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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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E il dì ventiquattro, tra Caltabellotta e Sciacca, in certe capanne di bifolchi, vennero, con cento cavalli ciascuno, Federigo e Carlo di Valois; favellaron soli gran pezza; poi fu chiamato Roberto402. Nè forse senza pianto si incontraron questa fiata Roberto e ’l siciliano re, per la perdita di Iolanda, amorevolissima ad entrambi, giovane, bella, di santi costumi, genio di pace tra lo sposo e ’l fratello; e morta sola a Termini, mentre stava l’uno allo assedio di Sciacca, l’altro pronto a piombargli addosso403. Non guari dopo, e in dolor pari, trapassò in Ispagna la regina Costanza, che nella pietà religiosa perdè quasi la carità di madre, non onorando nel testamento il suo glorioso Federigo, perchè era percosso dagli anatemi di Roma404. Nell’abboccamento dei tre principi furon indi chiamati, dall’una parte Ruggier Loria, dall’altra Vinciguerra Palizzi, e poi più altri nobili e capitani. Trattarono alquanti dì; poco mutossi da’ preliminari: e fu fermata il ventinove agosto, giurata il trentuno la pace.

Per la quale restava a Federigo la Sicilia con le isole attigue, da tenerla, finch’ei vivesse, da sovrano assoluto, independente da Napoli e dal papa, con titol di re dell’isola di Sicilia, o re di Trinacria, quel più fosse a grado a Carlo II. Darebbe costui la figliuola Eleonora, in moglie a Federigo: a lor prole si procaccerebbe il reame di Sardegna o di Cipro, o si pagherebber centomila once d’oro: e allor dovrebbero lasciar l’isola di Sicilia. Renderebbersi da Federigo le terre occupate di là dallo stretto; dagli Angioini quelle prese in Sicilia; e similmente, senza riscatto, il principe di Taranto, e da amendue le parti tutti gli altri prigioni: perdonerebbesi ai sudditi datisi al nemico; ma i feudatari perderebbero tutti feudi dal principe da cui si fossero ribellati. Da questo andarono eccettuati solamente, come avviene, i due più potenti, Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi; fatta ad essi abilità di tenere, il primo il castel d’Aci in Sicilia, l’altro Calanna, Motta di Mori, e Messa in Calabria. Sarebbero reintegrati, continuava il trattato, i beni ecclesiastici in Sicilia, allo stato innanti la rivoluzione dell’ottantadue. Il Valois si adoprerebbe a ottener la ratificazione di re Carlo e del papa405. Fu questo il trattato di Caltabellotta, o, come il chiaman anco, di Castronovo, per esservisi fermati i preliminari. Molto onore n’ebbero per tutto il mondo re Federigo e la Sicilia. E in vero la nazione, dopo venti anni, usciva gloriosa e vincente da guerra sì disuguale; Federigo, contro tal soperchio di forze collegate, si mantenea la corona sul capo: nè all’una ed all’altro tornava minor lode, dall’aver condotto a tal estremo, in tre mesi, il Valois, Roberto, Loria, tant’oste, tal armata; e piegato a lor volontà il superbissimo Bonifazio. Nè si dica che non seppero i nostri usar la fortuna contro quel diradato esercito. Dovean essi negar bene una breve tregua, avvantaggiosa solo all’Angioino; era il contrario una pace, nella quale si asseguisse l’importanza di sgombrar via il nemico, e tener libera e tranquilla la Sicilia, foss’anco per pochi anni. Perchè gli Angioini, pur volti in fuga e sconfitti a Sciacca, tenendo molte cittadi e castella, avrebbero potuto continuare a lungo l’infestagione dell’isola; e la pace, ancorchè pregna de’ semi di nuova guerra, dava comodo a’ nostri a rassettar le entrate pubbliche, ordinar le milizie, ristorar le città, racchetare i baroni, prepararsi a ripigliar le armi, quando che fosse, freschi e gagliardi; mentre le forze de’ nemici, come collegate, menomar doveano di necessità col tempo, che muta interessi, occasioni, umori dei potentati. Donde niuno fu che non vedesse futile e vano, il patto del rendersi l’isola alla morte di Federigo; parole da salvar le apparenze: e ciò vuoi significare il Villani, chiamando questa una dissimulata pace; malcontento, come ogni altro guelfo, per la riputazione che ne perdea lor parte, la forza che crescea a’ Ghibellini, tenendosi la Sicilia da Federigo. Indi tutte le fazioni d’Italia, per contrari umori, diersi a lacerare il nome di Valois, motteggiando: esser venuto in Toscana a metter pace, in Sicilia a far guerra; e aver lasciato guerra in Toscana, vergognosa pace in Sicilia406. E meritò maggior biasimo, di baratteria contro la corte di Roma e casa d’Angiò e tutta lor amistade, per un altro accordo fermato in questo tempo con Federigo, che l’aiutasse d’uomini e navi alla impresa di Costantinopoli, e non fermasse pace altrimenti con l’imperadore Andronico Paleologo407. Promulgata da Federigo, lo stesso dì ultimo d’agosto, l’importanza del trattato, senza dir de’ patti disfavorevoli, rivocossi il comando dell’adunamento in arme a Corleone; e si sciolse, dopo quarantatrè giorni, con somma gloria di Federigo d’Incisa e de’ cittadini, l’assedio di Sciacca: ma la pace de’ principi non tolse sì tosto la ruggine dagli altri animi: e terrazzani è soldati, scrive Speciale, mescolati vagavan ora per la città, ora per gli alloggiamenti, ma sospettosi e guardigni, per abitudine inveterata all’offendersi. In breve tempo si rimbarcò l’esercito francese per Catania: ebbe rinfreschi per ogni luogo: radendo le spiagge, n’ammiravano, massime i soldati gregari, l’amenità; e con la gaiezza e facilità di lor sangue a’ sentimenti generosi, ripentiansi dell’esser qui venuti a recare e riportar tante afflizioni. Intanto da Termini sciogliea per Napoli una galea, per nome l’Angiolina, col cadavere di Iolanda. Federigo, da Caltabellotta n’andò a Sutera, a liberare il principe di Taranto, tramutatovi, come in più sicuro luogo, alla passata del Valois; e tutti gli altri prigioni fe’ recare in Lentini, e reseli, insieme con Filippo, al duca di Calabria, venutovi da Catania. Quivi Roberto e Federigo, per simpatia di gioventù, di valore, e del comun cordoglio di Iolanda, strinsersi a tal dimestichezza, che come fratelli sollazzavansi, insieme; e dopo una caccia dormirono in un letto, come di que’ tempi si usava per dimostrazione d’amistà. Di Lentini stessa i legati pontifici sciogliean la Sicilia dalle scomuniche408. Andavano i principi insieme a Catania; dove Federigo perdonò largamente a’ cittadini; fece qualche dimora con essi, in segno di renduta grazia; e fuvvi sembianza di spegnersi odio assai più atroce, quando Ruggier Loria, per la prima volta dopo lo scoppio de’ loro sdegni nella reggia di Messina, gli s’inginocchiò dinanzi, a render omaggio per la signoria del castel d’Aci. S’erano sgombrati intanto da’ nemici gli altri luoghi di Sicilia; e apprestandosi lor gente a tornarsene in terra di Napoli, Loria fe’ vela con l’armata; i principi francesi, per tedio del mare, cavalcarono, permettendolo re Federigo, da Catania a Messina409.

 

E in Messina mostrossi anco tra le allegrezze della pace, quella virtù che s’era provata in durissimi incontri; perchè gli uomini son così fatti, che i grandi eccitamenti delle passioni pubbliche, li rendono a un medesimo tempo audaci nell’arme, pronti e accorti nei consigli, arguti e forti nelle parole, e generosi ne’ tratti, e in ogni cosa di gran lunga più dignitosi e alti che nel mediocre viver di prima. I nobili messinesi, in abbigliamenti di pace, si faceano incontro a’ principi; li conduceano a città; e sontuosamente albergavanli. Ma convitando Valois i primi della città, e tra questi Niccolò e Damiano Palizzi, che nel blocco di Roberto avean tenuto, l’un la città, l’altro il castello, Niccolò, chiamato a sè il minor fratello, ricordavagli quante fiate servì a tradigione l’allegria delle mense (nè Carlo di Valois era Catone); essere in quel ritrovo il fior della città; gli ospiti inimicissimi, fidanti nel favor del pontefice; l’occasione da tentar coscienze anco men larghe, perchè, presa d’un colpo di mano Messina, che sarebbe della Sicilia? e per tal acquisto qual peccato non si rimetterebbe? Perciò ammoniva il fratello che restasse nella rocca, e non s’arrendesse per quantunque caso atroce; non se vedesse lui medesimo tra’ nemici, con la testa sul ceppo, e ’l manigoldo levar in alto la scure. Damiano seguì il consiglio.

Qui lo Speciale si fa a descrivere il convito, il desco ricoperto di bianchissimi lini, il vasellame d’oro e d’argento, i donzelli in eleganti abiti, pronti a un girar d’occhio dello scalco; e altri dar acqua alle mani, altri servir le vivande, girare i vini in tazze sfolgoranti di gemme; e somiglianti sfoggi di lusso, contro i quali ei si scaglia, lamentando che principi e cittadini, e fin que’ ch’avean fatto voto d’imitare la povertà di Cristo, con tai vanità desser fondo a loro sostanze. Ma dopo le prime imbandigioni, quando comincia il favellìo, sedendo Niccolò Palizzi tra Roberto e il Valois, costui domandavalo: nelle stretture estreme del blocco, quando vedeansi gli uomini cader dalla fame, e fallir anco quei lor cibi pestilenziali, qual mente fosse stata ne’ cittadini? E Niccolò, con un inchino: «Signor, gli disse, sia fatto degli uomini, sia influenza de’ Cieli, dal nome francese abborriam noi sì fieramente, che per serbare quest’odio nostro, consumato l’ultimo boccon delle carni de’ giumenti e de’ cani, avremmo ucciso le donne, i vecchi, i bambini; e ristrettici chi nel palagio, e chi nella rocca, fitto avrem fuoco alla città, per mostrar che non mancasse in Sicilia la tremenda virtù di Sagunto e Perugia!» Carlo, crollando il capo, si volse a Roberto: «Vedi chi son costoro! Ben si è fatta la pace!» Entro pochi dì valicarono in terraferma; e restò la Sicilia libera e gloriosa con Federigo410.

Mandava poi re Carlo la figliuola con un corteo nobilissimo a Messina; e quivi splendidamente si celebravan le nozze, di primavera del trecentotrè411. Già spariva ogni traccia della guerra, fuorchè la gloria e i guiderdoni: che n’ebbe Messina nuove franchige da collette qualunque, e giurisdizione su più vasto territorio412; Sciacca immunità dalle dogane413. Ma il più salutare tra’ provvedimenti fatti dopo questa pace, fu di sgombrar via i mercenari siciliani, calabresi, genovesi, spagnuoli, che, finita la guerra, s’eran gittati in masnade a infestar l’isola con ladronecci e violenze. Il più avventuroso tra’ lor condottieri, quel Ruggiero de Flor, che sdegnava tal poca rapina, e per la pace si vedea ricader tra l’ugne del gran maestro del Tempio, s’avvisò di portar quella feroce gente a’ soldi dell’imperator di Costantinopoli, contro i Turchi che duramente travagliavano l’impero. Gliel’assentì pronto Federigo, per torsi tal tristizia di casa; fornì loro navi, armi, vittuaglie, e ogni cosa necessaria: e sì andarono in Oriente; dove traendo a loro i mercenari degli Angioini, lor veri fratelli, e quanti altri rotti e feroci uomini v’erano nimici del viver civile sotto le leggi, fecero quel formidabil corpo, che si chiamò la Compagnia catalana o di Romania, segnalatissimo per valore, infame per fatti d’iniquità e di sangue, contro amici e nemici; nel quale videsi tra i principali condottieri il cronista Ramondo Montaner. Tal gente acquistò allora al re di Sicilia il titolo del ducato d’Atene e di Neopatria414.

Il papa fu l’ultimo ad assentire la pace. Venuto a lui il Valois, nel ripigliò con sì agre rampogne, che ’l Francese fu per metter mano alla spada415; esacerbato ancora dalla discordia accesa tra il papa e casa di Francia per la disciplina ecclesiastica, di che nacquer pochi anni appresso la scomunica di Filippo, la presura di Bonifazio ad Anagni, e ’l disperato morir suo. Forse per cagion di queste contese, s’ammorzò alquanto la superbia di Bonifazio contro Federigo; e benignamente scriveagli: non poter ammettere senza disonor della Chiesa l’accordo com’era, ma si accomoderebbe; egli intanto preveniva Federigo nelle vie della pace; il ribenediva; non ricusava la dispensagione per le nozze con Eleonora; del resto mandava in Sicilia, a riformare i patti, i vescovi di Salerno e Bologna, con Giacomo di Pisa famigliar suo. E ’l re di Sicilia, che incominciava a gustar le delizie del viver tranquillo, piegossi a riconoscere per oratori la feudal signoria di Roma, disdetta chiaro abbastanza nel trattato di Caltabellotta, ed or voluta senza remissione da Bonifazio. Mandò dunque a corte di Roma il conte Ugone degli Empuri, Federigo d’Incisa, e Bartolomeo dell’Isola, promettendo e ’l giuramento ligio, e ’l censo di tremila once d’oro all’anno, e il servigio di cento lance, o vogliam dire trecento cavalli; imitazione de’ patti a’ quali Clemente avea dato al conte d’Angiò i reami rapiti a Manfredi e a Corradino. Ebbe Federigo il titolo di re di Trinacria; promesse a corte di Roma la comodità di trarre grani dall’isola, e l’ampia redintegrazione de’ beni ecclesiastici. Nel qual modo, peggiorato per maneggi l’accordo che onorevole s’era fatto con le armi in pugno, Bonifazio l’approvò per costituzion pontificia del dì ventuno maggio milletrecentotrè, col voto del sacro collegio, dissentendo un sol cardinale416.

 

Fu questo fatto di Federigo, illegittimo e non obbligatorio per la Sicilia, sì per virtù dei primitivi dritti di lei, e sì per la espressa e fondamentale legge del milledugentonovantasei, che vietava qualunque atto di politica esteriore senza assentimento della nazione. Perchè non abbiamo, nè sappiamo essersi allegato giammai, documento di tal approvazione nè alla pace di Caltabellotta, nè alle riforme di Roma. Ma resta in dubbio se Federigo lasciar volle quest’appicco a disdir quando che fosse e ’l trattato e l’omaggio al papa, o se, mutando il sostegno dell’amor dei popoli con la federazione de’ potentati, si contentò meglio del magro accordo, che della gloriosa resistenza; e prese a violar le sue medesime leggi, come prima il potè senza pericolo. Certo egli è dall’un canto, che Federigo non pagò giammai censo a Roma417; che non mandò le milizie; ch’indi a pochi anni ruppe nuovamente la guerra; che ripigliato l’antico titol di re di Sicilia, mandò in un fascio e trattato e papal costituzione418; che infine fe’ riconoscere dal parlamento la successione di Pietro II, onde il legal voto della nazione dileguò del tutto i vestigi di tali vergogne, se alcuno ne potea lasciare il fatto del solo Federigo contrario alle leggi. Dall’altro canto è da considerare, che la guerra l’avea stracco; che puzzavagli la licenza dei baroni e de’ soldati mercenari; che gl’increscean forse gli stretti limiti della costituzione del novantasei; e sopra ogni altro, ch’ei non fu sì grande come il presenta la istoria, che mal serba misura nel biasimo o nella lode. Ebbe Federigo animo gentile, affabile, adorno dalle lettere, dato agli amori, pieghevole alle amistà, ma troppo, sì che reggeasi a consigli di favoriti: e ne nacque il turbolento patteggiar della sua corte, che ’l portò ad estremo pericolo con la ribellione di Ruggier Loria, e posate le armi di fuori, accese in Sicilia le dissenzioni civili. Nei maneggi di stato non fu molto accorto o magnanimo, nè coraggio politico ebbe, al paro che ’l soldatesco, questo principe, che nel novantacinque si lasciò raggirar da Bonifazio, e per poco non tradì i Siciliani, nè spegner seppe, nè accarezzare i suoi baroni; e dopo questa pace, ripigliando le armi al tempo dell’imperadore Arrigo di Luxembourg, troppo osò, poco mantenne; meritò nota, ancorchè troppo severa, di avarizia e viltà, da quel Dante ch’a lui s’era volto, come all’erede del grande animo di re Pietro. Tal sembra, su i più certi riscontri istorici, Federigo, lodato a cielo da Speciale suo ministro, da Montaner soldato di ventura catalano, e ammirato dalle età seguenti, perchè a lui si è dato quanto oprarono ne’ primordi del suo regno i Siciliani, esaltati ad eroiche virtù dalla rivoluzione del vespro. Ma s’ei non levossi con la sua mente all’altezza di gran capitano o uom di stato, avrà sempre una splendida pagina nelle istorie siciliane, come franco e schietto, costante nelle avversità, solerte in guerra, prode in battaglia, vigilante nel civil governo, umano co’ sudditi, degnissimo di fama per le generose leggi politiche che ne restano col suo nome, le quali s’ei non dettò, ebbe prudenza certo e magnanimità da assentirle419.

CAPITOLO XX

Conchiusione. Qual era la Sicilia prima del vespro; qual ne divenne; qual rimase.

La pace di Caltabellotta, che fece posar la prima volta le armi in venti anni dalla sommossa dell’ottantadue, è il termine del mio lavoro, avendo chiuso quella felice rivoluzione ch’io prendeva a narrare. Perchè non solamente i potentati di fuori, i quali, bene o male, vantavan ragioni su l’isola, s’acquetarono al reggimento di quella per lo innanzi chiamata ribellione; ma anco dentro da noi dileguossi la spinta del vespro; benchè dopo corto volger di tempo, si fosse ripigliata la guerra con esempi dell’antica virtù, e disdetti i termini del trattato di Caltabellotta, e sostenuta, in tutta la integrità, l’independenza della nazione. Ma tuttociò ritraea come debole immagine que’ primi tempi gloriosi; e sforzi del nimico men gagliardi, con più fatica si rispinsero; e mancava il rigoglio d’attual movimento; scopriasi il mal germe della feudalità rimbaldanzita; e ogni cosa muovere da una corte fiacca e discorde, anzichè dalla volontà della nazione. Del rimanente, prima ch’io lasci questo nobile subbietto, mi par bene ricercare qual fosse la Sicilia innanzi il vespro, qual ne divenisse, qual restasse poi.

Nel secol duodecimo la veggiam noi fiorita d’industrie, civile e potente, forse sopra la più parte degli stati d’Italia, domar quanti piccioli principati stendeansi dal Faro al Garigliano; e per questa nuova signoria, entrar nelle guerre civili d’Italia; e al medesimo tempo avviarsi a più intima unione con quelle province d’oltre lo stretto, e a reggimento più chiuso. Questo ebbe sotto casa Sveva, per lungo tratto del secol decimoterzo, con grande soperchio di tasse: ma l’alta mente de’ principi mitigò l’uno e l’altro con buone leggi civili, gentilezza di costumi, cultura degl’ingegni, da avanzare nel rinascimento delle lettere ogni altra provincia italiana; e insieme die’ l’andare a forti opinioni contro la corte di Roma. L’avarizia e severità, spiacendo più che non allettavano gli ornamenti, piegarono i popoli alla repubblica del cinquantaquattro. Spenser questa i baroni; e tornò la dominazione Sveva con que’ vizi e quelle virtù: onde poco appresso ricadde, più per mala contentezza de’ popoli, che per forza straniera.

Ma il governo angioino, invece di far senno da ciò, inebbriossi d’ogni più insensato abuso; mutò non solamente le persone de’ feudatari, ma di fatto anco innovò la feudalità; nel rimanente correndo al peggio sulle tracce degli Svevi, e sforzandosi, direi quasi, a trar tutto alla testa il sangue, per farsene più vigoroso alle ambizioni d’Italia e d’Oriente. Sì duro ei tirò, che la ruppe. L’antagonismo delle schiatte, il sentimento di nazione latina fece sentir più duramente il governo tirannico; che anche antico e nazionale spinge i popoli a ribellarsi come il possano. De’ due popoli si mosse anzi il Siciliano che l’altro, o per l’indole più ardente, o per maggiore oppressione; perchè la corte, tramutata in terraferma, era quivi compenso ai mali comuni, e rispetto all’isola nuovo oltraggio politico, e danno materiale; onde, dopo la rivoluzione, lo stesso Carlo I e Carlo II si fecero a profferire special governamento alla Sicilia, e vicario con larghissima autorità, e moderate leggi: rimedi che dati a tempo avrebbero forse distornato i tremendi fatti del vespro, ma sì tardi non trovarono chi li ascoltasse. La congiura o non operò nel movimento, o poco l’affrettò. L’occasione al tumulto potea tardare; potea riuscir male la prima, la seconda prova; non fallire la rivoluzione, in tal disposizione de’ popoli, e assurda nimistà de’ governanti.

Come per forza d’incanto, al primo esempio che lor balenò innanzi agli occhi, si rifecer uomini quegli imbestiati in vil gregge. Tremavano a un guardo; sospettosi tra loro; selvatichi e fieri, pur senza saper levare un pensiero al resistere; incalliti alla povertà, alla ingiustizia, al disprezzo, al disonor nelle famiglie, alle battiture sulle persone; sol ritraenti dell’umana dignità nell’odio che chiudevano in petto: e chi in cotesti avrebbe riconosciuto il legnaggio d’Empedocle, Dione, Archimede; de’ compagni di Timoleone, dei vincitor d’Imera? E pure un attimo d’esempio bastò. Quell’ignoto uccisor di Droetto, con un sol colpo, rese la greca virtù al popolo di Palermo; questo a tutta l’isola. Nacque la rivoluzione dal volgo; ed ebbe nei primi tempi sembianti popolani: frammischiatisi i nobili, la tirarono alla monarchia ristoratrìce delle antiche leggi. Allora tutta la nazione unita si adoperò al nuovo ordin di cose; non guardandosi le minuzie di pochi nobili parteggianti per gli Angioini, e pochi più spenti, per ingratitudine o sospetto, dal nuovo principe. E chi guardi i Siciliani in questo periodo, entro il medesimo anno ottantadue che li avea veduto marcire nella non curanza della servitù, li troverà franchi al combattere, pronti ed accorti al deliberare, devoti alla patria, affratellati tra loro, pieni di costanza, nè spogli di generosità tra lo stesso disunan costume de’ tempi: e dopo breve tratto, li scorgerà fatti provati guerrieri e marinai; pratichi negoziatori nelle faccende di stato; fermi oppositori alla corte di Roma, e pur tenaci nella religion del vangelo; e legislatori sorger tra loro, che i nomi ignoriamo, ma ne restano, irrefragabil testimonio, le savie leggi; e coltivarsi le lettere, prevalendo, com’è naturale in un movimento politico, gli studi della storia, su la poesia che fioriva nella corte Sveva; e Guido delle Colonne ne’ primi tempi della rivoluzione dettare in Messina una storia Troiana420; il Neocastro una nazionale e contemporanea, lasciando belli esempi allo Speciale, allo Anonimo, Simon di Lentini, Michele di Piazza e altri; e lo stile vivace e biblico, ritrarre il sollevamento dei pensieri; e quel che più è meraviglioso, tra ’l romor delle armi prosperare anco le industrie. Tanto egli è vero, che non v’ha parte alcuna degli esercizi degli uomini, che non prenda novella vita alle boglienti passioni d’un mutamento politico!

I quali effetti nascon talvolta da trascendente ingegno d’uno o pochi uomini, che rapisce la moltitudine là dove ei vuole; talvolta da felice talento de’ popoli, per la necessità e forza degli eventi, onde flnanco i mediocri compion dassè grandissimi fatti, senza la virtù d’una mente straordinaria che li governi. E il secondo caso parmi di scernere nella rivoluzione del vespro. Perchè, messe da canto le favole di Giovanni di Procida, le quali pur abbandonano il protagonista al cominciamento della rivoluzione, nessun uomo di quell’altezza ch’io dico, si trova infino al primo assedio di Messina; e questa diffalta forse fece dileguar la repubblica. In Messina poi Alaimo di Lentini meritò nome immortale; come a lui si deve e ai Messinesi, che la Sicilia non fosse soggiogata da quel possente esercito di Carlo. Re Pietro e Ruggier Loria spensero Alaimo; ma insieme educarono i nostri alla guerra, ed egregiamente usarono le virtù degli Spagnuoli e dei Siciliani unite insieme, a prostrare i nemici in Ispagna, sconfonderli in Italia: e lungo tempo dopo la morte del primo, dopo la tradigione dell’altro, durò la virtù loro, e notevoli uomini produsse.

Questi elementi sostenner Giacomo, glorioso e sicuro, sul trono; questi v’innalzaron Federigo, quando Giacomo fallì alla rivoluzione; questi, crescendo di vigore ne’ contrasti, fronteggiaron soli mezz’Europa, quando quegli stessi Spagnuoli ch’eran venuti ne’ primi tempi ad aiutarne per loro interesse, per loro interesse ci si volser contro: antichissima usanza, che mostra esser la generosità di nazione a nazione o sogno, o foco di paglia, e l’interesse tale infaticabil consigliero, che piega alfine a sue voglie e principi e popoli.

La esaltazione di Federigo, rinnovamento o conferma della rivoluzione, è al veder mio più gloriosa del primo principio stesso. Perchè non la portò disperazione, o caso, ma l’accorgimento e ’l coraggio politico de’ nostri padri; operata senza disordini, senza fatti di sangue, con dignità d’universale concordia, con maestà di nazione che medita, e si propone, e fa, contro potenze cento volte maggiori di lei. Al considerar, quanti nomini di stato e d’armi, quanti prodi oratori, quanti incorrotti cittadini risplendettero nel regno di Giacomo e ne’ primi tempi di quel di Federigo, si troverà manifesto l’effetto del mutamento dell’ottantadue; la nazione rigenerata si troverà adulta in tutte le sue forze. Donde, se Federigo non fu un uomo straordinario, la Sicilia ridondava di tanta virtù, che bastò a resistere, e a fiaccar l’ultimo sforzo de’ collegati.

Prendendo poi a guardar tutta insieme la lunga guerra del vespro, io non so qual nazione possa vantare maggior fortuna. Carlo d’Angiò con un picciolo esercito debellava quel valente Manfredi, signore di due regni; e poco appresso le forze de’ Ghibellini adunate sotto Corradino: ma per macchina di guerra poderosissima e maravigliosa, non bastò a domar la sola Sicilia, nè egli nè i suoi successori, con ostinati sforzi. La Sicilia in venti anni guadagnava quattro battaglie navali; tre giuste giornate in campo; con moltissimi combattimenti di mare e di terra; fortezze espugnate; occupate entrambe le Calabrie e Val di Crati; dileguati di Sicilia tre eserciti nemici; sciolti due assedi di Messina, due di Siracusa, e altri molti di minore importanza. Non fu interrotto questo lungo corso di vittorie, se non che da due sconfitte in mare, e da tre anni d’infestagione dell’isola; dove i nemici non riportarono alcun avvantaggio di conflitto, ma ciò che presero fu a patti, o per tradimento. Questi disastri toccaronsi per la virtù soldatesca, le pratiche, la riputazione di Giacomo, di Ruggier Loria, de’ venturieri spagnuoli: ma risanati che furono i nostri dal delirio di combatter in mare senz’ammiraglio, vinsero in campo; tagliarono a pezzi gli stanziali francesi e italiani nella guerra guerriata, per cui è fatta la Sicilia; sgararono nella lunga prova il reame di Napoli, maggiore tre tanti di popolazione421. Ed esso non bastò a domar l’isola, ancorchè, insieme col suo sangue e la sua moneta, si sperperassero contro Sicilia le decime ecclesiastiche di tutta l’Europa, i sussidi delle città guelfe d’Italia, oltre il danaro che die’ in presto la corte di Roma, che passò le trecentomila once d’oro, e al dir del Villani422, il papa ne acquetò Roberto al tempo del suo coronamento. E non bastò, ancorchè la Francia fornisse braccia ed armi alla guerra, e poi l’Aragona con essa, e la misera Italia sempre; e la sede di Roma votasse la faretra degli anatemi, in una età, non che di religione, ma di superstizione; e si facesser giocare tutte le arti di quella corte, sapiente e destra, e avvezza a maneggiar le relazioni politiche della intera cristianità. E la Sicilia, che non era aiutata di danari da alcuno, d’uomini una volta dalle Spagne, poi sol da pochi avventurier catalani e ghibellini di Genova, finì la guerra mantenendo l’alto suo intento. Tali furono, o Siciliani, le geste dei vostri padri nel secol decimoterzo! Ripigliaron così la independenza di nazione, la dignità d’uomini: e detterne esempio alla Scozia, alla Fiandra, alla Svizzera, che scuoteano, a un di presso in quel tempo, la dominazione straniera.

Volgendoci alla riforma civile, la medesima ammirazione convien che ci prenda. Gli sforzi che i popoli fanno a libertà, per loro natura non durano, se non giungono a porre buoni e durevoli ordini nello stato, e a spegnere i malvagi uomini, che ne guasterebbero i frutti. La prima cosa fecer quegli antichi nostri egregiamente; l’altra non seppero, o non poterono. Come le leggi esprimon l’interesse di chi è più forte, così dettaronle a vantaggio pari de’ baroni e del popolo i principi aragonesi, che per virtù di quelli regnavano. Allargati i termini della costituzione del Buon Guglielmo, ebbe il general parlamento la ragion di pace e di guerra, e quasi al tutto quella di dar leggi; furono rese ordinarie e annuali le adunanze di esso; datagli la censura su i ministri e uficiali pubblici; fondata o ristorata un’alta corte di pari: componeasi il parlamento, come ognun sa, dei prelati, dei baroni, e de’ rappresentanti o sindichi delle città; e sembra fuor di dubbio che di que’ primi tempi, in un sol corpo, o vogliam dire camera, deliberasse: veemente forma, che poi dileguossi sotto i monarchi spagnuoli. Tanto per la signoria dello stato. L’altra principalissima parte, ch’è l’entrata pubblica, fu ordinata con più sottile accorgimento. Limitati per legge fondamentale i casi e la somma delle collette; richiesta a levarle l’autorità del parlamento, sì che poi, con molta significanza, appellaronsi donativi. Si fe’ più largo il reggimento municipale, la cui importanza stava nell’adunata, o come diceasi, parlamento, in cui tutti conveniano, o almeno in larghissimo numero, i cittadini; e ne fu escluso per espressa legge l’ordine de’ nobili. Questi parlamenti popolareschi, e in qualche luogo, secondo le particolari consuetudini, i consiglieri eletti a rappresentarli, maneggiavano tutti i negozi del comune, cioè la tassazione pe’ bisogni municipali, lo scompartimento delle collette generali, l’armamento delle milizie a richiesta del re, la elezione de’ sindichi al parlamento, e de’ magistrati del comune. La istituzione de’ giurati fu tribunato, o, come or diremmo, ministero pubblico, che esercitavasi in ciascun comune, a compiere il sistema di censura, alla cui sommità stava il parlamento. Il maneggio dell’alta giurisdizion civile e penale restò presso i magistrati regi: ma furono accresciuti, e avvicinati alle popolazioni; si provvide il meglio che si potea a contenerli da superbia e rapacità. Così uscissi dalla rivoluzione siciliana del secol decimoterzo, con un ordinamento politico, che le più incivilite nazioni del secol decimonono appena attingono. Notevole egli è, che un tal congegno di monarchia, l’ebbe tra tutte le province italiane la Sicilia sola; perchè nelle altre, di Venezia in fuori, non eran che repubbliche mal ferme o signori assoluti; e nel reame di Napoli non tardò il potere regio a trapassare i limiti delle costituzioni d’Onorio, e dileguarne fin la memoria, stimolato, più che ritenuto, dalle frequenti ribellioni.

402Veggasi la nota 2, pag. 223–24.
403Nic. Speciale, li. 6, cap. 9.
404Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 55.
405Nic. Speciale, lib. 6, cap. 10. Anonymi chron. sic., cap. 70. Gio. Villani, lib. 8, cap. 50. Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1305. Ferreto Vicentino, in Muratori, ibid., tom. IX, pag. 962. Montaner, cap. 198. Costoro il riferiscono assai brevemente; i nostri perchè voller tacere alcuni patti; gli stranieri perchè poco ne sapeano. Ma luce maggiore ci danno i documenti, trascritti in parte da Raynald, Ann. ecc., 1302, §§. 3 e 4, 6 e 7, e 1303, §§. 24 a 27, e più compiutamente riferiti negli Annali d’Aragona, lib. 5, cap. 56 e 60, da Surita, che correggendo la brevità dei contemporanei Speciale e Montaner, e riscontrandosi appunto con gli squarci pubblicati poi da Raynald sulle carte degli archivi di Roma, chiaro mostra aver avuto sotto gli occhi gli originali trattati. Indi si ritrae, che i preliminari di Castronovo, fermati a 19 agosto 1302, furon questi: «Federigo, col titolo di re, regnasse, durante la sua vita, in Sicilia e nelle isole adiacenti; senza tenerle da alcuno, ma independente e assoluto. «Sposasse Eleonora, figliuola di re Carlo. «Scambievolmente si rendessero i prigioni, senza riscatto. «Scambievolmente si restituisser le terre occupate; in dì 15 da Roberto quelle di Sicilia; in dì 30 dal re Federigo quelle di Calabria. «Ad ultimar la cosa e stabilire il tempo e i modi della esecuzione di questi patti, Federigo e Valois venissero a un abboccamento tra Caltabellotta e Sciacca, da cominciare il venerdì 24 agosto e finir la domenica 26. Ivi si stabilisse il titolo da darsi a Federigo, e il regno che avrebbe la prole di lui e d’Eleonora in luogo della restituita Sicilia. «Fosse tregua dal 21 al 26 agosto, e sei dì dopo l’abboccamento. «Valois procacciasse la ratificazione di re Carlo e di papa Bonifazio.» Nell’abboccamento poi tra Sciacca e Caltabellotta si fecer queste mutazioni: «Si chiamasse Federigo, re dell’isola di Sicilia, o di Trinacria, come piacerebbe meglio a re Carlo. «Ai suoi figliuoli si procacciasse il regno di Cipro o di Sardegna. Non asseguita questa promessa, tenessero tuttavia la Sicilia; ma fossero sempre obbligati a renderla per la somma di 100 mila once d’oro. «Le terre di Sicilia si restituissero in dì 22 dal 1 settembre; quelle di Calabria in dì 45. «I beni delle chiese si restituissero allo stato in cui erano prima della rivoluzione dell’82. «Perdonasse Federigo ai ribelli di Catania, Termini, e delle altre città datesi ai nemici; restando loro i soli beni che possedeano fino al giorno che s’alienarono da Federigo; e perdonasse re Carlo a’ Siciliani, quando tornassero sotto il suo dominio.» I quali patti giuraronsi da ambo le parti a dì 31 agosto 1302. Lo stesso giorno promulgò Federigo la pace; annunziando solo ch’ei resterebbe re dell’Isola di Sicilia, e comandando si cessasse dal mandar le milizie a Corleone. Il documento è trascritto nell’Anonymi chron. sic., cap. 70. E re Carlo tosto consentilli, non già Bonifazio; onde nuovamente si cominciò a trattare, tra lui e Federigo. In fine a 12 maggio 1303, Bonifazio promulgò una costituzione pontificia, la cui somma è questa: Fatto il trattato di Federigo col Valois, e chiestane dal primo, per suoi oratori, l’approvazione del papa, disdicea Bonifazio que’ patti pregiudiziali alla Chiesa; ribenediva contuttoció Federigo; dispensava la consanguineità per le nozze sue con Eleonora; e ad aprir nuove pratiche mandava legati in Sicilia. Allora Federigo, riformati i capitoli, fece presentarli a corte di Roma dal conte Ugone degli Empuri, Federigo d’Incisa, e Bartolomeo dell’Isola. Pei quali promettea tener la Sicilia in vassallaggio della Chiesa; pagar in ogni anno, il dì di san Pietro, tremila once d’oro di censo; fornire a richiesta del papa cento lance, ognuna con tre cavalli almeno, pagati per tre mesi, o, in vece di questa, una forza navale equivalente; assoggettirsi in caso di trasgressione alle pene stesse cui andava tenuto il re di Sicilia, duca di Puglia, ec., per la concessione a Carlo I d’Angiò; restituir le chiese nel possesso di quanto godeano prima dell’82; dar alla Chiesa, senza gabella, la tratta di 10 mila salme di grano per la impresa di Terrasanta; fornir, coi giusti dritti di tratta, quante vittuaglie abbisognassero a Roma. I dubbi nella esecuzione di questi patti, rlsolverebbersi dal papa. Così, assentendo i cardinali tutti, fuorchè Matteo di S. Maria in Portico, approvò Bonifazio l’accordo; e dichiarò che, secondo il voler di Carlo, Federigo s’addimanderebbe re di Trinacria, finchè tenesse l’isola. Furon queste le condizioni, e le modificazioni della pace di Caltabellotta. Nè nasca alcun dubbio sull’autenticità de’ documenti citati, se non si leggan le altre due particolarità che ho notato nel testo. Perocchè veramente per altri diplomi, non appartenenti al trattato dei principi, dovette Federigo consentire a Ruggier Loria il possesso di Aci in Sicilia; re Carlo a Vinciguerra Palizzi quello di tre castella in Calabria, come riferisce Niccolò Speciale. Nè in quel trattato avea luogo l’obbligazione particolare di Federigo a Valois, che l’aiuterebbe nell’impresa dell’impero d’Oriente, la quale si scorge dal documento citato qui appresso.
406Gio, Villani, lob. 8, cap. 50.
407Diploma dato di Lentini a 26 settembre 1302. Federigo promettea di dare al Valois, pagati per quattro mesi, dugento cavalli e quindici o venti galee; e permetteagii di armare in Sicilia altre dieci galee e quattrocento cavalli. Questo diploma è pubblicato dal Burigny, Storia di Sicilia, lib. 8, part. 2, cap. 5; e da Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 43. Io dubitava dell’autenticità, solamente perchè Federigo, dopo la detta pace, vi s’intitola tuttavia: Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principato Capuae, contro i patti stabiliti. Ma rifletteva all’incontro che Federigo forse non sì credè tenuto a lasciare quel titolo, prima che il trattato fosse ratificato da re Carlo II, e dal papa. Certo è che ho letto negli archivi del reame di Francia, J. 510, 18, un diploma di Filippo il Bello dato in dicembre 1313, col suggello reale in cera verde attaccato a fili di seta verde e rossa, dove si trascrive questo medesimo diploma di Federigo, attestando il re di Francia aver veduto l’originale in buona forma, e darne egli questa copia. Molti altri diplomi attenenti alla casa di Valois si trovano in simil forma di copie autenticate da Filippo il Bello.
408Nic. Speciale, lib. 6, cap. 11 e 12. Anonymi chron. sic., cap. 70 e 71, ove leggonsi il diploma di Federigo per la pace, dato di Callabellotta il 31 agosto 1302, e quel dei legati del papa per lo scioglimento dalle scomuniche, dato di Lentini il 23 settembre.
409Nic. Speciale, lib. 6, cap. 12.
410Nic. Speciale, lib. 6, cap. 14, 15 e 16.
411Nic. Speciale, lib. 6, cap, 17, 19 e 20. Montaner, cap. 198. Anon. chron. sic., cap 70.
412Diploma dato di Lentini a 1 ottobre 1302, presso Testa, Vita di Federigo II, docum. 22 e 26.
413Diploma dato di Caltabellotta a 31 agosto 1302. Ibid., docum. 24.
414Nic. Speciale, lib. 6, cap, 21 e 22. Gio. Villani, lib. 8, cap. 51. Montaner, cap. 119 e seg. sino al termine della cronaca. Veggasi anche un diploma di re Federigo, dato di Messina a dì 8 ottobre decimaquinta Ind. (1316), pel quale elegge Pietro d’Ardoino cancelliere Felicis exercitus Francorum in ducatu Athenarum morancium, nostrorum fidelium, etc. Tra’ Mss. della Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. G. 2.
415Ferreto Vicentino, lib. 1, in Muratori, R. I, S., tom. IX, pag. 962 e 978.
416Nic. Speciale, lib. 6, cap. 18. Raynald, Ann. eccl., 1302, §§. 5, 6 ed 8, e 1303, §§. 24, 25, 26.
417Raynald, Ann. eccl., 1303, §. 54,
418Ciò avvenne nel 1314. Nell’Anon. chron. sic., cap. 79, leggesi il diploma di Federigo a questo effetto, dato il 9 agosto.
419Non è superfluo al proposito di Federigo, ricordar che Dante nei primi canti del Purgatorio lodavalo come onor della Sicilia; che disegnava intitolargli la cantica del Paradiso, la quale poi andò sotto il nome di Can Grande della Scala; e che, mutando questi onori in acerbo disprezzo, in molti luoghi del Purgatorio stesso, del Paradiso, e anco nel Trattato della volgare favella, il disse avaro, vile, iniquo. I biografi del gran poeta, non chiariscono abbastanza s’ei fosse venuto in Sicilia, nè quali rapporti privati lo avessero mutato sì fattamente riguardo a Federigo. Delle pubbliche cagioni, le quali son più degne dell’Alighieri, ognun sa le grandi speranze de’ Ghibellini alla passata dell’Imperatore Arrigo di Luxembourg; la lega di questo potentato con Federigo; la intempestiva morte d’Arrigo, per la quale tornossi in Sicilia il nostro re, ch’era corso con l’armata siciliana, ad unirsi all’imperatore contro gli Angioini di Napoli. Questo ritorno, se fu necessario per Federigo, tolse ogni riparo al precipizio de’ Ghibellini; e perciò lor parve perfidia, viltà, scelleratezza, come dicono le fazioni oppresse, agli stranieri che fan sembiante di aiutarle e poi si stanno. Ciò dunque spiega al tutto la mutata opinione di Dante. Ecco i luoghi di cui sopra io parlava: Poi disse sorridendo: I’ son Manfredi,....Vadi a mia bella figlia, genitriceDell’onor di Cicilia, e d’Aragona. Purg., c. 3. E qui Benvenuto da Imola notava: Idest honorabilium regum; Quia domnus Fridericus fuit rex Siciliae et domnus Jacobus rex Aragonum; nè può ammettersi ragionevolmente alcun’altra interpretazione: Che non si puote dir dell’altre rede;Iacomo, e Federigo hanno i reami:Del retaggio miglior nessun possiede. Purg., c. 7.Vedrassi l’avarizia e la viltateDi quel, che guarda l’isola del fuoco,Dove Anchise finì la lunga etate:E a dare ad intender quanto è poco,La sua scrittura fien lettere mozze,Che noteranno molto in parvo loco. Parad., c. 19.E quel che vedi nell’arco declivo,Guiglielmo fu, cui quella terra plora,Che piange Carlo e Federigo vivo: Parad., c. 20. Racha, Racha. Quid nunc personat tuba novissimi Federici! quid tintinnabulum secundi Caroli; quid cornua Johannis et Azzonis marchionum potentum; quid aliorum magnatum tibiæ? nisi: Venite carnifices, venile altriplices, venite avaritiae sectatores Sed praestat ad propositum repedare quam frustra loqui. De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12. E qui è da notare che Dante, mentre sì acerbamente detrae a Federigo, pur gli da la tromba come guerriero, ma a Carlo II di Napoli il campanello come sagrestano; riscontrandosi appunto con la descrizione che fa il Neocastro, cap. 112, delle tende di questo Carlo II, e di Giacomo allora re di Sicilia, nelle pratiche della pace di Gaeta, l’anno 1291. V. nel presente volume, pag. 32.
420In un codice del secolo xiv, ne’ Mss. della Bibl. reale di Francia, 4042, l’autore dice aver dettato questa storia settembre, ottobre, e novembre 1287. Veg. anche Tiraboschi, Stor. della lett, ital.; tom. IV lib. 2, cap. 6.
421Veggasi la proporzione delle tasse tra la Sicilia e il reame di terraferma al tempo di Carlo I, nel volume 1, pag. 51 e 52, in nota.
422Lib. 8, cap. 112.