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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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Peggio la cronaca d’Asti, la quale fa durare sol tre mesi le pratiche del Procida, che gli altri portano condotte in tre anni; e racconta quel miracoloso eccidio per tutta Sicilia in un dì; e manda ad assaltare l’Aragona, col re di Francia, lo stesso re Carlo, ch’era morto parecchi mesi innanzi. Perciò della cronaca d’Asti non ci impacceremo più a lungo.

Finalmente la stessa favola di una strage universale al tocco del vespro, fu scritta da Giovanni Boccaccio, ne’ Casi degli uomini illustri (lib. 9, cap. 19); nè è da maravigliare, che meglio di sessant’anni appresso il fatto, il novellatore toscano, dimorato a lungo in Napoli, e amante d’una figliuola di re Roberto, abbia spacciato il racconto che piaceva più nella corte angioina, e l’abbia scritto così di volo, non in istoria giusta, ma in una tal maniera di biografie, tendente a mostrare le strane vicende della fortuna.

Il Petrarca, contemporaneo del Boccaccio e non del vespro siciliano, nell’Itinerario siriaco, tiene ancor l’opinione che Giovanni di Procida fosse autor principale della rivoluzione di Sicilia, per privato risentimento. Del rimanente nè dice della cospirazione, nè accenna altri particolari; e si mostra anco poco informato della patria di Giovanni, che scambia col titol della signoria. La sue parole son queste: Vicina hic Prochita est, parva insula, sed unde nuper magnus quidam vir surrexit, Johannes ille qui formidatum Karoli diadema non veritus, et gravis memor iniuriae, et majora si licuisset ausurus, ultionis loco huic regi Siciliam abstulisse, etc. (tom. 1, pag. 620). Non è fuor di proposito qui aggiugnere, che il Petrarca fu attenente alla corte di Napoli; e ricordare un diploma di re Roberto, dato il 2 aprile 1331, che lo eleggea suo cappellano, citato dal Vivenzio, Istoria del regno di Napoli, tom. II, pag. 358.

Prendendo adesso a dir degl’istorici, strettamente contemporanei tutti, che o non parlano di pratiche antecedenti al vespro, o non attribuiscono a quelle il vespro, io mi sento ripetere, che ai Siciliani e agli Spagnuoli poco sia da attendere, perchè vollero per amor di nazione passar sotto silenzio la congiura. E io ammetto questa diffidenza; e mi guardo dalle reticenze e dalle esagerazioni che si debbon trovare negli scrittori di questa parte; ma niuno dirà, che i fatti debban piuttosto cercarsi in quelli delle altre genti, lontane di luogo o di commerci; e che tra due classi di partigiani, se pur si voglia, meritino maggior fede gli avversi a noi, che i nostri. Indi è bene degli uni e degli altri dubitare, e starcene a più sode autorità: e così m’ingegnerò di fare; fidandomi di me in questo, che l’amor della patria grandissimo, mi conforta anzi a onorarla col vero; che a pargoleggiare con poveri inorpellamenti.

Di questo vizio in vero non so condannar l’anonimo che scrisse in latino la Cronaca di Sicilia, pubblicata in varie collezioni, e più correttamente dal di Gregorio (Bibl. arag., tom. II); la qual Cronaca dai dotti (ibid., p. 109 e 119) si tiene contemporanea, e degna di molta fede. Questo semplice cronista, sollecito di trascrivere i documenti, e parco assai di parole proprie, se darebbe qualche ombra col tacere il caso di Droetto, e narrar come nella piazza della chiesa di SantoSpirito molti Palermitani cominciassero a gridare: «Morte ai Francesi,» dilegua poco appresso ogni dubbio soggiungendo: «Et sic rebellantes subito, sicut Domino placati, contra ipsum Carolum, cum nulla praeveniret exinde aliqua provisio, etc. Si raccomanda inoltre l’anonimo per molta diligenza ed esattezza nell’epoca di cui trattiamo.

In quella visse Niccolò Speciale, uom di alto stato e di molte lettere, secondo i suoi tempi; ito nel 1334 ambasciadore di re Federigo II di Sicilia a papa Benedetto XII (Prefazione del Muratori, ristampata dal di Gregorio nel tom. I della Bibliot. arag,, p. 285), Indi abbiamo per questo istorico un bene e un male; il bene, che fu in luoghi e in tempi da conoscere appunto, e non da uom del volgo, ciò che scrisse, veduto cogli occhi propri o ritratto da vicino; il male, che potè peccar di prudenza cortigiana contro la verità. Infatti, riguardo ai tempi di Federigo, non son senza questo studio alcuni luoghi della sua istoria; e quanto al vespro, tace i disegni anteriori di re Pietro, nè io mi terrei al suo silenzio della cospirazione, se altre autorità non ne avessi. Narrando il caso di Droetto, lo Speciale segue: Tunc Panormitani omnes, quod diu concaperant, operi st accingunt, quasi vocem illam coelitus accepissent, che deve intendersi del proponimento di vendetta e affranchimento che nudre ogni popolo oppresso, s’ei non è schiavo vilissimo nel sangue; perchè tutt’altra spiegazione è tolta dalle espresse parole che il tumulto avveniva: nullo comunicato consilio (loc. cit., p. 301). Questa negazione precisa di trattato precedente, dee far molto peso in un uomo come Speciale, che avrebbe forse dissimulato tacendo, ma non mai asseverata una bugia, in un fatto gravissimo e di necessità notissimo.

Crescon di forzna tali ragioni parlando di Bartolomeo de Neocastro, messinese, giurista, magistrato repubblicano di Messina nella rivoluzione (Carta del 10 maggio 1282, ne’ Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116), indi avvocato del fisco, e nel 1286 ambasciatore di Giacomo I di Sicilia a papa Onorio (nel di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 4, Prefaz. del Muratori). Perch’ei si trovò, non che nel vigor dell’età, ma in mezzo a pubblici affari, in questi tempi della rivoluzione; scrisse con fresca memoria, pria del 1295, chiamando nel suo proemio ancora re di Sicilia Giacomo, e infante Federigo l’Aragonese, e conducendo la narrazione infino all’anno 1293: nè da’ suoi scritti trasparisce arte alcuna cortigianesca, ma candore e preoccupazione di patriotta messinese di que’ tempi. Il buon Bartolomeo dunque, francamente dice (cap. 16) dell’antico disegno di Pier d’Aragona sopra il reame di Sicilia, e delle armi apprestate in Catalogna; ma venendo al fatto del vespro, il narra con semplicità, in guisa da non far sospettare nè macchina celata in quel tumulto, nè reticenza nella narrazione. D’altronde è da notare, com’ei non era punto cortese verso Palermo, e scendea fino a vanti e finzion puerili per esaltar Messina sulla città sorella; vizi reciproci allora e per lungo tempo da poi, de’ quali le due città, rinsavite, or piangono e con esse la Sicilia tutta. Talmentechè scrivendo il Neocastro sotto gli auspici della rivoluzione vittoriosa, non avrebbe ei mancato, se il fatto gliene avesse dato l’appicco, dal far partecipare anche i Messinesi nella gloria del virile cominciamento; nè dal togliere all’emula città l’onore d’una subita sollevazione a vendetta, più nobile sempre di ogni pratica occulta. Se l’anonimo, lo Speciale e ’l Neocastro tacquer dunque la congiura di Procida, è da conchiudere, che o non fu, o non operò nella rivoluzione; la quale se fosse stata effetto immediato di quella, nè lo avrebbero potuto ignorare, nè avrebbero avuto la fronte di passarlo sotto silenzio.

Tengon lo stesso metro due altri contemporanei catalani, Ramondo Montaner e Bernardo D’Esclot, dei cui scritti infino a qui non si è fatto abbastanza tesoro nelle istorie di Sicilia; perciocchè il primo da pochi dei nostri, in pochi luoghi fu citato; il D’Esclot è stato ignorato più di lui, non ostantechè il Surita lo venga nominando di tratto in tratto negli Annali d’Aragona. Montaner nacque in Peralada nel 1265 o 1275 (chè ci ha una variante nel suo testo. – Barcellona, 1562); militò sotto Piero d’Aragona, Giacomo e Federigo di Sicilia; e nel 1325 o 1335, tornato vecchio in patria, si die’ a stender la Cronaca. Soldato di ventura, superstizioso, vantator di sua gente, e soprattutto dei re, storpia nomi e fatti, massime favellando d’altri paesi; e intorno i casi di Carlo d’Angiò e degli ultimi principi di casa Sveva innanzi il 1282, reca strane favole, con stile talvolta vivace, talvolta noioso per moralizzar troppo, sempre pien di religione, di civil senno e di esperienza militare. Ondechè nei fatti di questa Cronaca, (che spesso sembran tolti di peso dalle narrazioni volgari de’ guerrieri e marinai, e spesso confusi nella memoria dell’autore, che incominciò a scrivere nel sessantesim’anno dell’età sua,) è da andare con assai riguardo di critica; massime ne’ primi tempi della dominazione aragonese in Sicilia, ne’ quali non è certo se Montaner venisse nell’isola. Questo autore fa parola (cap. 25 a 42) del proponimento di Pietro a vendicare Manfredi e Corradino, ed Enzo (egli aggiugne, chiamandolo Eus); e degli armamenti che preparava. Senz’altro passa, nel cap. 43, a raccontare il tumulto di Palermo, nella festa a una chiesa presso il ponte dell’Ammiraglio, che invero non è discosto dalla chiesa di Santo Spirito. Dice delle ingiurie alle donne; e che i Francesi col pretesto di frugare per l’arme los metian la ma (così in suo catalanesco) e les pecigavan e per les mammelles, e poi zoppicando continua a raccontar l’andata di Piero in Affrica; dove a magnifìcare il suo re, fa venire, con vele negre alle galee e vestiti a gramaglie, gli ambasciatori di Palermo e delle altre città; li fa parlar da fanciulli e da schiavi; e sì via procede nella narrazione.

Ben altra gravita istorica s’ammira nel D’Esclot, cavalier catalano, che scrisse nel 1300 (D’Esclot, tradotto in casigliano da Raffaele Cervera. – Barcellona 1616, Pref. del traduttore; e Notizia del Buchon, innanti la ed. del genuino testo catalano. – Parigi 1840). Questo autore non è scevro di tale spirito nazionale che trascende alla vanità; ma il veggiamo benissimo informato de’ fatti, penetrante nelle cagioni, pregevole per ordine nella narrazione e dignità di stile. Porta in compendio parecchi documenti, che con molta fedeltà rispondono agli originali pubblicati gran tempo appresso in altri paesi. Nondimeno pende troppo a parte regia, ma senza viltà. Costui tace al tutto i disegni del re d’Aragona; degli armamenti dice che fossero apparecchiati per la impresa d’Affrica, che assai minutamente descrive. In Affrica, fa venire a Pietro gli ambasciatori di Sicilia; e da lui accettar il reame, confermando tutte le leggi, privilegi, e costumi del tempo di Guglielmo II. Descrive il fatto del vespro, come gli altri contemporanei di maggiore autorità, cagionato dagl’insopportabili aggravi, e nato per le ingiurie alle donne, e le percosse agli uomini che sen querelavano. Tutti questi casi, non affastellati, nè discorsi sbadatamente, ma con estrema diligenza e nesso d’idee (lib. 1, cap. 17, della traduz. spagnuola; o cap. 77 e seg. del testo catalano).

 

Ma posti da canto gli scrittori di parte nostra, noi troviamo il vespro nella stessa guisa rappresentato dagl’indifferenti e dagli stessi avversari. L’autore della Cronaca intitolata: Praeclara Francorum facinora, che fu certo Francese, dice di non modicum apparatum di Pier d’Aragona; e dei sospetti che destò in papa Martino e in re Carlo. Indi narra come i Palermitani uccideano, succensa rabie, Gallicos qui morabantur ibidem… Deinde regi Carolo tota Cicilia fuit rebellans, et supra se Petrum regem Aragonum in suum defensorem ac dominum vocaverant, etc. (Duchesne, Hist franc. script., tom. V, pag. 786, anno 1281)» Or che questo Francese, il quale non fa un secco cenno del caso, nè se ne mostra male informato, parli dì preparamenti di Pietro, e non di congiure, ma della sollevazione, è secondo me non lieve argomento.

Degli scrittori italiani, vari d’umori e molti anco Guelfi, è lunga la lista. Il Memoriale dei podestà di Reggio, scritto in questo tempo da un Guelfo senza cervello, non risparmia i Siciliani, nè Pietro; scrive (in Muratori, R. I. S., tom. VIII, p, 1155) che si trattava di matrimonio tra un figlio di Pietro e una figliuola di Carlo; che l’Aragonese s’infinse di andar sopra gl’infedeli, e: sub specie pacis et parentelae abstulit fraudolenter, etc. il regno di Sicilia. Questo fraudolenter non si riferisce ad altro che alle sembianze di pace, perchè la Cronaca narra del vespro (ibid., p. 1151) che i Siciliani rebelles fuerunt regi Karolo, e uccisero i Francesi. Nulla di congiura coi baroni siciliani; anzi aggiugne, che Pietro fe’ l’impresa di Sicilia aiutato dal re di Castiglia e dal Paleologo.

La Cronaca di Parma, contemporanea anch’essa, narra il caso un po’ diversamente dagli altri. Un Francese percosse del piè un Palermitano; indi la rissa, il grido universale, e la strage; et Siculi miserunt pro dicto regi Aragonae; e continua una breve narrazione degli avvenimenti (in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 801, anno 1282). Non vi è traccia di accordi nè di trame.

Fra Tolomeo da Lucca, pure contemporaneo, particolareggia le pratiche di Pier d’Aragona col Paleologo, e afferma aver visto il trattato. Papa Martino, a sollecitazione di Carlo, scomunicò l’imperator greco; questi mandò a Pier d’Aragona, Giovanni di Procida e Benedetto Zaccaria da Genova, con moneta; l’Aragonese allestiva l’armata; domandato dal papa, rispondea: taglierebbesi la lingua anzi che dir lo scopo. Dietro ciò viene il tumulto di Palermo, scoppiato per le molte ingiurie che si soffrivano; e seguon minutamente i fatti. Una sola vaga parola ci ha da notare, che la rivoluzione seguì, fovente il re Pietro, per le sollecitazioni della moglie. Ma tra tanti minuti ragguagli, nulla di venuta del Procida in Sicilia, di congiura co’ baroni; e quel fovente si riferisce senza dubbio al favor che poi diè alla rivoluzione, o a qualche vago incoraggiamento prima (Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 3, 4, 5, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186, 1187; e lo stesso negli Annali, ibid., pag. 1293).

Ferreto Vicentino, autor d’una Cronaca dal 1250 al 1318, nel qual tempo probabilmente ei visse, reca similmente le pratiche dell’imperator greco e del re d’Aragona; le esortazioni fatte a questi da Giovanni di Procida; il danaro dato, e gli armamenti. Del resto è poco esatto; porta l’andata di Pietro, di Catalogna a Messina direttamente; e fa pattuire il duello nel tempo dell’assedio di quella città, per evitare la strage. Non parla de’ Siciliani senza biasimo; e notevol è ch’ei dice chiamato Pietro dai maggiori del regno, che, ammazzati i Francesi, avean preso iniquamente lo stato; il che esclude ogn’idea di cospirazione antecedente di costoro col re (in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 952, 953).

In un’antica Cronaca napolitana (Raccolta di Croniche, Diarii ec, Napoli 1780, presso Bernardo Perger, tom. II, pag. 30) leggiamo: «1282. L’isola de Sicilia se rebellò contro re Carlo I e donasse a re D. Pietro de Aragona; quale rivoltazione fo per violentia che un Francese volse fare a una donna

Giordano, nel Ms. Vaticano, non altrimenti narra il vespro, che con le parole: Succensa est primo stupenda rabies, propter enim enormitates Gallicorum (in Raynald, Ann. ecc., 1282. §. 12).

Paolino di Pietro, contemporaneo, mercatante fiorentino, e scevro, per quanto si ritrae, da studio di parte in queste nostre vicende, racconta la sollevazione in queste parole, che per la grazia della lingua e semplicità antica ci piace trascrivere: E incominciosse in Palermo, perchè andando ad una festa per mare, alquanti di Palermo fecero lor segnore, e levaro un’insegna per gabbo ed a sollazzo; ed alquanti Francesi per orgoglio la volsero abbattere; e quelli non lasciando e difendendola, vennero alle mani; e i Palermitani non curandoli in mare, ed i Franceschi non credendo ch’elli avessero l’ardire, combattero ed ucciserli. Per la qual cosa la terra fu sotto l’arme; e li Franceschi combattendo con li Palermitani, per paura di non morire tutti, si difesero, ed ucciserli tutti, e grandi e piccioli, e buoni e rei. E poi alla sommossa di Palermo, che parve opera divina ovvero diabolica, tutte le terre di Sicilia fecero il somigliante; sicchè in meno d’otto dì in tutta la Sicilia non rimase, niuno Francesco. Il re di Raona, sentendo questo, fece ambasciatori, profferendo avere e persona, e ritornò diqua, non avendo sopra Saracinì acquistato niente; ed arrivò in Sardegna; ed ivi stando ebbe dai Siciliani ambasciadori e sindachi con pien mandato; e andò in Sicilia; e di volere si fece loro re (Muratori, R. I. S., Aggiunta, tom. XXVI, pag. 73). La quale narrazione, ancorchè diversa dal vero, prova che in Italia s’incominciò a raccontare diversamente il fatto del vespro, errando talor nelle circostanze, e più sovente nelle cagioni, perchè più facile è; ma che Paolino di Pietro s’imbattè solamente negli errori dei fatti.

Non così il grave scrittore degli Annali di Genova. Fu questi Giacomo d’Auria, o Doria, che gli Annali, principiati da Caffari, continuò dal 1280 al 1293. Uomo d’alta affare nella repubblica, per carico pubblico ei scrisse le cose de’ suoi stessi tempi, viste con gli occhi propri, o ritratte da testimoni degni di fede, nel popol di Genova, mercatante e navigante, che avea commerci frequentissimi con Sicilia e anche con Napoli; tantochè alcune galee genovesi vennero ad osteggiar Messina a’ soldi di re Carlo; e Genovesi eran anco entro Messina e in altri luoghi di Sicilia nel tempo della rivoluzione; e più numero nè militarono nelle armate nostre e nemiche nelle guerre seguenti. Donde ognun vede se abbian questi annali pregio di esattezza, sano giudizio, e anco, fino a un certo punto, imparzialità; non vedendosi piegare a nessun lato la narrazione dei fatti; e potendosi francamente conchiudere, che lo scrittore tenesse più al dover d’istorico, che agli umori della propria famiglia ghibellina. O lo scrittore premette espressamente, che furono causa del tumulto le oppressioni e aggravi de’ Francesi; che furono occasione gl’insulti che fean essi alle donne, eas inhoneste alloquentes et tangentes. Sicque subito tumulto surrexit in populo; nè parla punto di macchinazioni; ma con grande esattezza nota i fatti; ed espressamente porta chiamato re Pietro dai Siciliani, mentr’era in Affrica, e non avea nulla operato d’importanza (Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, 577). Quanto valga questa testimonianza degli Annali di Genova non occorre dimostrarlo.

Più forte sarà quella di Saba Malaspina. Le istorie del quale si han divise in due parti: la prima che giugne infino al 1275, pubblicata, tra gli altri, dal Muratori (R. I. S. tom. VIII); la continuazione infino al 1285, per noi importantissima, data in luce dal di Gregorio (Bibl. arag., tom. II). Questi dotti nelle prefazioni notavano la gran fede che si debba all’istorico, prestantissimo secondo i suoi tempi. Ei fu Romano (de urbe, leggesi nel fin della istoria, in di Gregorio, loc. cit., pag. 423), decano di Malta, e segretario di papa Martino IV; e scrisse negli anni 1284 e 1285, con fresca memoria de’ narrati avvenimenti. Nel principio del libro protesta: nec ambages inserere, aut incredibilia immiscere, sed vera, vel similia; quae aut vidi, aut videre potui, vel audivi communibus divulgata sermonibus: e ben potea tener la parola stando appresso Martino, quando la corte di Roma era centro della politica di tutta cristianità e governava al tutto il regno di Napoli nei pericoli della siciliana rivoluzione; talmentechè è probabilissimo, che lo stesso Malaspina scrivesse molte delle sentenze e bolle di Martino, e trattasse gli affarì più gravi; è certo ch’ei ne fu appieno sciente. Infatti la narrazione sua, quando tocca i processi della corte di Roma contro Pier d’Aragona, s’accorda perfettamente con gli originali al presente pubblicati; quando scorre i vizi del governo angioino, si riscontra con le leggi di quello, o le contrarie promulgate appresso il vespro; e vi si legge: frequentissime vidi … vidique occasione custodiæ … vidi quoque gravius … vidi plus, ec., con che si dichiara espressamente testimone oculare. Inoltre, narrando i fatti del vespro, ci apprende e ordini pubblici, e nomi, e aneddoti lasciati indietro fin dagl’istorici nazionali, come sarebbe la immediata federazione de’ Corleonesi co’ Palermitani, che si riscontra appunto col diploma del 3 aprile 1282; ond’è manifesto che Malaspina vantaggia per informazione ogni altro scrittor di que’ tempi. Nè della veracità sua sarebbe da dubitare, fuorchè quando biasima Pier d’Aragona e i Siciliani, in ciò che torni a lode o scusa loro non mai; perchè Malaspina fu perdutamente guelfo; e guelfamente scrive; acerbo contro noi, contro re Pietro, cui chiama lione e serpente; lodatore di re Carlo, se non che amichevolmente si duole che per negligenza non raffrenasse le ribalderie de’ suoi, delle quali scrive con maggior ira, per due cagioni: risentimento di animo giusto al veder così fatti soprusi; rammarico d’un guelfo, che sapea sol per questi levata sì fiera tempesta contro la sua parte. Malaspina conduce così questo periodo.

Discorre le angherie degli oficiali di re Carlo; indi alcuni avvenimenti d’Italia pria della morte di Niccolò III; e qui incomincia a parlare di Pier d’Aragona. Porta come Giovanni di Procida e Ruggier Loria lo confortavano a venire al conquisto di Sicilia; com’ei si armava; quali sospetti destò in Carlo, nel re di Francia, negli stati Barbareschi. Ripiglia poi le cose d’Italia dopo la morte di Niccolò; passa ai preparamenti di Carlo contro il Paleologo alla mala contentezza che accrebbero ne’ suoi sudditi; al mal governo dei vicari di Carlo in Roma. E con un’apostrofe lunghissima a quel re, gli torna a mente averlo lodato a cielo per tutta Italia, e avere commendato la sua dominazione; ma non sapergli perdonare due colpe: avarizia e negligenza. «Tante battaglie, sclama, hai vinto e vinceresti; e inespugnabili stanno questi due vizi!» Salta di qui al fatto del vespro (Bibl. aragonese, tom. II, pag. 331 a 354); il quale appone agli oltraggi recati alle donne e non ingozzati dagl’indocili nostri bravi: il progresso della rivoluzione ritrae in guisa da non lasciar sospetto d’una trama che si sviluppi, ma dar evidenza lucidissima d’una sedizione, che inonda di sangue la capitale, e, fatta gigante, invade tutta l’isola. Malaspina non fa parola, nè prima nè poi, di congiura, d’intesa qualunque tra re Pietro e i baroni o le città siciliane (ibid., pag. 354 a 360); nè in tutta la sua narrazione se ne vede orma. Nè questo egli aggiugne a’ rimbrotti che mette in bocca a re Carlo nell’accettare il duello (ibid., pag. 388); nè altro appone a Pietro, che essersi armato prima; e aver, dopo lo sbarco in Affrica, domandato a papa Martino aiuti che non poteva ottenere, per trarne pretesto a voltarsi all’impresa di Sicilia, ove i popoli, già ordinati in repubblica, lo chiamavano al trono. Questo è dunque il peggio, che un focoso partigiano della corte di Roma e di re Carlo, ma verace e inteso dei fatti, sapesse scrivere della siciliana rivoluzione! niuno mi dirà che Malaspina non potesse saper la congiura; che, saputala, avesse ritegno a bandirla a tutto il mondo! Dante in tre versi ritrasse compiutamente il vespro:

 
 
Quella sinistra riva che si lava
Di Rodano, poich’è misto con Sorga,
Per suo signore a tempo m’aspettava;
E quel corno d’Ausonia che s’imborga
Di Bari, di Gaeta e di Crotona,
Da onde Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
Di quella terra che il Danubio riga
Poi che le ripe tedesche abbandona;
E la bella Trinacria che caliga
Tra Pachino e Peloro, sopra il golfo
Che riceve da Euro maggior briga
Non per Tifeo, ma per nascente solfo,
Attesi avrebbe li suoi regi ancora
Nati per me di Carlo e di Ridolfo,
Se mala signoria, che sempre accora
I popoli soggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora, mora.
 
Parad., c. 8.

A’ lettori italiani, o nati in qualunque altra terra ove s’estenda la presente civiltà europea, io non ricorderò la rigorosa esattezza istorica della Divina Commedia intorno i fatti d’Italia; la possanza di quella mente a scrutar le cagioni delle cose, e stamparle ne’ pochi tratti co’ quali suol delineare un gran quadro, sì che nulla vi resti a desiderare; l’autorità infine dell’Alighieri, come contemporaneo al vespro. E a chi noi sente con evidenza, non dimostrerò io, che quelle parole, in bocca di Carlo Martello, tolgano affatto il supposto di congiura baronale. Noterò bene che Dante, qui non solo tratteggiò la causa, ma ancora una delle circostanze più segnalate del tumulto, che fu il perpetuo grido: «Muoiano i Francesi, muoiano i Francesi!» Onde que’ tre versi resteranno per sempre come la più forte, precisa e fedele dipintura, che ingegno d’uomo far potesse del vespro siciliano. E, secondo me, vanno errati quei commentatori i quali, seguendo il racconto tenuto finora per vero, veggon l’oro bizantino recato da Giovanni di Procida a Niccolò III, nello:

 
E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.
 
Inf., c. 19.

Il cenno che nel cap. V abbiam fatto del pontificato di Niccolò, basterà a mostrare, ch’ei fu ben ardito contro Carlo pria del 1280, quando si suppone, sulla testimonianza del Villani, questa corruzione. L’avea spogliato delle dignità di vicario in Toscana e senator di Roma, battuto e attraversato in mille guise Niccolò, dal primo istante che pose il piè sulla cattedra di san Pietro (Murat. Ann. d’Italia, an. 1278); onde l’ardimento contro Carlo, più tosto si deve intendere di questi fatti certi, che del supposto disegno della congiura, che per certo non ebbe effetto dalla parte di Niccolò, trapassato nel 1280. E le parole, mal tolta moneta, meglio stanno alla non dubbia appropriazione delle decime ecclesiastiche e del ritratto degli stati della Chiesa (Veg. Francesco Pipino, op. cit., lib. IV, c. 20), che alla baratteria di cui vogliono accagionare l’alto animo dell’Orsino. Del resto, tinto o no che sia stato il papa nella cospirazione, ciò non proverebbe che la cospirazione partorisse il vespro; anzi, se Dante quella conobbe, e al vespro die’ un’altra cagione, più forte argomento è dalla mia parte. Nè è da lasciare inosservato il silenzio del poeta su questo Giovanni di Procida, morto nel 1299, il quale se fosse stato autor della ribellione di Sicilia, Dante non avrebbe pretermesso di locarlo tra i grandi, o buoni o ribaldi; ma egli nol giudicò degno dell’uno nè dell’altro.

Passando dalle tradizioni scritte ai diplomi, si potrebbe credere che la corte di Roma, entrata in sospetto di re Pietro, sol per gli armamenti che si vedean fare ne’ porti della Spagna pensasse a lui più fortemente, quando ebbe l’annunzio della sollevazione siciliana. Così nella bolla data il dì dell’Ascensione del 1282, cioè 37 giorni dopo il vespro di Palermo, querelasi il papa (Raynald, Ann. ecc., 1282, §§. 13 a 15), che molti protervi intenti a molestare re Carlo e la Chiesa, si sforzassero a raccendere in Sicilia la fiamma della discordia; ad id sua stadia inique congerunt; ad id suarum virium potentiam coacervant, manus presumptuosas apponunt, et etiam occulti favoris auxilium largiuntur… onde ammonisce i re, feudatari, cittadini e uomini qualunque (ibid. §§. 16 e 17), che non si colleghino con le comunità di Sicilia ribelli, nè lor diano consiglio, aiuto, o favore. Ma queste pratiche accennate dalla corte di Roma, tutte presenti e non passate, quand’anche si riferissero a Pietro, sarebber quelle presso la repubblica siciliana per farsi chiamare al trono, non le macchinazioni che produssero il vespro.

Ma poichè re Pietro venne in Sicilia, apertamente il papa a 18 novembre 1282, il dichiarava involto nelle pene minacciate con questa prima bolla (Raynald, Ann. ecc. 1282, §§, 13 a 18): e fermato in questo tempo il duello tra i due re, s’ingegnava a distorne l’Angioino con più ragioni; tra le quali è, che temesse sempre le frodi di quel nimico, che la Sicilia, non in sui fortitudine brachii, sed in papali rebellione detestanda siculi, occupavit; quin verius, de ipsorum rebelliunm ipsam occupatam jam tenentium manibus, clandestinus insidiator et furtivus usurpator accepit (Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8). Così privatamente a Carlo. Colorì più scure, e pur sempre vaghe, le accuse nel processo indi messo fuori per depor Pietro dal regno di Aragona, ch’è dato d’Orvieto a 19 marzo 1283 (Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 15 a 23; Duchesne, Hist. franc. script, tom. V, pag. 875 ad 882). Ivi si legge che la tempesta, quod execranda Panormitanae rebellionis audacia inchoavit, et reliquorum Siculorum malitia, Panormitanam imitata, rosequitur, non cessava; sed per insidias Petri regis Aragonum… invalescere potius videbatur… poichè Pietro, dictorum rebellium se ducem constituit et aurigam. Perchè vantando il dritto della moglie, si adoperava con frodi e insidie, machinatis ab olim, prout communis quasi tenebat opinio, et subexecutorum consideratio satis indicabat et indicat evidenter. Indi, quaesito colore di osteggiare in Affrica, venne in Sicilia, concitando sempre più i popoli contro la Chiesa; e con le città e ville si strinse in confederazioni, patti e convenzioni, o piuttosto cospirazioni e scellerate fazioni; sicchè già usurpava il nome di re, e confermava nella ribellione, non solo i Palermitani, ma sì gli altri Siciliani, e in particolare i Messinesi, che già stavano in forse di tornare alla ubbidienza. Sciorinati poi i supposti dritti della romana corte sul reame d’Aragona, onde Pietro avea anche violato la fedeltà feudale, torna a quella burla, che il papa non sapea ingozzare, dell’impresa d’Affrica, che il fatto mostra, ei dicea, macchinata apposta, ut, opportunitate captata, commodius iniquitatem quam conceperat parturiret. Maxime cum per suos nuncios missos exinde, pluries eosdem Panormitanos sollicitasse, ac ipsis in presumpta malitia obtulisse consilium et auxilium diceretur. E così per tutti i versi mostrando re Pietro caduto nelle scomuniche, e aggressor della Chiesa, dalla quale tenea il regno d’Aragona, scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà, si riserba a concedere ad altri il regno, ec. Non è da pretermettere, che in questo processo medesimo il papa accusa il Paleologo, già d’altronde scomunicato, di exibito, a Piero, consilio, auxilio ac favore; nec non pactis confoederationibus conventionibus initis cum eodem, come allora argomenti di verosimiglianza persuadeano, e portava la voce pubblica; ma nondimeno non parla giammai di cospirazione d’entrambi co’ Siciliani. Nè punto ne parla nell’altra bolla indirizzata a’ prelati di Francia il 5 maggio 1284, narrando i motivi della concessione delle decime ecclesiastiche per la guerra d’Aragona; ove le accuse sono la finta partenza per l’Affrica, e la occupazione della Sicilia, nulla diffidatione premissa, quod proditionis non caret nota (Archivi del reame di Francia, J. 714, 6; citata ma non pubblicata dal Raynald). Questa stessa frase leggasi nel breve del 9 gennaio 1284, pubblicato qui appresso, docum. XIV. Similmente nella bolla data d’Orvieto il 10 maggio 1284, trascritta in un diploma del cardinal Giovanni di Santa Cecilia, dato a Vaugirard, presso Parigi, il 7 luglio 1284, con cui papa Martino commetteva al cardinale di predicar la croce contro re Pietro, gli si appone che: de procedendo in Africam pretento colore, concinnatis dolis, et insidiis machinatis contra nos, eamdem Ecclesiam et carissimum in Christo filium nostrum Carolum Sicilie regem illustrem, nulla diffidatione premissa, quod proditionis non caret nota, procedens, insulam Sicilie, terram peculiarem ipsius ecclesie, licet iam memorato Sicilie regi rebellem, adhuc tamen eiusdem ecclesie recognoscentem dominium et nomen publice invocantem, militum et peditum caterva stipatus invadere ac occupare, etc. (Archivi del reame di Francia, J. 714, 6). In somma Martino, francese e papa, cieco nel devoto amore a Carlo, più cieco nella rabbia contro la siciliana rivoluzione, sforzavasi a mostrare, che Pietro avesse nudrito antichi disegni, tenuto qualche pratica; e che, quando l’audacia palermitana incominciò la rivoluzione, avesse usato questa opportunità per togliere il regno a quei che l’avean tolto a Carlo, presentandosi armato in Affrica, e sollecitando i Siciliani per messaggi, sì che il chiamarono. E questo appunto scrivea Saba Malaspina, nè più. Il papa non dice il re d’Aragona altrimenti traditore, che per esser venuto in Sicilia ostilmente, senza prima sfidarlo. Ei rileva con molto studio tutte le crudeltà del vespro; ma non accagiona nè punto nè poco del vespro il re Pietro, al quale non lascia di trovar colpe, anche ne’ fatti più lontani, e fin col mentire che senza la sua venuta i Messinesi si sarebbero calati agli accordi. Quel medesimo fatto poi che nella sentenza del 19 marzo 1283 è il capo principale dell’accusa, cioè le sollecitazioni fatte d’Affrica a’ Siciliani per chiamarlo re, toglie netto ogni accordo di congiura; perchè è evidente, che se la esaltazione sua si trovava già da gran tempo fermata co’ Siciliani, non era mestieri or procacciarla con brighe e messaggi. Se dunque l’avversario più fiero che fosse al mondo contro il re d’Aragona e i Siciliani, non trattenuto da riguardo alcuno, in un processo fondato sopra fallacia di vecchi ricordi o romori che chiamava pubblica voce e sopra motivi di probabilità, non die’ espressamente quella origine al tumulto del vespro, mentre ammontava e supposti e calunnie, posso dire che rinforzano il mio assunto le stesse parole di Martino IV.