Za darmo

La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

In tutto il rimanente del regno di Federigo, o in que’ de’ fiacchi suoi successori, non dettavasi poi in Sicilia alcun’altra legge di ordine pubblico, ma particolari statuti, più atti a manifestare che a riparare i crescenti disordini dello stato. Dei quali fu sola radice l’aristocrazia, che tenne in Sicilia un corso difforme dagli altri reami d’Europa, dove nacque nelle età più barbare, piena d’abusi, e poi l’interesse unito dei monarchi e del popolo, a poco a poco, la raffrenò. Ma appo noi, come fondata al tempo delle prime crociate e dalla mano d’un principe, fu moderata nel cominciamento; e se tendea per sua natura all’usurpare, la ritirarono a que’ termini i monarchi, e il romor del vespro la fe’ stare; finchè ripigliando nel corso di quella lunga guerra e riputazione e facultà, e indi cupidigia e baldanza, divenne l’ordine più possente dello stato: per soperchio di rigoglio recossi in parte tra sè medesima; rapì in quelle discordie e la corte e i popoli; e lacerò la Sicilia negli ultimi tempi del regno di Federigo. Precipitò indi al peggio, non raffrenandola le deboli mani dell’altro Pietro e dell’altro Federigo; venne alfine ad aperta anarchia feudale. E allora si smarrì la cosa pubblica nelle izze di parti; non si udì più il nome di Sicilia, ma di Palermo, di Messina e di questa e quell’altra terra; il nome di parzialità, come chiamavanle, l’una italiana, l’altra catalana; il nome di famiglie, Palizzi, Alagona, Ventimiglia, Chiaramonte e altri superbi, nemici di sè stessi e della patria: entravano a’ soldi de’ baroni coloro che, prese le armi nelle guerre della rivoluzione, non sapean divezzarsi dall’ozio e dalla militare licenza; incominciavano i liberi borghesi a far parte co’ baroni, sotto il nome di raccomandati e affidati. Nondimeno questa piaga penò oltre un secolo a consumar la potenza creata dalla rivoluzione del vespro. La istoria di quel periodo tuttavia ci presenta, come innanzi dicemmo, una immagine della prima virtù; e veggiamo nel milletrecentotredici, alla passata dell’imperatore Arrigo, il re di Sicilia levarsi per esso contro quel di Napoli; armare poderosissima forza; occupar nuovamente le Calabrie: e poichè escì vano nell’Italia di sopra quello sforzo ghibellino, e la potenza guelfa si aggravò tutta sopra la Sicilia, veggiamo i nostri difendersi virilmente; il sicilian parlamento stracciare i patti di Caltabellotta; chiamare alla successione Pietro figliuol di Federigo; e Palermo, assediata da innumerevol oste di Napolitani e Genovesi, rinnovellar le glorie di Messina dell’ottantadue, del trecentouno: e in tutta la guerra, i nemici che veniano in Sicilia a rubacchiar villaggi, arder messi, guastare i campi, assediar città, veniano in Sicilia a perire; donde sempre le reliquie degli eserciti, a fronte bassa, tornaronsi di là dal mare; sempre la Sicilia restò vincente, ancorchè i suoi stessi baroni, nel cieco furor delle parti, chiamassero contro la patria i nemici. Onta e rabbia egli è da questo tempo in poi a legger le istorie nostre, come d’ogni altra monarchia feudale; a veder le nimistà municipali modellarsi su quelle de’ baroni; rinvelenir tanto più, quanto presentavano le sembianze d’amor di patria. Tra questa infernale discordia, per maggior danno, mancò la schiatta dei re aragonesi di Sicilia; sottentrò quella di Spagna, e si spense; e cadde la indipendenza politica della Sicilia, perchè l’abitudine richiedeva il governo monarchico, e le pessime divisioni rendeano impossibil cosa a’ Siciliani di accordarsi nella elezione di un re. Ne messe il partito Messina, tuttavia grande e vigorosa, nel parlamento del millequattrocentodieci; e nol potè vincere, nei contrasti de’ baroni di legnaggio catalano, che aveano in sè tutti i vizi di faziosi, di ottimati e di stranieri. Indi la Sicilia sofferse la dominazione spagnuola, col magro compenso del nome e forma di reame, e della integrità delle antiche sue leggi nell’amministrazione delle entrate pubbliche, della giustizia, e degli altri negozi civili. Fu accoppiata sotto la medesima dominazione straniera col reame di Napoli, come due servi a una catena. S’impicciolirono gli animi, crebbe la superstizione, si offuscarono, dirò così, gl’intelletti, imbarbarirono i popoli, lasciati a contender di cose deboli e puerili; e ogni cosa andò al peggio sino all’esaltazione di re Carlo terzo, quando furono ristorati entrambi i reami, e l’incivilimento dell’Europa sforzavasi nella faticosissim’opera di ritirare all’uguaglianza i figliuoli d’Adamo.

E questo lungo letargo della dominazione spagnuola, che guastava gli uomini e conservava le forme, cercava danaro e ubbidienza, e del resto non si curava, fe’ durare sì, ma poco fruttuosa, infino a’ primordi del secol decimonono, l’antichissima pianta della costituzione normanna, riformata nella rivoluzione del vespro. Stava il parlamento, ma diviso, come diceasi, in tre bracci, ecclesiastico, baronale ossia militare, e demaniale; se non che i baroni non eran più guerrieri; la rappresentanza popolare era ristretta alle poche città del dominio o demanio regio; e queste tre camere, perchè fossero più docili, spartitamente si assembravano, e deliberavano; la deliberazione di tutte, o di due sopra una, era voto del generai parlamento. Non che il dritto di pace e di guerra, ma perduto avea questo parlamento il legislativo; se non che potea domandare alcuno statuto sotto il nome di grazia. Per bizzarro contrasto, quasi gareggiandosi in cortesie, si chiamavan presenti, e più comunemente donativi i sussidi della nazione al principe: e più maraviglioso era un corpo permanente di dodici eletti dal parlamento, quattro per ciascun braccio, che chiamavasi deputazione del regno, e con autorità non minore del nome, avea uficio di difendere le franchige del parlamento e della nazione, di maneggiar le tasse accordate dal parlamento, e, secondo i decreti di quello, porger il danaro al re, o investirlo negli usi pubblici: augusto magistrato, che nacque dall’antica corte de’ baroni, o fu imitato dagli ordini aragonesi; e che nelle costituzioni d’altri popoli si vide temporaneo e per abuso, nella nostra saldissimo. Il parlamento ordinario adunavasi ogni quattro anni; era sopra ogni altra cosa geloso delle tasse; e assai parcamente porgea danaro alla corona, la quale non violò giammai questo privilegio; e ne nacque l’effetto che infino ai principî della guerra della rivoluzione francese del secol decimottavo, tutta la entrata pubblica di Sicilia non sommò a settecentomila once annuali. Mentre l’autorità regia si era ristretta da un lato, avea libero comando sopra le persone de’ cittadini; mettea fuori statuti e leggi, sol che non trovassero ostacolo nella deputazione del regno, facile per altro a piegarsi; non doveano i ministri e oficiali render conto di lor fatti ad altri che alla corona. Questo potere regio in gran parte esercitavasi, col consiglio de’ nostri magistrati primari, dal vicerè; ch’era insieme gran bene e gran male: il primo per la utilità dei provvedimenti pronti, vicini, meno sbadati, men ciechi; il male era la rapacità e superbia proconsolare. I nobili e il clero stavan tra ’l popolo e il potere regio, come baluardo, ch’aduggia e soffoca, mille volte più che non difende. Delle forme municipali non parlo, ch’eran le antiche, rappezzate di privilegi, di forme speciali diverse, ma pure ordinate assai largamente, quanto al maneggio de’ lor propri danari. Gli altri magistrati, posti su la giustizia e la civile amministrazione, eran macchina un po’ gotica, ma buona perchè semplice. Le leggi civili e criminali, al contrario, spaventavan per l’immenso viluppo. Questo fu il governamento della Sicilia infino al principio del secolo in cui viviamo.

La dominazione spagnuola snervò gli uomini che doveano por mano a queste leggi: e indi la Sicilia, che nella fondazione della monarchia normanna l’ebbe a un di presso comuni con l’Inghilterra; che nella memorabile rivoluzione del vespro le ristorò ed accrebbe, e lascionne retaggio alle generazioni avvenire; decadendo dal secol decimoquarto infino al diciottesimo, si trovò poco lontana nelle forme, ma di gran lunga nella sostanza, al dritto pubblico inglese, che poi venne sì in moda. E quando il turbine della rivoluzione di Francia crollò quest’antica macchina, la nazione, da pochi valentuomini in fuori, trovossi tale, da non saperla nè apprezzare, nè correggere.

APPENDICE

Esposizione ed esame di tutte le autorità istoriche sul fatto del vespro

Questa rivoluzione, ricordata da tutti gli storici che toccan quell’epoca, in cui fu maravigliosissimo avvenimento, è stata di ciascuno figurata a suo modo; e copiandosi a vicenda gli scrittori, si è alterato dall’uno all’altro il fatto, si son confuse e smarrite le cagioni. Ne’ cap. V e VI io n’ho scritto quanto mi par si ritragga di vero, comparando ed esaminando sottilmente tutte le autorità istoriche de’ tempi; ho delineato il ragionamento, che alla mia conchiusione conduce. In questa appendice, ne vengo ai particolari. Torno a mente al leggitore, che per autorità istoriche intendo: 1o. gli scrittori contemporanei, messi a riscontro tra loro, e valutati secondo le parti che ciascun tenne, la postura in cui si trovò a sapere i fatti, la critica e la esattezza che da a vedere: 2o. i documenti, che pongo in secondo luogo, perchè nel presente caso pochi se ne trovan di tali da stabilir fuori contrasto la verità, ma sol possono rischiarare le testimonianze degl’istorici, e aggiugnere o scemar fede a loro detti: 3o. la tradizione, in quanto valga dopo cinque secoli e mezzo di viver civile: 4o. la necessità di cagioni d’alcuni fatti seguenti, che non cadono in dubbio.

E cominciando dagli scrittori contemporanei o molto vicini a que’ tempi, è da notar che sono Francesi, Catalani, Siciliani o d’altre parti d’Italia, e questi ultimi o Guelfi o Ghibellini; ondechè i più scrissero da spirito di parte, pochissimi ne furono scevri, o meglio che le parti amarono il vero. Pertanto di questa rivoluzione alcuni, senza toccar le cagioni, dicon l’uccisione dei Francesi in Sicilia, con qualche circostanza isolata ovvero oziosa, e nulla più. Altri intessono sottilmente una cospirazione; e ne fanno effetto immediato e palpabile il tumulto del vespro. Altri infine, accennando qual più qual meno gli apparecchiamenti e i desideri di Pietro d’Aragona, raccontano il tumulto di Palermo, senz’altrimenti connetterlo con quelli; com’effetto dell’odio alla tirannia angioina, scoppiato a un tratto, per ingiuria, in una festa popolare. Secondo queste tre classi divideremo le testimonianze istoriche poste qui a disamina.

 

Nella prima si noverano Ricobaldo Ferrarese (Muratori, R. I. S., tom. IX); i frammenti d’Istorie Pisane (ibidem); le due biografie di papa Martino IV (ibidem, tom. III, parte 1a, pag. 608 e 609, parte 2a, pag. 430); il nostro fra Corrado, che, inorridito delle fiere vicende passate sotto gli occhi suoi, rifuggiva dal particolareggiarle (ibidem, tom. I, pag. 729); il frate Catalano autor delle Geste de’ conti di Barcellona (Marca Hispanica, per Baluzio, capit. 28), che dice della chiamata di Pietro, dell’assedio di Messina, e dell’obbedienza negata a Carlo in Sicilia, ma non della sanguinosa rivoluzione che die’ principio a questi fatti; il Cantinelli (Chronicon, in Mittarelli, Rer. Faventinarum script., Venezia, 1771, pag. 276); un anonimo fiorentino (pubblicato dal Baluzio, Miscellanea, tom. IV, pag. 104, ed. Lucca), breve ma esatto, il quale narra, senza dir di congiura «che nel 1289 in calende d’aprile si ribellò Palermo, e poi a sommossa de’ Palermitani tutta la Sicilia;» e altri scrittori che inutile sarebbe a noverare, perchè nessuna luce sen trae. Stretta investigazione meritano gli scrittori Francesi, cioè l’autore del Ms. della vittoria di Carlo d’Angiò, Guglielmo Nangis, l’autore della Cronaca del monastero di San Bertino; e i fabbri Italiani della congiura, Ricordano Malespini, Giovanni Villani, l’autore della Storia anonima della cospirazione di Procida, e con essi frate Francesco Pipino, l’autor della Cronaca d’Asti, il Boccaccio, il Petrarca.

Nel Ms. della vittoria di Carlo (Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 850), si legge che Pier d’Aragona, apparecchiando un navilio contro Carlo re di Sicilia, Siculorum monitu et uxoris, mandò ambasciadori al papa, infingendosi voler andare con grande oste sopra i barbari d’Affrica. Poi narrasi, che di febbraio (1282), un leon marino portato ad Orvieto prognosticasse co’ suoi pianti le calamità che sovrastavano; e qui finisce la cronaca. In essa è notevol solo il Siculorum monitu, che si potrebbe per altro interpretare per consigli degli usciti Siciliani rifuggitisi in corte d’Aragona.

Più espresso il Nangis. Secondo lui Pier di Aragona, ingrato ai re di Francia, stigato dalla moglie, co’ Siciliani, qui jam contra regem Siciliae Carolum conspiraverant, confoederatus est. Nam missi Siculorum, Panormitanorum maxime et Messanensium, ad ipsum tum convenerant, dicentes quod si contra regem Carolum vellet cum ipsis insorgere et eosdem tueri, de caetero ipsam in regem et dominum reciperent et haberent… Circa idem tempus (1281) Petrus Arragoniae rex assensum dedit Siculis qui contra dominum suum regem Siciliae Carolum conspiraverant, etc. Indi, toccando l’impresa preparata da Carlo contro l’imperadore di Costantinopoli, che si ritrae da tutti gli altri istorici, ne parla il Nangis come di novella crociata al racquisto di Gerusalemme. Soggiugne che, tornati appena gli ambasciatori siciliani dalla corte di Pietro, i Palermitani e’ Messinesi ribellaronsi; Pietro uditolo s’armò ad aiutarli; ma infìnse andar sopra i barbari in Affrica, e per messaggi confortava i Siciliani. Di Giovanni di Procida ei non parla; ma senza dubbio ne’ riferiti luoghi si contien l’accusa della congiura di Pietro coi notabili di Sicilia (Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 537, 538, 539). Prendendo dunque ad esaminare l’autorità del Nangis, diremo che, lette alla distesa le biografie dei re di Francia di quei tempi, ch’ei compilò, ognuno il vede lodator larghissimo de’ suoi signori, come frate e scrittor di corte; e comprendasi di leggieri come dovesse narrare sol ciò che passava per vero nella corte di Francia. Così nei fatti della guerra portata sopra Aragona l’anno 1285 e in altri, il biografo dissimula, ingrandisce, rimpicciolisce, guasta, com’ei crede maggior gloria de’ reali di Francia. A ciò s’aggiunga che dopo quella crudele strage de’ Francesi in Sicilia, l’esacerbata opinione pubblica in Francia non dovea accreditare altro, che il maggior biasimo dei Siciliani e di re Pietro d’Aragona; dovea aggravar l’eccidio con la premeditazione e col tradimento; denigrare la esaltazione del nuovo re con una macchia di congiura; così anche onestar la caduta dominazione di Carlo: perchè congiurar si può contro tutti i governi, ma di una rivoluzione disperata dei popoli, il governo solo ha la colpa. Di più, scrisse il Nangis dopo la ricordata guerra d’Aragona, ingiustissima sempre, ma che men parea, quanti più neri misfatti si addossassero a Piero. Per queste ragioni la testimonianza sua, di per sè sola, è men degna di fede. Nulla le aggiugne o toglie l’antica versione francese che sen trova nelle cronache di San Dionigi, e recentemente è stata ripubblicata a fronte del testo latino del Nangis (Rer. gallic. et franc. script., tom. XX. Paris, 1840); nè anco io ne farei parola, se questa versione, che per lo più tralascia molti squarci del testo, qui non sopprimesse la diceria su i dritti di Pietro d’Aragona al trono di Sicilia, e aggiugnesse al testo, che Pietro mandò due cavalieri in Sicilia per vedere se la regina Costanza gli avesse detto il vero su le disposizioni de’ Siciliani; e che fattosen certo e stabilita la rivoluzione, ceulz de Palernes et de Meschines et de toutes les autres bonnes villes seignerent les huis des François par nuit, et quand il vint au point du jour qu’ils pourrent entour eulz voir, si occistrent tous ceulz qu’ils pourrent trouver, etc. Or questo racconto, che muta il vespro Siciliano in alba Siciliana, dice de’ Palermitani, de Messinesi, e della più parte degli altri Siciliani, come se in una medesima città, la notte avessero segnato le porte dei Francesi, e, allo schiarire del giorno, cominciato la strage, appena potettero distinguere da’ segni, le case ch’essi medesimi avean saputo riconoscere e segnare la notte. Si vede chiarissima in tal racconto la favola della uccisione contemporanea, con una inverìsimiglianza di più. Gli eruditi sono in dubbio se questa traduzione debba attribuirsi allo stesso Nangis. Io penso che un contemporaneo il quale scrisse con esattezza, se non la cagione, almeno il fatto, non abbia potuto poi guastare il fatto con sì grossolane favole: e però non saprei trarne argomento a indebolire vieppiù l’autorità del Nangis; ma suppongo piuttosto che la traduzione, o fu fatta, o almeno in questo luogo interpolata da altra mano, in tempo posteriore.

La Cronaca infine del monastero di San Bertino, più vagamente del Nangis dice della macchinazione (in Martene e Durand, Thes, Nov. Anecd., tom. III, pag. 762 e seg.). Scrive che Pier d’Aragona, pretendendo la Sicilia pel dritto della moglie, si adoprava, nunc commotiones, nunc seditiones excitans, nunc amicos sibi secrete concilians; semper, in quantum poterat, laborans ad finem intentum; tantochè commosse i barbari di Tunis contro i cristiani; cosa non vera, nè utile ad alcuno intento di Pietro; come non vere sono quelle sommosse e sedizioni prima del vespro, che anzi durò pienissima infino a quel dì la calma del servaggio. Per suam etiam astutiam, segue il cronista, commotionem excitavit in regno Siciliae. Mandatus tandem ab eis, in Siciliam venit, dominium sibi usurpavit, et se in regem Siciliae coronari fecit; e del resto narra avvenuto in Palermo il primo tumulto, e il progresso della rivoluzione nell’isola. Io non avrei qui noverato questa cronaca, se tutta fosse scritta da Giovanni Iperio, vissuto un secolo dopo il vespro. Ma perchè gli eruditi editori nelle prefazioni, op. cit., pag 441 a 444, han creduto la prima parte opera d’uno scrittore del secol xiii, non l’ho voluto passar qui sotto silenzio. A chiunque appartenga lo squarcio risguardante il vespro siciliano, è da notare che i particolari sono più minuti che nel Nangis, e per lo contrario molto più vaghe le allusioni alle trame de’ Siciliani con Pier d’Aragona.

Passando agl’Italiani noi troviamo la tradizione della congiura in Ricordano Malespini, e ’l suo continuatore Giachetto Malespini, e in Giovanni Villani (Muratori, R. I. S., tom. VIII e XIII), che sono propriamente gli autori della fama di Giovanni di Procida, e da loro tutti gli altri han copiato il racconto. Ma prima si rifletta che queste tre autorità si riducono a una sola; quella cioè di Giachetto. Le trame della congiura non poteano esser manifeste in una città guelfa d’Italia prima del fatto del vespro. Ora Ricordano, che minutamente le racconta prima del vespro, cioè sotto l’anno 1281, per lo meno cessò di scrivere in quel tempo, anche dandogli il privilegio di vivere e di conservar tutte le sue facoltà fino a cento anni: perch’ei medesimo assicura essere andato giovanetto in Roma l’anno milledugento. È chiaro dunque che Ricordano non potè dettare quegli ultimi capitoli della sua cronica; e ch’essi son opera di Giachetto suo continuatore, o almeno interpolati da lui, perchè narrando il fatto del vespro, e apponendolo alla congiura, volle inserire il racconto della congiura nella Cronaca di Ricordano che correa fino al 1281.

Quanto al Villani, ei dovea essere o bambino o fanciullo nel 1282, e certo cominciò a scrivere molti anni appresso; e il suo racconto della congiura e il fatto del vespro, sono non presi ma trascritti di parola in parola, il primo dalla Cronaca attribuita a Ricordano, l’altro dalla continuazione di Giachetto, con qualche lieve circostanza di più o di meno, che non toglie la evidenza del plagio, riconosciuto ben dal Muratori nelle sue prefazioni a’ Malespini e al Villani. Prendendo dunque a esaminare insieme i racconti del Villani e di Giachetto, che per la perfetta coincidenza si riducono a un solo, veggiam che costoro come Fiorentini, vivuti mentre la città reggeasi del tutto a parte Guelfa e si rafforzava della riputazione dei re di Napoli contro le rivali città di Toscana, senza pudore parteggiano, più che gli scrittori francesi; perchè la vicinanza rinfoca tutte le passioni. Indi ad ogni parola scopron gli animi Guelfi, e nimicissìmi a’ Siciliani. Del Villani, così il Muratori nota nella prefazione citata di sopra, doverglisi prestar poca fede nelle vicende di parti guelfa e ghibellina dopo i tempi dell’imperador Federigo secondo. S’aggiunga, ch’egli era forse più ingiusto per umor di famiglia; poichè ne’ diplomi del duello fermato tra re Pietro e re Carlo, si legge tra i nomi de’ mallevadori di Carlo (veggasi il capit. IX, voi 1, pag. 210) un Giovanni Villani, forse parente dello storico. Non son pochi gli errori in cui caddero cotesti scrittori, ch’eran per altro lontani dalla Sicilia, e disposti a colorire la narrazione come paresse peggiore pe’ loro nemici; che così sempre si è fatto e si farà anche senza il proponimento di calunniare. E lasceremo, perchè si può apporre ai copisti, l’errore di Giachetto, che porta il tumulto del vespro a tre marzo. Ricordano e Villani raccontan quella improbabilissima corruzione di Niccolò III, comperato da Procida col danaro del Paleologo; suppongon che re Pietro d’Aragona pe’ suoi preparamenti domandasse un sussidio di moneta al re di Francia, quando si sa che una delle ragioni principali, con cui difendeva il suo segreto intorno lo scopo dell’impresa, era di prepararla senza alcun aiuto d’altrui. Giachetto e Villani portano, con errore evidente, il tumulto del vespro incominciato a Morreale, poichè s’erano adunati in Palermo «a pasquare, i baroni e’ caporali che teneano mano al tradimento;» dicono come nella festa un Francese prendesse una donna per farle oltraggio; e indi nascesse la briga, incalzata da’ congiurati; i quali nella zuffa ebber la peggio, poi uccisero tutti i Francesi in Palermo, e andando alle lor terre, commossero tutta l’isola. Nell’assedio di Messina i due cronisti non son più esatti; recando una lettera di Martino, apocrifa e foggiata senza riscontro alcuno con le idee che scernonsi nelle bolle messe fuori in quell’incontro (V. il cap. VII). Essi di più, raggirando su Procida sempre la lor macchina, il fanno mandare ambasciadore da’ Siciliani a Pietro, per offrirgli la corona, quando gl’istorici Siciliani e Catalani, che non poteano nè ignorare, nè tacere nome sì grande, dicono incaricati tutt’altri dell’importante messaggio. In questi e in tanti simili fatti, che notiamo nel corso del nostro lavoro, si scernon sempre i ridetti istorici male informati, fallaci, parziali.

 

Maravigliosa è la uniformità del lor dettato con quel d’una Cronaca anonima in antica lingua siciliana, che corre dal 1279 infino ad ottobre 1282 (di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 243 e seg.). Questa coincidenza, creduta argomento di veracità della Cronaca, e il sapore antico della lingua e dello stile, persuasero al di Gregorio, che contemporaneo fosse questo scritto, del quale s’ignora del tutto l’autore, ma ce n’ha un Ms. in carta di bambagia, posseduto al presente dall’erudito e gentile uomo, il principe di San Giorgio Spinelli di Napoli, che per l’ortografia e la forma de’ caratteri con lettere iniziali azzurre o vermiglie e vestigia di dorature, appartiene senza dubbio al secol xiv. Questo antico Ms. pervenuto al presente possessore forse da Messina, era del tutto ignoto in Sicilia nel secol passato; talmentechè di Gregorio pubblicò la Cronaca nella sua Biblioteca Aragonese sopra una copia del secolo xvii, con ortografia diversissima dal Ms. del San Giorgio, e queste altre differenze, che innanzi il Ms. di San Giorgio si legge; Quistu esti lu Rebellamentu di Sichilia lu quali hordinau effichi fari Misser iohanni di prochita contra lu re Carlu p., e che il luogo della lezione del Gregorio (pag. 264), et incalzaru la briga cantra li francischi cu li palermitani, e li homini a rimuri di petri e di armi gridandu «moranu li franzisi;» et intraru dintra la gitati cu grandi rumuri lu capitanu che era tardu pri lu re Carlu, etc.; ha nel Ms. del San Giorgio la bella variante: Incalzaru la briga contra li franchischi et livaru A rimuri efforo a li armi li franchischi cum li palermitani et li homini a rimuri di petti e di armi gridandu moranu li franchischi et Intrara in la chitati cum grandi rimuri et foru per li plazi et quanti franchischi trouavanu tutti li auchidianu Infra quilli rimuri lu capitanu chi era tandu per lu Re Carlu, etc.

Tuttavia nè l’antichità di questo Ms. nè quella dello stile e della lingua, alla quale s’appigliò il di Gregorio, non avendo per le mani altra copia che del secolo xvii, e volendo ad ogni modo raccomandare la Cronaca come contemporanea, nè l’una nè l’altra, io dico, posson portare a un’approssimazione sì stretta, da giudicare precisamente se l’autore fiorisse in fin del secolo xiii o nei principî, o nel fine del xiv; e indi se contemporaneo fosse al vespro, o quanto discosto. L’altro argomento, ch’è la coincidenza col Villani, o meglio diremo Malespini, proverebbe il contrario, cioè che l’autor della Cronaca siciliana avesse avuto per le mani quella de’ Fiorentini; perchè si riscontrano con picciol divario la disposizione dei fatti, gl’incidenti, spesso le parole, più spesso gli errori; il che mai non avviene quando due scrittori, senza conoscersi l’un l’altro, dettino il medesimo avvenimento, foss’anco brevissimo e semplice. Le differenze poi son queste: che la parte aneddotica e drammatica è molto più ampia nella Cronaca siciliana, e che qualche data o nome di luogo è diverso, or con maggiore esattezza o probabilità dalla parte del Siciliano, or il contrario. Per esempio, il Siciliano scrive che Procida nel 1279 si trovasse in Sicilia (nè il dice proscritto e nascoso); quando da’ diplomi allegati da noi nel cap. V, vol. 1. p. 92, si vede chiarito ribelle e uscito infin dal 1270; e si sa che riparò a corte del re d’Aragona. Ma, quel ch’è più, il veggiamo incerto ed erroneo sul giorno della sollevazione di Palermo: Eccu chi fu vinuto lu misi di aprili, l’annu di li milliducentaottantadui, la martedì di la Pasqua di la Resurrezioni; quando e’ si vede certamente che quel martedì cadde il 31 marzo. Or che un Siciliano, vivuto di que’ tempi, avesse potuto errare o dimenticar questo giorno, io nol so comprendere; e da ciò potrebbe argomentarsi l’antichità men rimota di questa Cronaca, perchè sendo avvenuta nel corso d’aprile la strage in tutte le altre città di Sicilia, molti anni appresso si ricordava aprile come il tempo del riscatto; e l’autor siciliano, avute per le mani le cronache de’ Fiorentini, vi corresse a suo modo l’epoca; come fece del coronamento di re Pietro, asserito da quelli, negato da lui; e sì del luogo della prima sollevazione, portata da quelli in Morreale, da lui, e qui con esattezza, in un locu lu quali si chiama Santo Spirito, ch’era il nome della chiesa, non della campagna. Le quali correzioni portano a credere che il Siciliano dopo i Fiorentini, non questi dopo lui avessero scritto; perchè i primi non sarebbero inciampati nell’errore del luogo della prima rissa, o avrebbero seguito il Siciliano nell’errore del tempo.

Perilchè mi è venuto in mente un supposto intorno questa Cronaca. Io penso che l’autore scrisse verso la metà del secolo xiv e fu della famiglia Procida, o attenente ed amico a quella; che nel regno dì Federigo d’Aragona, come si è veduto nel capitolo XV, Giovanni di Procida voltò a parte angioina, e con lui alcuni della famiglia. Quest’anonimo dunque, cliente o partigiano dei figliuoli di Procida, pieno d’umori guelfi, vivendo fuori dalla patria, s’imbattè nella cronaca de’ Malespini o del Villani; alla quale aggiunse or qualche verità, or qualche errore cavato dalla tradizione e tendente ad esaltar Giovanni di Procida; e ne dette quel che in oggi chiameremmo romanzo storico, o una istoria frammischiata di finzioni e novelle; come son di certo la debolezza, la paura, i pianti di tutti que’ grandi che si suppose trattasser la congiura con Procida. Certo egli è che parecchi Siciliani sotto Pietro, Giacomo e Federigo d’Aragona, or a ragione or a torto, furon puniti, o uscirono come ribelli, e ben potè avvenire che alcun d’essi o de’ loro figliuoli restassero fuori di Sicilia anche dopo la pace; certo che un germe, ancorchè debolissimo, di parte francese o guelfa o, come appo noi chiamavasi, di Ferracani, restò in Sicilia; certo che questa Cronaca, difforme dalle altre nostre di que’ tempi, si riscontra nelle parti più essenziali con quella de’ Guelfi Malespini e Villani. Di essa l’autore non si sa; il tempo non si sa; e assai debole testimonianza ne sembra. Il di Gregorio, pubblicandola per lo primo, mutila del principio, che poi si è dato alla luce (Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 4), notò con allegrezza molti luoghi in cui risponde al Surita, senza riflettere che il Surita, autor del secolo xvi, togliea que’ fatti da essa appunto e dal Villani.

Seguono nella medesima classe gli scrittori che primi aggiunsero alla cospirazione la favola della uccision dei Francesi per tutta l’isola in un dì. Frate Francesco Pipino, che fiorì ai tempi di re Roberto (Francesco Pipino, lib. 3, cap. 19, in Muratori, R. I. S., tom. IX, p. 695), cioè nei principi del secol xiv, ma al dir di Muratori (ibid., Prefazione) poco diligente e spesso rapportator di favole e maraviglie, narra ancor questa, ma assai timidamente. Dapprima descrive le oppressioni e violenze de’ Francesi, donde nacque una sedizione in Palermo, e la chiamata di Pier d’Aragona ch’era ad oste in Affrica. Ma parendogli poco, soggiugne: Hujus autem rei novitatem tractasse ac procurasse fertur multis periculis, sudoribus, oc dispendiis, magister Joannes de Procida, olim notarius, phisicus, et logotheta regis Manfredi (ibid., pag. 686 e seg.); e discorre minutamente la cospirazione, i soccorsi di danaro dati a re Pietro dal Paleologo, e da papa Niccolò (qui pagante e non pagato); fa ordinare da Procida che in un giorno assegnato tutti i Siciliani si levassero, e nel medesimo dì Pietro si partisse con la flotta: le quali due cose, ei soggiugne, riuscirono appunto; quindi Pietro venne in Messina, e incoronossi nelle feste di Pasqua del 1282. Fascio di anacronismi, errori e grossolane inverosimiglianze, che non è uopo confutare, quand’ei medesimo, che affastellar solea alla cieca, le porta col salvaguardia del fertur; e narra il medesimo fatto in due modi, l’uno della sollevazione casuale in Palermo, propagata nell’isola, l’altro della uccisione contemporanea in tutta l’isola. Nel capitolo che contien la prima narrazione ei mette l’intitolazione: De Carolo seniore Siciliae Rege, ex chronicis; onde si vede che la prima trasse da croniche, quella seconda dalla voce popolare, senza dire qual delle due credesse la vera, chè ben il dovea, trattandosi di un fatto sì grande, e sì diverso secondo che all’una o all’altra si prestasse fede.