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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I

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L'autorità dei primi successori di Maometto, sendo quella medesima del Profeta, senza la profezia, restò molto indeterminata. Solamente si sentiva alla grossa, che i Musulmani non apparteneano ad alcun uomo, ancorchè dovessero ubbidire a un capo per lo comun bene spirituale e temporale: cioè che componeano una repubblica sotto un supremo magistrato che tenesse insieme del pontefice e del capo di tribù. Questa par sia stata la mente di Abu-Bekr e di Omar, quando, lasciate da canto le appellazioni degli antichi re arabi e stranieri, si chiamarono con nuovi nomi, l'uno Khalîfa (ch'è a dir successore) dell'Apostol di Dio, e l'altro anco Emir-el-Mumenîn, ossia Comandator dei Credenti. Elettivo, come s'è detto, il califo, vivea frugale quanto i più poveri Musulmani, del proprio o di uno stipendiuccio; senza lista civile; senza fasto; senza guardie: arringava il popolo; sopportava paziente le rimostranze degli infimi come dei grandi; consultavasi d'ogni provvedimento con gli altri compagni del Profeta, depositarii dei detti di quello, e però di tutte le scintille dell'eterna sapienza, che non fosse piaciuto a Dio di manifestar nel Corano. Così praticossi per dodici anni dalla morte di Maometto a quella di Omar, tra que' primi fervori del movimento religioso e nazionale: e molti savii ordini si fecero fuorchè designare i limiti legali di un potere esercitato con tanta civil modestia. Ma quando tal dichiarazione fu consigliata dalle divisioni che cominciavano ad agitare la repubblica; quando gli elettori deputati da Omar moribondo proposero patti fondamentali ad Alî, e, vedendoli rigettare da lui, esaltarono al califfato Othman che li accettava, allora non era più tempo a porre freno all'autorità. Le fazioni, pigliate le armi, spinsero necessariamente i proprii capi al potere assoluto: la nascente libertà degli Arabi perì tra le guerre civili, al par che quella di Roma e tant'altre; oppressa dall'esercito della fazione vincitrice, come lo sarebbe stata da quel della fazione vinta, se a lui fosse toccata la vittoria. Reso dunque il califato ereditario in casa Omeiade, il doge divenne czar. Una sola guarentigia restò, cioè che il califo non potea mutare le leggi, venendo quelle dal cielo, e non essendone permessa altra interpretazione che la dottrinale. Ma ognuno intende quanto debole e precario ritegno fosse la voce da' dotti ad un principe riconosciuto da loro medesimi, come conservator della fede e arbitro delle forze dello Stato. D'altronde la immobilità teocratica della legge nocque molto più che non giovasse ai Musulmani, perchè attraversò le riforme fondamentali divenute necessarie per la mutazione dei tempi e per la vastità del territorio; e fece che tante ribellioni, tanto sangue sparso, non portassero altro frutto che di tor via le persone dei governanti, senza correggere il dispotismo che li rendea sì tristi.

Venendo in ultimo a considerare il momento militare dei conquistatori, si vedran le tribù ordinate alla guerra ed esercitate fin da tempo immemorabile: avvezzi da fanciulli a maneggiare armi e cavalli, usi a condurre cameli, caricar bagaglio, mutare il campo, affrontare pericoli, ubbidire ai capi nelle mosse e zuffe, andare a torme, schiere, drappelli, secondo le suddivisioni della tribù; e i capi a computare sottilmente le distanze de' luoghi, riconoscere o indovinare il terreno, disegnare colpi di mano, agguati, ritirate, in vastissimi tratti di paese. Indi pratica di strategia nei condottieri, disciplina nei soldati: che, tra tanta ignoranza e licenza, appena si crederebbe. Indi le prime battaglie degli Arabi contro Persiani e Bizantini, sì superiori ad essi di numero, furono vinte meno per non curanza della morte e furia a menar le mani, che per la rapidità e precisione delle mosse; per le schiere compatte, spedite a rannodarsi o combattere spicciolate; pei complicati disegni di guerra mandati ad effetto con agevolezza; per l'arte, presto appresa, di afforzarsi ne' luoghi opportuni ed a tempo ricusare o presentar la battaglia. Il califo bandia la guerra sacra; nominava il capitano d'una impresa e l'investia del comando, com'era antichissima costumanza appo di loro, annodando un pennoncello in cima alla lancia del candidato. Dato il ritrovo all'oste, accorreanvi le tribù dei contorni, intere o in parte, con lor condottieri e capi inferiori fino a que' di dieci uomini e anche di cinque: gente usa a vedersi in volto, a conoscere il valore l'un dell'altro, a sostenere in ogni evento la riputazione di sua famiglia, parentela e tribù: e spesso portavan seco loro le donne, non consigliatrici a viltà; per l'amor delle quali o per l'onore, più fiate gli Arabi sconfitti tornarono alla battaglia e vinsero; o quelle difesero con le proprie mani gli alloggiamenti assaliti dal nemico. Avean cavalli e fanti; i fanti in cammino montavan talvolta su i cameli, talvolta v'andavan anco i cavalieri menando a guinzaglio lor destrieri e in altri incontri togliean essi in groppa i fanti. Armati della sottile, lunga e salda lancia arabica, spada, mazza, e altri d'archi e frecce; ma ancorchè destri al saettare poco assegnamento faceanvi: son colpi di sorte, diceva un famoso guerrier loro, sbagliano e imberciano.146 Copriansi di giachi di maglia e scudi. In giusta battaglia aspettavano per lo più la carica del nemico; sosteneanla con rara fermezza secondo il precetto del Corano e il romano concetto di Khâled-ibn-Walîd che solea scorrer le file esortandoli: “Ricordatevi, Musulmani, che lo star saldi è fortezza, l'affrettarsi debolezza, e che con la costanza va la vittoria.”147 Sia che dessero il primo assalto, sia che ripigliassero quello del nemico, piombavano come turbine coi loro infaticabili cavalli levando il grido di Akbar Allah (è massimo Iddio); sparpagliavansi dopo la carica, e d'un súbito rannodati faceano nuovo impeto sul nemico disordinato nello inseguirli, e sì lo rompeano e laceravano; avviluppavano e sterminavano i fuggenti. I Bizantini e i Persiani, gravi per le armadure e per la formalità degli ordini militari ai quali era mancata da lungo tempo l'anima e l'intendimento, mal resistettero a tal nuova tattica: i primi inoltre uomini senza patria, raunaticci di tante genti, tratti per forza alle armi, condotti da capitani cui scegliea caso o favore; i secondi accolti anche di varie nazioni e classi sociali diffidenti l'una dell'altra, anzi nemiche.

Dagli eserciti passando ai popoli di que' due imperii, li vedremo avviliti dal dispotismo, rifiniti dalle tasse e dalla rapacità degli officiali pubblici; scissi da assottigliamenti religiosi; i Persiani anco dalle contese sociali de' tempi di Mazdak, dalla paura dei ricchi e cupidigia dei poveri: e qual meraviglia se tra l'universale scontentamento paresse manco male la falce dei conquistatori, i quali ragguagliavano gli imi ai sommi, disarmavano la religione dello Stato, permetteano il culto cristiano sol che si pagasse un picciol tributo, o aprivan le braccia per accogliere i vinti nella loro famiglia, nella loro Chiesa e nella loro repubblica? Così le vecchie società cedeano il luogo alla giovane società dei vincitori. Così ridivenuti nazione, spinti da delirio religioso e da interessi mondani, allettati dal bottino, dalle pensioni, dalla fertilità delle terre, dai mille lucri che offrian le nuove province, i popoli arabi emigravano successivamente verso di quelle. E se non potean portare in lor colonie nè libertà, nè quiete; se negli ordini loro si nascondea l'antagonismo della legge coi costumi, del dispotismo con la nobiltà e con la democrazia; questa schiatta forte, piena d'alacrità e di speranze, operosa, industre, paziente, audace, trovandosi in condizioni geografiche favorevolissime e tirando altre schiatte alla sua lingua e religione, dava principio a un periodo novello nella storia dell'umanità.

CAPITOLO IV

Se pur la fama di cotesti avvenimenti arrivò in Sicilia prima che gli Arabi toccassero le spiagge del Mediterraneo, niuno al certo se ne dette pensiero. Lo potean credere solito insulto de' ladroni di là della Siria, de' Saraceni, come par che s'addimandassero in quelle parti alcune tribù dei deserti; il qual nome i Bizantini dieron poi a tutti gli Arabi e infine a tutti i Musulmani.148 Fors'erano noti in Sicilia, per cagion del commercio, il nome e i costumi degli Arabi, e un capriccio di fortuna avea mostrato nell'isola le fattezze di questo popolo balestrandovi un principe arabo, Mondsir quarto re di Hira; il quale ribellatosi da' Sassanidi agli imperatori di Costantinopoli, tradì i novelli signori, e, caduto nelle mani loro, verso l'anno cinquecento ottantadue, il clemente imperatore Maurizio non ne prese altra vendetta che di rilegarlo con la moglie e i figliuoli in una delle isolette adiacenti alla Sicilia.149 Ma più che le rivoluzioni d'un popolo sì oscuro e lontano, premeano ai Siciliani le guerre dei Longobardi in Italia; e più che le une e le altre la novella eresia dei Monoteliti, ossia sostenitori dell'unica volontà.

 

Disputavasi, sopra un punto di curiosità teologica sottilissimo e oziosissimo se altro ne fu mai: se le opere del Dio fatto uomo, movessero da due volontà, divina e umana, ovvero da una sola, che i Monoteliti, ragionando su l'equivoco d'una parola, chiamaron teandrica, cioè, divino-umana. Capacitossi dell'unica volontà l'imperatore Eraclio, nel riposo ch'ebbe tra due guerre, l'una vinta gloriosamente sopra i Persiani, e l'altra perduta assai vilmente contro gli Arabi. Non prima il cacciaron essi dalla Siria, che il vecchio imperatore, sperando impetrare l'aiuto del cielo con un atto d'intolleranza, comandava che tutti i sudditi suoi credessero nell'unica volontà di Gesù Cristo. Comandavalo, come i predecessori suoi avean fatto delle altre dottrine onde si compose il domma ortodosso, usando nella nuova religione l'autorità di sommo pontefice, che appartenne già agli imperatori pagani, che gli imperatori bizantini non abdicarono giammai, e ch'è passata con tanti altri ordini loro nell'impero di Russia. E la sede di Roma tentennò tra l'antica obbedienza e il dritto fondamentale della repubblica cristiana, il quale portava che la universalità dei Fedeli fosse giudice delle proprie credenze. Papa Onorio I tentò di sfuggire alla vana contesa, e rispose dubbio o forse assentì; ma i successori suoi non vollero o non poterono dissimulare. Promulgata da Eraclio (a. 639), l'ectesi, come chiamossi l'editto imperiale che pretendea decidere la controversia, e cominciata la resistenza dal vescovo di Gerusalemme, Roma non declinò il pericoloso onore di farsene capo. Indi Costante Secondo imperatore rincalzava con un altro editto superbamente chiamato il tipo (a. 648), e papa Martino nel Concilio di Laterano (a. 649), ove sedè la più parte de' vescovi d'Italia, solennemente condannò ectesi e tipo, e ogni altro scritto monotelita. Allora la disputa si mutò in fazione politica. Costante il quale era salito sul trono a undici anni (a. 641), e, come tanti altri tiranni in adolescenza, avea principiato con belle dimostrazioni di modestia civile, spiegò l'unghia del lione per far confessare da tutti i sudditi dell'impero una opinione che nè egli nè altri comprendea.

Ma sendo più che mai deboli in Italia le armi imperiali, e stringendosi sempre più il misero popol di Roma intorno il suo vescovo ond'avea lucro e protezione, Costante non potè sforzare il papa; e, volendo almen punirlo, fu necessitato a tentare un colpo da masnadiere. Commesselo ad Olimpio, esarco di Ravenna, o vogliam dire luogotenente dell'impero nei dominii che rimaneangli in Italia; il quale, andato a posta a Roma, tramò lunga pezza di catturare e dicon anche ammazzare il papa, e fallì nell'uno e nell'altro misfatto. Secondo un pio cronista, il sicario mandato da Olimpio, mentre levava la mano per ferire, perdè il lume degli occhi; e, maggior prodigio, narrato il caso all'esarco, costui, pentito, svelò tutta la pratica al papa. Aggiugne il cronista che si rappacificassero incontanente, e che Olimpio, raccolte le genti che potea, sopracorresse in Sicilia a combattere i Saraceni.150 La corte di Costantinopoli dal suo canto accagionò Olimpio d'alto tradimento, e il papa di complicità con lui, di connivenza coi Saraceni, e fin d'averli aiutato di danari.151 Tra le fole del miracolo romano e le impudenti accuse del governo bizantino, il vero mi sembra che l'esarco, allettato dalla occasione che gli davano gli umori degli Italiani e le condizioni generali dell'impero, seguendo il fresco esempio del patrizio d'Affrica, abbia tentato di sciorsi anch'egli dall'obbedienza: a che papa Martino nè volea nè poteva far ostacolo.152 Donde Olimpio lasciava star la teologia e il papa; e questi si pigliava quella insperata tranquillità, senza lodare forse nè biasimare la ribellione dell'esarco, quando lo scoppio della folgore musulmana in Sicilia li fe' stringere l'uno all'altro, sì che provvedessero insieme al comun pericolo. Perchè Olimpio, usurpatore o no, dovea combattere i Musulmani in Sicilia, come Gregorio usurpatore avealo fatto in Affrica; e Martino, posposto ogni altro rispetto, dovea aiutarlo, per salvare l'Italia dalla servitù degl'Infedeli e sottrarre alle rapaci mani loro il patrimonio di San Pietro nell'isola.

Nei dieci anni che la corte bizantina avea passato tra l'ectesi e il tipo, gli Arabi, oltre quei prodigiosi loro conquisti di là dal Tigri, s'erano impadroniti di mezzo l'impero: spintisi infino al Caucaso; occupata tutta la costiera di Siria; preso l'Egitto (a. 639); corsa e resa tributaria l'Affrica propria (a. 648); e, dopo avere soprastato un istante in riva al Mediterraneo, vi si erano ormai lanciati, e tutto l'empieano di spavento. Soprastettero già in riva al Mediterraneo, rattenuti dai comandi di Omar, non da ripugnanza a incontrare ignoti pericoli. Perocchè non mancavano arrisicati navigatori tra le popolazioni marittime d'Arabia; e gli stessi guerrieri del deserto, fin dai primi conquisti, s'erano risolutamente imbarcati sul Golfo Persico per assaltar le costiere d'India, donde eran tornati vincitori e carichi di preda (a. 636); i quali, se non ritentarono l'impresa, la cagione fu che Omar aspramente rampognò il capitano, e scrissegli che si guardasse un'altra fiata di affidare i guerrieri dell'islâm, come vermi, a un pezzo di legno galleggiante.153 In tal modo ei volle ovviare al pericolo d'allargar troppo la guerra, o a quel di combattere sopra un elemento ove i Cristiani fossero più pratichi de' Musulmani, ch'è il concetto d'Ibn-Khaldûn. Per simili rispetti vietò all'ambizioso Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân d'assaltare l'isola di Cipro; se non che, per iscusarsi del mettere ostacolo ai trionfi dello islâm, il califo gravemente scrivea sapere che il Mediterraneo sovrastasse di gran tratto alla terra, e dì e notte domandasse a Dio di poterla inondare; ond'ei non amava a dar gli eserciti musulmani in balía a tal perfido mare.154 Ma non andò guari che in luogo di queste baie tendenti a sconfortare dalle imprese navali, si trovò nelle tradizioni di Maometto, com'avvien sempre nelle ambagi e disordine degli scritti religiosi, un corredo compiuto di altri testi che portavano all'effetto contrario: e diceano che a durar solo la nausea del mare nella guerra sacra fosse merito uguale al morire in campo, bagnato nel proprio sangue; che l'Angelo della Morte recasse su in cielo le anime degli altri martiri, ma Dio medesimo raccogliesse quelle degli uccisi in combattimento navale; e altre somiglianti tratte su i tesori della vita futura.155

Ucciso Omar (a. 644), e uniti a capo di due anni i varii governi delle provincie di Siria156 nelle mani di Mo'âwia, costui, che avea tanto séguito appo il nuovo califo, agevolmente vinse il partito della guerra navale, non ostante la opposizione di quei consiglieri che voleano mantenere i disegni politici di Omar.157 Fatto venire grande numero di barche d'Alessandria e accozzatole con quelle della costiera di Siria, Mo'âwia assaliva (648) Cipro; ne levava tributo; tentava la munita isoletta di Arado; e, sendone respinto, vi tornava l'anno appresso con maggiori preparamenti; sforzava gli abitatori ad arrendersi e bruciava il paese. Dopo due anni i Musulmani di Siria presero l'isola di Rodi; portaron via, fatta a pezzi, la statua colossale d'Apollo che l'antichità avea tenuto tra le maraviglie del mondo.158 E alla nuova stagione, che fu del secentocinquantadue, quattro anni appunto dopo la prima lor prova a metter piè sopra una barca nel Mediterraneo, solcavanlo a golfo lanciato, volgendo le prore alla Sicilia.

 

Di questa, come di tante altre imprese dei primi conquistatori arabi nelle provincie romane, troviamo notizie molto oscure negli annali loro, per una cagione che occorre spiegare. Presso gli altri popoli civili che si segnalarono nel mondo, la tradizione dei fatti, emersa una volta dalle nebbie dei tempi mitici, ha preso successivamente tre forme, che rispondono a tre diversi gradi dell'incivilimento, e sono: i canti eroici ripetuti a mente, le cronache scritte e la storia propriamente detta; nè la tradizione orale in prosa è stata altro che ausiliare, pronta, come ognun sa, a correggere o guastare gli altri ricordi. Appo gli Arabi, al contrario, la tradizione orale usurpò tutto il campo nei primi due secoli dell'egira. La nazione, sendo più incivilita nell'animo che nelle forme esteriori, non potea contentarsi oramai di racconti poetici, ma non era per anco avvezza a ricordi scritti; e l'umile arte di leggere e scrivere troppo scarseggiava tra que' guerrieri e improvvisatori che stavan sempre a cavallo e in su le armi. Pertanto non ebbero altri cronisti che i rawî, (raccontatori o direbbesi più litteralmente ritenitori), ai quali l'uso dava una prodigiosa virtù di memoria, e serbavano l'intero patrimonio letterario di lor gente: poesie, genealogie e fino i detti del profeta. Costoro, raccolti i fatti il meglio che poteano dalla bocca di questo e di quello, soleano riferirli con tutte le varianti e coi nomi di quanti successivamente li avessero tramandato. Ma tal diligenza accrebbe la mole e la confusione, più tosto che correggere i vizii della tradizione orale: il difetto cioè di precisione cronologica; lo scambio dei fatti diversi relativi a una stessa persona; la mescolanza delle fole di millantatori e detrattori; il pendío agli aneddoti maravigliosi; il silenzio su le imprese infelici. Questo cumulo di materiali par che opprimesse i primi che si provarono a scrivere, nel terzo secolo dell'egira e nono dell'era cristiana. Dei quali altri dettò storie particolari, altri osò intraprendere una cronica universale; ma nessuno seppe strigarsi dalla noiosa forma della tradizione orale, e nessuno venne a capo di chiarir bene tutti gli avvenimenti del primo secolo, ch'era più lontano da quella età. In ultimo comparvero le compilazioni e i compendii, che fecero andare in disuso quelle ponderose cronache primitive; sì che, poco o punto copiate dal duodecimo secolo in qua, non ce ne avanza che qualche volume. E per tal modo è divenuto ormai impossibile di ristorare la tradizione di alcuni avvenimenti; e i nostri sforzi non arriveranno a trovarne altro che qualche cenno.

Ma quell'assalto di Sicilia, di cui testè dicevamo, è reso certo dai ricordi europei, cioè: i documenti contemporanei che leggonsi nel processo di papa Martino;159 un paragrafo della Cronografia di Teofane,160 scrittore dell'ottavo secolo; e uno ch'è tratto manifestamente dalle memorie della Chiesa Romana e portato nelle vite dei pontefici che van sotto il nome d'Anastasio Bibliotecario.161 Corretta la cronologia, il fatto compiutamente risponde alla tradizione musulmana che si raccoglie a brani dal Beladori, autore del nono secolo,162 e da due compilazioni più recenti;163 delle quali una assai particolareggiata si trova in un esemplare del falso Wâkidi; ma non ostante tal sospetta origine,164 quando se ne tolgano le manifeste finzioni del compilatore, contiene un ragguaglio genuino e compie i cenni di Teofane e d'Anastasio, e però la critica non vuol che si rigetti. In ultimo è indizio dell'impresa un nome topografico rimasto in Siria infino al duodecimo o al decimoterzo secolo, chiamandovisi Sicilia, o, secondo altri, Le Siciliane, una villa in campagna di Damasco; se pur non sono due luoghi diversi. Il nome è derivato al certo da donne siciliane portatevi in cattività e probabilmente da quelle che vennervi al tempo di Mo'âwia.165

L'armamento musulmano mosse dall'estremo golfo orientale del Mediterraneo, forse da Tripoli di Siria, e certo egli è che non venisse dalle costiere d'Affrica donde i Musulmani s'eran ritratti tre anni innanzi. Però era mestieri allestire grosse navi e munirle a effetto di guerra; e ne parrà tanto più malagevole e arrisicata l'impresa di Sicilia, più assai che quella d'India del secento trentasei, nella quale gli Arabi aveano avuto in pronto legni e marinai della propria lor gente, usi a tal navigazione per loro commerci. Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, che già si facea strada all'impero, forse sperò con la guerra di Sicilia d'accrescere le province ed entrate del governo suo ed emulare il capitano d'Egitto Abd-Allah-ibn-Sa'd, che godea come lui la grazia del califo ed avea acquistato in Affrica tanta gloria alla religione, e ricchezza ai soldati. E forse, dall'esercito del rivale pervennero a Mo'âwia i ragguagli che spinserlo alla impresa siciliana. Affidolla a un prode che fu poi partigiano suo nelle guerre civili;166 rinomato non meno per pietà, poichè avea visto in volto il Profeta e ne serbava i detti;167 e testè segnalatosi sotto gli auspicii del capitan d'Egitto nella espedizione di Nubia, ove perdè un occhio per ferita.168 Ebbe nome costui Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di Kinda169 e continuò per venti anni a combattere per la fede in Ponente, sì che tante sue geste furono confuse dai raccontatori,170 e quella di Sicilia, come meno avventurosa, restò oscura.

Sbarcarono nell'isola i Musulmani con forze non pari al conquisto; occuparono qualche luogo su la costiera, e a lor costume mandarono gualdane a battere il paese, le quali fean preda e prigioni, e pur non bastavano ad espugnar le terre murate. Ma tale debolezza del nemico non si potea scernere dai Cristiani tra i primi spaventi di quell'assalto, non aspettato nè creduto possibile; di quel terribil nome di Saraceni; di quelle nuove fogge, sembianti, linguaggio e impeto di combattere. Però, giunti gli avvisi a Roma, si strinsero l'esarco e il papa, com'abbiam detto. Passato Olimpio con l'esercito in Sicilia, la guerra andò in lungo: combattuta debolmente d'ambo le parti; dei Musulmani perch'eran pochi e scarsi di preparamenti; de' Cristiani perchè valean meno in arme, e travagliavali una moría che s'appigliò all'esercito. Indi le pratiche mosse dall'esarco, alle quali accennano e la narrazione del falso Wâkidi e il processo di papa Martino; le quali negoziazioni dopo la morte d'Olimpio furon costrutte in caso di maestà a fin di avvilupparvi il papa. Questi dal canto suo mandava aiuti di danaro in Sicilia: limosina a qualche servo di Dio, scriveva egli poi scusandosi, e dissimulando forse sotto tal nome il riscatto degli inquilini del patrimonio caduti in man del nemico. In ogni modo, tra scaramucce e pratiche si consumarono parecchi mesi; nel qual tempo Olimpio morì della pestilenza. I Musulmani, non isperando rinforzi, poichè non avevano altra armata in sul mare, e aspettandosi addosso il navilio bizantino, o avendo avvisi che venisse, non si lasciaron chiudere nell'isola. Mo'âwia-ibn-Hodeig rimontò su le navi in fretta, senza però abbandonare nè il bottino nè i prigioni; e, fatto vela nottetempo, ebbe a ventura, dopo felice navigazione, di sporre i suoi sani e salvi su le costiere di Siria. Tutto lieto il significava a Othman il capitano della provincia, Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, che già assai temea della sorte dell'armata. Mandava altresì al califo la quinta della preda, e dividea il resto all'esercito. Par che i prigioni, la più parte donne, rimanessero a Damasco, e presto dimenticassero gli antichi lor signori, il paese, le famiglie, fors'anco la religione. Perocchè la cronaca bizantina aggiugne qui sbadatamente, che volentieri stanziassero a Damasco: nè più crudele biasimo che questo si potrebbe esprimere in parole, contro quei miseri schiavi non già, ma contro l'ordine civile e religioso che affliggea la Sicilia.171

Appena allontanati dall'isola i Musulmani, Costante incalzò la persecuzione contro il papa, e fe' compiere da un nuovo esarco l'attentato ch'ei meditava. L'innocente e caritatevole Martino, vegliardo, infermo, venerando per animo forte e soavi costumi, fu preso a piè degli altari da una man di scherani (giugno 653); gittato in una barca; condotto giù pel Tevere e per la costiera infino a Messina; ove il tramutarono in altro legno; lo menarono qua e là per la riviera orientale di Calabria e per le isole dell'Arcipelago: tenuto in segreta su la nave e in terra; strapazzato, e, dopo lungo tempo, tratto innanzi i magistrati a Costantinopoli. Quivi incrudì lo strazio per le ingiuriose imputazioni, la insolenza dei giudici, la brutalità dei servidori, la profanazione del nome e forme della giustizia, la sentenza di morte pronunziata e sospesa; e sopratutto la presenza del tiranno, dinanzi al quale gli stracciarono in dosso gli abiti sacerdotali, lo condussero per la città, con un collare di ferro alla gola, preceduto dal carnefice che brandiva la mannaia. Alfine il tiranno commutò la sentenza in esilio perpetuo a Cherson, su le rive settentrionali del Mar Nero; ove Martino trasse pochi mesi di vita che gli avanzarono, torturato da' disagi e dimenticato dal clero di Roma. Molti furono anco gastigati come ricalcitranti al tipo; e, più barbaramente che niun altro, il dotto San Massimo, al quale apponeano oltre le opinioni teologiche, sì sfacciato era il governo imperiale, di aver dato ai Saraceni l'Egitto, la Pentapoli e l'Affrica.172

E come rinforzato per trionfo in casa, Costante volle andar subito a gastigare gli Arabi, che fatti audaci in sul mare, armavano contro Costantinopoli stessa (655). Sorgeano all'áncora le navi o barche loro, dugento e poche più, su le costiere della Licia, presso il monte Fenicio in un luogo che i cronisti arabi chiamano “Le Colonne;” senza dubbio dagli avanzi di qualche monumento dell'arte greca. Quivi drizzò la prora Costante con sei o settecento, altri dice mille, navigli; certo con strabocchevole superiorità di numero, mole e munizione delle navi. Era questa la prima battaglia marittima che si presentasse ai Musulmani. Perciò stavano in forse anco i più valorosi: il supremo condottiero Abd-Allah-ibn-Sa'd, ch'era a terra con le genti, domandava tre fiate ai capitani minori che si farebbe; e tre fiate que' si guardavano in volto l'un l'altro senza rispondere: quando si levò un guerriero, e, in luogo di disputare, recitò le parole del Corano sopra la battaglia di Saul con Golia: “Oh quante volte picciol drappello ha sbaragliato grosse schiere, permettendolo Iddio: Iddio è con chi sta fermo.”173 Abd-Allah allora, risoluto a morire anzichè abbandonare l'armata al nemico, gridava: “Alle navi, in nome di Dio.” E alle navi corsero, seguíti da molte donne loro, che vollero partecipare al pericolo.

Appiccata la zuffa con trar dardi e saette, gli Arabi si accôrsero dell'errore di combatter da nave a nave; e senz'aspettare una prima sconfitta che li ammaestrasse, vollero provarsi da uomo a uomo. Gittano gli uncini alle galee nemiche; salgono all'arrembaggio con le sciabole e i cangiar alla mano; e con molto sangue loro e grandissima strage de' nemici, vinsero la giornata. Costante, che s'era tratto addietro quando cominciarono a fischiare per l'aria le saette, diessi a fuggire quando si venne alle armi corte; e pure a mala pena campò. All'incontro la nobile e bella Bosaisa, moglie del capitan musulmano, avea visto sì da presso il combattimento che il marito le domandò: “Chi ti è parso il più valoroso?” “Quel dalla catena” ella rispose: un guerriero che nel fitto della mischia, vedendo la nave di Abd-Allah aggrappata e portata via da un galeone nemico, l'avea liberata spezzando la catena. Questo prode era A'lkama-ibn-Iezîd, che amò ardentemente Bosaisa; la domandò in isposa; si ritrasse dall'inchiesta quando seppe che Abd-Allah aspirava alla mano di lei; e venuto costui a morte pochi anni appresso la battaglia delle Colonne, ottenne alfine il premio di sì perseverante e generoso amore.174

Tornato il fuggente imperatore a Costantinopoli, incrudelì per sospetti di stato; fe' uccidere il proprio fratello; continuò le persecuzioni contro i sostenitori delle due volontà; e alternando fierezza e viltà, com'è proprio de' tiranni, vezzeggiò i successori di papa Martino, e pensò di fuggire i luoghi e il popolo che gli ricordavano il parricidio. Indi si favoleggiò che uno spettro lo inseguisse porgendogli una tazza piena di sangue, e gli dicesse: “Bevi, fratello!” Dilungandosi dalla metropoli ove mai più non tornò, Costante faceva atto di sputarla per odio, e per paura vi lasciava la moglie e i figliuoli, ritenuti come pegno dal popolo tumultuante. Egli, cercando sempre il pericolo da lunge e fuggendolo da presso, venne in Italia (663) a far guerra ai Longobardi; provocolli, e poi non aspettò lo scontro loro a Benevento; e vedendo sconfitto un grosso di sue genti, in fretta visitò Roma, raccolsevi quante cose di pregio rimaneano nelle chiese, fino il bronzo ond'era coperto il tetto del Panteon; e, incalzato da' Longobardi, passò in Sicilia; si chiuse con la corte e i tesori a Siracusa. E in vero ei disegnò di porvi la sede dell'imperio; come già Eraclio l'avol suo, prima di liberarsi con eroico sforzo da' Persiani e dagli Avari, era stato per tramutarla in Affrica. Al quale pensiero sembra mosso Costante dalla spaventevole forza degli Arabi che parea dovessero occupare da un dì all'altro tutta l'Asia Minore, mentre i popoli settentrionali incalzavano da un altro lato: ed egli è evidente che, disperando di tenere Costantinopoli, non si potea scegliere più sicura nè più comoda stanza alle forze vitali dell'impero, che la fertile isola cinta dai porti di Messina, Siracusa, Lilibeo e Palermo, donde le armate avrebbero signoreggiato il Mediterraneo, e agevolmente si sarebbe ripigliata l'Italia. Le guerre civili che sopravvennero tra i Musulmani allontanarono poi quel gran pericolo; e gli avvenimenti nati in Sicilia fecero svanire al tutto il disegno.

146Omar-ibn-Madî-Karib, interrogato dal califo Omar su la virtù delle varie maniere d'armi, rispondea così per le saette; per la lancia dicea: or è tuo fratello, or ti tradisce, ec. Egli si piccava sopratutto di maneggiar la spada e l'espresse con una parolaccia alla quale il califfo rispose con lo staffile. Ibn-Abd-Rabbih, Kitâb-el-I'kd, MS., tom. I, fol. 50 verso.
147Ibn-Abd-Rabbih, op. cit., tom. I, fol. 26 verso. Tacito avea scritto: Velocitas juxta formidinem; contatio propior constantiæ est. De Mor. Germ. Ciò che dico delle armi e tattica dei Musulmani nei primi secoli dell'islamismo si ricava anche dai varii racconti di lor guerre, non meno che dai trattati di Leone il filosofo, Leonis imperatoris Tactica, cap. 18, edizione di Meursius, p. 810, seg., e di Costantino Porfirogenito, Constantini Tactica, ibid., p. 1398, seg.
148Gli Arabi non han preso mai il nome di Saraceni, nè altro simile; nè avvi nei loro ricordi alcuna gente così chiamata. Questa vocabolo, scritto dai Latini Sarraceni e da' Greci Σαρακηνοὶ, presso Plinio il vecchio, Tolomeo e Stefano Bizantino, denota alcune tribù e picciole popolazioni; Ammiano Marcellino e Procopio l'usano in significato più vasto; e gli scrittori occidentali dopo l'islamismo gli danno la estensione che io ho accennato. Indi si vede come successivamente si allargasse quella denominazione tra il primo e 'l quarto e poi di nuovo tra il sesto e il settimo secolo dell'era volgare. L'etimologia è incerta, ancorchè gli eruditi si siano tanto sforzati a trovarla, cominciando da San Geronimo che facea derivare il nome dei figli di Agar da Sara; e scendendo ai moderni, i quali han creduto raffigurar certi vocaboli arabi che suonerebbero uomini del deserto, ladroncelli e simili baie. Secondo una opinione più plausibile, Saraceni, sarebbe trascrizione della voce arabica sciarkiun, al genitivo (sul quale per lo più si costruiscono i derivati in tutte le lingue) sciarkiin che significa orientali; la qual voce i Greci e i Romani non poteano trascrivere nè pronunziare altrimenti che sarkin o sarakin, mancando nell'alfabeto loro la lettera scin che risponde alla ch francese e sh inglese. Veggansi Gibbon, Decline and Fall, Cap. L, nota 30, con l'annotazione di Milman; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LVI, § 24; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p. 229, 231.
149Evagrius, Historia Ecclesiastica, lib. VI, cap. 2; Nicephorus Callistius, Ecclesiasticæ Historiæ lib. XVIII, cap. 10; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. II, pag. 133. I due scrittori greci, portando il nome del principe arabo con l'articolo, scrivonlo Alamondar.
150Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori R. I., tom. III, pag. 140.
151Processo di papa Martino a Costantinopoli, presso Labbe, Sacros. Concilia, tom. VI, pag. 63, 68, 69.
152All'accusa di connivenza con Olimpio il papa rispose che non avrebbe avuto forze da opporsi; e recriminò contro uno degli accusatori il quale s'era trovato in condizioni simili.
153Beladori, presso Reinaud, Fragments Arabes etc. relatifs à l'Inde, p. 182. I due luoghi di Ibn-Khaldûn, riferiti nella nota seguente, mi inducono a tradurre in questo modo il passo analogo del Beladori.
154Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, nel British Museum, MS. 9547, fol. 143 verso; e Storia, sezione 2ª, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, vol. II, fol. 180 verso. In questi due luoghi si legge in due modi alquanto diversi il motto riferito da Beladori e citato di sopra; se non che è attribuito ad A'mr-ibn-A'si, il quale, interrogato da Omar che fosse il Mediterraneo, rispondeva: “Una sterminata pianura su la quale cavalcano uomini di poco cervello, piantati come vermi in un pezzo di legno.” Nei Prolegomeni lo storico arabo aggiugne riflessioni generali su le armate dei Musulmani. Nell'altro luogo citato, che contiene la storia dei primi califi, narra che Mo'âwia proponesse ad Omar l'impresa di Cipro; che quegli domandasse ragguagli ad A'mr-ibn-A'si capitano d'Egitto, e che, avutane quella risposta, vietasse l'impresa nei termini ch'io ho riferito. Il citato squarcio dei Prolegomeni si legge in inglese, con interpretazione che non risponde del tutto alla mia, nell'opera del Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain by Al-Makkari, tom. I, p. XXXIV.
155Le indulgenze che guadagnano i Musulmani combattendo per mare sono annoverate nel Mesciâri'-el-Asciwâk, p. 49, seg. Le opinioni contrarie leggonsi presso M. Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p. 370 e 476; e Invasions des Sarrazins en France, p. 64 e 67. Tra le altre v'ha che i legisti teneano come stolto, e indi incapace a far testimonianza in giudizio, chiunque avesse navigato due o più volte per cagion di mercatura.
156Ibn-Khaldûn, Storia, sezione 2ª, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, vol. II, fog. 180 verso.
157Ibid., fog. 181 recto.
158Gli annalisti musulmani son dubbii su queste date. Le pongo secondo i bizantini citati da Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LIX, § 35, 36.
159Presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 63, 68, 69. Il papa si discolpava dell'accusa d'aver mandato lettere e danari ai Saraceni, allegando non aver fatto che qualche picciola limosina a servi di Dio andati nel paese che occupavano gli Infedeli: senza dubbio la Sicilia. Gli apponevano inoltre i magistrati bizantini il favore dato all'esarco Olimpio che praticava contro l'imperatore, come pare, quando, rappacificatosi col papa, passò in Sicilia.
160Tom. I, p. 532, sotto l'anno del mondo 6155, secondo il conto suo, che, ridotto all'era volgare, risponderebbe al 662. Il passo di Teofane, rettamente interpretato (e posso dirlo con certezza dopo averlo messo sotto gli occhi di M. Hase), è del tenor seguente: “Quest'anno fu occupata parte della Sicilia, e (i prigioni), a scelta loro, furon fatti stanziare in Damasco.” La inesatta versione latina del testo stampato ha portato alcuni compilatori moderni a sognare un volontario esilio di Siciliani a Damasco.
161Presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 140; e Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 3, che dà più corretto questo luogo del testo. Parlando d'Olimpio, Anastasio dice: Qui, facta pace cum sancta Dei Ecclesia, colligens exercitum, profectus est Siciliam adversus gentem Sarracenorum, qui ibidem habitabant. Et, peccato faciente, major interitus in exercitu romano pervenit, et post hoc idem exarchus morbo interiit. Secondo le correzioni del Pagi al Baronio (anno 649 e seguenti), la passata d'Olimpio in Sicilia si dee riferire al 652; la qual data è determinata con certezza dai noti casi di papa Martino, che succedettero dopo la morte d'Olimpio. Veggasi anche lo stesso Anastasio Bibliotecario, Historia Ecclesiastica, anno 22 di Costante.
162Beladori, MS. di Leyde, p. 275: “Dicono che abbia osteggiato la Sicilia Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di Kinda, ai giorni di Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân. Egli il primo portò la guerra in quest'isola; nè posò d'allora in poi l'infestagione, finchè gli Aghlabiti vi occuparono oltre una ventina di cittadi.”… “Narra il Wâkidi che Abd-Allah-ibn-Kaîs abbia fatto prigioni in Sicilia, e presovi simulacri d'oro e d'argento incoronati di gemme, i quali mandò a Mo'âwia (il califo) che inviolli a Bassora, a fine d'imbarcarli per l'India, e quivi farli vendere con avvantaggio.” Come ognun vede, il Beladori non confonde queste due scorrerie, che veramente furono distinte, ancorchè egli nol dica espresso. Aggiungasi che il Beladori scrive l'impresa di Sicilia immediatamente innanzi quella di Rodi, su la data della quale non v'ha dubbio. Il Wâkidi citato da lui è il cronista le cui opere son perdute, e il nome è stato usurpato dal compilatore moderno di cui feci menzione. Nel testo di Beladori si legge Khodeig in luogo di Hodeig, com'io l'ho corretto, seguendo Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fol. 171, seg. E così anco ha fatto sopra altre autorità il dotto editore del Baiân, alla p. 9.
163La più autorevole ancorchè più recente è il Baiân, p. 9 ed 11. Quivi si distinguono le due scorrerie di cui abbiam detto nella nota precedente; ma si attribuisce alla prima una circostanza peculiare della seconda, cioè gli idoli mandati a rivendere in India. Il Baiân pone la prima nel 34 (654-5) e la seconda nel 46 (666-7): date sbagliate l'una e l'altra per lo studio di connettere queste due imprese di Sicilia con quelle d'Affrica, con le quali non ebbero che fare. Sembra che altri compilatori abbiano confuso in una sola le due imprese per la medesima ragione, e perchè supposero che la espressione del Beladori “ai giorni di Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân” significasse mentre Mo'âwia era califo (661-680), più tosto che nel tempo ch'ei governò la Siria (640-661). Cotesti compilatori sono il Bekri, citato da Ibn-Scebbât, MS., p. 7; il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 1; e Ibn-abi-Dinâr, MS., fol. 10 verso, e traduzione, p. 41. Ibn-el-Athîr non fa menzione nè dell'una nè dell'altra impresa, talchè è da supporre qualche lacuna nel MS.
164Dopo i lavori dell'Hamaker e d'altri orientalisti, è nota la falsità del libro del conquisto di Siria attribuito a Wâkidi; sul quale Okley in gran parte compilò la sua storia de' Saraceni, e trasse nel proprio errore Gibbon e parecchi altri. Questo libro e quei dello stesso conio su i conquisti di Egitto etc., contengono insieme tradizioni genuine e fittizie, e son opere di uno o parecchi compilatori. Or tra i molti MSS. del falso Wâkidi che v'hanno nelle collezioni europee, se ne trova uno al British Museum (Bibl. Rich. 7361. Nº CCLXXXVII del catalogo stampato) che contiene lunghe appendici su i conquisti di Cipro, Rodi, Affrica, Sicilia ed Arado. Su queste appendici è da notare in primo luogo che le non sian date, come il rimanente del MS., a nome or del Wâkidi ed ora del rawî, ossia raccontatore, ma sempre di quest'ultimo. In secondo luogo si scopre in qual tempo scrisse il rawî; perchè parlando dell'Etna (fol. 118 recto) ei cita il racconto fattogli da uno sceikh siciliano per nome Abu-l-Kâsem-ibn-Hakem, che vivea a corte del califo di Bagdad. Per avventura il medesimo sceikh si vede citato da Abu-Hâmid-Mohammed-ibn-Abd-er-Rahîm-el-Mokri nella compilazione di geografia intitolata Tohfat-el-Albâb, della quale conosciam la data, cioè l'anno 557 dell'egira (1161): e sappiamo che l'autore si fosse trovato a Bagdad nel 1122 e nel 1160 (Reinaud, Géographie d'Abulfeda, tom. I, Introduction, p. CXII). Abu-Hâmid dice aver sentito di propria bocca di Abu-l-Kâsem a Bagdad le notizie ch'ei dà su l'Etna, le quali esattamente rispondono a quelle del falso-Wâkidi (Tohfat-el-albâb, MS. di Parigi, Ancien Fonds 586, fol. 66 recto, e Suppl. arabe, 861, 862, 863). Mi par dunque certo che il compilatore dell'appendice sia vivuto nel XII secolo, e ch'egli non abbia preteso punto di attribuir l'appendice a Wâkidi, nel qual caso non avrebbe citato il nome d'un contemporaneo, uomo assai noto. Oltre a ciò le idee e lo stile, sì dell'opera principale e sì delle appendici, tengon bene della esaltazione religiosa, della esasperazione di sentimenti nazionali, e fin della moda di romanzi cavallereschi deste in Oriente dalle Crociate. Trovo finalmente nella appendice su la Sicilia: “Il re dei Rum ha tenuto sua sede dai tempi più remoti infino a questi nostri giorni, in tre luoghi soli, cioè la Sicilia, Roma, e Costantinopoli” (fog. 119 verso); la quale asserzione s'adatta alle vicende dell'impero fino al soggiorno di Costante a Siracusa, e risponde anco più esattamente al duodecimo secolo, in cui i potentati delle provincie italiane e greche erano appunto quei tre: imperatore bizantino, re normanno di Sicilia, e re dei Romani. Passando alla critica dei fatti, basta a percorrere le appendici per accorgersi di quel miscuglio di vero e di falso che si trova in tutte le opere dello pseudo-Wâkidi; ma è notevole che la sconfitta navale e la uccisione di Costante, e poi il conquisto dell'Affrica, siano raccontati con circostanze più vicine al vero, e in generale senza le novellette che Ibn-el-Athîr e altri rinomati scrittori accettarono come fatti storici. Che se parrebbe sospetta a prima vista la mancanza del nome di chi capitanò questa impresa di Sicilia, ciò può provare al contrario la diligenza del compilatore, poichè i ricordi antichi erano divisi su tal punto, e chi dava l'onore a Mo'âwia-ibn-Hodeig, chi ad Abd-Allah-ibn-Kais. Del rimanente sarà agevole, a creder mio, a scevrare le finzioni dai fatti che il compilatore tolse da autori antichi, forse dal genuino Wâkidi. Perciò non ho avuto scrupolo ad ammettere questi ultimi nella mia narrazione. E perchè il lettore possa rivedere il giudizio mio, gli porrò sotto gli occhi la somma della detta appendice che è questa: I Musulmani, levata una taglia in Affrica e ritrattisi da quella provincia, volgon la mente al conquisto di Sicilia, una delle antiche sedi dei re romani, vasta isola e ferace. Mo'âwia ne scrive al califo Othman, che assente. Gli Affricani, risapendo questo, ne danno avviso in Sicilia. Il principe della quale isola s'adira del disegno, senza prestarvi molta fede. Scioglie dalla costiera (di Siria) l'armata musulmana, di trecento legni, e improvvisa piomba sull'isola, ove il principe dall'alto del suo palagio la vede venire adorna di bandiere e gonfaloni e piena di guerrieri bene armati. Il principe di Cesarea che s'era rifuggito in Sicilia, quando il cacciarono gli Arabi, consiglia a quel di Sicilia di comporre per danaro. Quei spregia l'avviso, dicendo aver tali forze da far testa agli Arabi in cento scontri e resister loro per un anno intero. Nondimeno, surta che fu all'áncora l'armata musulmana, ei mandava a parlamentare. Viene a lui un oratore musulmano che per via d'interpreti gli propone l'islamismo, il tributo, o la guerra: lungo discorso seguíto da una lunga e sdegnosa risposta del principe di Sicilia. Infine un patrizio domanda all'oratore se alcun arabo voglia misurarsi con lui. “Sì lo faranno gli infimi dell'esercito musulmano;” risponde l'oratore. Descrizione del duello, in cui il patrizio è ucciso. Sbigottito il principe a tal esempio, si chiude in fortezza; e i Musulmani danno il guasto a varii luoghi ed espugnano con lor macchine varie castella. Infine si viene a giornata. Il principe rompe l'ala sinistra de' Musulmani; ma la destra tien fermo, e la battaglia dura in fino a sera. A notte avanzata, i Musulmani lasciano il campo, e rimontati su l'armata vanno ad infestare altre parti dell'isola. Il principe siciliano scrive ai Romani (d'Italia) chiedendo rinforzi; ma essi nè anco gli rispondono. Allora il principe di Cesarea gli suggerisce di tenere a bada il capitan musulmano con simulate proposizioni di pace e mandare per aiuto al principe di Costantinopoli: a che il Siciliano replica: “Mai noi farò quando anche dovessi perdere l'isola.” Così i Musulmani continuano a depredare il paese, finchè il principe di Costantinopoli mandavi secento navi ben munite di guerrieri. Avutone avviso, i Musulmani deliberano di partire immediatamente. Lascian l'isola nottetempo; e, dopo parecchi giorni di navigazione, giungono alla costiera di Siria; dove sbarcato il bottino e i prigioni, li arrecano a Damasco a Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân. Levatone la quinta, Mo'âwia la manda ad Othman, ragguagliandolo del fatto di Sicilia, e che i Musulmani ne fossero usciti sani e salvi. Dopo ciò, i Musulmani combattono l'isola di Arado, che fu l'ultima vittoria loro sotto il califato di Othman, e seguì lo stesso anno della uccisione di lui.
165Ibn-Scebbâtt, MS., pag. 50, dice: “Sikillia è anche nome di una dhía (villa o podere addetto a beneficio militare) nella Ghûta di Damasco.” Il Merasid-el-Ittila' MS. di Leyde, ha quest'altro breve articolo: “Sikilliât (al plurale femminino) con tre i e la l raddoppiata, dicono sia nome di luogo in Siria.” Questa opera è compendio del gran dizionario geografico di Jakut, e si attribuisce il compendio allo stesso autore che vivea nel XIII secolo. Vedi Reinaud, Géographie d'Abulfeda, tom. I, p. CXXXIII, seg.
166Dsehebi, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 746, tom. 1, anni 37 e 38.
167Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 430.
168Ibid., p. 253. Quest'impresa seguì l'anno 31 (651-52); e come altri due guerrieri di nome riportarono la stessa ferita di Ibn-Hodeig, così gli Arabi chiamarono i Nubii “saettatori delle pupille.”
169Beladori, l c.; Baiân, p. 9, il quale riferisce l'impresa al 34, mentre Mo'âwia-ibn-Hodeig era in Affrica; e però è costretto a dire ch'egli mandò ad assaltare la Sicilia.
170Soprattutto le tre espedizioni ch'egli capitanò nell'Affrica propria gli anni 34 (654-5), 40 (660-1), e 50 (670); l'una delle quali si scambiava con l'altra fin dal tempo dei primi scrittori, come l'afferma Ibn-abd-el-Hakem, che visse nel IX secolo dell'era cristiana. Veggansi Ibn-abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 262, 263, e Ancien Fonds 785, fol. 109 recto e 122, e il Riadh-en-nofûs, fol. 9 recto.
171Riscontrinsi le citazioni che ho fatto sopra testualmente, e si giudichi se dian prova di tutti i fatti ch'io scrivo. Veggasi del rimanente Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LX, § 6, 36, con le correzioni del Saint-Martin. Parmi errore del Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tom. I, p. 28, e, su le orme di lui, del Wenrich, di avere trascurato questa impresa, e tenuto come primo assalto de' Musulmani quello del 669.
172Le memorie e i documenti relativi a papa Martino, dalla esaltazione infino alla morte, si leggono presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, dal principio alla p. 70. Vedi anche Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 526 a 531; il Baronio, Annales, anni 649 e 651, con le correzioni del Pagi; e Le Beau, Histoire du-Bas Empire, lib. LX, § 4, seg. La strana accusa fatta a San Massimo si scorge dagli atti, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 433.
173Corano, II, 250.
174Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 255 seg. Da lui solo è riferito l'episodio di Bosaisa; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fol. 185 verso e seg., il quale pone la battaglia sotto l'anno 31, ma dice che secondo altri seguì il 34 (654-5), che è la vera data secondo gli scrittori bizantini, cioè: Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 528, seg.; Cedrenus, tom. I, p. 756. Il numero di mille navi bizantine è dato da Ibn-Abd-el-Hakem, e da Isidoro de Beja scrittore cristiano di Spagna dell'ottavo secolo, presso Flores, España Sacrada, tom. VIII, pag. 282, seg., il quale riferisce la battaglia al 652.