni probabilità, dando Simsâm cacciato di Palermo e poi ucciso il 431 (1039-40).
1027Cosmografia di Kazwîni, intitolata Athâr-el-Bilâd, testo arabico, p. 383. Il compilatore che visse nel XIII secolo, dice avvenuto il caso dopo il 440 (15 giugno 1048 a 3 giugno 1049). Il cronista di cui trascrive le parole ma non dà il nome, fu al certo contemporaneo, perchè visse avanti l'occupazione normanna del 1091. Forse Abu-Ali-Hasan, autore d'una storia di Sicilia, citato altrove da Kazwini.
1028Prima da Akhal; poi dalle due parti nella guerra civile e in ultimo da Abd-Allah-ibn-Moezz. Nol dicono gli annalisti, ma non cade in dubbio.
1029Si vegga il cap. X di questo Libro, p. 393, 394.
1030Litteralmente significa “Il figlio del Demagogo.” La citazione è a p. 420, nota 2.
1031Si vegga il cap. XV del presente Libro.
1032A Siracusa, come si scorge dalle poesie d'Ibn-Hamdîs.
1033Si vegga la nota 2, p. 421.
1034Si vegga il capitolo IX di questo Libro, p. 373 del volume.
1035Si vegga il Lib. III, cap. VIII e X, p. 146 seg., e 248 seg., di questo volume.
1036È da fare eccezione per poche città marittime come Mazara, Marsala, Trapani, le quali per la vicinanza con l'Affrica e l'antichità delle colonie, sopratutto Mazara, doveano serbare ordini e tendenze politiche analoghi a que' di Palermo. Il dritto non si trascurò di certo a Mazara, dove sorse il più celebre giureconsulto del tempo.
1037Imâd-ed-dîn, nella Kharîda, MS. di Parigi, A. F., 1375, fog. 133 recto, lo pone tra i poeti egiziani, notando pure che si dovrebbe noverar tra quei di Sicilia. Il titolo che gli dà di Sâheb-Sikillia, mi porta alla conghiettura che annunzio nel testo. Pure si potrebbe supporre dimenticata qualche parola, dopo Sâheb, per esempio, Sciorta, nel qual caso sarebbe stato prefetto di polizia in Sicilia.