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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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Guglielmo Trara primo urtava la fila nimica, dalla quale quattro galee spiccansi a circondarlo, e altre seguivanle; ma volano alla riscossa le galee di Milazzo, Lipari, e Trapani, poi di Siracusa, Catania, Agosta, Taormina e infine di Cefalù, Eraclea, Licata, Sciacca; talchè svilupparon Trara, e universale ingaggiarono la battaglia: un contro due i nostri, ma più pratichi del mare, si fidavan di vincere, incoraggiati sì dall’ammiraglio, che a veggente di tutti, dall’alta poppa della galea in fulgida armatura comandava. Sanguinosa indi e lunga la giornata si travagliò, finchè spossati i nimici, e standosi inoperose dal canto loro le galee genovesi, avventavansi i Siciliani sulle altre all’abbordo; e cominciò la fuga alla volta di Napoli. Questo chiarì la vittoria. La quarta che i nostri guadagnavano in questa guerra per giusta giornata navale; la più nobil tra tutte per disavvantaggio di forze, ostinazione al conflitto, e numero di navi prese: e rimutò le sorti della guerra al par della prima battaglia del golfo di Napoli tre anni innanti, e di quella dell’ottantacinque al capo di San Sebastiano; ma ebbero queste maggior grido, l’una per la presura del principe Carlo, l’altra per la Catalogna liberata dalle armi di Francia. Più migliaia tra di nemici e nostri caddero in questa giornata. Accrebbero lo splendor della vittoria quarantaquattro galee prese, con le bandiere, l’ammiraglio nimico, tutti i conti, trentadue nobili, e quattro o cinque mila più uomini. Mandolli Ruggiero sotto scorta di dieci galee siciliane a Messina; fe’ atroce rappresaglia d’una enormezza del nemico, o seguì gli atroci esempi di quelle guerre e di quella età, accecando parecchi prigioni; e con le altre trenta galee, spedito difilossi al porto di Napoli37.

Dove il popolo, come si suole, appiccava ai governanti questa sconfitta; e scompigliavasi, e sarebbesi ribellato, se l’ammiraglio avesse incalzato per poco, e Gherardo ed Artois, sopraccorsi a tempo, con loro riputazione non l’avessero contenuto. Ruggiero usò la vittoria vendendo a’ reggenti per grossa somma di danaro, tregua per due anni su i mari; senza mandato del re, senza pro della Sicilia, con dar comodo al nemico a rifarsi, e troncar il corso della fortuna. Però nei consigli di Giacomo gli emuli dell’ammiraglio ribadivan le accuse, e dicean tra’ denti fellonia; ma Giovanni di Procida, ch’era innanzi a tutti nell’animo del re, perdonar fece tal colpa alla gloria; parendogli non doversi provocare un tant’uomo, o volendolo in corte privato sostegno a sè medesimo.

Pertanto quando Loria tornò con la flotta a Messina, non fu conturbato, non fu troppo gioioso il trionfo. È degno di memoria, che alla dedizione d’Agosta, Giacomo vietò per questa vittoria sulle bandiere della Chiesa ogni pubblica allegrezza, fuorchè gl’inni al Signore. Ben attese a ristorar il castello d’Agosta, a rafforzar con un muro di cinta castello e città; e questa, diserta dalla strage del sessantotto e dal nuovo assedio, ripopolò con bandire, che tutti i Siciliani e Catalani che vi prendesser soggiorno, avrebbero stabili e franchige. De’ prigioni, Rinaldo d’Avella e il vescovo di Martorano si permutarono col castel d’Ischia (tanto fur leali ad essi i reggenti di Napoli); ma se l’ebbero a vergogna que’ cittadini, perchè per dodici anni, tenendo i nostri le bocche del golfo, riscotean tributo d’un fiorin d’oro all’uscita d’ogni botte di vino, e doppio sull’olio, e sì sulle altre merci. Per moneta si ricattaron gli altri nobili e’ conti; fuorchè Guido di Monteforte, quel che non temè d’assassinare nel tempio del Signore l’innocente Arrigo d’Inghilterra, e or nelle prigioni di Messina morì di malattia, dicono alcuni scrittori, per serbare castità e coniugal fede38.

Valida per queste vittorie e per prosperità al di dentro, posò la Sicilia intorno a due anni, non curante delle invettive che lanciavale papa Niccolò IV, non guari dopo la sua esaltazione, il giovedì santo dell’ottantotto39: e, durando la tregua, trattavasi anco la pace, ma da oltramontani, e perciò male per noi. Perchè stando gl’Inglesi con Francia in pace sospettosa e mal ferma, Eduardo, veggente assai nelle cose di stato, temea non s’aggrandisse quel reame con l’impresa d’Aragona; e, a torne cagione, procacciava in sembianze amichevoli la liberazione di Carlo lo Zoppo e la pace. A ciò mosse le raccontate pratiche al tempo di re Pietro40. A ciò, dicendo muoversi ai preghi de’ figliuoli di Carlo e degli ottimati di Provenza, divisava un congresso a Bordeaux con gli oratori di Aragona, Francia, Castiglia, Maiorca, e i legati di Roma41: e ito a Parigi a dì venticinque luglio dell’ottantasei, fermò tra Francia e Aragona una tregua42, non potendo la pace; perch’era durissimo a sciorre tal nodo. Giacomo, afforzandosi ne’ preliminari assentitigli in Cefalù dallo stesso Carlo, chiedeva, oltre il parentado con lui, la Sicilia, la diocesi di Reggio, e il tributo di Tunisi: la corte di Roma, pugnando pe’ reali d’Angiò più ostinatamente ch’essi medesimi non bramavano, rivolea la Sicilia a ogni modo: Alfonso per interessi di famiglia e di nazione tenea al fratello: induravano il re di Francia la romana corte e il Valois. Eduardo dunque, poichè non seppe spuntar di suoi propositi il pontefice che nulla temea, si volse ad Alfonso, imbrigliato assai strettamente dalle corti d’Aragona e di Catalogna, ch’erano impazienti di tal cumulo di danni per interesse non proprio, e le turbava il novello romoreggiar delle armi francesi in Rossiglione. Alfonso tentennò: poi a poco a poco, tirato da Eduardo, cominciò ad abbandonare il fratello, in un accordo fermato ad Oleron in Bearn. Parve poco questo trattato alla corte di Roma, che il disdisse; e perciò i pazienti principi l’anno appresso rifecerlo, il venzette ottobre milledugentottantotto, a Campofranco; ove, menomate in fatto le guarentige d’Oleron, e lasciato dubbio là dove non poteasi far l’accordo, Alfonso liberò il prigione, senza fermar patti espressi per Giacomo, nè per la Sicilia, posponendo al suo proprio comodo il manifesto dritto della Sicilia, le cui armi, non quelle d’Aragona, avean cattivato il principe nel golfo di Napoli. Indi Carlo II, lasciati per lui in carcere tre figliuoli, e pagati ad Alfonso trentamila marchi d’argento, libero n’andò all’entrar di novembre milledugentottantotto. Giurò che renderebbesi alla prigione, s’entro un anno non procacciasse la pace ad Aragona. Ma di tal sacramento il papa lo sciolse, insieme con Eduardo e co’ baroni mallevadori; stracciò come disorbitante e nullo il trattato di Campofranco, scritto da un officiale della romana corte; e continuò a conceder decime ecclesiastiche al re di Francia, e a mostrar di favorire gagliardamente l’impresa di Valois, per allontanar sempre Alfonso dal fratello, e ottener senz’altri compensi la liberazione de’ figli di Carlo lo Zoppo, com’avea conseguito quella del padre. L’anno appresso questo principe, ancorchè uomo onesto e intero, fu piegato da simili ragioni a compier la favola, appresentandosi con un grosso stuolo d’armati al colle di Paniças, come se pronto a rientrare in prigione: e promulgò non aver trovato chi ’l raccettasse; aver soddisfatto dal suo canto a ogni cosa; e ridomandò infine gli statichi e la moneta.

 

Tal fu il primo esito delle negoziazioni tra gli oltramontani principi pe’ fatti della rivoluzione nostra del vespro. Piegavano, com’anzi dissi, a nostro danno, per la potenza della corte di Roma, e perchè gl’interessi della Sicilia restarono in balìa del re d’Aragona, ch’era costretto ad abbandonarli se volea restare sul trono. Indi Giacomo ripigliò incontanente le armi, fidando nella nazione siciliana, che avrebbe avuto a combattere per le vite, per la libertà e per la corona del re. E Carlo II intanto, passato di Provenza in Italia, fe’ omaggio del suo reame al papa; e funne coronato a Rieti il diciannove giugno milledugentottantanove, con grande allegrezza di tutta parte guelfa d’Italia, che si vedea reso il suo principe. Cavalcò questi immantinenti alla volta del regno, che i Siciliani già laceravano con aspra guerra43.

Perchè Giacomo di primavera dell’ottantanove risoluto l’assaltava, tirato ancora da una pratica con cittadini di Gaeta. Passa a Reggio il quindici aprile con quaranta tra teride e galee, quattrocento cavalli, e dieci migliaia di fanti: il quindici maggio muove a risalir lungo la costiera occidentale di Calabria; avanzandosi ei di terra con le genti, l’ammiraglio con la flotta; l’uno a veggente dell’altro, perchè operassero insieme. Occupavan Sinopoli, Santa Cristina, Bubalino, Seminara, e per duri assalti anco Monteleone, sbarcatevi le ciurme; e Rocca, Castel Mainardo, Maida, Ferolito, Aiello. Volle Artois fronteggiarli, e s’ebbe a ritirare in fretta alle province di sopra; dapprima campando appena da un agguato; poi non fidatosi a investire il siciliano campo; e infine confuso dall’ardir di Calcerando e de’ fratelli Sarriano, che con picciolo stuolo, percotendo di mezzo al suo campo sotto Squillaci, entrarono a rafforzar la terra e mantenerla nella fede di Giacomo. Arrendeansi indi a’ nostri Amantea, Fiume Freddo, Castel di Paola, Fuscaldo; resistean le rocche di Castel Belvedere e San Gineto, tenute entrambe da Ruggiero San Gineto, assecurandole il forte sito e la virtù del signore, e anco della moglie, la quale con virile animo fu vista sugli spaldi di San Gineto inanimire il presidio, e di sua mano piombar sassi sulle teste de’ nostri, che con l’audacia di tante vittorie stormeggiavano il castello. Giacomo, lasciata Belvedere, strinse duramente quest’altra fortezza, impaziente di seguire il corso delle sue vittorie, e adirato contro Ruggiero, che caduto già una volta prigione dei nostri nel frequente scaramucciar di Calabria, avea promesso di risegnare il castello, dando statichi due figliuoli, ed or negava i patti e si difendea con tanto valore44.

Quivi un miserando caso attristò que’ medesimi animi infelloniti nelle ostinate lotte dell’assalto e della difesa. Era il castello presso ad arrendersi per diffalta d’acqua, quando una inaspettata speranza di pioggia tanto il rinfrancò, che tornando alle offese, fu tolta di mira coi mangani la tenda stessa di Giacomo. L’ammiraglio a questo, rompendo ai soliti trapassi d’ira cieca e spietata, fa drizzare co’ remi un palco dinanzi la tenda; fa legarvi i due figliuoli, avvertito e veggente Ruggiero. Il seppe la madre, e con dolor disperato, corse alle mura, pregò i suoi, pregò i nemici, scongiurò ora il re di Sicilia, ora il feroce consorte: e i combattenti arrestavan la mano da’ colpi, lacrimosi guardando tutti Ruggier San Gineto. Qui altri dice ch’ei fe’ star la macchina, altri che con atroce virtù comandava di trar sempre. In questa tragica tensione d’umani affetti, s’era chiuso d’oscuri nugoli il cielo; disserravasi un turbine; il fremito de’ venti, il polverio confondeano ogni cosa; quando tra le ondate della caligine si vide il palco andare giù in un fascio, non si sa bene se per tiro del castello o folata di vento. Al maggior de’ giovanetti entrò nella tempia un palo aguzzo che l’uccise. Giacomo rendea ai miseri genitori il cadavere con onor di pompa funerale, rendea libero l’altro figliuolo, e scioglieva anco l’assedio. Perchè vedendo per quella medesima tempesta rifornito d’acqua il castello, e la propria sua flotta campata appena da grave rischio su quelle costiere; e tardandogli di mandare ad effetto una pratica con cittadini di Gaeta, rientrò in mare con tutte le sue forze per seguire i disegni della guerra45.

 

Toccò Scalea, Castell’Abate, Capri e Procida che per lui si teneano; soprastette in Ischia; e smontò l’ultimo di giugno a Gaeta, agevolmente messo in fuga il conte d’Avellino, che in quello incontro ricordossi troppo vivamente la passata sua prigionia in Sicilia. Mala fazione che avea chiamato Giacomo, presumendo assai delle proprie forze46, sparatissima si trovò in quel tempo, in cui re Carlo II con tutti gli aiuti di Roma, rientrato nei regno per Solmone e Venafro, avviavasi a Napoli47. Largivagli il papa le decime ecclestastiche per tre anni48; bandiva per tutta Italia la croce, seguita in frotte da Guelfi di Lombardia e di Toscana, da Abbruzzesi, Campani e altri regnicoli, oltre le milizie feudali chiamate al servigio. Sotto il vessillo della croce e i comandi del legato pontificio, veniano i Saraceni di Lucera. Vide con gli occhi propri il Neocastro, donne portar armi tra quelle masnade, menarsi a guinzaglio grassi mastini per isfamarli di scomunicata siciliana carne. Questo esercito smisurato, sì diverso e bizzarro, capitanava il conte d’Artois49, in cambio del non guerriero monarca, inteso in Napoli a chiamar parlamento50, e con arti più miti tentare i Siciliani, promettendo perdono, e riforme, e che Francesi non manderebbe a governare la Sicilia, ma un legato del papa51.

La fama dunque di tai forze, precorrendole a Gaeta, voltò tutti gli animi a parte angioina; tantochè gl’indettati con Giacomo furono i primi a gridare contr’esso. Però di ripari e provvedigioni si munì bene la terra; il re, tentate indarno le pratiche, dopo alquanti dì si pose a sforzarla: accampatosi sur un poggio egli coi cavalli e il fior delle genti; e gli altri pedoni attendò al piano, trinceati ambo i campi, antiveggendosi il pericolo. Con assalti forte dati e forte respinti, e scambievole trar delle macchine gran pezza passò quest’assedio: occuparono e poser a sacco i nostri Mola di Gaeta; poi infino al Garigliano da un lato, a Fondi dall’altro, corser guastando e saccheggiando i contadi di Nola, Maranola, e Tragetto; ma Gaeta si danneggiava aspramente e non espugnavasi. Indi a poco sopravvenendo l’oste crociata, corse in frotte a stormeggiare i siciliani alloggiamenti; da’ quali ributtata con molto sangue, anch’essa a picciol tratto si accampò. Gaeta dunque tra la flotta e le genti nostre, queste tra la città e il nimico alloggiamento assediati stavano, percotendosi coi tiri a vicenda. S’ebbe maggior travaglio alla campagna, scaramucciando i nostri ogni dì or coi Saraceni, or coi Toscani crociati, or co’ Francesi; e spesso i mastini lasciati contro i nostri, sfamaronsi delle membra di chi li avea portato ausiliari alla guerra. Leucio, sì glorioso ne’ fatti dell’ottantadue, e Bonfiglio, messinesi, segnalavansi in questi affronti. Matteo di Termini in più grossa battaglia cominciata un dì, sfracellò coi tiri delle macchine la falange serrata de’ nimici. Non parea vero che diecimila uomini tenesser sì saldo tra una città e uno esercito fortissimi. All’oste siciliana si volgeano per la sua virtù le menti, i cuori, fin de’ nemici; piena di maraviglia e di perplessità, tutta l’Italia aspettava ormai la catastrofe52. Ma intanto la violazione de’ patti d’Oleron e di Campofranco, comandata, com’aperto vedeasi, da Roma, incresceva a Eduardo; e a confonder Niccolò venner anco di levante lagrimevolissimi avvisi: scacciati di Soria i cristiani; presa Tripoli dal Soldano con orribili atti di crudeltà; strette d’assedio in Acri le reliquie de’ fedeli che imploravan soccorso. Però Eduardo, non più sopportando che si spiegasse la croce contro cristiani mentre i maumettisti la calpestavano in Asia, mandò al papa per Odone di Grandisson una ambasciata acerba: che cessasse tanto scandalo; o alfin si aspettasse l’ira di tutti i principi cristiani. Umiliossi Niccolò a tal forza di verità. Spacciò, insieme con l’inglese, un messaggio a re Carlo, portatosi il diciotto agosto al campo a Gaeta; il quale non era uom da ricusare la tante volte promessa cessazione dalle armi. Aggiunte tai pratiche alla difficoltà, che vedeasi d’ambo i lati durissima, a ben finir questa fazione, fecer tosto fermare la tregua.

Vanno dall’un campo all’altro oratori a parlamentar di pace; nel quale incontro scrive il Neocastro, che i cavalieri francesi entrati nelle tende del sicilian re, vedendole sfolgorar di spade, lance e tutti ornamenti d’arme, e per ogni luogo le ben acconce macchine, e gli alloggiamenti trinceati con sapienza di guerra, ricordasser con rammarico le stanze del secondo lor Carlo, come cella di chierico, piene di libri profetici, musaici, dalmatiche in luogo di corazze. Quanto all’importanza del trattato, battendo gli angioini oratori su lor fola della cessione dell’isola, Loria al cospetto di re Giacomo rispondea brusco: non lascerebbe la Sicilia, se tutto il mondo venisse crociato sovr’essa. Indi del mese d’agosto milledugentottantanove si fermò tra Sicilia e Napoli, in luogo della pace che non si poteva, una tregua infino al dì d’Ognissanti del novantuno, con questi patti: che si posasser le armi sì in mare e sì in terra, fuorchè nelle Calabrie e presso il Castell’Abate e in qualche altro luogo: che potesse Giacomo per mare vittovagliare e munire tutte le terre occupate da esso; non portar l’armata innanzi a quelle ch’ubbidivano a Carlo: che nelle infrazioni della tregua, si provasse il danno dinanzi a’ magistrati della parte offesa, o a Giovanni di Monforte per re Carlo, a Ruggier Loria per Giacomo; e tra dì quaranta il principe dell’offensore ne facesse risarcimento. Notevol è tra questi articoli, e mostra con quali indisciplinate masnade la Sicilia riportava tante vittorie, il patto che restasser fuori della tregua gli almugaveri, de’ quali Giacomo non si facea mallevadore; ma ben promettea non favorirli in loro fazioni, e non mandarvi uficiali, nè mercenari suoi. Di tal tregua presero grandissimo sdegno i baroni di re Carlo, che sentendosi dieci contr’uno, speravan rifarsi una volta delle sconfitte toccate nella siciliana guerra. Secondo i patti, primo levò il campo re Carlo, tre dì appresso Giacomo; il quale imbarcatosi con tutte le genti il dì penultimo d’agosto, prese il porto di Messina a sette settembre, dopo aver corso a capo Palinuro grande fortuna di mare. Ricantando le bravate dei baroni di Carlo, alcuno scrittore di quel reame, poi sentenziava che seguitando le offese, sarebbe stata senza dubbio inghiottita la picciol’oste di Sicilia; ma il guelfo Villani accetta esser tornato utilissimo quell’accordo al regno di Puglia; e Carlo stesso, men vantatore de’ suoi, di lì a pochi mesi non gloriavasi d’altro che dell’aver Giacomo tentato senza pro la espugnazione di Gaeta. Lo stesso può argomentarsi dalla fermezza de’ capitani di Sicilia nel trattare; dall’essere rimaso Giacomo signore della più parte delle Calabrie, oltre le terre occupate qua e là per altre province; e dagli altri onorevoli patti che fermaronsi per, termine di questa certo audacissima impresa sulla estremità opposta del territorio nemico53.

Nei due anni appresso, sostando la grossa guerra con Napoli, male si osservò la tregua; com’eran gli uomini sempre con le armi alle mani, e avvezzi ad offendersi e rubacchiarsi a vicenda; talchè or per cupidigia, ora per rappresaglia, ora per non potersi raffrenare gli almugaveri, continuarono scambievolmente le prede in mare, gli assalti in terra54, a quanto pare con maggiore avvantaggio dalla parte dei nostri, che fean bottega de’ prigioni55, e per mare talvolta minacciarono56, talvolta consumarono importanti fazioni57; alle quali l’ammiraglio preparossi il pretesto, lagnandosi una fiata d’infrazione a’ patti, e aggiugnendo: non parlare per ambagi; ciò che avea in cuore nol mentiva col labbro; sapessero ch’egli osserverebbe la tregua al modo stesso che feano i nemici58. In questo tempo le armi siciliane mostraronsi ancora con gloria in levante. Andò Loria con la flotta a riportare il Margano principe d’Arabi, che in Sicilia promettea riscatto; e appena sbarcato in terra maomettana, cavalcando con uno stuol de’ nostri a Tolomitta, l’avviluppò d’insidie; ma essi con incredibili prove strigatisi da’ barbari, e sforzato il re a noverar la moneta, si tornavano con quella a Messina. Nel medesimo tempo venuto a Messina Giovanni di Greilly, quel siniscalco di Eduardo che adoprò sì leale con re Pietro a Bordeaux, ed or s’era partito d’Acri per sollecitar aiuti della Chiesa, Giacomo, raccoltolo con assai onore, gli die’ sette galee siciliane che in que’ luoghi combattessero per la fede59. Più notevoli furono in questo tempo le pratiche della pace.

Perchè vennero da chi solo potea portarle a compimento; parendo papa Niccolò divenuto a un tratto più mite, per paura delle armi del Soldano. Il Neocastro non la dà a cagione sì piana. Narra, che non guari dopo bandita la tregua, un Geronimo, decrepito romito dell’Etna, si traesse dinanzi al sommo pontefice, a rivelare ammonimenti del Cielo a pro di Sicilia; sì che il piegò con la forza delle apostoliche parole, che gravissime spiccano su le pagine del siciliano istorico. Niccolò, qual che si fosse il perchè, mandava al re di Sicilia un frate catalano, Ramondo per nome, a fargli sperar propizia la santa sede s’ei menasse la siciliana flotta al soccorso d’Acri: e Giacomo rispondeagli, che, riconosciuto re di Sicilia, con tregua per cinque anni e aiuto di danari, passerebbe in Terrasanta con trecento cavalli, diecimila pedoni e trenta galee; promettendo Loria ch’a sue spese aggiugnerebbevi (sì alto era salito!) dieci galee, cento cavalli, duemila fanti. Ma in altro modo questa novella benignità del papa fu interpetrata in Sicilia. Pandolfo di Falcone e altri Siciliani pratichi delle cose di stato, sursero a distogliere il re; tornandogli a mente che simil laccio tese papa Innocenzo all’imperator Federigo; e che s’ei portasse le siciliane armi in levante, darebbe inerme l’isola in man dei nimici. Così fatto accorto Giacomo, inviò al papa Giovanni di Procida, uom da stare a petto a que’ di Roma: il quale dando oneste cagioni del mutato proponimento, conchiuse, che si differisse l’impresa di Terrasanta infino alla ferma pace tra la Chiesa e Giacomo; ma il papa volle rimettere il negozio alla pace generale da trattarsi in Provenza, tra Aragona, Francia, Chiesa, Napoli, Maiorca, e Carlo di Valois, mediante l’inglese Eduardo60; procacciandola con estrema attività, per ottener la liberazione de’ figliuoli, Carlo lo Zoppo, che fermata ch’ebbe la tregua in Gaeta, lasciò l’insultato reame, per compier con le negoziazioni ciò che non avea saputo con la spada61, e dimorò lungo tempo in Francia come un infelice importuno, mercanteggiando con Carlo di Valois, pregando Filippo il Bello, e spesso domandandogli danari in prestito62.

E per tal modo tutte le speranze si dileguarono; sendo finita questa generai pace d’oltremonti là dove avean accennato i trattati di Oleron e di Campofranco. Perchè la corte dì Roma, o non potendo beffarsi di Giacomo, o tornando a pensare alle cose d’Italia più che della Soria, non die’ ascolto al ripiego di Giacomo, offrente pagarle tributo per la Sicilia63: e rinnovò gli appresti di guerra contro Aragona64: ove le corti, mal soffrendo sempre il pericol proprio per l’utile altrui, di settembre dell’ottantanove avean mandato ambasciadori in Sicilia, che praticasser anco con Procida, Loria, Alamanno e Calcerando, a’ cui consigli Giacomo si reggea, e chiedesser venti galee siciliane in Catalogna, poichè per ragion della Sicilia si dovea quel reame rituffare ne’ mali della guerra65. A’ nuovi romori dunque, nacquero in Aragona discordie civili tra le corti e ’l re; le corti, inibita ad Alfonso ogni pratica dassè solo intorno la pace, voller che la si trattasse per dodici commissari della nazione66: e vinto Alfonso da necessità e stanchezza, ruppesi il debil filo al quale teneano gì’interessi di Giacomo. Bandito un congresso67 in Provenza, al quale al papa mandava i due cardinali Gherardo da Parma e Benedetto Gaetani68, perchè tra la riputazione della porpora e la capacità degli uomini, ogni cosa andasse a posta loro, alla prima si disse a Giacomo ch’inviasse suoi oratori, o si fece sperare d’ammetterli; ma quand’ei spacciò di giugno milledugentonovanta Gilberto di Castelletto e Bertrando de Cannelli, il re d’Aragona rispondea: si stessero; non gli sturbasser la pace sua; ferma quella, più agevol sarebbe a Giacomo69. Intanto i cardinali legati a diciannove agosto del novanta avean fermato un patto con Carlo II e Filippo il Bello, che fatta la pace con Aragona, ma persistendo la Sicilia, il re di Francia si godesse sempre la decima accordatagli per tre anni, e l’avesse per altri anni due con pagare al papa per le spese della guerra di Sicilia quattrocento mila lire tornesi, che si ridurrebbero a trecento mila racquistandosi l’isola entro un anno e due mesi. Non conchiusa la pace con Alfonso, il re di Francia darebbe dugento mila lire solamente; sarebbe aiutato dal papa contro l’Aragona, e anco da Carlo II, se questi riavesse la Sicilia nella quale dovea principiarsi la guerra70. E’ manifesto così qual pace serbassero a Giacomo: nè allora l’ignorava alcuno. Andò al congresso re Carlo co’ dodici commissari di re Alfonso e delle corti d’Aragona, presenti i due legati del papa, e quattro d’Inghilterra. Adunaronsi in Tarascon; e segnarono il trattato a Brignolles, il diciannove febbraio milledugentonovantuno.

Nel quale umiliossi Alfonso a promettere di chieder perdono al papa, dapprima per legati, indi entro dieci mesi anco in persona; di guerreggiar in Terrasanta; di rendere a Carlo gli statichi, la moneta, i prigioni di guerra; di richiamar tutti i sudditi suoi di Sicilia, e togliere a Giacomo ogni aiuto. S’ingaggiò Carlo in cambio a procacciar l’assentimento di Filippo il Bello e del Valois: vedrebbe la Chiesa di rivocar la concessione del reame a costui, e ribenedir l’Aragona. Lasciossi luogo ad entrar tosto nella pace al re di Maiorca, e a quel di Castiglia, se si potesse71. Il dì appresso i due cardinali intimavan questo trattato a Francia e alla corte di Roma72. Tanto si legge ne’ diplomi. Il Neocastro a queste condizioni aggiugne: riconosciuta l’alta signoria d’Alfonso su Maiorca; fermato censo annuo di trenta once d’oro, che pagasse Aragona alla corte di Roma; stabilito con quali forze dovesse andar Alfonso in Roma e indi in Terrasanta, e in Sicilia a procacciar anche con le armi la sommissione di Giacomo. Fu tolto allora ogni ostacolo al matrimonio d’Alfonso con la figliuola d’Eduardo d’Inghilterra: e un altro poco appresso ne strinse re Carlo per ottener la rinunzia del Valois, dando a Costui in isposa la sua figliuola Margherita, con le contee d’Angiò e Maine73.

Non ebbe tempo Alfonso a raccoglier di questa pace altro che il biasimo. Accrebbelo con fornir munizioni navali a Genova, per l’armamento di sessanta galee agli stipendi di re Carlo; che ripigliato animo alla impresa di Sicilia, di marzo andò in Genova, co’ due cardinali legati, a invitarvi que’ mercatanti guerrieri74. Ma quando più lieto si dipingea l’avvenire ad Alfonso, robusto e sano a ventisette anni, assicuratosi il reame, vicine le nozze con la bella figliuola d’Eduardo, una malattia di tre giorni l’uccise, il diciotto giugno del medesimo anno, pria che si fosse mandata ad effetto alcuna parte del trattato. Per non essere di lui figliuoli, ricadea la corona a Giacomo re di Sicilia. Talchè a un tratto dissipò la fortuna le meditazioni di chi avean intrecciato sì sottilmente la pace; e arrise alla Sicilia, per apparecchiarle più torbidi tempi, e poi maggior gloria. Giacomo, al primo avviso, convocato in fretta un parlamento a Messina, con molto affetto parlò; e, come suolsi sempre partendo, giurò eterno l’affetto, accomiatandosi da’ popoli in Messina, Palermo e Trapani; donde entrò in nave il dodici luglio. Lasciò luogotenente il fratel suo Federigo; una forte armata; assai acquisti in Calabria; e chiara fama di sè. Perchè negli otto anni che resse di presenza lo stato, dapprima vicario, poi re, s’ei fu in qualche incontro ingannatore e crudele, ne fece ammenda con la benignità nell’universale, i larghi ordini delle leggi, la virtù di guerra, le avventurate imprese contro i nimici della Sicilia. Oltre a ciò, sotto il suo governo ristoravasi la nazione a floridità e ricchezza; alleviata dalle tasse, e dalla tirannide che tutto soffoca in disperato letargo; francheggiata da sicurezza di buone leggi, e dalla virtù della rivoluzione che animava ogni parte del viver civile. Per le quali cagioni, accompagnavano amorosamente i Siciliani coi lor voti quel principe, che pochi anni appresso dovea meritare le più disperate maledizioni75.

37Bart. de Neocastro, cap. 110, 111. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 11. Montaner, cap. 105, con errore di tempo e di qualche circostanza, dicendo che i Francesi tenessero ancora il castello di Cefalù; nel quale sappiamo che era stato già prigione Carlo lo Zoppo. Gio. Villani, lib. 7, cap. 117. Anon. chron. sic., cap. 48. Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 812. Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 22, in Muratori, R. I. S., tom XI. Cronaca di Rouen, presso Labbe, Bibl. manuscripta, tom. I, pag. 381. Un diploma del 1 giugno duodecima Ind. (1299) attesta che Guglielmo Sallistio fu preso nella battaglia de’ conti, ov’era nella famiglia del conte di Monforte, e fu accecato. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 88. Un altro del 30 settembre terza Ind. (1289), dato di Napoli, accorda una sovvenzione a un Provenzale accecato dopo che fu preso nella battaglia navale, e perciò deve intendersi della più recente, cioè questa del 23 giugno 1287. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 16. Ibid. a fog. 16 a t. e 17, son due altri diplomi dati il 3 ottobre e uno il 4, per Ruffino di Pavia similmente accecato, due uomini d’Ischia ai quali era stato cavato un sol occhio, ec. Finchè non avremo per tempi anteriori altri di questi documenti, spiacevoli e non però men fedelmente da me riportati, potremo credere col Montaner (cap. 118) che Ruggier Loria si sia dato a tali crudeltà per rappresaglia, e molto tempo dopo che vide da’ nemici cavati gli occhi e mozzate le mani ai nostri presi combattendo: il che non toglie il biasimo, ma l’attenua. Montaner aggiugne che a queste rappresaglie i nemici cessarono dall’empio lor costume.
38Nic. Speciale, lib. 2, cap. 12. Bart. de Neocastro, cap. 111. La restaurazione d’Agosta è riferita dal Montaner, cap. 108. Il quale a cap. 118, sebbene con anacronismo, dice de’ tributi che i nostri riscuoteano da Ischia sulle merci uscite dal golfo. Un diploma del r. archivio di Napoli, reg. seg. 1289–1290, A, fog. 54, citato da D. Ferrante della Marra (Discorsi, Napoli 1641), attesta che Ramondo de Baux, fatto prigione nella battaglia dei conti, fu ricattato dal padre; il quale impegnò la contea d’Avellino per avere il denaro.
39Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 10 e 11.
40V. il cap. 12.
41Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, diplomi del 5 febbraio, 2 e 13 maggio, e 29 giugno 1286, pag. 315, 317, 318, 319.
42Rymer, loc. cit., pag. 326, 328, 329, 330, 331, 332, 333, due diplomi del 15 luglio 1286, e altri del 22, 24, 25, dello stesso mese. Altro del 15 luglio, in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd. tom. I, pag. 1217.
43I particolari di questi maneggi furono i seguenti: Onorio incominciò a sollecitar Filippo il Bello, affinchè ripigliasse l’impresa del padre; e a questo effetto diede autorità al legato pontificio in Francia di sospendere e scomunicare tutti gli ecclesiastici che favorissero Alfonso in Aragona. (Archiv. del reame di Francia, J. 714. 9.) Eduardo I appena fermata la tregua di luglio 1286, caldamente sollecitò la corte di Roma a ratificarla (Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, parecchi diplomi del 27 luglio 1286, pag. 334, 335); ed essa mandò gli arcivescovi di Ravenna e di Morreale per trattar della pace, senza fermarla però da lor soli, soggiugnea Onorio, in sì dilicato e importante negozio (Ibid., pag. 340 e 341, 7 novembre e 1 marzo 1287; Raynald, Ann. ecc., 1286, §§. 13 e 14; Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S. tom. IX. pag. 810). Ma insistendo Alfonso su i preliminari di Cefalù, il papa sdegnato ruppe gli accordi (Raynald, Ann. ecc., 1287. §. 6, breve dato di Roma a 4 marzo, di cui si fa menzione in due altri di papa Niccolò IV, del 15 marzo e 26 maggio 1288, in Rymer, l. c. pag. 358); sovvenne Filippo il Bello e Valois, che nuovamente minacciassero la guerra (Raynald, Ann. ecc., 1286, §. 28); i quali tentarono con lieve dimostrazione il Rossiglione (Montaner, cap. 158 e 160). Intanto le cortes d’Aragona e Catalogna, infin dai primordi del regno d’Alfonso, avean preso ad esercitare tutti i poteri sovrani (Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 77 e 78); la nazione disapprovava sempre apertamente la impresa di Sicilia, e se sosteneva Alfonso era per timore della dominazione francese (rimostranza del 1286, citata nel cap. VIII, in nota.) Perciò Alfonso fu tratto a stipulare ad Oleron in Bearn, il dì quindici luglio milledugentottantasette, presenti i due legati pontifici, la liberazion di re Carlo. Si pattuì riscatto di cinquantamila marchi d’argento: che promulgata la tregua tra Francia e Aragona e inclusavi la Sicilia, Carlo si adoprasse a portarla infino a tre anni, e farvi accostar la Chiesa e il Valois: che procacciasse in questo tempo una pace soddisfacente a’ re d’Aragona e di Sicilia, e ratificata sì dalla Chiesa. Dovea Carlo dare statichi tre figliuoli suoi, sessanta nobili e borghesi provenzali, e giuramento de’ castellani delle fortezze di Provenza, che rassegnerebbersi ad Aragona, s’egli ne’ tre anni non ottenesse la pace, o non si tornasse in prigione (Dipl. del 25 luglio 1287, in Rymer, loc. cit., pag. 346, e in Lünig, Cod. Ital. dipl., tom. II, pag. 1035–1040. Dipl. del 28, 31 luglio e 4 agosto 1287, in Rymer, loc. cit., pag. 350, 351, 352). Raffermaronsi oltre a questo le nozze tra la figliuola d’Eduardo e re Alfonso, per tanti anni attraversate da Roma (Rymer, loc. cit., pag. 320 e 349, 27 maggio 1286, e 28 luglio 1287). La inflessibile politica della corte di Roma, non ostante che vacasse la sede per la morte di Onorio, distrusse questo trattato d’Oleron. Prima il collegio de’ cardinali, poi Niccolò IV, esortavan Eduardo a trovar altro modo alla liberazion del prigione; ammoniano Alfonso vietandogli di aiutar il fratello; e ridavan le decime a Francia per la guerra (Rymer, loc. cit., pag. 353, 358 e seg., 362, 365, 366, diplomi del 4 novembre 1287, 15 marzo, 3 aprile, 26 maggio, 15 settembre 1288; Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 11, 12, 13, 14, 15; breve del 15 marzo, 1288, Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 155). Indi il trattato di Campofranco, scritto da un notaio del papa: per effetto del quale Carlo II pagò ventimila marchi, togliendone in presto diecimila da Eduardo; die’ sicurtà per altri settemila; statichi solo inglesi; parola ch’entro un anno procacciasse tregua tra Francia ed Aragona, o si rendesse alla prigione. Saragozza e altre città e baroni d’ambo le parti garantiron l’osservanza de’ patti; e Carlo giurolli una prima volta, e uscito di Catalogna rinnovò il giuramento, che il papa poi sciolse (Rymer, loc. cit., pag. 368 e seg., parecchi diplomi del 18, 21, 24, 25, e molti del 27 ottobre 1288, e altri del 28, 29 ottobre e 3 novembre dello stesso anno e 9 marzo 1289; Lünig, loc. cit., pag. 1035 a 1040; Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 16, 17). Il dubbio in cui si restò pe’ patti di Campofranco, si scorge ancora da una lettera d’Alfonso data 4 gennaio 1290, dove affermansi non annullati que’ d’Oleron, e obbligatosi Carlo a procacciar la pace anche a Giacomo di Sicilia. Carlo II fu aiutato di danari al pagamento del riscatto, non meno da’ suoi sudditi, che da città italiane. Soprastette prima in Provenza; poi in primavera del 1289 passò in Italia; venne nel regno, ove fermò la tregua di Gaeta; e ripartì immantinenti per andare in Francia, a continuar le pratiche della pace, e far la commedia del presentarsi in Ispagna, poichè gli altri potentati accaniti non voleano piegarsi alla pace, ch’egli procacciava, portato dalla sua indole più che da’ suoi interessi (Rymer, loc. cit., pag. 429, 430, 435, 438, 441, diplomi del 5 e 7 settembre, 30 ottobre, 1 e 2 novembre 1289, e 4 gennaio 1290, e diploma del 1 novembre 1289, anche pubblicato dagli archivi d’Aix, per Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, docum. 20; Raynald, Ann. ecc., 1289, §§. 1 a 11, e 13, 14, 15; Cronica di Iacopo Malvecio, in Muratori, R. I. S., tom. XIV, cap. 103, 104, 106, 108, e diplomi di Carlo II in essa trascritti, dati di Marsiglia il 1 dicembre 1288, di Genova a 26 aprile 1289, e di Rieti il dì della Pentecoste del 1289, da’ quali si vede che il comune di Brescia porse 2,000 fiorini a Carlo, che ne l’avea pregato con molta istanza, dicendo dover soddisfare il danaro o tornar in prigione). L’insistenza del papa a minacciare Alfonso dopo la liberazione di re Carlo, per ottener quella de’ figliuoli, e l’abbandono assoluto di Giacomo re di Sicilia, si scorge da un breve del 25 settembre 1288, due del 9 febbraio, cinque del 31 maggio, uno del 28 giugno, e uno del 7 luglio 1289, relativi tutti a una novella concessione di decime ecclesiastiche al re di Francia, e una bolla del 31 maggio 1289, con la quale si dava autorità al vescovo d’Orléans e all’abate di Cluny, di ribenedire gli scomunicati per aderenza con Pietro o con Alfonso d’Aragona. Negli archivi del reame di Francia, J. 714. – 18, 12, 11, 12, 12, 13, 13, 14, 15, 18, 15. I comuni del regno di Napoli nel 1287 contribuiron danaro per la liberazione del re, come si scorge da un diploma nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 20. Veggansi anche per tutte queste negoziazioni, Bart. de Neocastro, cap. 111, 112. – Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 15. – Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 23, in Mur., R. I. S., tom. XI. – Gio. Villani, lib. 7, cap. 125–130. – Ramondo Montaner, cap. 162, 166, 167, 168, 169, che più o meno ne riferiscono il vero.
44Un diploma di Carlo II dato di Venosa a 23 febbraio (non segnai bene l’Ind.) fa parola di danaro dato a Ruggier di Sangineto, a domanda della moglie, per lo riscatto de’ suoi figliuoli. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1291, A, fog. 213.
45Bart. de Neocastro, cap. 112. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 13.
46Bart. de Neocastro, loc. cit,, Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14. Veggasi anche il Montaner, cap. 116, 150, 163 e 165, il quale in vero segna due antecedenti passaggi di Giacomo in Calabria, e dà a veder sempre che molti fatti s’eran confusi nella sua memoria
47Si ritrae da’ diplomi del 27 e 28 giugno, notati nello Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 43 e 44, nota. 2.
48Raynald, Ann. ecc., 1289, §. 13.
49Bart. de Neocastro, cap. 112. Nic. Speciale, lib 2, cap. 16. L’appello al servigio militare entro pochi giorni, si ritrae dal citato Elenco, tom. II. pag. 48, 49, 50 e 51, ove leggonsi vari diplomi dell’11, 12, 13 e 16 luglio 1289.
50Ibid., pag. 51, diploma del 31 luglio.
51Raynald, Ann. ecc., 1289, §. 15.
52Bart. de Neocastro, cap. 112. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14. Montaner, cap. 164, 165, 169. Gio. Villani, lib. 7, cap. 134. I gravi danni sofferti dalla città di Gaeta, si ritraggono anche dalle immunità delle tasse regie e fin delle decime ecclesiastiche, datele poco appresso in ristorazione e premio. Raynald, Ann. ecc., 1290, §§. 24, 25, e Villani, loc. cit.
53Bart. de Neocastro, cap. 112. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14. Montaner, cap. 169. Raynald, Ann. ecc., 1289, §§. 65, 67. Gio. Villani, lib. 7, cap. 134, il quale dice il nostro esercito respinto di Calabria dal conte d’Artois. Non è vero, com’altri afferma, che Artois, cruccioso della tregua, lasciasse i servigi di Carlo; perchè da molti diplomi notati nello Elenco più sotto citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 62, 63, 65, 66, ec., si ritrae che Carlo, partito poco appresso, gli commettea gli affari del regno, chiamandone vicario Carlo Martello suo figliuolo; e nel diploma del 27 dicembre 1290, ch’io pubblico, docum. XXV, lo stesso Artois attesta aver giurato la tregua di Gaeta, e scrive da ministro di re Carlo per procacciarne l’osservanza. Le condizioni della tregua, taciute dagli scrittori che ne portan solo la durata, si leggon chiaramente nel citato docum. XXV. Il soggiorno di Carlo II al campo di Gaeta confermasi per un diploma del 18 agosto 1289, nell’Elenco citato, tom. II, pag. 57. I particolari detta pratica della tregua, scorgonsi ancora da una lettera di Carlo II ad Alfonso d’Aragona, data il 1 novembre 1289, in Rymer, tom. II, pap, 441. Questi diplomi e due altri di Giacomo dati a 17 e 30 luglio 1288 in Palermo, Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 156 e 158, correggono l’errore del Neocastro e dello Speciale, che portano quest’impresa nella state del 1288; perchè i primi dimostrano fermata la tregua d’agosto 1289, i secondi che Giacomo nella state del 1288 fosse in Palermo. Forse nacque l’errore dal ricordare l’indizione piuttosto che l’anno, perchè la seconda indizione ricadea appunto sul fin della state dell’88, sì come nel corso di quella dell’89. Bonifazio poi rimproverò a Carlo questa tregua frettolosa, fermata senza saputa sua nè di Gherardo. Essi erano allor legati del papa all’oste angioina; ed è strano che uno di loro si sarebbe opposto a ciò che volea il papa. Breve del 9 gennaio 1300, peste Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 14.
54Diploma dato il 27 dicembre quarta Ind. (1290). Docum. XXV. Queste infrazioni della tregua, che erano scambievoli, si veggono da parecchi altri diplomi, cavati come il precedente dal r. archivio di Napoli. Diplomi dati di San Gervasio il 28 ottobre terza Ind. (1289), scritti da Roberto conte d’Artois, e Carlo primogenito del re Carlo II, a Giacomo d’Aragona e a Ruggier Loria, lagnandosi di atti contrari alla tregua. Reg. seg. Carlo II, 1291, A, fog. 10, a t. Diploma di Ruggier Loria, dato di Messina a 26 settembre quarta Ind. (1290), col quale si lagnava della preda di alcune navi siciliane caricate in Catania di grano, del prezzo di tarì 14, 10 a salma, e prese da sei galee e un galeone di Puglia; e chiedendo la ristorazione, fieramente conchiudea: Alioquin nos qui bilingui ore non loquimur et quod in animo gerimus labiis simulari nescimus, vobis in apertum deducimus quod treuguas ipsas genti nostre observari similiter faciemus. Fu indirizzata la lettera al conte Giovanni di Monforte, e da costui ad Artois, e trascritta in un diploma dato di Corneto, il 4 novembre quarta Ind. col quale alle minacce di Loria, si pagò subito il valsente della preda, non senza far querela di altre simili infrazioni dalla parte de’ Siciliani. Reg. cit. fog. 163 e 164. Altri diplomi del conte d’Artois dati di Corneto il 4 novembre quarta Ind., indirizzati, il primo a Giacomo, il secondo a Ruggier Loria, descrivean tutte le violazioni alla tregua, fatte di parte siciliana. Ibid., fog. 166 e 166 a t. Diplomi dati a 21 e 22 dicembre quarta Ind., anche indirizzati a Giacomo e a Loria, su lo stesso argomento, e dettati su lo steso stile del diploma del 27 dicembre seguente, da me pubblicate. Ibid. fog. 185 e 185 a t.
55Diploma di Roberto conte di Artois, dato di Corneto a 21 febbraio terza Ind. (1290), per lo scambio di Guglielmo Mallardo, prigione del Siciliani, col decano di Nicastro, preso mentre parteggiava per essi in Calabria. Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, seg. 1291, A, fog. 5. Diploma dato di Venosa a 6 novembre terza Ind. (1289), per mandarsi una barca al Castell’Abate, a trattar la liberazione di Roberto di Cambray, prigione de’ nemici. Ibid., fog. 11 a t. Diploma dato di Napoli a 12 maggio terza Ind. (1290), a Giovanni d’Eusebio, abate di Sorrento. Gli è data licenza d’andare in Ischia, Capri, Castell’Abate, e se occorra anche in Sicilia, per ottener la liberazione di un vescovo frate Pietro, d’Arrigo Filangieri, Pietro Capece e Roberto Apperdicaro, militi, e altri uomini da Sorrento nuper captorum ab hostibus. Ibid., fog. 27 a t. Diploma dato di Napoli il 14 maggio terza Ind., al generale ministro de’ Minori, sopra la liberazione di alcuni frati presi da’ nemici, che, secondo la tregua, non si potean di ragione chiedere, perchè presi in terra, non in mare. Nondimeno il governo di Napoli ne avea scritto a Ruggier Loria. Ibid., fog. 30.
56Diploma dato di Venosa a 17 dicembre terza Ind. (1289). Il giustiziere di Basilicata vada alla terra Giordana; prenda 150 cavalli e 100 fanti; e si porti subito alle frontiere de’ nemici a combatterli. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 23. Altro dato di Napoli a 9 marzo terza Ind. (1290). Annunzia estrema cura a guardar da insulto nemico il ducato d’Amalfi; e contiene molti minuti provvedimenti di riparazione di fortezze, vittuaglie, ec. Ibid. fog. 28. Altro dato di Napoli a 11 marzo terza Ind. Perchè Niccolò di Gesualdo, capitano di Napoli, pigli il comando di tutta la marina dalla torre ottava infino a Pozzuoli, per prevenir le offese de’ nemici. Ibid., fog. 28 a t. Altro dato di Napoli a 9 maggio terza Ind. Somiglianti e più affannosi ordini a Adamo Arenga, per la costiera dalla Rocca di Mondragone infino a Gaeta. Ibid. Altro dato di Napoli a 13 maggio terza Ind. Per provvedersi saette ne’ luoghi marittimi del ducato di Amalfi. Ibid., fog. 29.
57Veg. il docum. XXV, citato di sopra.
58Diploma del 26 settembre 1290, citato nella pagina prec, nota 1.
59Bart. de Neocastro, cap. 113. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14. Raynald, Ann. ecc., 1290, §. 7.
60Bart. de Neocastro, cap. 112. I portatori di questa o altra somigliante ambasceria di Giacomo, passarono per lo regno di Napoli, se pur non negoziarono anche col vicario di quello. Ce l’attesta un diploma del conte d’Artois, dato il 4 novembre 1290 in Corneto, pel quale s’ingiunge al giustiziere di Basilicata dì vegliare stretto gli oratori nimici, che non tramassero coi cittadini. Elenco citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 68.
61Questi viaggi di Carlo II, scorgonsi da’ diplomi notati nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 61, nota 1.
62Due diplomi del 1294 e dal 1303, negli archivi del reame di Francia, J. 511. 10, e J. 512. 24, contengono le scritte del ricevuto per 28,500 lire tornesi prestate a Carlo II, dall’ultimo febbraio 1292, al 27 agosto 1293, della qual somma la più parte si dovea conteggiare col papa.
63Bart. de Neocastro, cap. 114.
64Raynald, Ann. ecc., 1290, §. 21.
65Diplomi del 5 e 7 settembre 1289, in Rymer, op. cit., tom. II, pag. 429, 430. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 117.
66Diplomi del 4 e 19 gennaio 1290, in Rymer, op. cit., pag. 456. Conferma ciò il Montaner, cap, 172, velandolo al suo solito; e meglio il ritrae Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap, 120 e seg.
67Prima si stabilì a Perpignano, dove non andarono gli ambasciadori d’Alfonso, perchè non piacque ai commissari deputati dalle corti. Diplomi del 18 gennaio, 2 e 3 febbraio 1290, Rymer, loc, cit.
68Bart. de Neocastro, cap. 112. Raynald, Ann. ecc., 1290, §§. 18 e 19, breve del 23 marzo 1290, e §. 20, diploma del 20 gennaio
69Bart. de Neocastro, cap. 114. La testimonianza di questo scrittore intorno al permesso dato a Giacomo di mandare ambasciadori, è confermata da un breve di Niccolò IV, indirizzato il 16 gennaio 1291, a Carlo di Valois richiedendolo di lasciar passare ne’ suoi domini questi oratori. Negli archivi del reame di Francia, J. 715, 26.
70Diploma de’ cardinali di Sabina e di San–Niccolò in carcere Tulliano, convalidato co’ suggelli dei re di Francia e di Napoli, negli archivi del reame di Francia, J. 511, 8.
71Diplomi del 19 febbraio e 12 aprile 1291, in Rymer, tom. II, pag. 501 e seg. Esiste ne gli archivi del reame di Francia J. 587, 16, l’originale trattato dei 13 febbraio.
72Rymer, loc. cit., pag. 504, diploma del 20 febbraio 1291.
73Bart. de Neocastro, cap. 114. Montaner, cap. 173, il quale con molti errori porta tutto questo trattato. Per altro egli il dice fatto in Tarascon, che si riscontra co’ diplomi; ma il Neocastro lo suppone in Aix, forse dalla vicinanza de’ luoghi, o perchè qualche conferenza veramente si fosse tenuta in Aix. Veggasi per le nozze della figliuola di Carlo II con Carlo di Valois, il diploma del 18…1290, in Lünig. Cod. Ital. dipl. tom. II, Sicilia e Napoli, n. 62; e in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd. tom. I, pag. 1236. Due diplomi di Carlo II, negli archivi del reame di Francia, J. 511, 7, dati il.. dicembre 1289 e il 18 agosto 1290, contengono le condizioni del matrimonio; tra le quali la principale è, che le due contee si trasferivano al Valois anche nel caso di morte di Margherita, quand’ei cedesse il dritto su l’Aragona. Premorendo Valois alla moglie, costei avrà l’usufrutto, e Filippo il Bello la proprietà. Il secondo dei diplomi si trova in Dumont, Corps diplom., tom. I, part. 1, pag. 420. Un altro diploma di Filippo il Bello, dato in Parigi, settembre 1290, dice già celebrato il matrimonio del Valois. Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, docum. 23.
74Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 600
75Bart. de Neocastro, cap. 114, 115, 116, 117. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 17. Montaner, cap. 174, 175, 176. Anon. chron, sic., cap. 48, il quale scrive: Sub cujus regis Jacobi dominio, omnes existentes in Sicilia de bono in melius multiplicantes ditati sunt, etc. La rinomanza a che salì Giacomo per la difesa della Sicilia, è toccata leggiadramente da Amanieu des Escas in una poesia provenzale in cui il trovadore esalta il valor della sua donna su quello del …Rey Jacma d’AragoQue reys es dels CeciliasSes grat de Frans’ e de Romas.Raynouard, Choix, etc. t. V, p. 24. Il titolo dì Federigo, Infante dell’Illustre re d’Aragona, Luogotenente generale del regno di Sicilia, si legge in parecchi diplomi. L’uno ne la chiesa di Cefalù, dato in Palermo 30 dicembre settima Ind. (1294), ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. fog. 70, pubblicato in parte dal Pirro, Sic. sacra, Not. ecc. Ceph. xv. e dal Testa, Vita di Federigo, docum. 11. L’altro del 24 gennaio quinta Ind. (1292), Testa, Ibid. docum. 15.