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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Τὸν Διὸς ἐχθρὸν, τὸν πᾶσι θεοῖς
δι' ἀπεχθείας ἐλθόνθ' ὁπόσοι
τὴν Διὸς αὐλὴν εἰσοιχνεύσιν
διὰ τὴν λίαν φιλότητα βροτῶν.
 

Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da Omero quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso Campanella fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo o l'uscita dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella sua lettera a Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata Disputationum Philos. realis lib. quatuor Paris. 1637, ed essa, a parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori, «gl'ingrati padroni», l'aveano tenuto «gratis», il filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, «nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset». Si comprende che il titolo d'«ingrati» dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un «astutum facinus longe mirificentius» di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):

 
ἀρνειὸς γὰρ ἔην, μήλων ὄχ' ἄριστος ἁπάντων,
τοῦ κατὰ νῶτα λαβὼν, λασίην ὑπὸ γαστέρ' ἐλυσθείς
κείμην· αὐτὰρ χερσὶν ἀώτου θεσπεσίοιο
νωλεμέως στρεφθεὶς ἐχόμην τετληότι θυμῷ.
 

Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.

Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora un poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte nell'animo de' lettori, i quali per avventura abbiano seguito con interesse il corso di questa narrazione. Perchè mai il Governo Vicereale volle comportarsi così brutalmente col Campanella, costituendosi anche dal lato del torto, mentre avrebbe potuto ottenerne dal tribunale Apostolico la condanna all'ultimo supplizio? Perchè mai il Governo Vicereale volle far soffrire al Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e la Curia Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per lo meno alcun sentimento efficace della tutela di queste prerogative in persona del Campanella?

Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale, in sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto ritardato. Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile intenderlo, ma è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il sospetto e la diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa causa per una lunga serie d'incidenti, doverono al termine di essa destarsi con maggiore intensità. C'era il gusto della soverchieria anche tra' Governi, e l'abilità si faceva consistere nel soverchiare. Poteva darsi il caso, veramente improbabile ma non impossibile, che all'ultima ora da Roma fosse stato insinuato al Nunzio il risparmio della vita del Campanella, con la condanna p. es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno del Nunzio, si sarebbe invece pronunziato per la pena di morte; chi avrebbe allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la discrepanza nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle galere di S. S.tà? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna considerare le tendenze del tempo veramente incredibili in tale materia, la lotta vivissima e continua, benchè non sempre appariscente, tra Napoli e Roma. In questa lotta, anche più degli spagnuoli, si distinguevano i napoletani, e il Vicerè medesimo, trattandosi di quistioni giurisdizionali, difficilmente riusciva a sottrarsi all'influenza loro nel Consiglio Collaterale; se si avesse, come sarebbe a desiderarsi grandemente, una storia di questo Consiglio, riuscirebbe manifesto che i Consiglieri napoletani, serbando tutte le possibili forme di devozione e di ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e puntigliosi verso Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le quistioni con Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il patriottismo più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito degl'indegni trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi abbiamo parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i biasimi e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso del Consiglio Collaterale negl'incidenti della causa del Campanella490. E pur troppo Roma avea data occasione a' puntigli: durante la causa, i superbi «comandamenti di S. S.tà» erano venuti in campo abbastanza sovente, ma l'ultimo di essi, quello di far sentenziare dal solo Nunzio in una causa di Stato mentre si era pure convenuto altrimenti, sorpassava davvero ogni limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e la risposta fu atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto calma. Roma la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado: riuscirebbe altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in pace, nè per breve tempo bensì per anni, la violazione perfino di quanto si era convenuto fin da principio, di doversi cioè tenere il Campanella in carcere, egualmente che tutti gli altri ecclesiastici, a nome ed istanza del Nunzio, come prigione di lui; e ciò mentre quotidianamente per ogni menomo clerico, ancorchè malfattore de' più feroci, fioccavano i suoi reclami laddove si fosse verificata la più lieve infrazione dell'immunità ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del reato e della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare l'esecuzione di una pena capitale, massime in persona di un ecclesiastico. Trattandosi di reati gravi, non appena il voluto reo era caduto nelle mani della giustizia, per canone indeclinabile si abbreviavano i termini in modo spietato, e si preferiva di andare incontro ad una condanna meno giusta, anzichè ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità della pena era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione mancava. Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal Governo Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai alla pena capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che dapprima il Campanella medesimo avea proposto come il migliore espediente, il carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi anche mitigato, sia pure dietro le potenti commendatizie, e mitigato di certo ulteriormente in modo niente affatto ordinario, ma senza dubbio facendo rimanere negata la giustizia, calpestata ogni maniera di dritto. Tuttavia non deve sfuggire che se in dritto il non essersi proceduto alla sentenza fu una solenne ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il Campanella riuscì ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la sentenza del tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna alla Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure guardarsi dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna piuttosto esser grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie, alle pretensioni, alle diffidenze, a' puntigli, all'abbandono; perfino all'abbandono, poichè se Roma avesse insistito su ciò che era veramente un suo dritto, la cosa non sarebbe andata affatto meglio pel povero Campanella, e si è visto che egli medesimo si protestava energicamente che la sua causa non doveva terminare in Napoli.

Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e mollezza della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo dritto per anni ed anni, si spieghino solamente con l'opinione divenuta comune ad entrambe le parti, che il Campanella fosse un uomo pericoloso per lo Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere senza esitazione, che più si mostrava la rigogliosa vitalità del prigioniero, più si veniva a manifestare la sua dottrina, la sua energia, la sua versatilità, la sua vena inesauribile, più doveva egli essere giudicato pericoloso. La cosa merita di essere ben valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.

Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non lieve di ribellione per la sola parola efficace del Campanella, non potè mai rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto egli si stemperasse in proteste di devozione, e spiegasse nelle sue opere un grande attaccamento a Spagna, non gli accordò mai fede. Vedendolo poi rivolto a Roma assiduamente, con la teorica del dovervi essere una sola greggia ed un solo pastore Sacerdote e Re al tempo medesimo, sospettò sempre che una volta liberato avrebbe potuto riuscire nelle mani del Papa una forza notevole. Così dopo una diecina di anni al più, sebbene il Campanella avesse continuato a dire che si trovava nel Caucaso, in realtà sappiamo che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da potersi veramente chiamare cortese, come il Baldacchini chiamò il carcere di S. Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a tanto si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo via non volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a pentirsene. Gli concesse perfino di tenere insegnamento privato nelle carceri, oltrechè scrivere a sua volontà, porsi in corrispondenza con chi gli piacesse, ricever visite anche da illustri viaggiatori di passaggio per Napoli, e quanto alle opere che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli fare una perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono, mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che si successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine anche il Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non ne ebbero i Vicerè ecclesiastici, il Card.l Borgia e il Card.l Zapatta, e fin dal 3 novembre 1616, certamente pe' favori dell'Ossuna, il Campanella potè scrivere al Galilei «sto quasi in libertà»; ma l'uscita dal Castello non gli venne accordata, se non dopo che scorse oltre un quarto di secolo, dopo che il processo si era già perduto da un pezzo, ed un'ulteriore custodia del prigioniero non sentenziato nè sentenziabile si potea dire, più che inumana, vergognosa. La preoccupazione del Governo fu sempre che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza notevole nelle mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento da esso preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso documento da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che il Campanella fosse liberato, il Card.l Trexo spagnuolo, ammiratore suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che troppo sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito governo di un Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e soggiungeva: «poni mente a cancellare quest'articolo, o almeno a spiegarlo in un senso tale, che l'animo del Re, il quale non è nè può essere Sacerdote, e le orecchie de' suoi ministri non se ne offendano e ti abbiano ancora in sospetto». Nessuno intanto, speriamo, vorrà supporre in noi l'intenzione di scusare il Governo Vicereale, adducendo le concessioni fatte al Campanella e la preoccupazione che gli vietava di accordargli la libertà: noi, forse più di chiunque altro, siamo convinti che il procedimento del Governo fu non solo iniquo ma anche letale segnatamente pel Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla cultura e al carattere di un uomo portentoso, ricadde sulla cultura e sul carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con la «Filosofia dimostrata co' sensi», ed aveva osato concepire un più che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della Chiesa, non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare in fantasie, abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi i quali emersero di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo accorsi al suo privato insegnamento non appena mitigati i rigori del carcere, ne riportarono naturalmente i molti pregi ma anche i gravi difetti. A noi però incombe il debito di spiegare la condotta del Governo e di mostrare che essa non fu capricciosa. Il Campanella era giuridicamente colpevole verso lo Stato, e venne ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per la Spagna: fu questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi provvide con quella ferocia che era la sua forza.

 

Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, nè poteva non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave sospetto di eresia finito con una solenne abiura, poi varie altre imputazioni dello stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un disegno di ribellione d'accordo col nemico del nome Cristiano e un mucchio di eresie, accertati con un processo Apostolico ed un processo Inquisitoriale; c'era più di quanto occorresse, per rimaner sorda alle proteste di devozione, e guardare con diffidenza le opere del prigioniero ancorchè riboccanti di fervore religioso. Come abbiamo dimostrato, la condanna pronunziata dalla Chiesa nel processo di eresia non fu benevola pel Campanella, ma al contrario, e le ripetute istanze fatte perchè si sentenziasse nel suo processo di congiura, dopo di aver dato termine a quello di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo quali pratiche Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo silenzio, a fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario delinquente ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da principio. Conosciamo soltanto con sicurezza, che pur quando si seppe indubitatamente che il processo della congiura non si trovava più essendo stato disperso o bruciato, come accadde nel 1620 a tempo del Vicerè Card.l Borgia il quale volea vederlo e non lo potè avere, nessun reclamo efficace fu sporto da Roma per uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo inoltre che perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato di Urbano VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.e Generale dell'Ordine facesse una dimanda al Re perchè lo concedesse a' Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo: e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al potentissimo Card.l Barberini per questo, ebbe a provare che il Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.e Generale, e ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo Scioppio disse che il Campanella «stava meglio dove stava»491. Conosciamo infine che dietro le insistenze di Mons.r Massimi Nunzio in Ispagna, fautore particolare del Campanella e carissimo al Re, venne una lettera Regia per lui, e sopra un memoriale da lui presentato si decretò in Consiglio Collaterale non la consegna al Nunzio ma la libertà provvisoria con l'obbligo di risedere nel convento di S. Domenico in Napoli; che di poi, in barba del Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e quivi scontò tre anni di pena nel carcere del S.to Officio, come era solito farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; nè per quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più mite di quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in quest'ultimo era stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai permesso in Roma, non solo dentro, come era naturale, ma neanche fuori del carcere, consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere che durante la prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella fosse dipeso anche dalla sua condizione di delinquente politico, giacchè di simili abbandoni si ebbe pure un altro esempio più spaventoso sotto lo stesso Pontificato di Papa Urbano: è noto come finì l'allievo del Campanella fra Tommaso Pignatelli, reo di Stato in un ordine incomparabilmente inferiore a quello del suo maestro, abbandonato al giudizio di un ecclesiastico gradito al Vicerè nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal Papa; egli fu atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico, con la semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo di lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per eresia bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del Campanella prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse dovuto mostrare tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno vorrà attendersi da noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi invece siamo dolenti di ciò che accadde più tardi e che è da tutti glorificato, della benevolenza mostrata al Campanella da Papa Urbano, la quale per verità non fu punto disinteressata, e in ultima analisi finì con la compromissione, con l'esilio, con l'abbandono spietato del filosofo nella più affliggente miseria. Ma pel nostro assunto ci preme ora solamente rilevare e spiegare la condotta di Roma verso il Campanella durante la prigionia. Il Campanella era non solo giuridicamente colpevole ma anche condannato dalla Chiesa, nè giunse ad ispirare fiducia per l'avvenire, e Roma si comportò con lui non diversamente da quanto doveva attendersi da essa. Così lo Stato e la Chiesa vennero a trovarsi tacitamente d'accordo nel far soffrire al disgraziato filosofo un martirio efferato.

In conclusione ci si permetta ancora di dire, che non solamente due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano verificata e punita la congiura e l'eresia ne' pochi ecclesiastici più indiziati e non isfuggiti al Fisco, onde rimaneva del pari giustificata l'opera del tribunale pe' laici, ma tutti veramente in quel tempo ammisero esservi state pratiche dirette dal Campanella per fondare, aiutandolo anche il Turco, un nuovo ordine di cose in Calabria, con nuove istituzioni politiche e religiose. Nè solo pel tempo degli avvenimenti, ma anche per più anni consecutivi questa fu l'opinione generale, partecipandovi del pari senza riserva Agenti di altri Stati perfino in momenti di forte irritazione verso Spagna, come si può rilevare da' Carteggi de' Residenti Veneti che si successero nel Regno: se qualche volta si disse, come il Campanella medesimo affermò, che la Calabria era stata macchiata di falsa ribellione e straziata per questo, si volle intendere che tutta quella regione era stata tenuta responsabile di un fatto concepito e preparato da un gruppo d'individui, e con tale falso giudizio se n'era abusato scelleratamente. Ma, oltrechè negli avversi a Spagna, negli indifferenti medesimi non del tutto inetti, venne mano mano a destarsi la più profonda pietà verso un uomo tanto straordinario, che si vedeva indefinitamente prigione di Stato senza alcuna condanna, mentre, dopo i primi supplizii e le estese carcerazioni, già tutti i complici e in ispecie i frati si trovavano in libertà. Vennero quindi le voci de' pietosi e degli ammiratori ad unirsi alle franche denegazioni ed agli amari lamenti del prigioniero, massime dopo che, mediante l'insegnamento, gli fu permesso un più largo contatto co' migliori, e le corrispondenze, le visite, e sopratutto le opere che si diffondevano manoscritte o si citavano con meraviglia, diedero motivo a far parlare di lui diversamente dalla maniera in cui se n'era parlato prima. Talora in buona fede, più sovente con lo scopo di giovare al prigioniero, lo si disse candido ed ingenuo, vittima del suo spirito d'innovazione scientifica, avversato dagl'invidiosi; si accreditarono le sue discolpe, e fu agevole dimostrarle giuste nominando certe opere da lui scritte; si diffuse che Spagna gli negava la libertà per errore e per tirannia, che Roma l'avrebbe voluto e l'avea voluto, che il Papa era tutto per lui. Cominciò quindi a ritenersi, press'a poco come fino ad oggi i più gravi biografi del Campanella hanno mostrato di ritenere, che egli avea solamente fatto presagi e raccolto profezie per dimostrare la imminente fine del mondo e il secolo d'oro da doversi godere prima di essa, che della congiura era affatto innocente, che il Papa con la sua condanna in materia di S.to Officio aveva inteso trarlo a Roma per toglierlo dalle mani di Spagna, che Spagna lo teneva violentemente prigione in Napoli non avendo potuto trovare tanto che bastasse a farlo condannare, che era infine stato disperso, celato o bruciato il processo, per impedire che l'innocenza fosse riconosciuta e l'analoga sentenza fosse pronunziata. Le denegazioni del Campanella sempre più spinte nel conoscere che il processo non si trovava più, l'interesse spiegato per lui dal Massimi Nunzio del Papa a Madrid, quindi la sua fuga a Roma non appena uscito dalle mani del Governo Vicereale, la sua prigionia nel carcere del S.to Officio in Roma per soli tre anni e non perpetuamente giusta le consuetudini non a tutti note, di poi la benevolenza mostratagli da Urbano VIII senza essersene capiti i veri motivi, tutti questi fatti suggellarono l'opinione che egli era stato davvero innocente, oppresso da Spagna, protetto da Roma; e vi furono allora, come vi sono stati di poi e vi sono ancor oggi, ammiratori del filosofo credutisi in obbligo di purgarlo dalle calunnie sofferte e di cantare le glorie del Papato che spiegò tanto favore verso di lui492. Sappiamo che perfino un cronista calabrese contemporaneo, Gio. Angelo Spagnolio la cui conoscenza si deve al Capialbi, mentre avea dapprima, nel 1599, affermata la congiura di Calabria e la parte presavi dal Campanella, si fece poi a revocare almeno quanto concerneva il filosofo nel 1642493. Già in Napoli Antonino Marzio fin dal 1626 aveva scritta un'Elegia e un Discorso a proposito della liberazione del Campanella facendone la dedica a Urbano VIII e forse in buona fede, ma alcuni anni più tardi in Roma Gabriele Naudeo scrisse uno sfolgorante Panegirico ad Urbano VIII a proposito de' favori accordati al Campanella, e senza dubbio artificiosamente; poichè in un'altra opera posteriore, destinata a rimaner segreta, egli ingenuamente narrò che a breve intervallo il Postel in Francia e il Campanella in Calabria aveano tentato di fondare un nuovo stato di cose, ma non erano riusciti per non avere avuto forze, «condizione necessaria a tutti coloro i quali vogliono stabilire qualche nuova religione»; ed aggiunse, che «quando il Campanella ebbe il disegno di farsi Re dell'alta Calabria, scelse molto a proposito per compagno della sua impresa un fra Dionisio Ponzio che si era acquistata riputazione del più eloquente e del più persuasivo uomo del suo tempo»494. Questa testimonianza di un disegno del Campanella di voler fondare una nuova religione e farsi Re in Calabria, con l'indicazione del modo prescelto e del motivo per lo quale non riuscì, da parte del Naudeo stato in intime relazioni col Campanella nell'anno 1631 e seguenti, poi anche le lettere del Campanella pubblicate in piccola parte dal Baldacchini e in più gran parte dal Berti, avrebbero dovuto richiamare le menti a più esatti giudizii, far ricercare con diligenza i documenti dell'accusa e non soltanto quelli della difesa, far guardare un po' più addentro sulla condotta vera del Papato in genere e di Urbano VIII in ispecie verso il Campanella.

 

Su quest'ultimo punto, ed anzi su tutte le tribolazioni patite dal Campanella dopochè uscì dalle mani degli spagnuoli, nemmeno ci pare che siasi profittato davvero de' documenti del tempo, studiandoli da tutti i lati e con la necessaria equanimità. Si è riconosciuto oramai che il Campanella non finì col godere un tranquillo ed agiato riposo, come del tutto erroneamente era stato ammesso; ma si è posta anche troppo in mostra la sua irrequietezza, la sua imprudenza, la sua testardaggine, senza porre in altrettanta mostra la condotta di coloro che dapprima lo trattarono con benevolenza pel gusto de' dispetti politici e pel desiderio di trarne vantaggiosi consigli, e poi lo abbandonarono, lo sprezzarono, lo lasciarono perseguitare fino alla morte da due ribaldi invidiosi, il P.e Generale dell'Ordine e il Maestro del Sacro Palazzo, d'accordo con un altro ribaldo, il Card.l Nipote, i quali tutti avrebbero voluto vederlo assolutamente annullato. È certo che Papa Urbano, quando gli parve giunto il momento di scovrirsi partigiano di Francia, mostrò benevolenza ed accordò uno stipendio al Campanella, per far dispetto a Spagna ed anche per averne conforti nelle vive apprensioni circa la propria salute, essendo rimasto scosso dalle varie predizioni astrologiche venute fuori contro di lui, e poi dalle sciocche malie che Giacinto Centini con l'assistenza di un frate e di un eremita eseguì per affrettarne la morte: allora egli sentì il bisogno delle conversazioni del Campanella ed anche delle sue contro-predizioni astrologiche, benchè avesse solennemente condannata l'astrologia, onde molto si mormorò in Roma per questo, e il Card.l Nipote vide necessario allontanare un poco il Campanella dal Palazzo Apostolico. È certo inoltre che quando i Card.li di casa Barberini crederono conveniente di non tirarla troppo con la Spagna, la quale anche venne a rilevarsi di molto con la vittoria di Nordlinga, e d'altro lato Papa Urbano giunse a rinfrancarsi intorno alla sua salute mediante gli esorcismi del rinomato frate della Trinità de' monti, e le predizioni astrologiche di un ebreo Abramo che gli assicuravano 24 anni di regno avendo il Sole nella 9.a casa, il Campanella fu abbandonato all'avarizia e alla perfidia del Card.l Nipote, che desiderava risparmiare lo stipendio accordatogli ed era collegato col Generale de' Domenicani, il cui fratello Ludovico già trattava segretamente col Vicerè di Napoli per conto de' Barberini: così, alla richiesta del Vicerè che voleva riavere il Campanella nelle mani, si facilitò l'andata di lui in Francia donde non sarebbe più tornato, invece dell'andata a Venezia dove egli avrebbe voluto recarsi, e mentre il povero esule era ancora in viaggio, il Card.l Nipote commetteva al Mazarini, Nunzio straordinario in Francia, di «screditarlo»495. È certo ancora che il Re di Francia lo accolse con benevolenza e gli accordò una pensione per far dispetto a Spagna, ed anche per averne consigli politici, come lo affermò un testimone irrecusabile, il Foerstner, che vide più volte il filosofo in colloquio col Re e col Card.l di Richelieu su materie di Stato; ma poi la pensione non fu più pagata, e rimasero i dileggi del Richelieu ed anche del Mazarini, atti solo a provare una volta di più che in essi non c'era alcun senso di onestà e di giustizia. È certo infine che ben presto gli fu intimato da Roma di non stampare alcuna opera senza il permesso romano, il quale non veniva mai, altrimenti lo stipendio gli sarebbe stato tolto, esigendo pure che si fosse «quietato» a vedersi sospeso il publicetur per le opere già approvate e stampate, come l'Ateismo, la Monarchia del Messia, i Discorsi della libertà e felice soggezione etc., e a vedersi sospeso l'imprimatur per altre opere da doversi stampare, come il Reminiscentur, il Cento thomisticus de Praedestinatione etc., con la circostanza aggravante del non vedersi restituiti i manoscritti nè significate le proposizioni censurabili in essi rinvenute. Insomma egli avrebbe dovuto annullarsi, veder soppresse le opere sue benchè non condannate, vedersi trattato peggio del Galilei, il quale assistè all'abbruciamento del suo libro ma dopo che era stato condannato. E il Campanella non vi si piegò, e dategli appena 900 lire-tornesi fino al 15 marzo 1636 lo stipendio gli fu tolto, ed invano il povero vecchio, con una continua serie di lettere, fece conoscere le sue condizioni infelici esclamando, «mi muoio di necessità..; egestate premor..; non mi levate la lemosina che S. B. mi donò perchè la levate a Dio crocifisso..; sono uscito della memoria di V. B. in manera che mi lascia morir di fame e di necessità..; crepo di fame..; sto mendicando». Qual meraviglia se in una persecuzione simile siasi mostrato irrequieto, riottoso, imprudente? Sarebbe tempo oramai di non guardare taluni portamenti del Campanella senza tener conto degli strazii che gli furono inflitti, di non accogliere quasi con compiacenza certi giudizii sul conto di lui emessi perfino da chi non si fece scrupolo di trattarlo in un modo tanto abominevole, di riconoscere che tutta la sua vita fu un martirio continuato, e che ben pochi meritano quanto lui l'ammirazione e la gratitudine dovute a coloro i quali fortemente vollero e grandemente patirono.

FINE
490Il Conte di Lemos lo aveva dichiarato a S. M.tà fin da principio (ved. Doc. 36, pag. 42); d'altronde tale era la regola.
491Questa iniqua proposizione del Card.l Barberini trovasi riportata in una delle lettere del Campanella pubblicata dal Baldacchini, quella del 10 agosto 1624, ed era perciò nota fin dal 1840; ce l'ha poi confermata un'altra lettera pubblicata nel 1878 dal Berti, quella del 13 agosto 1624 (non 13 aprile come il Berti lesse, avendolo noi personalmente verificato nella Barberiniana). E tuttavia si è continuato sempre a parlare della gloriosa protezione del Campanella spiegata da Roma, dove è noto che il Card.l Barberini, Card.l Nipote, spadroneggiava.
492Anche oggi di questo favore di Papa Urbano pel Campanella si ha una notizia molto confusa, perfino riguardo al tempo in cui avvenne. P. es. il Berti parla della «pensione mensile che gli fu accordata quando venne di Napoli in Roma»: ma evidentemente una pensione, o meglio uno stipendio per la carica di cameriere intimo, non si potè accordare allora al Campanella, se fu rinchiuso nel carcere di S.to Ufficio per tre anni. E circa questo fatto della prigionia parimente il Berti dice, che il Campanella «passò tre anni sotto la mentovata custodia senza muoverne lagnanza»; ma non poteva muoverne lagnanza se aveva avuta una condanna al carcere irremissibile; del resto, dovè pure trovare chi l'aiutasse ad uscirne, disobbligandosi col fargli la natività, e in una lettera scritta al Papa, quando stava nel S.to Officio, usò le espressioni medesime usate con lo Scioppio quando stava nella fossa di S. Elmo, «Adiutor meus et liberator meus es tu Domine, ne tardaveris». Queste notizie risultano dagli stessi preziosi documenti datici appunto dal Berti (ved. Nuova Antologia luglio 1878 p. 400 e 392, e Lettere inedite, let. 12.a p. 40, e let. 4.a p. 21). Chiunque si faccia a leggere i documenti e a considerare le cose senza idee preconcette, troverà che la Curia Romana non ebbe mai alcun riguardo pel Campanella eccetto quello finale dell'averlo tenuto nel carcere di Roma per soli 3 anni, invece degli 8 anni soliti a farsi scontare, trattandosi di condanna al carcere perpetuo ed anche irremissibile. Ma si deve tener presente che dopo la condanna egli avea sofferto oltre ventitrè anni di carcere, che varii Cardinali e Prelati aveano molta considerazione della sua dottrina, massime poi che sopraggiunsero circostanze straordinarie e del tutto estrinseche, per le quali Papa Urbano, personalmente, mostrò di proteggerlo ed amarlo, e pure fino ad un certo punto. Si può ben dire che quella volta il Campanella non vide chiaro, e ad ogni modo, circa la protezione trovata da lui in Papa Urbano, si sarebbe dovuto accuratamente distinguere più periodi successivi, ne' quali le cose andarono ben diversamente.
493Da buon teologo, lo Spagnolio «reverentemente abolì» ciò che avea detto del Campanella e de' congiunti e familiari di lui; pel resto scrisse, «de coeteris, jure, an fraude et calumnia circumventi, saevis sint affecti suppliciis aut morte puniti, nullo modo contendo». Gli riusciva quindi anche indifferente il determinare se ci fosse stata o non ci fosse stata una congiura.
494Così nel libro intitolato «Considerations politiques sur les coups d'Etat, Hollande 1679» p. 262 e 277. Il libro era stato stampato anche nel 1667 e 1671 sempre assai dopo la morte dell'autore, e come abbiamo dimostrato nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, esso fu certamente stampato per la prima volta in piccolo numero di esemplari, dovendo rimaner segreto, dopo il 1638; poichè nella dedica al Card.l di Bagno, il quale avea data al Naudeo la commissione di scriverlo, si parla del riposo e degli onori che il Cardinale godeva in Roma dopo sette governi di provincie, una Vicelegazione e due Nunziature, e si sa che tutto questo accadeva dopo il 1638, avendo in tale anno il Cardinale rinunziato il Vescovato di Rieti e preso stanza in Roma. – Quanto al «Panegyricus dictus Urbano VIII Pontif. max. ob beneficia ab ipso in Thom. Campanellam collata, Paris ap. Sebast. Cramoisy 1644», esso reca in fine la data del 1632, e sebbene nel titolo ed anche nella dedica si affermi essere stato «recitato» ad Urbano VIII, e l'Echard aggiunga che appunto nel 1632 questo sia accaduto «coram percelebri omnium ordinum consessu», gioverà conoscere un brano di lettera autografa inedita dello stesso Naudeo, che riportiamo tra i Documenti (ved. Doc. 527 b, p. 607). Vi si rileverà che il Panegirico non fu mai recitato, e che nel 1635 l'autore dolevasi di non poterlo dare alle stampe, del quale ultimo fatto ognuno naturalmente intenderà la ragione. Nulla diciamo poi del trovare affermato nel Panegirico, che Papa Urbano beneficò il Campanella «judicium non modo suum… sed Clementis VIII, et Pauli V mentem, in aestimandis Campanellae dotibus mirificis, sequutus»; perfino Clemente VIII avea stimato le qualità del Campanella!
495Tutte le suddette particolarità emergono da' Carteggi e dagli Avvisi del tempo; l'ultima poi, la più scellerata, è venuta fuori co' documenti raccolti dal Bazzoni pel suo bel lavoro intitolato «Un Nunzio straordinario alla Corte di Francia nel secolo 17o», pubblicato nella Rivista Europea 2.o semestre 1880. Notevole riesce l'industria del Mazarini per adempiere alla commissione ricevuta; si serve del noto P.e Giuseppe e vuol servirsi anche del Card.l Della Valletta, ma attesta che il Campanella parla molto bene del Card.l Barberini non che del Papa (ecco una difficoltà). Più tardi fa sapere che ha parlato risentitamente al Campanella perchè vuole stampare alcune opere avendone ottenuta la permissione dalla Sorbona; vuole stampare l'Ateismo e vi si riscalda, «per qualche profitto che ne caverà»; e malvolentieri si lascia persuadere che non stampi, «parendogli che l'opporvisi sia togliergli la gloria» (cose da nulla). Con ciò fa anche sapere che il Richelieu lo stima un chiacchierone, e che veramente il giudizio suo non corrisponde all'ingegno. Senza dubbio in quelle condizioni l'avrebbe perduto ognuno il giudizio; ma che dire poi del giudizio di chi ha cantato inni di gloria a Papa Urbano ed a' Barberini a proposito del Campanella? Ed oggi c'è da temere per soprappiù, che debba il filosofo scontare il risentimento di coloro i quali non sono riusciti a capirlo.