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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I

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Le pratiche mosse di Sicilia intanto incalzavano. Un prete di Capua svelò al papa che Arigiso fosse stato per giurare fedeltà allo imperatore di Costantinopoli, e fin vestirsi e tosarsi alla greca, a condizione che gli si desse il titolo di patrizio e la investitura del Ducato di Napoli. La cosa andò tant'oltre che due spatarii dello imperatore veniano di Sicilia a ricevere il giuramento di Arigiso, quand'egli inaspettatamente si morì.274 Al quale succeduto il figliuolo Grimoaldo che avea appreso a corte di Carlomagno a simulare e aspettar tempo, si guastò la parte principale del disegno, la quale era fondata in su le forze dello Stato di Benevento. Grimoaldo, circondato di capitani e genti di Carlo e di spie del papa, fu necessitato a volgere le armi beneventane contro il proprio congiunto che veniva a liberarlo.

Perchè la fortuna tanto avea ancora arriso alla virtù di Adelchi, che spezzatasi la pratica di matrimonio tra lo imperatore Costantino e una figliuola di Carlomagno, e coincidendo il fatto di Terracina, la corte di Costantinopoli si lasciò trasportare da insolita collera. Spacciato in Ponente con soldati un Giovanni sacellario e logoteta, ch'erano ragguardevoli uficii d'azienda, e aggiuntevi le milizie di Sicilia capitanate dall'eunuco Teodoro, patrizio e stratego dell'isola, l'oste sbarcò in terraferma. Adelchi vi si trovò; e mossero sopra lo Stato di Benevento. Scontraronsi con le genti longobarde di Benevento e di Spoleto, capitanate dai due duchi, Grimoaldo e Ildebrando; e i Greci furono rotti con molta strage, e tra gli altri il sacellario fatto prigione e poi ucciso.275 Adelchi ebbe peggior sorte che di restar morto in campo, com'altri ha detto.276 Sopravvivuto alla sconfitta, vide dileguare le ultime speranze di sua schiatta che sventuratamente si fondavano sugli stranieri. Pure quella battaglia, se non ristorò il reame longobardo, mantenne i Ducati a dispetto di papa Adriano, per la gratitudine e fidanza di Carlo verso Grimoaldo e Ildebrando. A capo di pochi anni venne fatto al papa di lanciar di nuovo i Franchi verso il mezzogiorno; ma la fortuna non li aiutò: Adriano morì indi a poco, e Carlomagno si trovò men disposto che mai a continuare lo aggrandimento del dominio papale.

I patrizii di Sicilia in questo mezzo si esercitarono nei maneggi diplomatici a corte di Carlomagno, con migliore fortuna che non avessero testè fatto nella guerra. Andava a Carlo in Aquisgrana un Teoctisto, legato di Niceta, patrizio di Sicilia (797); e, non guari dopo (799), un Daniele mandato a lui da Michele successore di Niceta:277 la causa delle quali missioni si ignora; ma ci apporremmo al vero supponendo che s'intendesse a distogliere il re da alcuno assalto sopra i dominii greci in Italia, suggerito per avventura da Leone Terzo. Certo egli è che, dell'ottocento, ito Carlomagno a Roma per cingersi la corona imperiale, si parlò di una impresa, non che sull'Italia meridionale, ma sopra la stessa Sicilia, sede delle forze che manteneano ancora quelle provincie nella devozione dei Bizantini. Questo disegno fu abbandonato al pari, perchè Carlomagno non andava di buone gambe alle guerre meridionali, e avea troppe brighe nel mondo e niuna forza navale, e volle rappacificarsi con Irene; donde nacque la falsa voce del matrimonio che si trattasse tra loro.278 Forse Carlomagno avrebbe tentato in migliore occasione la Sicilia, perchè lo veggiamo accogliere in Roma (801) un fuggitivo siciliano, uom di assai nota, Leone Spatario, ch'ei rimandava dieci anni appresso a Niceforo imperatore.279 Ma erano pensieri vaghi e dimenticati tra cose di gravissimo momento. Quegli che non obbliava la Sicilia era il papa. Or col pretesto di farsi mediatore di pace tra i due imperatori d'Oriente e d'Occidente, or di ricomporre le liti religiose che ripullulavano dopo la morte di Irene, o di rivendicare gli infiniti patrimonii di San Pietro, sempre trovava modo di mandare al patrizio di Sicilia alcun suo fidato che spiasse gli umori del paese, gli intendimenti del governo, le novelle della corte di Costantinopoli. E com'avrebbe fatto un ministro di polizia, puntualmente e sommessamente, il papa ne ragguagliava Carlomagno.

Gittano un baleno di luce su coteste pratiche le epistole di papa Leone allo imperatore, date dell'ottocento tredici, quando si temeva in Italia un assalto dei Musulmani. Ritraggiamo da quelle che Carlomagno avea scritto al patrizio, e mandato la lettera per mani del nunzio papale; che il patrizio, in luogo di rispondere allo imperator di Occidente, s'era indirizzato al papa; e che questi, senza dissuggellare la risposta che andava a suo nome, l'avea fatto capitare a Carlomagno; aggiugnendo gli avvisi che ritraea, dal patrizio non già, ma dalla bocca del proprio nunzio. Di più, questi era stato tenuto nel palagio del patrizio in custodia d'un segretario; guardato a vista quasi parlamentario ch'entri in una fortezza assediata. Tant'oltre andavano i sospetti o i disegni del patrizio, ch'ei ragionando con l'uom del papa in ottobre, non raccontava altrimenti i fatti di Costantinopoli del luglio, che con dire chiuso in un monastero Michele Rangabe, senza far motto del successore;280 e che infino a mezzo novembre par che Gregorio si sforzasse a dissimulare al papa il mutamento di signoria assodato già nella capitale.281 Da cotesti indizii non si può ritrarre se il patrizio evitasse di rispondere a Carlomagno per osservare alcuna formalità diplomatica del tempo, per eludere qualche domanda che gli recava disagio, ovvero per differire a riconoscere la esaltazione di Leone l'Armeno, sperando, sia che il Rangabe risalisse sul trono, sia che ei medesimo favorito dall'esercito di Sicilia potesse tentar novità. Ciò che di certo si vede è la importanza dell'uficio di stratego e patrizio di Sicilia in questo tempo, e la scherma di astuzie con che combatteva contro il pontefice di Roma: bizantino contro papalino, proprio maestri di buona scuola!

Morto di lì a poco Carlomagno (gennaio 814), e dopo due anni anco papa Leone Terzo, e raccesa da Leone Armeno la lite delle immagini (815), avrebbe potuto per avventura la Sicilia fare scala al racquisto dei territorii perduti dall'Impero di Costantinopoli nell'Italia meridionale. Le relazioni dell'isola con quella regione di terraferma avrebbero favorito il disegno; poichè par che fossero rese più frequenti e amichevoli dall'interesse comune dei popoli. Così veggiamo i Napoletani, sotto il regno di Leone l'Armeno, mandar a cercare in Sicilia un Teoctisto per farlo capitano di loro repubblica.282 Così anco i Siciliani esercitare commerci sì frequenti in Calabria su i confini dello Stato longobardo di Benevento, che le gabelle pagate da loro montavano a grossa somma di danaro.283 Pertanto un novello sforzo dell'impero bizantino avrebbe trovato condizioni assai favorevoli. Ma i due soldati che regnarono successivamente a Costantinopoli, furono distolti da altre cure. Leone l'Armeno si travagliò aspramente in guerra contro i Bulgari (813-815), poi contro i frati iconolatri dell'Impero. Michele il Balbo, che l'uccise, e gli succedette (26 dicembre 820), s'ebbe a difendere da un altro vecchio commilitone, Tommaso di Cappadocia: fattosi gridare imperatore; venuto ad assediare Costantinopoli; e spento a grandissima fatica, dopo tre anni di guerra (823). Tennero dietro a cotesti travagli, lo sbarco dei Musulmani a Creta; le sconfitte degli eserciti bizantini mandativi al racquisto (823-825). Pertanto, non che pensare alla terraferma d'Italia, Michele il Balbo, non valse a reprimere per parecchi anni i movimenti di Sicilia, dei quali si dirà nel seguente libro.

 

CAPITOLO IX

Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elemento sì potente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro.284 Le torme poi di schiavi, ragunate da tante regioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le altre schiatte.285 I popoli settentrionali, come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o dell'Asia Minore,286 e relegati per cagion di Stato.287 Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia,288 ove par che abbiano fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani289 la espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante popolazioni avventizie, che potessero mutare le schiatte esistenti. S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi (911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti.290 Con denominazione più esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle dominazioni romana e bizantina.

Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo.291 Un papiro del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di certi poderi, ne contiene più greci che latini:292 e alla fine del sesto secolo, San Gregorio ci parla degli abitatori greci e latini.293 Gli annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma, altri a quella d'Antiochia;294 un dei papi siciliani, Leone II (682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino;295 e alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.296 Finalmente, sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di Diodoro,297 se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa da entrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di Giustiniano.298

 

Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento. Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio imperiale.299 Donde è manifesto che la curia non va chiamata aristocrazia, ma veramente popolani grassi o borghesi.

Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera.300 Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella medesima condizione gli antichi schiavi.301 Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e spesseggia ai contrario quel dei coloni.302 Io non dirò altrimenti della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che tal prescrizione, assai più lunga di quella fissata per gli schiavi, non si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a pregiudizio de' figliuoli.303 Tal condizione dunque non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un patto sì disuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle nazioni.

Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori,304 i quali nè anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni305 e gli schiavi,306 che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli appresso, non abborrirono la servitù men cruenta della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte.307 A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri poderi.308 Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi romani Montano e Tommaso, dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben dire: “Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù.”309 Seppe egli ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei.310 Ma non emancipò nè punto nè poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui;311 fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si nascondeano in altri poderi;312 ed è manifesto ch'ei lasciasse non uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa Conone, gli rimetteva (686) “la famiglia” del patrimonio di Sicilia e di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco;313 la qual famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come gli armenti, e poichè la legge fiscale permettea di prendere gli schiavi314 ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni.315

Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in canone su la proprietà.316 L'azienda imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi,317 e poco appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie, come la godeano i beni tutti del patrimonio.318 Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola.319

Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato nell'isola.320 Principal prodotto del suolo fu sempre il grano.321 In secondo par che venisse la cultura della vite.322 Quella dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron le prime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd, vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata un'uliva: “Ecco donde le caviamo,” disse ad Abd-Allah; “i Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro.”323 La denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al duodecimo.324 Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola.325

Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino. Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, come chiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della Sicilia.326 I Goti nel breve dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie.327 Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui.328 Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo.329

Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini subalterni, che poco montano330 e non differivano da quei delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodo strumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità.331 La decadenza poi delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de' conciliatori o giudici di pace dei tempi nostri,332 alle cure edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della voce tecnica d'allora, indicea la somma ai municipii, e questi la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle cariche municipali:333 infelici privilegiati, disposti forse ad abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie curuli.334 Così la necessità del fisco portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al conquisto dei Musulmani.335

Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo secolo, modestamente si scompartì in ventinove temi, come li dissero con voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e costiera.336 Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego, novello nome militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità.337

274Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LXXXVIII; edizione del Cenni, ep. XCI.
275Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 718 (anno 6281); Historia Miscella, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 167; Einhardus, ed Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores etc., tomo I, p. 174, 175. – Due altre epistole di Adriano inserite nel Codice Carolino, sotto i numeri XC e XCII del Gretser, e LXXXIX e XC del Cenni, e poste dal Cenni nel 778, si debbono riferire, come io credo, a questo tempo. Trattano entrambe delle mene di Adelchi in Calabria; e nella seconda si dice che il patrizio di Sicilia e i due spatarii, sbarcati con esso ad Agropoli del mese di gennaio, erano iti a trovare la vedova di Arigiso a Salerno, e di lì eran passati a Napoli.
276Tale supposizione è fondata nel racconto di Sigeberto, cronista dell'XI secolo, il quale mal interpretando la Historia Miscella, credè a proposito far morire Adelchi, protagonista da tragedia, piuttosto che il pacifico Giovanni. Non dobbiamo oggi seguire l'errore noi che abbiamo alle mani Teofane, sul cui testo fu fatta la versione compendiata detta Historia Miscella.
277Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 182, 186.
278Theophanes, Chronographia, tomo 1, pag. 736 (anno 6293).
279Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo 1, p. 198.
280Epistola citata dell'11 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VII, p. 1114; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. IV di Leone.
281Epistola del 25 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VII, p. 1117; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. X, di Leone.
282Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 312.
283Anonymus Salernitanus, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte II, p. 209.
284Diodorus Siculus, lib. V, cap. VI.
285Ve n'era in Palermo, Catania, Girgenti ec., come si scorge dalle epistole di San Gregorio, lib. V, 132; VII, 24, 26.
286A coteste famiglie di militari o impiegati venute di passaggio, e talvolta rimaste in Sicilia, par che appartenessero alcuni uomini dei quali il caso ci ha conservato i nomi; per esempio, Conone papa, nato in Tracia e educato in Sicilia; Sergio papa, oriundo d'Antiochia e nato a Palermo.
287Veggasi questo medesimo capitolo, pagg. 222 e 223.
288Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 727.
289Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto; MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.
290Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, tomo III, p. 58. Sarebbe da approfondire il cenno etnologico di Costantino, relativamente ai Sicoli. Non saprei in quale scrittore antico egli abbia potuto trovare che Liguri fosse il nome generale de' popoli di cui facean parte i Sicoli; il qual nome, secondo la opinione del Niebuhr, non è altro che una variante di pronunzia della voce Itali.
291Veggasi Torremuzza (G. L. Castelli), Siciliæ… veterum Inscriptionum. Ricordisi inoltre la venuta di Porfirio, che scrisse e diè lezioni in Sicilia verso il 300.
292Papiro del 444, presso il Marini, I Papiri diplomatici; nº LXXIII, p. 108, seg. I nomi sono Zosimo, Caprione, Sisinnio, Eleuterio, Eubudo.
293Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº LXIII, indizione 2ª.
294Pirro, Sicilia Sacra, p. 997; Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissert. III, p. 423, seg.
295Anastasius Bibliothecarius, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, p. 145.
296Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº LXIII, indizione 2ª; e notisi la riflessione del Pirro, Sicilia Sacra, p. 34, a proposito dei matrimonii dei preti.
297Diodorus Siculus, lib. I, cap. III.
298L'Assemani, trattando la presente questione nel tomo IV degli Italicæ Historiæ Scriptores, cap. II, §i 1 a 22, ha sostenuto che sempre prevalesse in Sicilia il linguaggio latino al greco. Ma gli esempii che allega anzi mi rafforzano nella mia opinione. Tra gli altri, v'ha le soscrizioni greche dei vescovi di Sicilia e di Calabria che sedettero nei Concilio di Costantinopoli dell'869-70.
299Codex Theodosianus, lib. XII, tit. XXXIII, XXXV. – Venticinque iugeri rispondono a un di presso a sei hectares di Francia, e a tre salme e mezza di Sicilia. Ma ricavandosi pochissimo dalla terra, si dovrà quella riguardare come picciola possessione.
300Veggansi le autorità citate da Gibbon e dai suoi commentatori Guizot e Milman, cap. II, note 46 a 61.
301Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, legge 18. Questa legge è scritta in greco, e posta tra quelle d'Onorio e Teodosio, ma senza ripetervisi i nomi di questi imperatori; talchè la data rimane incerta, e si può supporre più recente. Dice che i contadini (γεωργοὶ) altri sono ascrittizii (ὲναπόγραφοι), e i loro peculii appartengono ai padroni; altri, dopo trent'anni, divengono liberi coloni (μισθωτοὶ ἐλεύθεροι) con la roba loro, e sono obbligati a pagar canone e lavorar la terra. E ciò, conchiude la legge, è più utile ed al signore e ai contadini. Una testimonianza sì diretta non ha bisogno di comento.
302Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, voce Colonus. Ai tempi di Teodosio si distingueano in originarii e inquilini, cioè i nati nel podere e gli avventizii. Sotto Giustiniano forse questa ultima classe di coloni si diceva ascrittizii: e talvolta son chiamati tributarii ed inquilini, talvolta rustici e coloni, Codex Theodosianus, lib. V, tit. X; lib. X, tit. XII; lib. XIII, tit. I.
303Codex Theodosianus, lib. V, tit. IX, X, XI; Valentiniani, Novellæ, nov. IX.
304Dei conduttori in Sicilia si fa menzione nel citato papiro del 444, Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII, e nella epistola di San Gregorio, lib. I, nº XLII, indizione 9ª, che trovasi anco presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. LXIX, p. 110.
305Divi Gregorii papæ, Epistolæ, ibidem. Oltre I conduttori distinti dai coloni, vi si parla di rustici in modo, che questa voce par sinonimo di coloni, se pur non comprende gli uni e gli altri insieme.
306Dei servi dei fondi patrimoniali in Sardegna, e, come pensa Gotofredo, anche in Sicilia e in Corsica, si fa menzione in una legge di Costantino il Grande, Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, data forse il 325. Veggasi anco Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. IV, p. 5. In un papiro del 489, risguardante certi poderi nel territorio di Siracusa, leggiamo inquilinos sive servos, presso Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXXII e LXXXIII, p. 128 e 129.
307Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº XLII; e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº LXIX, p. 110.
308Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. X, nº XXVIII: “sed in ea massa, cui lege et conditione ligati sunt, socientur.”
309Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. V, nº XII.
310Ibidem, lib. III, nº IX; lib. V, nº XXXI e XXXII.
311Un fanciullo siciliano, per nome Acosimo, fu donato da lui il 593 al consigliere Teodoro, che avea ben meritato della Chiesa, e non possedea schiavi. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. II, nº XVIII, indiz, 11ª.
312Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº XVIII, indiz. 2ª.
313Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italic. Script., tomo III, p. 147: “Itemque et aliam jussionem direxit ut restituatur familia suprascripti patrimonii et Siciliæ, quæ in pignore a militia detinebatur.”
314Codex Theodosianus, lib. XI, tit. IX.
315Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII.
316Veggasi la legge del Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, nº 18, citata di sopra, p. 190.
317Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, legge di Costantino il Grande, di data incerta, forse del 325.
318Codex Theodosianus, lib. XI, tit. XVI, legge di Costanzo e Giuliano Cesare, data il 359. Questa e la precedente si leggono altresì presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, ni IV e X, p. 5, 9.
319Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.
320Il papiro del 444, che ho citato più volte (Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII), mostra che i sette poderi tra masse e fondi appartenenti in Sicilia a Lauricio, e affittati separatamente, rendeano ogni anno soldi 753, 500, 445, 200, 144, 75, 52.
321Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.
322Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VIII, nº LXIII, indizione 3ª (a. 600-601). Il podere legato da una Adeodata per fondare un monistero di donne al Lilibeo, rendea dieci soldi all'anno netti di tasse; e vi erano tre ragazzi, tre gioghi di buoi, altri cinque schiavi, dieci giumente, dieci vacche, quattro iastulas vinearum, quaranta pecore e altro. Si vegga anche il lib. XI, epistola XLIX, indizione 6ª (603, 604), ove si parla della vendita del vino prodotto delle vigne della Chiesa Palermitana.
323Beladori, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 365.
324Nell'880, come da noi si racconterà nel Libro II, cap. X, le forze navali bizantine venute presso Palermo presero moltissime barche cariche d'olio, certamente non esportato. Nell'XI secolo, Bekri ci attesta la esportazione degli olii da Sfax per la Sicilia e paese dei Rûm, Notices et Extraits des MSS., tom. XII, p. 465. Nel XII secolo si mandava grano di Sicilia in Affrica per levarne olio e altre derrate. Diploma del 1134, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 975.
325Veggasi il Lib. II, cap. II.
326Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº III, IV, IX, X, XXI, XXII.
327Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº XLI, XLII, XLIII, XLIV.
328Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. IV, nº LXXVII, indizione 13ª (a. 595); e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº CXVI.
329Theophanes, Cronographia, tomo I, p. 631.
330Veggasi Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, diss. VII, c. IV, seg.
331Veggansi i fatti presso Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, lib. V; Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, tomo I, cap. XIV; Di Gregorio, Discorsi intorno la Sicilia, discorso XII.
332Justiniani Novellæ, nov. 75, altrimenti 104, De præt. Siciliæ; Savigny, Histoire du droit romain, tomo I, p. 226, e 232, cap. V, § 105, 107.
333Da questo diritto nacque senza dubbio l'uso che la curia votasse a parte dal clero e dalla plebe nella elezione dei vescovi. Due epistole di San Gregorio ci provano tal modo di votazione in Sicilia, e sono indirizzate l'una Nobilibus Syracusanis, l'altra Clero ordini et plebi Panormitanæ civitatis; lib. IV, nº XCI; lib. XI, nº XXII.
334Codex Theodosianus, lib. XII; Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº XI, indizione 1ª, anche presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº CXLII, p. 188; Gibbon, Decline and fall, cap. XVII, con le osservazioni di Guizot e di Milman, alle note 172 e 180.
335Confrontinsi i Diplomi seguenti: del 489 presso Marini, I Papiri Diplom., nº XXXII e XXXIII. verso il 504 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom., nº XXXVIII, p. 79. del 526-527 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom., nº XLI e XLIII, p. 82-84. verso il 537 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom., nº LI, p. 91. Veggansi inoltre: Justiniani, Novellæ, nov. LXVIII; Di Giovanni, op. cit., diss. VI, cap. III, p. 458, seg.; Savigny, Histoire du droit romain, cap. V, § 106-108, p. 227, seg., che cita tra gli altri documenti le epistole di San Gregorio, delle quali ho fatto parola (p. 199, nota 3); e un'altra (della quale credo errata la citazione) scritta al vescovo di Tindaro intorno l'accettazione di certe donazioni, nella quale si ricorda essere bisognevoli a ciò le gesta municipalia. Intorno i beni delle città, leggasi nel Codex Theodosianus, lib. XV, tit. I, legge 32, il rescritto di Arcadio e Onorio (anno 395) indirizzato ad Eusebio consolare di Sicilia, nel quale, provvedendosi alla conservazione delle città ed oppida dell'isola, è detto: De redditibus fundorum juris reipublicæ tertiam partem publicorum mœnium et thermarum subustioni (corretto da Gotofredo substructioni) deputamus. Fondi appartenenti alla repubblica, secondo il linguaggio legale che prevaleva in quel secolo, non significa que' del patrimonio imperiale, ma appunto beni comunali, come l'ha spiegato il Di Gregorio nel citato Discorso XII.
336Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, them. 10 e 11; De administrando imperio, tomo III, cap. XXVII, p. 58, 118, 121. Non occorre avvertire che la nuova divisione in temi, ancorchè si ritragga dalle opere di Costantino Porfirogenito, risalisce senza dubbio all'ottavo secolo. Ai tempi di quel povero imperatore (911-959) occupata tutta l'isola dagli atei Saraceni, com'ei li chiama, non rimanea del tema siciliano che la Calabria. Ei lo confessa nell'opera De Thematibus, dove prudentemente passa sotto silenzio Napoli e Amalfi ch'eran già repubbliche indipendenti. Nell'altro libro De administrando imperio confonde i temi di Sicilia e di Longobardia, nominando sol questo ultimo, e dicendo che dopo Costantino il Grande vi si mandassero due patrizii, uno dei quali per la Sicilia, Calabria, Napoli e Amalfi, e l'altro che sedendo a Benevento, reggea Pavia, Capua e il rimanente. Soggiugne più innanzi che Napoli era l'antica capitale dei patrizii; e chi comandava Napoli, comandava alla Sicilia; e andato il patrizio a Napoli, il duca di Napoli veniva in Sicilia. Queste parole non provan altro che l'ignoranza dell'augusto compilatore o di chi fece il lavoro per lui. Oltre la discrepanza delle notizie date nell'opera De Thematibus, è evidente qui che si prenda per regola generale qualche fatto particolare, e si faccia uno strano miscuglio dei tre sistemi diversi; cioè quel di Costantino, quello dei temi e quello intermedio adottato da Giustiniano dopo il conquisto di Belisario. Al contrario, il nome del tema, la importanza strategica della Sicilia al tempo in cui si adoperò la novella divisione territoriale, e qualche esempio di comandi dati dal patrizio di Sicilia al duca di Napoli, mostrano che la parte primaria del tema fosse l'isola, e la capitale probabilmente Siracusa. Così anche pensa l'Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo I, p. 356. Ciò è provato infine da una epistola di Adriano Primo a Carlomagno, nella quale dice che i Napoletani, prima di stipulare uno accordo col papa, voleano andare a chiederne il permesso al loro stratego in Sicilia, Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº LXIV, edizione del Cenni, nº LXV.
337Varii suggelli di piombo danno i nomi e titoli di alcuni governatori e altri officiali pubblici di Sicilia sotto la dominazione bizantina; donde si vede come sovente variasse il titolo del governatore, o fosse data questa autorità provvisionalmente ad officiali di grado inferiore. Da una faccia del suggello si trova sempre il monogramma: che significa Κύριε βοήθει τῷ δούλῳ σῷ “Signore aiuta il servo tuo;” e nell'altra faccia si leggono i nomi seguenti: Gregorio patrizio e stratego di Sicilia. Sergio patrizio e stratego di Sicilia. Giovanni patrizio spatario e proconsole. Andrea consolare e stratego Stefano consolare e spatario. Anastasio consolare e spatario. Giovanni patrizio e protospatario. Teodoro consolare. Gregorio consolare e protonotario. Teodoro spatario e cartulario. Leonzio prefetto. Teofilo prefetto imperiale. Leone spatario e logoteta del corso (posta). Anatolio conte. Sergio consolare e luogotenente. Veggasi Torremuzza (Gabriello L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 212, seg. I cronisti usano sempre i titoli ordinarii di stratego e patrizio. In una epistola di papa Adriano Primo a Carlomagno del 788 (Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº XCII; edizione del Cenni, nº XC), si legge: Cum dioecete, quod latine Dispositor Siciliæ dicitur.