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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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Federigo al contrario, sommo magistrato d’un popolo ritempratosi nella rivoluzione, convocando il parlamento a Messina, cospicuo nelle regie vestimenta, dal soglio esordiva con la parola del profeta, «Morire in guerra, pria che mirare i mali del popol tuo.» Vivamente ei dipinse l’ingratitudine di Giacomo, or vegnente con fresche masnade e con due principi del sangue d’Angiò, contro il fratello, contro quest’isola che il crebbe alla gloria, ed egli s’apprestava per gratitudine a guastare e depredare i campi, a rovinar le città, a versare per vil prezzo il sicilian sangue. «Or noi, dicea Federigo, salviam le ricchezze del nostro suolo, antivenendo l’assalto, mentre son intere le forze del reame; combattiamo in mare questi vecchi nemici, le cui cento bandiere veggonsi appese ne’ vostri tempi, questi nuovi avversari, assai più ingiustamente armati contro noi, onde già li sgarammo nella prima prova, e peggio or li confonderà Iddio. Per noi la ragion delle genti; noi per la patria e per le case nostre combatteremo!» Troncò questo parlare la siciliana impazienza, tuonando al solito a gran voce «Guerra»: e per tutta la nazione si fe’ un gran dire contro il protervo Giacomo, un chieder arme, uno stigarsi l’un l’altro alle battaglie ed al sangue. Indi appellati i feudatari e i borghesi, di gran volontà, frettolosi accorreano a Messina. S’apprestò la flotta, di quaranta galee: e saputo già in mare il nimico, poichè tutte le genti fur montate in nave, re Federigo ascese la capitana, riccamente ornata e dorata, e si spiegaron le vele. Il popol di Messina, affollato intorno al porto, le accompagnò con evviva, lagrime, voti253.

Navigava que’ mari nel medesimo giorno la flotta catalana, rifornita al ritorno di Giacomo, rinforzata di poche galee del reame di Napoli; che salpò il ventiquattro giugno254, e portava il re d’Aragona, con Roberto duca di Calabria, Filippo principe di Taranto e Ruggier Loria: acceso costui a vendicare il supplizio di Giovanni; i Catalani a lavar l’onta di quella sconfitta; Giacomo a finir presto le brighe di questa guerra. Erano alle isole Eolie, drizzandosi alla più vicina costiera di Sicilia, quando un legno siciliano sottile, uscito a riconoscere, tornò a vele e a remi a darne avviso alla nostra flotta, che, superato lo stretto, prendea già Milazzo. Indi i nostri a dare forzosamente ne’ remi, anelando prevenir lo sbarco; ma il tardo avviso, o i venti, o maggior arte dell’ammiraglio nemico, fecero che già guadagnati i lidi di San Marco, alla foce della fiumara Zappulla, gittate avea le ancore, rivolte le prue al di fuori, in ordine di combattere, quando la siciliana flotta, al girare il capo d’Orlando, l’avvistò. Scoppiava dalle nostre ciurme un impeto d’allegrezza all’aspetto del nemico; fean suonare infino a’ cieli il nautico grido di guerra aur, aur, tolto un tempo da que’ Catalani medesimi; e a testa alta, infelloniti e bramosi, senz’ordine arrancavan sovr’essi. Potè Federigo a stento por freno a questa temerità, tanto più cieca, quanto in brev’ora si aspettavan dai mari di Cefalù otto galee di val di Mazzara con Matteo di Termini; e ’l giorno se n’andava; le navi nimiche si vedean legate sì salde alla spiaggia e tra loro, che non la flotta veneziana e la genovese congiunte alla nostra, diceano i pratichi, l’avrebbero sforzato giammai. A’ risoluti comandi del re, le ciurme ubbidirono, non s’acquetarono; e proverbiavanlo: «Che fa? che dorme? scordò chi siam noi? Invilì Federigo; o riguarda il fratello, e vuoi torcerlo di mano!» Così gonfi da tanti anni di fortuna in guerra, dandola alle lor braccia sole, non curanti s’avessero ammiraglio, o il sol nome, nè dove fosse il gran Loria, tardava loro mortalmente quella notte di state. Placidissima sorrise nel firmamento, mentre negli animi dei mortali bollivan tante ire, tanti pazzi immaginari di combattimenti, glorie, acquisti, vendette, paure. Il cauto Giacomo fe’ sbarcar cavalli e bagaglie e quanti pareano men validi al combattere; chiamò i presidi delle castella; e la mattina a dì, sulla spiaggia, parlando d’alto tra’ suoi baroni, esortava le genti. Dicea dell’ubbidienza alla santa sede; de’ lor maggiori combattenti sempre per la fede; s’ei balenò alquanto, s’era poi ravveduto; ammonito non potersi salvar l’anima del genitore, che sarebbe cruciata da atroci flagelli, finchè non si rendesse la Sicilia: onde tra la pietà del padre e del fratello, la prima avea vinto. «Voltici al buon sentiero, aggiugnea, quante offese non patimmo da questa indomabil genìa di Sicilia, che da noi apprese a combattere! Or eccola; minor di numero, minor di legni, e pur invasa di cotanta baldanza contro gli uomini e Dio! Gastigatela, Catalani!»

Indi con tutta l’oste montò sulle cinquantasei galee ordinate in una linea di battaglia, con le ali distese, da soverchiare la minor linea nostra; e nel mezzo stette la capitana, col re e i figli dell’Angioino. A dirimpetto le s’era locato Federigo, standogli a dritta diciannove, a manca venti galee; e comandava alla poppa della sua nave un Bernardo Ramondo, conte di Garsiliato; alla prora Ugone degli Empuri, fatto conte di Squillaci; nel mezzo guardava lo stendardo reale Garzia di Sancio, con un gruppo di guerrieri fortissimi. Erano d’ambo le parti, noti, amici, congiunti; capitani due fratelli; come in guerra civile. Perciò più rabbiosamente, di qua di là mossero all’affronto, il sabato quattro luglio milledugentonovantanove, poco appresso il sorger del sole. Alle spalle de’ nemici la riva di San Marco, a dritta il capo d’Orlando; venian di fuori i nostri. S’udì squillo di trombe, fracasso di grida, tonfo di remi, e in un attimo sparve il mare di mezzo.

Con le armi da gitto trassero gran pezza, e non a voto. Ma Gombaldo degl’Intensi, giovin feroce, vago di gloria, e fors’anco di vendicare il suo nome, deturpato dal fratello traditor della Sicilia, sdegnando quel combattere da lungi, tagliata la gomona che il legava alle altre galee, la nimica fila investe. Due navi gli furo addosso dalle bande, una da prua; dan di cozzo, vengono all’abbordo: e Gombaldo, con bell’ammenda della temerità, contro tal pressa difendeasi, ancorchè ferito, e fieramente ributtava i nemici. Strettasi pertanto la mischia per tutta la fronte, incominciò più micidial furia di sassi e dardi vibrati da presso: le navi ad urtarsi di prua, di costa, a dar co’ remi su i remi dei nemici; ostinatamente infino alla sesta ora del dì, con molto sangue, senza avvantaggio d’alcuno, si combattè. Federigo cercava Giacomo; estremo orror si vedea in questa battaglia, se non si trovavan di mezzo le altre navi, ingaggiate e accanite tra loro, che tolsero di riscontrarsi a’ fratelli. Sotto la sferza del sole, nel caldo del luglio, cocente quel giorno oltre l’usato, s’accese ne’ combattenti da fatica, da paura, da rabbia, dal perduto sangue una rabida sete. Nè vino, scrive Speciale, nè acqua la spegnea. Gomabaldo, trafelante, bruciato, date tutte le forze vitali in tante ore di bollente battaglia, cercò un attimo di riposo, s’adagiò sullo scudo, e spirò. L’ardire di costui preparava, la sua morte cominciava la rotta. Guadagnano i nemici alla fine la nave di Gombaldo: avviluppate tra loro con le gomone, co’ remi, mal s’aiutavano le altre nostre galee; quando si sentiron alle spalle ferir da sei navi ordinate a ciò da Ruggiero. Allora, perduta la speranza del vincere, allenarono nella difesa; soprastettero un istante; sei galee diersi alla fuga.

Federigo, dicon le istorie, come vide piegare i suoi, risoluto a morire, chiedea di Blasco, che fianco a fianco spargessero il lor ultimo sangue; alla ciurma gridava: «Non restargli altro che la vita a dare per lo popol suo;» e per vero gittavasi disperatamente tra le navi nemiche, se non che d’un subito, vinto anch’egli da passione, caldo, fatica, stramazzò tramortito sulla tolda. Estrema ansietà allor nacque ne’ suoi più fedeli: che farebbesi della persona del re, mentre in ogni attimo era vita o morte? Il conte di Garsiliato pensava di rendere a’ nemici la spada di Federigo; Ugon degli Empuri gli die’ sulla voce; comandò di vogare a Messina; e per disperata forza di remi, la capitana involossi ai nemici, e con essa dodici altre galee. Blasco, che combattea non lasciando mai degli occhi il diletto suo principe, come vide fuggir la nave, posposto a lui ogni cosa, comanda a’ remiganti che il seguano, al suo alfiere che ravvolga lo stendardo; e l’alfiere, rispondendogli che non vedrebbe mai Blasco Alagona lasciar la battaglia, die’ del capo rabbiosamente sull’albero della galea, e cadde semivivo; la dimane spirò. Ferrando Perez il suo nome. Seguirono altri strani casi nella sconfitta. Vinciguerra Palizzi, testè creato gran cancelliere del regno, in cambio di Corrado Lancia che fu sì avventuroso da morire innanzi questo misero giorno255, Vinciguerra, per antico rancore cercato a morte dall’ammiraglio, sopraffatto da quattro galee, dopo bella difesa, saltò sopra una barchetta vicina a caso, e rifuggissi ad altra nave. Così ancora Alafranco di San Basilio e altri nobili, gittatisi a nuoto. I più, soverchiati dal numero, pugnarono con cieco furore, finchè saliti sulle navi i nemici, incominciò un macello. Perchè l’ammiraglio con sinistra voce urlava: «Vendicate Gian Loria!» e nobili e plebei immolati cadeano, con mazze, coltelli, mannaie, o scagliati in mare: tanto che sostarono i soldati per pietà; e l’ammiraglio pure a comandar sangue, a percorrere le prese navi, più atroce contro i Messinesi, dei quali fu grandissimo lo scempio. Federigo e Perrone Rosso, Ansalone e Ramondo Ansalone, Jacopo Scordia, Jacopo Capece e altri nobili di Messina perironvi; poi per istanchezza si cominciò a far prigioni, a dar di mano al bottino. Pier Salvacossa, fuggitosi non a Messina col re, ma ad Ischia, vilmente cercò la grazia de’ vincitori con render l’isola, ch’avea tre anni prima difeso con singolare virtù256. Diciotto galee andaron prese; da seimila de’ nostri morti nella battaglia, o dalla rabbia de’ vincitori. Questa fu la giornata del capo d’Orlando; perduta per incapacità di cui comandava, e minor numero e temerità de’ combattenti: ed allora la fortuna per la prima volta mostrò, lamenta Speciale trasportato da amor di patria, potersi vincere in naval battaglia i Siciliani, che per diciassette anni, in guerre diverse, in orribili scontri, e su lontanissimi liti stranieri, avean riportato senza interruzione incredibili vittorie257. Gli storici guelfi, credendo sparger vergogna su i Siciliani, perdenti sì ma con onore poco men che di vittoria, portan rovinate le sorti della Sicilia, tolta ogni difesa, certissimo il soggiogamento, se non che Giacomo nol volle; e a lui appongon anco che chiudesse gli occhi alla fuga di Federigo: non probabili cose, anzi non vere, come il seguito degli avvenimenti dimostrerà.

 

CAPITOLO XVII

Giacomo, lasciato Roberto in Sicilia, tornasi a Napoli, indi in Catalogna. Ambo le parti s’apparecchiano a continuare la guerra in Sicilia. Dansi a Roberto varie città; è presa Chiaramonte; altre resistono. Tradimento di alcuni cittadini, che chiamano in Catania i nemici. Effetti di questo nell’isola. Nuovi passi di papa Bonifazio. Sbarco del principe di Taranto. Battaglia della Falconarìa, ove egli è sconfitto e preso. Inganno e combattimento di Cagliano. Luglio 1299, febbraio 1300.

Per molto sangue de’ suoi e vergogna e rimorso, seppe amara a Giacomo questa vittoria. Al far la rassegna delle genti catalane, scorgendo tanto numero d’uccisi, non meno gregari che condottieri e nobili, sclamava: non aver vinto, no, l’infelice giornata. Ma recatigli a funate i nostri prigioni, chinò vergognoso la fronte, nè seppe fare risposta a un vegliardo, che spiccatosi dalla torma, scrive Speciale, squadernò in volto al re quante più pungenti rampogne avean saputo ritrovargli le siciliane lingue fin dal suo primo abbandono; e «A te non chieggiamo, sclamava, il sangue che versammo per mantenerti sul trono, che rifar tu nol puoi, nè il vorresti; ma renda la nazion catalana, sì altera di libertà ed onore, renda i siciliani navigli suoi liberatori, che la tempesta affondò nel mar del Lione!» Le quai parole, o fosser vere, o immaginate dallo storico a ritrar ciò che fremea l’opinion pubblica, peggio or ferivano gli animi de’ Catalani, per cagion del poco utile ch’e’ traean dalla colpa. E in vero dal guerreggiare in Sicilia, Giacomo avea tutto il carico, gli acquisti casa d’Angiò: e anco gli stipendi correan male, per penuria di Carlo, slealtà di Bonifazio; il quale avea ben sovvenuto danari per l’armamento, ma quando gli parve lanciato Giacomo pell’arena, ei chiuse la borsa258. Donde il re d’Aragona, che in accorgimenti non era secondo a niuno, si cavò lesto di briga. Ripassa in Calabria a tor le milizie del reame di Napoli, raccolte a Nicotra259; le traghetta in Sicilia; e adunati i primi del l’oste, con Roberto e Filippo, apertamente lor dice: aver compiuto le promesse al sommo pontefice, abbattuto le forze della Sicilia; ora veder sì gagliardo l’esercito angioino, che Roberto con l’ammiraglio agevolmente fornirebber l’impresa; quanto a sè, necessità lo stringea di tornarsi in Catalogna. Il che forse non spiacque a Roberto, bramoso di gloria. Il re d’Aragona dunque, da pratico mercatante di guerra, fa il cambio de prigioni siciliani coi suoi dell’altra stagione; que’ che gli soverchiano, lascia a Roberto; e sì le castella occupate, e molti suoi guerrieri di nome; ed ei, con Filippo principe di Taranto, fe’ vela per Salerno260. Invano re Carlo volle ingaggiarlo a restare, decretandogli ricca pensione sulla tratta de’ grani di Sicilia, a misura che l’isola si racquistasse261; invano accordò privilegi commerciali ai mercatanti catalani con lusinghevoli parole262; inflessibil trovò sempre il re d’Aragona, che il vedea affogare tra’ debiti, e tardavagli svilupparsi da lui. Tolta di Salerno la sposa e l’afflitta madre, andò Giacomo a Napoli; ove freddamente accolto dal re, fece breve soggiorno, e ripartì per Ispagna, scontento di tutti, scontento di sè, lacerato da’ novelli amici che abbandonava, nè maledetto manco da Federigo e da’ Siciliani. In vero fu manifesto che il re d’Aragona, incalzando, avrebbe potuto desolare assai peggio il paese263: ma pensavasi ai torti suoi passati, più ch’a nuovi danni che oggi risparmiava; nè la sua partita si conobbe da moderazione o carità. E come supporne nel vincitore che lasciò sparger dopo il caldo della battaglia tanto generoso sicilian sangue al capo d’Orlando?

Intanto a Federigo l’avversità rendeva e prudenza e splendore. Come prima rinvenne a’ sensi, vedendosi rapito dalla battaglia, disperatamente chiedea la battaglia e la morte: gridava che mai non tornerebbe vinto in Sicilia; ma cedè tosto a più forti consigli: lottar ancora e regnare. Giunse a Messina, ingombra già di spaventoso lutto, assordata a gemiti e ululati, al nunzio, certo della sconfitta, confuso dei danni: che fosse caduto in battaglia il re; non campato un sol uomo; nessun riparo allo sterminio della patria. Donde al veder Federigo, pur fuggente sulla insanguinata nave, con le reliquie della flotta, si voltò il popolo in gioia, scordando i lutti privati nella speranza di salvar la cosa pubblica. Affollansi intorno a lui ansiosamente i cittadini; dicono a gara che nulla han perduto, quand’egli è salvo; prenda tutto il lor sangue, tutto l’avere per difender la Sicilia. E Federigo rispondea con magnanime parole: reggersi ogni cosa quaggiù ai cenni di Dio; la umana vita avvicendarsi di prosperità e sventure; qual meraviglia se in diciassett’anni di vittorie, toccavasi una sconfitta? nè perduta si tiene la guerra, là dove avanzan uomini, arme, danari; con un po’ di costanza, si rivolterebbe la fortuna; chè niuno mai domò la Sicilia unanime e risoluta. Incontanente scrisse a Palermo, alle altre città, con uguale costanza; appose la sconfitta alle nostre navi, avviluppatesi tra loro; la perdita sminuì, come si suole: esortavale a tener fermo a’ primi affronti de’ nemici; ed egli, saputo ove si drizzassero, là correrebbe con nuove forze. Ma perchè dopo tal crollo, il tempo e la vittoria soli eran rimedio, disegnò Federigo difendersi e temporeggiare; lasciar che i nimici cavalcassero il paese a lor voglia; ma guardare strettamente le terre murate; ei stesso con iscelta gente porsi in Castrogiovanni, l’antica Enna, foltissima città in monte, che sta a cavaliere nel centro dell’isola, comoda a sopraccorrere in ogni luogo. Dondechè, ordinati Niccolò e Damiano Palizzi, fratelli di Vinciguerra, a comandare la città e ’l castel di Messina, e posti fidati capitani nelle altre piazze di maggior momento, disponeasi il re a pigliare il cammino della costiera orientale, sopravvederla, e ridursi a Castrogiovanni264.

 

Gli angioini all’incontro, apprestavansi a usar la vittoria di Giacomo. Riebbero entro tre settimane Capri, Ischia, Procida, con romoreggiare appresti di guerra265, e più per la detta pratica di Pier Salvacossa da Ischia; il quale per cagion della provata virtù in arme, e del novello tradimento, fu fatto protontino d’Ischio, o, noi diremmo, vice ammiraglio, secondo al solo Raggier Loria nel comando dell’armata; ed ebbe lodi del re, e feudi in Sicilia266, ma non andò guari che meglio nel pagava la spada d’un sicilian soldato. Ma quanto alla Sicilia, che allora non si risguardava com’Ischia, compresero i governanti che, oltre la rapacità e crudeltà dell’amministrazione, quei fatti di Carlo I pe’ quali distruggeansi gli antichi privilegi, erano stati grande incentivo al vespro e alla ostinata nimistade a lor nome. E però tornando al ripiego, che pur tentò quel superbo nell’impresa dell’ottantaquattro, re Carlo II a dì ventiquattro luglio del novantanove, lodandosi molto del proprio pensamento, che insieme dividesse e non dividesse la corona, creava Roberto vicario generale perpetuo nell’isola, con maneggio larghissimo delle faccende civili, e potestà sopra il sangue, sì che fosse nell’isola, dice il diploma, perfetta immagine della regia persona267. Insieme con tai pergamene, sforzossi a mandare in Sicilia a tutta possa genti, vittuaglie, moneta per gli stipendi268; accortosi della dura fatica che restava, e che per lungo tempo non trarebbe nulla del paese.

E per vero lentissimo progredì dapprima Roberto. Arrendeansi, a lui no ma a Ruggiero, gli antichi suoi feudi, Castiglione, Roccella e Placa; Francavilla seguivali se non era per timor della rocca, tenuta da Corrado Doria. Ma innoltrandosi dalla settentrional costiera per riuscire sulla orientale, Randazzo, principal città in val Demone dopo Messina, die’ prima a vedere, scrive Speciale, che per la rotta di capo d’Orlando, non era vinta, no, la Sicilia. Perchè assaliti da Roberto, dato orribil guasto al contado, i cittadini tenner saldo in molti scontri, soprattutto in uno che durissimo si appiccò alla fonte di Roccaro; dove caduto alcun de’ più feroci Francesi, il duca si ritrasse; e a capo a pochi dì, per consiglio di Ruggier Loria, lasciò anco l’assedio, tardandogli di trovar vittuaglie. Affrettatosi dunque vergo il fertil paese dell’Etna, si rinfrescò alquanto occupando senza contesa Adernò, terra espugnabile; e tosto tramutò il campo sotto la munita fortezza di Paternò. Teneala il vecchio conte Manfredi Maletta, gran camerario del regno, di nobil sangue, carissimo agli Svevi e a’ principi aragonesi, ma uom di toga, uso a viver dilicato; onde tra tedio e paura dell’assedio, al secondo giorno s’arrese. Ciò fu salute dell’oste di Roberto, che per diffalta di vivanda, già era stretta in pochi dì a partirsi o cader nelle mani di Federigo. E più che questo, nocque l’esempio: perocchè gli uomini soglion l’altrui viltà maledire, e maledicendo seguirla, come pretesto a cessar da una pericolosa costanza. Maletta poi trasse la vita pochi più anni in terra di nemici, sovvenuto o insultato da essi con meschini favori; e infame e mendico morì: ma non ha il pondo nè premi nè pene da pagar ciò che sovente fa a una intera nazione un sol uomo269!

Per lettere di questo vile, Buccheri, sua terra fortissima, venne in man de’ nemici. L’ammiraglio, portata una punta dell’esercito sopra Vizzini, con sè recando Giovanni Callaro, Tommaso Lalia e Giovan Landolina, presi al capo d’Orlando, l’ebbe per tradimento del Callaro; il quale mostratosi a’ cittadini, che virilmente avean preso a combattere, fu accolto con gioia, com’uomo d’assai riputazione, ed empiamente l’usò a far aprire le porte all’ammiraglio. Tornò questi allora a Palagonia; ove accozzatosi con Roberto, assalgon Chiaramonte, negano i patti che il popol chiedea, dopo le prime scaramucce, sentendosi non bastare alla difesa; e irrompono ostilmente nella città. La prima che in questa guerra del vespro, i nimici occupassero di forza; onde tutta sfogaronvi la ferità de’ tempi: passati gli uomini a fil di spada; sfracellati a’ sassi i bambini; sparato il corpo alle incinte; dopo il sangue e gli oltraggi, adunata una misera torma di donne, solo avanzo del popol di Chiaramonte, fu cacciata e sparsa pe’ luoghi vicini. In questa vendetta le genti angioine fur sole; nella rapina fur prime: spigolarono dietro a loro i saccardi di Vizzini, seguenti con vergogna le armi straniere. Di qui voltasi l’oste a Catania, s’attendò nelle vigne dell’Arena; e dopo tre dì si ritrasse inaspettatamente, fidando in una pratica, più che nella forza, contro città sì grossa, comandata da Blasco Alagona. Per dar tempo al tradimento, assaltava Aidone; respinta dapprima per la virtù di Giovenco degli Uberti, capitan della città, intromessa il dì seguente per accordo. Ma posto il campo a Piazza, trovò riscontro assai duro. Perchè Guglielmo Calcerando e Palmiero Abate, con un nodo di sessanta cavalli, trapassarono folgorando per mezzo gli assedianti; e serratisi nella città, rafforzaronla col nome, con la virtù, con la riputazione di quel fresco prodigio. Indi il duca dal pian di San Giorgio, l’ammiraglio dalla fonte di Vico, invano entrambi strinser la terra, mandarono ad offrir patti, mossero assalti. I cittadin di Piazza rispondeano alle parole: avere fermato, già gran tempo, i lor cuori; morrebbero, non arrenderebbersi mai. Sostennero il detto con una virile difesa. Onde Roberto, perdutavi assai gente, si levò dall’assedio; sfogò con guastar le campagne; e avviossi a Paternò270.

In questo tempo Federigo, sapendo minacciata Catania, v’era sopraccorso da Messina, nè avea trovato il nemico; donde tutto lieto, convocati i cittadini a parlamento, fece loro assai belle parole; e per tutti risposegli Virgilio Scordia, tenuto uom di virtù romana271, per seguito e riputazione primo nella città. «Chi avrebbe mutato, arringava focoso costui, la libertà sotto tal principe con la tirannide straniera? Di questa non s’era dileguata, no, la memoria; vedeansi ancor tinti di sangue francese i sassi e le mura, per ammonire ogni Siciliano a guardarsi dalla vendetta; nè era chi non fosse pronto a dar la vita per Federigo, cresciuto tra le lor braccia, fatto re e stato lor padre. Se un insensato qui vive con animo a te maligno, s’apra la terra sotto a’ suoi passi, e l’inceneriscan le folgori!» Così parlava il traditore, indettatosi poc’anzi a dar Catania a’ nemici. E Federigo, preso da quei fedeli sembianti, ripensava tra sè come rendergli merito; fatto or sì cieco al fidarsi, quanto fu lieve altre volte a sospicare: talchè or tenne raccoglitor di calunnie Blasco Alagona, che gli svelava gravi indizi delle pratiche di Virgilio. Seguì dunque a chiamar padre costui della patria; a Blasco rispose, amerebbe anzi perder Catania che macchiare con un solo sospetto la fama di tal grande: al che Blasco, accorto o sdegnato, risegnava il comando della città; e il re commettealo al conte Ugone degli Empuri, buon guerriero e non altro; facendo maggior assegnamento sull’aura popolare di Virgilio Scordia. Così andò via sicuro a Lentini, Siracusa, e altre grosse terre del val di Noto, e infine a Castrogiovanni272; ove fe’ lunga dimora, e diede o raffermò privilegi alla città di Caltagirone, che mostrano la sollecitudine del re a far parte per sè co’ favori speciali, come usavan contro lui studiosamente i nemici273.

Era in Catania un Napoleone Caputo, cittadino di minor seguito che Virgilio, di pari ambizione; gareggianti amendue nel favor del popolo, nella munificenza del re; e perciò da gran tempo nimici. Ed or nello scellerato proposito s’affratellarono; perchè Virgilio, non potendo far senza i più ribaldi, inchinossi a richieder Napoleone; questi, com’uom da meno, lietamente gli corse nelle braccia; e l’interesse fe’ perdonar dall’una e dall’altra parte le offese. Congiurati dunque tra lor due, o con pochissimi più, taccion ogni cosa a’ loro partigiani medesimi; finchè nacque l’occasione che Federigo, proponendosi uscire alla campagna contro il nimico, scarso di vittuaglie e ributtato da’ più importanti luoghi; chiamava i popoli alle armi; chiedea da Catania settecento uomini. Scrissene il re ad Ugone; questi consultò con Virgilio come ottener tal sussidio dalla città; e Virgilio il promettea, sol che si chiamasse il popolo a parlamento nel duomo il dì appresso; egli farebbe il rimanente. E insieme con Napoleone, cominciò e compiè la macchina della sommossa, in quanto avanzava di quel giorno’ e nella notte appresso; per toglier tempo a pentirsi o scoprire, per usar l’agitamento degli animi che vogliono il ben pubblico senza lor disagio, e per nascondere sotto l’util della città il tradimento alla nazione. Talchè la trama, stata segretissima tra’ pochi, in un attimo si distese ai molti senza pericolo: congiunti, amici, clienti, sgherri furo indettati e assegnato luogo ed uficio ad ognuno.

Nel medesimo tempio di Sant’Agata, che cinque anni innanzi suonò di liete voci, gridando i rappresentanti della nazione re di Sicilia Federigo, assembravasi quel giorno il popolo di Catania; entravano alla sfilata Napoleone e i cospiratori armati: Virgilio in abito e sembianti di pace, ito alle case d’Ugone, accompagnollo al tempio. Fatto silenzio, esponeva il conte i voleri di Federigo. E non avea finito il suo dire che un Florio, nom dell’infima plebe, sguainata la spada, grida pace, e gli dà un fendente in viso; gli altri con l’arme songli intorno; e insignorisconsi della sua persona; indi irrompono per le strade gridando pace; e chi tarda a risponder pace, sforzavi con minacciose parole: talchè una picciola fazione strascinò e rivolse tutta l’attonita città. Nè la stettero a pensare che gittassero sopra tre barche, apparecchiate a questo, il conte co’ suoi seguaci, instando con feroce volto Virgilio e Napoleone: e Ugone li chiamava a nome; scongiuravali che s’alcuna offesa ebber unque da lui, sfogassero nel suo sangue, non si voltassero contro il re. Gli fer cenno a star zitto e navigare per Taormina: e il popolazzo intanto saccheggiava le sue case; se non che rimandò senza offesa alcuni altri uficiali del re, con tutto il lor avere. Incontanente i congiurati chiaman Roberto, che, dubbioso e in travaglio, ritraeasi a Paternò; dangli la città; il raccolgono con empia gioia; e chieggongli ed hanno, scrive Speciale, in premio di tanta virtù, terre, casali, castella, ch’ei più volentieri largiva perch’erano in man de’ nemici, nè pareagli vero comperar sì poco la sua salvezza. Certo la diffalta di Catania impedì l’estremo sforzo a cui s’apprestava Federigo, contro il nemico sprovveduto e vagante; certo fu cagione degli infiniti mali che succedettero, e del gran travaglio che si durò a scacciar dal nostro suolo gli stranieri274.

Il che mi conduce a considerare come negli ordini feudali non erano i governi sì incapaci a reggersi contro i sudditi, come in oggi si è detto, non vedendo in essi unito e gagliardo quanto a’ tempi nostri il poter dello stato. Ma parmi che, s’e’ non poteano frenar sì pronti una ribellione; aveano assai meglio da spegnerla con le concessioni feudali di quantunque venissero a perdere i ribelli; tra i quali, chi per conservare i propri beni e chi per occupare quelli dei più ostinati, moltissimi si trovavan disposti, non che a tornar essi alla ubbidienza, ma con forza, ambito, frode, domare i compagni; e gli stessi leali da somiglianti cupidigie erano sospinti a sforzi, che il semplice zelo non può. Una parte della nazione così armavasi contro l’altra, più rabbiosamente ch’oggi non avverrebbe, per gli ordini stabili della proprietà; sendo assai minor massa di premi le pensioni e gli ufici, che a’ governanti restano a dispensare. E però veggiamo larghissime le concessioni feudali, che Roberto, usando il potere di re, facea da Catania in quel tempo, e Carlo ratificava da Napoli, non che ai complici di Virgilio nella tradigione, ma ai nobili che in appresso voltaronsi a parte angioina; e veggiamo tra costoro grandi nomi, o di tali che dovean tutto lor essere a Federigo; e molte terre di val di Nòto darsi a parte nemica, dietro la occupazione di Catania, che parea il crollo a’ nostri destini. Noto, per briga d’Ugolino Callaro275, uomo di gran nome e compare del re; Buscemi, Feria, Palazzolo, Cassaroe, tratte da’ mali esempi, diersi al nemico; Ragusa ancora, ove un prete Omodeo, sotto specie di confessione, tramò con parecchi cittadini, e costoro non attentandosi al misfatto senza un valente uomo per nome Francesco Balena, van di notte alle sue case armati, minaccianlo della vita, ed egli infingendosi d’assentir per timore, audacissimo poi operò al reo intento, e asseguillo, cacciato il vicario di Manfredi Chiaramonte che tenea la terra, e chiamato da Vizzini Guglielmo l’Estendard276. Virgilio Scordia e’ consorti, in questo tempo non se ne stavano al proprio tradimento, che non si affannassero a tirarvi altri uomini, altre terre, tutta l’isola se possibil fosse277. E per tali condizioni de’ tempi e principî di corruzione della morale politica in Sicilia, è tanto più mirabil cosa come, dopo la sconfitta del capo d’Orlando, con quei grandi appresti di guerra, e la presenza di Ruggier Loria, e nerbo di fortissimi Francesi e Catalani, la corte angioina se guadagnò con le pratiche da trenta città, terre o castella278, niuna n’ebbe con le armi, da Chiaramonte in fuori; e come Federigo, o piuttosto la parte della rivoluzione siciliana che operava con esso, non ostanti le raccontate tradigioni, manteneva in faccia al nemico tutto il rimanente dell’isola, e non poca parte alsì di Calabria.

253Nic. Speciale, lib. 4, cap. 12, 13.
254Diploma del 24 giugno 1299, nel r. archivio dì Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 113, a t.
255Nic. Speciale, lib. 4, cap. 14. Il tempo della morte di Corrado Lancia si argomenta anco da un diploma del 15 giugno 1299, sottoscritto da Vinciguerra Palizzi cancellier del regno, in Testa, op. cit., docum. 17.
256Del tradimento di costui fa fede anco un diploma di Carlo II, dato a 13 settembre tredicesima Ind. (1299), col quale son rimesse tutte lor colpe a Salvacossa, protontino d’Ischia, e agli altri abitanti che piegarono a parte siciliana, ma poi, succedentibus prosperis, dice il diploma, tornarono in fede. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 37, 38.
257Nic. Speciale, lib. 4, cap. 18. Anon. chron. sic., cap. 62 e 63, e diploma di Federigo, dato il 6 luglio 1299, ivi trascritto. Veggansi ancora, Annali di Forlì, in Muratori, R. I. S., tom. XXII, pag. 174. Cronaca di Bologna, ibid., tom. XVIII, pag. 304, dove è errato il giorno della battaglia, e portato il numero delle nostre galee a 33, delle nemiche a 55. Cronaca di Cantinelli, presso Mittarelli, Rer. Faventinarum script. Venezia, 1771, pag. 311. Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX. Tolomeo di Lucca, ibid., tom. XI, pag. 1303. Gio. Villani, lib. 8, cap. 29, che si mostra assai male informato dei fatti di tutta questa guerra. Ei fa montare le galee nemiche a 70, e le nostre a 60, e dice Federigo Doria ammiraglio dell’armata siciliana. I nostri storici tacciono il nome di questo ammiraglio. Una delle galee siciliane prese in questa battaglia fu prestata dal governo di Napoli a Francesco Ildebrandini di Firenze. Diploma dato di Napoli a 20 luglio duodecima Ind. (1299), reg. cit., 1299, A, fog, 174, a t.
258Annali di Forlì, in Muratori, R. I. S., tom. XXII, pag. 174. Vi si legge qualche errore nella cronologia di questi fatti; ma ciò non toglie alla ragione probabilissima che l’autore assegna a questa partenza di Giacomo, da non potersi spiegare abbastanza con la moderazione verso il fratello, o infedeltà con parte angioina, che gli attribuiscono gli scrittori guelfi. La stessa ragione è detta nella cronaca di Cantinelli citata nella nota precedente. Ivi si legge che Giacomo tornò in Catalogna, quia dominus papa Bonifacius noluit sibi dare stipendia que sibi promiserat.
259Questa testimonianza dello Speciale, acquista maggior fede da’ documenti del r. archivio di Napoli. Diploma del 24 giugno 1299, pel quale si provvede che i condottieri, con le compagnie mercenarie, si faccian trovare a Nicotra, ove andrà Giacomo con la flotta a imbarcarli. Reg. 1299, A, fog. 96 a t., e 113 a t. Due diplomi del 20 luglio duodecima Ind. indirizzati a Egidio di Foloso e Stefano Testardo, condottieri, perchè subito si portassero a Nicotra per passare in Sicilia. Quivi si legge che il governo angioino facea opera a mandare in Sicilia quanta maggior forza potesse. Ibid., fog. 182.
260Nic, Speciale, lib. 4, cap. 15.
261Diploma del 5 agosto 1299, pubblicato dal Testa, op. cit., docum. 19. Si prometteano a Giacomo per tutta la sua vita 2,000 once all’anno, e 6,000, nel caso che si racquistasse tutta l’isola.
262Diploma del 18 luglio 1299, da’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 190.
263Nic. Speciale, lib. 4, cap. 15. Anon. chron. sic., cap. 63.
264Nic. Speciale, lib. 4, cap. 14. Leggesi nell’Anon chron. sic., cap. 62, la citata epistola di Federigo, data di Messina a 6 luglio 1299, pubblicata ancora in altre opere.
265Diplomi del 19 luglio duodecima Ind. (1299). Rostaino Cantrlemi, eletto capitano dell’armatetta, che dovea partir subito contro le ribelli isole d’Ischia, Procida, Capri. Nel r. archivio di Napoli, reg seg. 1299, A, fog. 152 e 173. Diploma del 20 luglio. Promessa di perdono agli uomini delle dette tre isole, Ibid., fog. 152. Diploma del 29 luglio. Pei fanti e cavalli d’Aversa, levati per la fazione d’Ischia. Si dovean pagare i primi alla ragione di grana dieci al giorno, i secondi di un tarì e grana dieci al giorno. Ibid., fog. 177. Diploma del 30 luglio duodecima Ind. 1299, anno 15 di Carlo II, indirizzato alla moglie di Tommaso di Mattafellone. Dopo la recente vittoria navale su i nemici, Ischia e Capri erano tornate al nome regio. Perciò liberasse immantinenti Corrado Salvacossa, datole prigione per iscambiarlo col marito di lei, prigione de’ nemici, al quale sarebbe provveduto altrimenti. Ibid., fog. 133. Diploma del 31 luglio, ibid. Somigliante comando a Ludo de Huc, al quale il governo avea dato il prigione Giovanni Abbate d’Ischia, in compenso de’ danni che Ludo avea sofferto una volta, prigione in man de’ nemici. In entrambi questi diplomi si fanno grandi parole della vittoria che, jam patet in orbem, e della clemenza verso gli abitatori di Capri e Ischia. Diploma del 13 settembre tredicesima Ind. (1299), per tenersi Ischia in demanio. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 3.
266Due diplomi dati di Salerno il 16 agosto duodecima Ind. (1299), pel quali Pietro Salvacossa milite è eletto protontino d’Ischia, e si vede che queste uficio era di comandante in secondo luogo nell’armata. Vi si leggono straordinarie lodi ed espressioni di benevolenza per costui. Reg. cit. 1299, A, fog. 170, a t. Diploma dato dì Salerno il 16 agosto duodecima Ind., nel quale costui è eletto capitan generale delle navi nel regno di Napoli: Te igitur capitaneum vassellorum nostrorum que armantur et armabuntur in antea in partibus istis pro tempore generalem, Rogerio tamen de Lauria militi regni Sicilie et Aragonum ammirato dilecto consiliario familiari et fideli nostro cum in partibus istis erit superioritate officii reservata, duximus usque usque ad beneplacitum majestatis nostre statuendum eum plena meri et mixti imperii et gladii potestate, etc. ibid., fog. 171. Diploma del 4 ottobre tredicesima Ind. 1299, 15o del regno di Carlo II, pel quale è riconceduta a Pier Salvacossa, protontino d’Ischia, la terra di Castronovo in val di Mazzara presso Vicari, e i casali di Palagonia, Calaczura e Calatalfati in val di Noto. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 6. Diploma del 4 agosto tredicesima Ind. 1300, dal quale si vede che Salvacossa era naturale d’Ischia. Ibid., fog. 71 a t.
267Docum. XXXI. Un altro diploma del 17 luglio, a Tommaso di Ortona, tesoriere presso Roberto, dispone che delle once 2,000 mandategli in carlini d’oro e d’argento e tornesi d’argento, si pagassero le genti d’arme lasciate da Giacomo in Sicilia, compresivi i 100 cavalli di Ruggier Loria. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 174. Un altro del 29 luglio porta la elezione di Giovanni di Porta a maestro razionale nell’isola di Sicilia presso Roberto. Ibid., fog. 132 a t. Talchè si può argomentare che la corte angioina volesse far mostra d’istituire presso il vicario di Sicilia un ordinamento di amministrazione speciale, rendendo alla Sicilia que’ benefici che le erano stati tolti per le novazioni di Carlo I.
268Diploma del 18 luglio duodecima Ind. (1299). Una nave di mercatanti italiani avea portato in Milazzo vin greco e altre merci, che sembran d’uso domestico, a Ruggier Loria. Ei ne pagò parte; per lo rimanente, che volea gittar addosso a Carlo, die’ in pegno argento e masserizie. E Carlo infatti, tolse su di sè il debito, ragionandolo sugli stipendi dell’ammiraglio. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 155 a t. Diploma dell’ultimo luglio Duodecima Ind. Per biscotto da consegnarsi a richiesta di Giacomo o dell’ammiraglio. Ibid., fog. 200. Diploma del 2 agosto duodecima Ind. Per mandarsi una galea con foraggi a Gualtiero conte di Brienne e di Lecce, militante in Sicilia. Ibid., fog. 136 a t. Diploma del 19 agosto. Per farsi tornare all’armata in Sicilia alcuni marinai di castell’Abate, che se n’eran fuggiti. Ibid., fog. 138 a t. Diplomi dell’11 e 29 agosto 1299, per grano, orzo e semola mandati all’esercito in Sicilia, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 222 e 223. Dall’ultimo di questi diplomi si scorge, che nel corso d’agosto si sparse nuova in Cotrone che Roberto si fosse ritirato di Sicilia, onde fu venduto in quella città un carico di vittuaglie ch’era a lui destinato. Ricadono a un di presso in questo tempo, e perciò le noto qui, le seguenti concessioni feudali che non mi è paruto accennare nel testo, ma pur possono mostrare, che la corte di Napoli non cessava di gratificar di beni i suoi settatori più fedeli. Diploma del 19 marzo duodecima Ind. 1299, pel quale fu conceduto a Squarcia Riso milite, il castello e la terra, Sancti Filadelli (San Fratello) situm in valle Demonis, in vece di quel di Sortino, datogli olim serviciorum tuorum intuita, ma tenuto da’ Siciliani. R. archivio di Napoli, reg. 1299, A, fog. 48 a t. Diploma del 24 luglio duodecima Ind. Conceduta a Matteo ed Arrigo Riso militi, e a Francesco Riso da Messina, la terra di Geremia in Calabria. Ibid., fog. 149. Diploma del 24 luglio duodecima Ind. Ratificata la concessione feudale del castel di Baccarati in vai di Noto, presso Aldone e Caltagirone, che Giacomo re d’Aragona avea già fatto a Filippo de Porta, in cambio di Castrocucco, da lui posseduto in Principato. Ibid., fog. 155. Diploma senza data, che trovasi nello stesso registro 1299, A, appartenente alla duodecima Ind. cioè infino al 31 agosto. Pel castello di Cuttuli in Principato, già promesso a Ruggier Loria in restituzione o dono. Ibid., fog. 113.
269Nic. Speciale, lib. 5, cap. 1 e 2. La morte ignobile e povera di costui è detta dallo Speciale. I documenti tratti dal r. archivio di Napoli, che qui notiamo, provano che la corte angioina dapprima volle dar qualche facoltà a questo gran feudatario siciliano, ma lo spregiava come avvien sempre a’ traditori. Tre diplomi del 26 aprile tredicesima Ind. (1300). Manfredi Maletta conte dì Mineo è fatto castellano di Manfredonia; e insieme si provvede a tramutare in Barletta i prigioni ritenuti in quella fortezza. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 146 a t. Diploma del 12 maggio tredicesima Ind. Perchè la prescrizione non noccia a Manfredi Maletta, ritenuto da buone ragioni a sperimentare i suoi dritti su certe castella. Ibid., fog. 221 a t. Tre diplomi del 18 maggio seguente. Perchè il castel di Manfredonia fosse consegnato a Maletta, ma i prigioni e le armi tramutati nel castel di monte Sant’Angelo, e le vittuaglie consegnate a un cittadino di Manfredonia. Ibid., fog. 250. Diploma del 30 luglio tredicesima Ind. 1300. Era stata commessa al Maletta, ancorchè degno di cose maggiori, la custodia di Monte Vulto cum gualdo suo et vallis Vitalbe. Ibid., fog. 291. Diploma del 3 agosto seguente. Ritoltagli questa custodia, perchè appartenea a Giovanni di Monforte. Ibid., fog, 264. Diploma del 18 agosto tredicesima Ind. Legittimazione di Matteo Maletta, figliuol naturale del. vir nobilis comes Manfridus Malecta. V’era scritto ancora comes Minei, e si vede cancellato. Ibid., fog. 396 a t. Diploma del 1 settembre decima quanta Ind. (1300). È affidata al conte Manfredi Maletta la custodia della regia foresta e palagio di San Gervasio. Ibid., fog. 176. Si vede da questi diplomi qual poca fidanza avesse il governo angioino in questo sciagurato, e quanto lo disprezzasse nei medesimi favori che gli dispensava, per allettare coll’esemplo i baroni siciliani all’abbandono della santa causa ch’avean preso a sostenere.
270Nic. Speciale, lib. 6, cap. 3, 4, 5.
271Quondam pater patriae, qui Romanos hactenus redolebas. Ibid., cap. 7.
272Nic. Speciale, lib. 5, cap. 6.
273Diplomi di Federigo, dati la più parte di Castrogiovanni d’ottobre 1299, co’ quali confermò alla città di Caltagirone le sue leggi e consuetudini, la proprietà de’ suoi beni, la franchigia della tassa de’ marinai, e le die’ inoltre un casale e un feudo. Privilegi di Caltagirone, lib. 1, fog. 1, 25 e 48, citati dal padre Aprile, Cronologia di Sicilia; cap. 22 a 25.
274Nic. Speciale, lib. 5, cap. 7. Anon. chron. sic., cap. 64. Montaner, dopo lungo silenzio, ripiglia in questo tempo la narrazione de’ fatti di Sicilia, con dire al capitolo 190, che il duca Roberto era già in Catania, consegnatagli da messer Virgilio, dice egli, di Napoli, e due altri cavalieri. D’altronde ei si mostra non men restio che male informato, nel parlar di queste vicende. I nomi de’ traditori e la liberalità senza misura che adoperò con essi la corte angioina, si veggono da’ seguenti diplomi. Le prime concessioni sonvi date il dì 11 ottobre 1299; e indi è da argomentare che quel giorno, o poco innanzi, entravano i nemici nella tradita Catania. Diploma del 26 dicembre tredicesima Ind. (1299). Attendentes fidem et merita fructuosa Virgilii de Catania militis, il re lo elegge consigliere e famigliare suo, e lo raccoglie nella regia casa. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 42 a t. Diploma del 29 dicembre tredicesima Ind. 1300 (deve intendersi anche 1299, secondo il nostro computo, perchè la cancelleria angioina, come abbiamo notato più volte, ragionava il nuovo anno dal venticinque dicembre). È conceduto a Virgilio de Catania milite, il castel di Vicari e il casal di Ciminna. Fatta la concessione da Roberto, ratificata dal re con questo diploma. Ibid., fog. 41. Diploma del 9 gennaio tredicesima Ind. (1300). Confermato a Margherita di Scordia da Catania, filia quondam magistri Michaelis de Sanducia, il casale di Scordia in val di Noto, ch’essa ebbe per successione del padre. Ibid., fog. 180 a t. Credo che costei fosse la moglie di Virgilio, che forse n’ebbe in dote il feudo di Scordia, e prese questo titolo col quale il chiama sempre Speciale. Diploma del 20 luglio tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II. Vi è trascritto un privilegio di Roberto, dato di Catania a dì 11 ottobre tredicesima Ind. (1299), pel quale furon dati in feudo al detto Virgilio il tenimento Piccarani, tenuto da Matteo di Termini ribelle, il tenimento Scorpionis et casale Chifala (forse Cefalà Diana), nella Sicilia oltre il Salso; sotto condizione di dargliene compenso, se gli uomini di quelle terre tornassero in fede a patti. Ibid., fog. 67. Diploma del 20 luglio 1300, dov’è trascritto un altro privilegio di Roberto, dato anche di Catania il dì 11 ottobre 1299, confermandosi a Virgilio di Catania il castello di Thadar in val di Noto, ch’egli tenea tra i beni dotali; con la solita diceria de’ suoi grandi meriti nella conversione di Catania. Ibid., fog. 68 a t. Diploma della stessa data, dove n’è trascritto uno di Roberto dell’11 ottobre 1299. Vi si riconcedono a Virgilio di Catania i casali di Pbake, Bayano, e Pisone in vai di Castrogiovanni. Ibid., fog. 69. Diploma del 20 luglio 1300, docum. XXXVI. Vi si legge chiaramente, al par che nei diplomi sopra citati, e quasi con le stesse parole, la parte principalissima che questo Virgilio avea avuto nel tradimento di Catania, e prendea in trattarne degli altri. S’intinsero nel tradimento di Virgilio o parteciparono de’ suoi frutti, Simone fratello, e Giacomo figliuolo di lui. Diploma dato di Napoli a 4 agosto, tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II, nel quale è trascritto un privilegio di Roberto dato di Catania l’11 ottobre 1299, tredicesima Ind. Di questo Simone è detto che i Catanesi tornarono alla ubbidienza, ejus ministerio ac Virgilii de Catania militis fratris sui. Al momento gli era stata conceduta l’aspettativa d’un feudo del valore di once 50 annuali. Or gli si assegnavano i casali Chanzerie, Consene, Contiminii et Racalginegi exhabitata ab antiquo, di qua dal Salso, presso Caltagirone. Ibid., fog. 86. Diploma dato di Napoli il 20 luglio tredicesima Ind. 1300, in cui n’è trascritto uno di Roberto, dato di Catania a 11 ottobre 1299. Son conceduti a Giacomo di Catania, figliuolo di Virgilio, i castelli di Calatamauro e di Bivona, tenuti, il primo da Guglielmo Calcerando, l’altro da Ugone Talach. La concessione in Catania si vede fatta, com’era uso, innanzi molti nobili, Guglielmo eletto Salernitano, vicario pontificio nell’isola e cancelliere del re, Loria, Amerigo de Sus, Ruggier Sanseverino, e altri conti. Ibid., fog. 33 e 64. Il principio di questo diploma è nel fog. 33, il fine nel 64, perchè questo e molti altri registri furono legati ad occhi chiusi negli andati tempi. Ma si veggon le tracce della antica numerazione delle pagine, cioè xxxij nel attuale 33, e xxxiij nell’attuale 64. Ho cavato dal r. archivio di Napoli i nomi degli altri traditori, per congegnarli alla esecrazione di tutti i Siciliani. Oltre Napoleone Caputo, di cui parla lo Speciale, e Simone e Giacomo di Catania, l’un fratello, l’altro figliuolo di Virgilio, furono Gualtiero Pantaleone, Gualtiero Lamia e Tommaso Connestabile. Diploma del 26 dicembre 1299, pel quale Napoleone di Catania fu creato consigliere e famigliare del re, con la stessa formola del diploma della medesima data per Virgilio di Catania. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 42 a t. Diploma del 20 dicembre 1299, nel quale con le medesime parole del diploma dell’ugual data, riportato di sopra per lo stesso Virgilio, Napoleone di Catania milite ebbe in feudo i casali di Avola e Buscemi, e quel disabitato di Momolina. Ibid., fog. 41. Diploma del 26 dicembre 1299. Con le stesse parole di que’ di Virgilio e Napoleone, fu creato Gualtiero di Pantaleone di Catania, consigliere e famigliare del re. Ibid., fog. 42 a t. Diploma del 24 gennaio 1300 tredicesima Ind., anno 16 di Carlo II. Ratificata con privilegio la concessione feudale del casale di Silvestro in territorio di Lentini a Gualtier Pantaleone di Catania, quem militari nuper decoravimus cingulo. Ibid., fog. 52 a t. Diploma del 25 gennaio stesso. È conceduto a questo Gualtier Pantaleone il casal di Biscari in val di Noto, in merito della fede e prontezza quibus in procuranda reversione civitatis Cathanis ad fidei nostre cultum laborasse dignoscitur. Ibid. Diploma del 15 febbraio tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II. Con le medesime formole è conceduta a Gualtiero de Lamia da Catania, stato sempre fedele in cuor suo, il tenimento di Vaccarato in territorio d’Aidone. Ibid., fog. 54. Diploma del 20 luglio tredicesima Ind. 1300, pel quale è conceduto il casal di Muletta in Val di Mazzara a Tommaso de Comestabulì de Thasina civis Cathanie, un tempo ribelle, e poi, dopo il racquisto di Catania, voltosi a servire con efficacia Roberto. Ibid., fog. 85. Due altri diplomi parlan di altri; certo traditori, ma non forse in questo fatto di Catania. L’uno è dato il 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima Ind., anno 15 di Carlo II, e contiene le seguenti concessioni: A Pietro di Monte Aguto, Racalmuto e Caccamo; a Gilberto di Sentillis, Giarratana e Palazzolo; a Ugolino di Callaro, Licodia; a Pietro Sossa, Calatafimi e Calatamauro in val dì Mazzara; a Simone di Belloloco, il caste! di Tane o Gane, e il casale di Chondroni o Thondroni, in vece del cartel di Sortino, concedutogli da re Giacomo all’assedio di Siracnsa, nell’ignoranza che Carlo lo avesse già dato a Squarcia Riso. Ibid., fog. 42. L’altro il 2 maggio tredicesima Ind. 1300, anno 16 del regno di Carlo II. Conceduti a Giuliano d’Alessandro da Siracusa i casali di Cassibari e Lungarini. Ibid., fog. 56 a t., e duplicato a fog. 20.
275A costui fu data in premio Licodia. Veg. il diploma del 28 dicembre 1299, citato nella nota precedente.
276Nic. Speciale, lib. 5, cap, 8 e 9.
277Et que (servitia) ad presens sub continuis laboribus in convertendis ad fidem predictam aliis civitatibus et locis insule Sicilie prestat, etc., si legge nel docum. XXXVI.
278Anon. chron. sic., cap. 64… Non tamen quod aliquod ipsorum captum fuerit a dictis hostibus ex pretio sive pugna.