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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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La 1a lettera dell'Arciduca Ferdinando al Vicerè, almeno finoggi, non ci è nota testualmente: sappiamo solo che l'Arciduca scrisse nel principio dell'anno 1608 da Ratisbona, avendolo ricordato egli stesso nella 2a lettera, e che dimandò la liberazione del Campanella, ma l'invio della lettera fu ritardato da un tale che non conosciamo. Tutto induce a credere che in conseguenza di essa, o forse meglio in attesa di essa per prevenire le sollecitazioni, il Campanella sia uscito dalla fossa, rimanendo per altro sempre in S. Elmo. Una lettera dello Scioppio al Campanella senza indicazione di luogo nè di tempo, ma evidentemente riferibile all'aprile o maggio 1608 come vedremo, comincia col dire, «Godo che le tue cose vadano un pochino meglio», ciò che indica essere avvenuto un cambiamento nelle condizioni del prigioniero in febbraio o marzo. Continua poi col suggerire che scriva particolarmente all'Arciduca Ferdinando, rendendo grazie dell'aver cominciato a gustare il frutto delle sue commendatizie, pregando di richiederlo in ceppi al Re di Spagna, con la promessa di restituirlo quando e dove al Re piacerebbe, e dichiarando che in tre mesi avrebbe fatto molte e così grandi cose a vantaggio dell'Arciduca e di casa d'Austria, da dover confessare che a niun altro egli era tanto debitore quanto allo Scioppio che glie l'avea raccomandato. Aggiunge inoltre voler essere spiegate due opinioni sue che venivano censurate: come mai il Peripateticismo, che avea messo tanta radice nella Chiesa, poteva dirsi empio al punto da ritenere Aristotile precursore dell'Anticristo; perchè mai bisognava affaticarsi a propagare la Monarchia Austriaca, se l'Anticristo era prossimo, e per opinione di molti, poggiata sopra alcune parole di Daniele, appena 45 giorni doveano passare tra la morte dell'Anticristo e il giudizio universale. Aggiunge da ultimo che assai avrebbe giovato comunicargli qualcuno de' segreti che egli possiede in beneficio dell'Arciduca. Come ben si scorge, lo Scioppio riconosceva finalmente che le grandi promesse non alienavano niente affatto gli animi de' Principi, ed anzi, furbo com'era, si disponeva a gustarne lui pure i frutti, espilando sempre; coglieva al tempo stesso destramente l'occasione per essere illuminato sulle maggiori quistioni relative all'Anticristo, suo tentativo continuo di espilazione. In fondo poi, il consiglio che dava al Campanella, circa il modo di scrivere all'Arciduca Ferdinando, era identico a quello che il Campanella aveva posto in atto presso l'Imperatore; non avea potuto riuscire presso l'Imperatore, ma conveniva tentarlo presso Ferdinando. – A questa lettera dello Scioppio dovè certamente seguire quella che reca la data del 13 giugno senza l'anno, e poi ancora l'altra in data del 7 novembre egualmente senza l'anno, entrambe da noi pubblicate482; giacchè vi si trovano riprodotte intere frasi dello Scioppio, vi si parla del doversi ricorrere del tutto all'aiuto del patrono Ferdinando, vi si risponde a' quesiti proposti. Nella 1a lettera il Campanella dà la spiegazione de' tempi dell'Anticristo e del Peripateticismo che considera come uno de' capi dell'Anticristo medesimo, distinguendo in questo 7 capi, 7 corna, ed anche una coda rappresentata da Gog e Magog, con molte altre particolarità atte a solleticare maggiormente la curiosità dello Scioppio: ma non si occupa della quistione de' 45 giorni, che interessava personalmente il suo interrogante come si vide in sèguito e come egli avea capito fin da principio; si duole del resto di non aver potuto mandare i Profetali, facendone nascere sempre più vivo il desiderio, e cerca infine qualche sussidio per gli alimenti e la trascrizione de' libri. Ma l'importante per noi è che riconosce doversi riporre ogni speranza in Ferdinando, per opera del quale solamente vede farsi sempre più sereno, mentre da niun altro c'è da sperare; e ripete che deve ottenersi da Ferdinando il suo trasferimento in ceppi presso di lui per tre mesi, manifestando che il Papa non aveva potuto ottenere nè il trasferimento suo a Roma nè la terminazione della causa de jure in Napoli (la quale notizia non saprebbe dirsi donde gli fosse venuta). Nell'altra lettura poi si rileva qualche cosa di più. Lo Scioppio, irritato, non rispondeva già a molte lettere del Campanella, principalmente perchè il filosofo sospettava sempre che egli volesse farsi bello con le opere sue; ma gli premeva di sapere come dovesse interpetrarsi la faccenda de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, poichè il Re d'Inghilterra lo aveva confutato e deriso circa tale fatto; si era quindi rivolto a fra Serafino di Nocera perchè procurasse una risposta dal Campanella, dicendo con furberia che la confutazione cadeva meno sopra di sè che sopra lo Squilla, il quale ammetteva doversi verificare dopo l'Anticristo la Monarchia de' Santi, e però, laddove non producesse argomenti capaci di sodisfare, egli ne avrebbe deriso i Profetali (è manifesto che i Profetali gli aveano toccato il cuore). Questa lettera a fra Serafino era stata scritta il 23 ottobre e giunse nelle mani del Campanella il 7 novembre, d'onde si potrebbe desumere che lo Scioppio si trovasse pur sempre in Germania; ma forse qualche circostanza estranea impedì un sollecito arrivo della lettera, essendo ad ogni modo indubitabile, per notizia tratta da una lettera dello stesso Scioppio scritta assai più tardi a Cassiano del Pozzo e da noi pubblicata, che il 1608 egli tornò a Roma in qualità di Ambasciatore Cesareo per menare innanzi la lega Cattolica, e siffatta circostanza non deve sfuggire. Il Campanella, nella sua risposta, si duole della freddezza dell'amico, e soggiunge, «abbastanza in addietro hai fatto per me, se non vuoi far altro, nessuno ti costringerà»; ma avendo lo Scioppio affermato essere facilissimo e spontaneamente offerto dal suo patrono il trasferimento «ad urbem», dice che lo gradirebbe assai, amando meglio morire in grembo alla Chiesa che essere ben nudrito in mano di nemici, e soggiunge, «non dire di non poterlo fare, poichè altrimenti riterrò essere stato uno scherzo quanto hai professato di aver fatto per me» (forse si alludeva al trasferimento da S. Elmo nella città di Napoli, ma piuttosto a quello da Napoli a Roma, essendo oramai certo che lo Scioppio non credeva utile quest'ultima maniera di trasferimento, perchè il Campanella sarebbe stato rinchiuso nelle carceri del S.to Officio, e ne sarebbe rimasto contrariato il Fugger che lo voleva presso di sè). Del resto, quanto alla Curia Romana, il Campanella dice con disdegno ed alterigia, «cessino di augurarmi il peggio in Roma; la terra tollera più facilmente un Sole che due» (parrebbe che in Roma avessero conosciuto gli sforzi che si facevano in Germania per averlo colà, ma non li avessero punto approvati, e il Campanella avea dovuto persuadersi non esservi per lui alcuna simpatia nella Curia, ma invece una decisa avversione). Chiarisce poi la quistione de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, ed accenna che per lui questo tempo è di molti secoli, facendo avvertire la necessità di distinguere i capi e la coda dell'Anticristo, la necessità di bene interpetrare i tipi e i postipi, il trigono nel tetragono, i fini latenti negli esordii (un mucchio di particolarità astruse); ed aggiunge, «i Profetali potrebbero ora servire, dì al Papa che comandi si portino a lui, e forse io pure sarò trasferito con essi»; quindi cerca di rabbonirlo e dice, «ti aspetto fra breve ed avrai ciò che desideri da me» (le quali circostanze menerebbero tutte a far ritenere che lo Scioppio già si trovasse in Roma), ed infine chiede che gli mandi il libro del Re d'Inghilterra, perchè risponderebbe egli medesimo, e questo forse gli profitterebbe di più (ma non manda niente affatto i Profetali).

Non conosciamo finoggi altre lettere del Campanella allo Scioppio, comunque apparisca possibile che ve ne siano state ancora. Aggiungiamo poi che nell'intervallo scorso tra gl'invii delle due lettere suddette, nell'autunno 1608, dovè accadere la venuta del Fabre a Napoli, nella quale egli «lasciò» al Campanella un quesito Sul Pieno e sul Vacuo; e il Campanella vi rispose, e in fine della sua risposta, che fu da noi pubblicata, disse che stava «più stretto di prima quanto allo scrivere» e che sperava venisse una lettera da Ferdinando, per la quale potesse andare presso di lui; tale circostanza fa determinare con esattezza la data che nella risposta manca, e giova tener presente che a tale data i rigori verso il Campanella non erano del tutto cessati483. Bisogna anche dire, secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano, che tanto lo Scioppio in Germania quanto il Fabre in Roma aveano cominciato ad occuparsi della traduzione delle opere del Campanella: il Fabre faceva tradurre in latino e in tedesco il Dialogo contro i Luterani, e lo Scioppio, che ne sollecitava l'invio al Fugger, faceva tradurre in latino i Discorsi a' Principi d'Italia ed anche il primo libro degli Antiveneti; ma di tutte queste traduzioni non si vide mai la fine. Del pari non si vide mai la conchiusione della mossa del Campanella presso Ferdinando così come era stata concertata con lo Scioppio, vale a dire che Ferdinando scrivesse al Re di Spagna di lasciar venire il Campanella in ceppi presso la persona sua per tre mesi: invece se ne ha una lettera al Vicerè in data di Grätz 3 ottobre 1608, con la quale, accennando all'altra sua precedente inviata nel principio dell'anno, dice che, sebbene non gli sia nota la causa della continuazione della prigionia del Campanella, essendo informato che questo soggetto «per la sua rara dottrina può far gran profitto nella religione Cattolica, sì come massime in questi tempi simili persone sono molto necessarie», prega S. E. «di fare gratia al nominato Campanella, liberandolo quanto prima della sua ritentione», ciò che sarà a lui «et a' principali altri, che fanno la medesima instanza, di molto gusto». Come mai Ferdinando desistè dal chiedere il trasferimento del Campanella presso la persona sua? Forse egli seppe che questo non piaceva punto a Roma, dove per lo meno si dovea pretendere che il prigioniero venisse a scontare nel S.to Officio la condanna riportata, onde il Campanella ebbe poi a dire «cessino di augurarmi il peggio in Roma»; forse anche il progetto di far dimandare quel trasferimento fu un semplice artificio dello Scioppio per indurre il Campanella a rivelargli qualcuno de' segreti, de' quali avea dapprima biasimata la promessa. Forse vi fu l'una e l'altra cosa insieme, ma privi della lettura di tutti i documenti noi non siamo in grado di tentarne l'interpetrazione: solo possiamo dire che il Berti assicura essersi dalla lettera ottenuto il semplice trasferimento del Campanella dal Castel S. Elmo al Castel nuovo. Dobbiamo poi aggiungere che vi fu ancora un'altra lettera di Ferdinando al Vicerè, scritta ad istigazione di Giorgio Fugger in data di Grätz 10 maggio 1609, e in questa non si parlò più di liberazione del Campanella, ma invece di due altre cose ben diverse, che meritano di fermare l'attenzione. Ferdinando pregò S. E. in questi termini: «di dar ordine et procurare affine che detto Campanella finisca senza impedimento e dimora i suoi libri della Matematica, d'Articoli profetali et anco della Metafisica. E tanto maggiore sarebbe l'appiacere se mi fossero mandati essi libri, come spero non l' sarà contrario. E poichè molti degni di fede rendono testimonianza et affermano che l'istesso Campanella habbi per il rarissimo suo ingegno et sottil intelletto molte cose di palesare che ridondano in utile et beneficio della M.tà Cat.ca mio sig. cognato, e della nostra casa d'Austria, sarebbe ben fatto che V. Ecc.za lo facesse venir avanti di sè, et intendesse quelli suoi secreti; si come la prego a farlo per amor mio, et comunicarmi poi quel tanto che l' parerà necessario». A questa lettera il Vicerè avrebbe risposto «che non era in sua facoltà di far uscire il Campanella»: come ognuno vede, tale risposta non ha alcuna relazione con la proposta, e potrebbe intendersi meglio in relazione con la lettera antecedente. Ma ad ogni modo, con l'ultima lettera, a che riducevasi infine la protezione accordata da tutti questi Signori al Campanella? Ad una pura e semplice espilazione e su tutta la linea, col riconoscimento di qualità superiori nell'uomo di cui s'intendeva carpire le opere e i consigli; e ciò forma il più grande elogio del Campanella, e dovrebbero riflettervi coloro i quali trovano in lui tanti difetti, e cercano sparger dubbî perfino sulla sua capacità e sulla sua dottrina. Con tanti difetti, con tanto poca capacità e dottrina, per sì lungo tempo e con sì grande ardore egli fu stimato in Germania quasi indispensabile per tener fronte agli eretici di quell'età: non è a nostra notizia che parecchi individui siano stati stimati altrettanto484.

 

È inutile oramai per la nostra narrazione vedere come anche il Fugger dopo altri tentativi presso la Corte di Madrid, venuto egli medesimo in Napoli nel 1610, si fosse raffreddato definitivamente, e il Fabre e lo Scioppio si fossero persuasi che il Campanella «stava bene dove stava», con accompagnamento anche di dileggi villani e spudorati da parte dello Scioppio: la nozione chiara del disegno di congiura d'accordo col Turco, e il convincimento che varie cose, e tra le altre le apparizioni dì diavoli, fossero state simulate per uscire dalla prigione, tolsero al Campanella ogni appoggio; ed è indubitabile che cessato questo appoggio, i rigori del carcere furono per lui sempre più mitigati dal Governo Vicereale. A noi importa qui principalmente mettere in luce, che in tutti i maneggi per la liberazione del Campanella non vi fu la menoma partecipazione della Curia Romana. Nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella avevamo combattuta la pretesa «missione Papale avuta dallo Scioppio per trattare la liberazione del prigioniero», ed anche negata la venuta dello Scioppio in Napoli che dicevasi effettuata nel 1608, essendoci costui apparso senza dubbio un protettore del Campanella ma col fine recondito di espilarne le opere: i nuovi documenti datici dal Berti hanno provato che vi fu una venuta dello Scioppio, ma nel 1607, ed hanno confermato appieno che la Curia Romana non contribuì per nulla a' tentativi di liberazione ma forse li contrariò, ne hanno affatto smentito che lo Scioppio fu principalmente un espilatore. La missione Papale avuta dallo Scioppio fu già affermata dal Naudeo, il quale nel Syntagma, a proposito de' libri inviati allo Scioppio, fece dire dal Campanella «omnes jam dictos libros Scioppius a me accepit anno 1608, cum venit missus a Paulo V meam tractaturus libertatem, dedi etiam et Atheismum triumphatum»: e rimarrà sempre un esempio di grande distrazione l'aver voluto trovare nella lettera del Campanella con la data del 1607, posta qual Proemio dell'Ateismo e pubblicata dallo Struvio, la conferma di una venuta che dicevasi effettuata nel 1608; così pure l'avervi voluto trovare la conferma della missione favorevole data allo Scioppio da Paolo V, mentre vi si legge, «Levitae et Sacerdotes pertransierunt me absque benedictione… jacebam prastolans mortem sicut Elias sub junipero, tu autem tanquam Angelus me ad vitam excitasti, sed subcineritium panem non attulisti, in cujus fortitudine me usque ad Oreb faceres ambulare». Il Campanella in una prefazione a nomo del tipografo, apposta alla ristampa dell'opera De Sensu rerum fatta in Parigi il 1637, disse che al pari di Tobia Adami e Rodolfo di Bima venuti in Napoli il 1613, anche lo Scioppio si aveva procurate dagli amici tutte le opere che egli avea composte «in anno 1608»; ma in una data più vicina a questa di cui trattiamo, nel 1631, quando potè pubblicare per la prima volta in Roma l'Ateismo debellato, nella prefazione disse, «misi hunc libellum amico ut proficeret in Germania, anno Domini 1607, multosque libros meos»; nè in alcuno di questi due brani parlò mai della missione data allo Scioppio da Papa Paolo. Il Naudeo, che fu il vero redattore del Syntagma, venne forse tratto a scrivere ciò che scrisse, rilevando l'anno dal primo de' due brani suddetti, ed aggiungendo la circostanza della protezione del Papa pel gusto inopportuno di recar gloria al Papato e vantaggio alla riputazione del Campanella: egli avea già fatto lo stesso scrivendo il celebrato Panegirico ad Urbano VIII, in cui non solo esaltò questo Papa qual protettore del Campanella, ma anche Gregorio XV, Paolo V, e perfino Clemente VIII, che aveva certamente inaugurato l'abbandono del filosofo nelle mani degli spagnuoli. Ma, al solito, lo stesso Naudeo parlò nuovamente della venuta dello Scioppio a Napoli in una lettera privata diretta appunto a lui, che fu pubblicata dopo la sua morte e che noi non mancammo di ricordare; e in questa lettera parlò ben diversamente dello scopo della venuta a Napoli, riducendolo alla semplice voglia di vedere il Campanella, senza alcuna missione Papale. «Neapolitanum iter, quod ejus tantum invisendi gratia susceptum a te fuit»; e del resto per non mancare all'abitudine dell'elogio continuo, vero o falso, il Naudeo aggiunse essere stato dallo Scioppio procurato al prigioniero l'assegno di una non mediocre quantità di danaro per vitto e la concessione di una somma libertà, i quali beneficii sappiamo veramente essere stati goduti dal prigioniero alcuni anni dopo485. – Non paia eccessivo questo trattenerci a lungo sul fatto della missione Papale: se ci fossero elementi capaci di accreditarlo, il fatto riuscirebbe sufficientemente grave; e per esso appunto siamo entrati ne' tanti e tanti particolari di ciò che avvenne dal 1607 in poi, giacchè altrimenti ci sarebbe bastato dire che il Campanella non trovò ascolto favorevole alle sue dimande nè in Roma nè in Spagna, in nessuna delle due parti che avrebbero potuto realmente dare un termine a' suoi guai. Qualora avesse dovuto accogliersi il fatto di una missione di Paolo V «per trattare la libertà del Campanella» od anche una partecipazione di Paolo V a' maneggi altrui per farlo uscire in libertà, sarebbe apparso molto naturale essere state mandate buone al Campanella le ragioni da lui addotte in difesa presso la Curia, circa la congiura e l'eresia, essersi riconosciuta ne' guai del Campanella una pura e semplice soperchieria di Spagna: per verità questo non avrebbe scosso dalle fondamenta ciò che abbiamo esposto massime intorno alla congiura, mentre la Curia mille volte pretese essere stati calunniati i delinquenti sol perchè clerici; ma avendo spesso abbandonato gl'imputati ecclesiastici anche appena sospetti, ogni qual volta trattavasi d'imputati politici, sarebbe sempre rimasto un motivo di dubbî e di perplessità. Invece è chiaro che Paolo V, già guarito della mania dell'immunità ad ogni costo dopo la faccenda di Venezia, avrebbe potuto solamente reclamare dal Governo Vicereale che si pronunziasse una volta la sentenza nella causa della congiura in persona del Campanella, la qual cosa nemmeno il filosofo desiderava, ma non mai trattare perchè egli fosse posto in libertà. Essendo stato dal suo antecessore, con un Breve in piena regola, istituito un tribunale ecclesiastico speciale in Napoli, non avrebbe potuto seriamente esigere che il Campanella fosse stato giudicato dal tribunale Romano com'egli dimandava: è superfluo poi dire quanto grave sarebbe riuscito l'accogliere l'altra dimanda del Campanella, l'annullamento di un giudizio di eresia, menato innanzi con tutta la solennità possibile, sotto l'ingerenza continua della rispettiva Congregazione Cardinalizia preseduta dal medesimo Papa antecessore. Ed appunto perchè vi era stata una condanna in siffatto giudizio, riesce chiaro che il Papa avrebbe sempre dovuto esigere che il Campanella, non appena uscito dal carcere di Napoli, l'espiasse, e non andasse già a predicare contro gli eretici, mentre con quella condanna egli medesimo era stato implicitamente dichiarato un eretico: sotto tale rispetto è pure da notarsi che lo Scioppio, consapevole della condanna e tanto svisceratamente attaccato al Papa e alle istituzioni Cattoliche, vi si sia mostrato davvero tanto poco ossequente; ma vediamo anche oggi dove vada per solito a parare lo sviscerato attaccamento al Papa e alle istituzioni Cattoliche.

 

Inutili dunque riuscirono gli appelli, le suppliche, le lettere del Campanella, e gli sforzi de' suoi protettori, compresi quelli attuati per mezzo dello Scioppio, non approdarono a nulla: egli rimase nel carcere, dove i rigori furono ulteriormente mitigati sempre, ma non si venne mai più alla sentenza, essendosi poi col tempo perfino disperso o bruciato il processo, sicchè, anche volendo, non si sarebbe potuto sentenziare. E vogliamo dire che egli non cessò mai di serbare viva gratitudine verso coloro i quali si adoperarono per lui, verso lo stesso Scioppio, sebbene avesse avuto ragione di convincersi che si era servito delle opere trasmessegli per comporre le proprie. Appunto nella prefazione dell'Ateismo debellato stampato nel 1631, ricordando di aver mandato «ad un amico» quel libro con molti altri, il Campanella aggiunse, «quibus ad suorum compositionem profecit», ed augurò all'Ateismo «meliores fructus apud veritatis et non propriae gloriae cultores»: nella prefazione poi della ristampa parigina dell'opera De Sensu rerum, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli si era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle opere avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e francesi, che avute le opere «nulla fecero per la gloria dell'autore», aggiunse «nisi Scioppius pro vita in principio». Così fino agli ultimi anni suoi il Campanella, ricordando il male, non dimenticò il bene, e ciò prova la bontà della sua natura, la quale del rimanente è attestata anche da varii altri fatti memorabili: basta considerare la difesa di Galileo Galilei, che scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di Napoli, e la difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno successo quando se lo trovò a lato nel carcere del S.to Officio in Roma486. Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli opuscoli epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi, riferibili al 1608, furono gli opuscoli Sul Peripateticismo e Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che forse rappresentano le risposte al Re d'Inghilterra delle quali si trova fatta menzione nel Syntagma, ed inoltre quello Sul Pieno e sul Vacuo diretto al Fabre. Al sèguito di essi si può mettere quello Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda calda, che dovè essere di maggior mole e vedesi già preconizzato nell'opuscolo antecedente Sul calore estivo: esso apparisce riferibile a questo periodo, nel quale certamente il Campanella trovavasi in assidua corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima sua lettera al Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche dire che vi furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers, secondochè risulta dalla menzione fattane nel Syntagma. Compose inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data conosciuta. P. es. non si può dubitare che l'«Elegia al Sole», composta quando stava ancora nella fossa, debba dirsi della fine di marzo 1607, poichè vi si parla del sole in ariete e del tempo in cui Gesù risorse, ciò che ci mena alla Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che in quest'anno veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il 26 marzo, mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in aprile; dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella lettera a Mons.r Querengo del luglio 1607:

 
«Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,
invidio misero tutta la schiera loro».
 

Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè il povero prigioniero «un meschino condannato dall'opinione popolare e di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo», ci apparisce quello che ispirò i Sonetti «Della plebe» ed «A certi amici, ufficiali e Baroni» etc.; ma perfino le lettere al Papa, oltrechè l'Ateismo debellato, recano pensieri posti del pari in versi quasi letteralmente, nè possiamo far altro qui che indicare tale criterio per la ricerca delle date. E poichè abbiamo citati que' due Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno «Della plebe» il sentimento di un legittimo disgusto ci apparisce fin dal titolo predominante su quello della compassione, e nell'altro «A certi amici» il contesto di tutta la proposizione, là dove si dice che «un piccol vero gran favola cinge», non rende queste parole applicabili propriamente alle imprese tentate in Calabria, come è parso ad un egregio storico; nè sappiamo poi resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui il Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile a coloro che vanno per la maggiore:

 
«Nè il saper troppo come alcun dir suole,
ma il poco senno degli assai ignoranti
fa noi meschini e tutto il mondo tristo».
 

Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che tutte queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente fino al 1613, come pure le note delle quali vennero corredate dallo stesso Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta e non col solo criterio del merito filosofico e letterario, bensi con quello pure della convenienza politica e giudiziaria, costituiscono pur sempre un fonte prezioso di ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri del Campanella, le notizie de' quali doverono sottostare a tanti garbugli. Come da un lato la Città del Sole mostra le idee riposte del Campanella, così questa Scelta delle Poesie filosofiche con l'esposizione, studiata con amore ed accorgimento, rivela notizie importanti e testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte alle testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso: nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito della edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca de' PP.i Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune considerazioni su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri lettori487.

Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo, rimanendo sempre in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608, dopo che era stata scritta la 1a lettera dall'Arciduca Ferdinando nel gennaio: noi eravamo pervenuti allo stesso risultamento con calcoli fatti sopra una notizia, per altro poco chiara, che trovasi nella nota posta in coda alla Canzone «Della Prima Possanza»488. Quivi si legge che egli uscì dalla fossa, in cui stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere scritta quella Canzone, «sebbene ci stette tre anni ed otto mesi»: il «sebbene» rende poco chiara la notizia, ma ritenendo l'entrata nella fossa avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la Canzone fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè accadere verso il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come rimanga provato sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa deve dirsi quella da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con precisione la data del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, e finora si ha in modo vago che il trasferimento sarebbe accaduto dopo la 2a lettera di Ferdinando, vale a dire dopo l'ottobre 1608: dal Syntagma si ha dippiù che nel 1611 era già accaduto un altro trasferimento dal Castel nuovo al Castello dell'uovo. La conoscenza della data precisa del 1o trasferimento, dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe anche per fermare una circostanza fondamentale, capace di contribuire al chiarimento di un fatto della vita intima del Campanella, che è affermato dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario. Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso Borrelli, alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un monumento, se vi fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della dottrina e della virtù; è noto che verso questo tempo egli nacque nel Castel nuovo, e che una tradizione vorrebbe fosse nato dal Campanella489. Aggiungiamo poi che tanto nel Castel S. Elmo, quanto nel Castel nuovo e del pari nel Castello dell'uovo, il Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò sempre a dire di trovarsi «nel Caucaso»; altre volte disse di trovarsi «nella Ciclopèa caverna»; questo rilevasi dalle Lettere e dalle Poesie. Perchè mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte sue lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi avere avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed annunziare agli uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da Dio. Ma nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò esplicitamente della sua condizione di Prometeo, consegnando l'opera dell'Ateismo debellato con queste parole: «Eia mi Scioppi, cape facellam hanc, in pectoribus hominum interclude, si forte ex ruderibus fiant animalia, ex animalibus homines; tibi debetur hoc munus, qui hujus saeculi es aurora; ego tanquam Prometheus in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus sum munere, abusus sum donis ejus, ebibi indignationem ejus». Intanto nella lettera medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro che l'aurora del secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto concetto che il Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo (principale ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto che siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di Eschilo: aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno, ed essersi sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito «per avere troppo amato gli uomini»; aspettarsi un giorno la liberazione e il trionfo. Su questo ultimo fatto non cade dubbio, sapendosi dalle sue Poesie che egli sperava doversi al termine del suo carcere gridare «Viva, Viva Campanella»; sicchè da tutti i lati emerge abbastanza chiara anche la vera condizione sua per la quale ritenevasi punito, conforme a quella dichiarata dal Prometeo d'Eschilo:

482Ved. Il Codice delle lettere, pag. 46 e 68.
483Ved. Il Codice delle lettere, pag. 42. Dobbiamo fare avvertire che in questa lettera il Campanella dice dippiù esservi disgusto fra Abacuc e il Tutore: oggi, sapendosi dall'Epistolario romano che fin dall'ottobre 1607 era stato dal Fugger mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, per far evadere il Campanella, potrebbe lo Stefano esser ritenuto per Abacuc, disgustatosi col Tutore ossia fra Serafino.
484Abbiamo cercato di vedere con la maggiore attenzione se nell'Archivio di Stato in Napoli fosse rimasta qualche traccia di questo Carteggio dell'Arciduca Ferdinando ed anche dell'Arciduca Massimiliano intorno al Campanella. Ci pare che le tre seguenti Lettere Regie vi si riferiscano: ma il mistero col quale sono scritte vieta di ritenerlo in modo assoluto. E però le mettiamo qui per lasciarne giudici i lettori, pregandoli di ricordarsi che primo a scrivere fu Massimiliano, che pochi giorni dopo scrisse Ferdinando, nel gen.o 1608 (lettere giunte con ritardo), e che Ferdinando scrisse ancora in sèguito, il 3 8bre 1608 e il 10 maggio 1609. – 1.o «El rey. III.o Conte de Venavente Primo mi Visso Rey, lugar teniente y Capitan general del Reyno de Napoles. He visto vuestras cartas de los 23 de mayo y 30 de iunio con los papeles que acusan tocante a mejorar el presidio y poblaçion de puerto Ercules, y sobre el socorro que pide el Archiduque Massimiliano Ernesto, y agradezco os mucho el cuydado que teneys de lo primero, en lo qual quedo mirando para proveer lo que convenga, y en lo que toca a lo que os escrivio el dicho Archiduque no se offrece que dezir, sino que fue açertado lo que le respondistes y lo sera que siempre vays con la misma consideracion no resolviendo nada sin avisarmelo, porque ay mucho que mirar en la forma de hazer aquellas ayudas. De Valladolid a 10 de setiembre 1608. Yo el Rey». – 2.o «III.o Conde etc. Las cosas de la Religion Catolica en Alemana se van poniendo en tan mal estado que obliga a atender a su reparo con summo cuydado, y haviendo entendido el en que se hallan los Ser.mos Archiduques ferdinando y leopoldo mis hermanos por lo que toca a sus estados, He acordado de engargaros y mandaros, como lo hago, les asestays y ayudeys en lo que pudieredes de esse Reyno, y demas desto procureys que por todas vias se entienda que yo de acudir a la defensa de la causa Catolica y al empaxo de la cassa (sic) de Austria en qualquier evento, como debo, para que con esto se reprima el atrevimiento de los hereges, y avisareysme de lo que hizieredes, y se os ofreçiere açerca desta materia. De Segovia a 13 de agosto 1609. Yo el Rey». – 3.o «… queda entendido lo que el Archiduque ferdinando mi Hermano os ha embiado a pedir con el Conde fu.o efforça de Porçia, y que os le aveys respondido y ya se os ha avisado lo que es mi Voluntad, se haya por agora ensto, a quen no se offreze que anadir, sino que aquellas cosas me dan el cuydado que es razon y se va mirando en lo que se deve hazer… De Segovia a 22 de Agosto 1609. Yo el Rey». (Da' Reg.i Litterarum S. M.tiz vol. 12, fol. 878, 1053, 1703).
485Ved. Gabr. Naudaei Epistolae, Genevae 1667. Ep. 82, pag. 614.
486Il Berti, nella Vita del Campanella stampata nella Nuova Antologia (luglio 1878, p. 615), parlando del carcere di Napoli dice che il Campanella «ricevette pure nel carcere la visita del celebre Gerolamo Vecchietti, di cui prese a difendere talune opinioni che erano state allora giudicate eretiche»; e in una nota aggiunge, «coteste opinioni si riferiscono alla cronologia sacra nella riforma del Calendario Giuliano». Ma in un Avviso di Roma della Collezione esistente nella Bibl. Corsiniana (cod. 1768) abbiamo trovato in data del 30 aprile 1633: «Il Vecchietti fiorentino dopo esser stato sett'anni prigione all'Inquisitione questa settimana n'è uscito». Era dunque prigione fin dal 1626, e quindi compagno del Campanella; e le Lettere Inedite del Campanella dateci dallo stesso Berti ci mostrano quale sia stata veramente l'opinione eretica, per la quale passò pericolo di essere dannato al fuoco da 18 Teologi d'accordo, l'aver negato che Cristo avesse mangiato l'agnello (ved. le Lett. da Aix 2 9bre 1634, da Parigi 4 10bre 1634, da Parigi 22 7bre 1636).
487Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 131 e seguenti.
488Ved. le Poesie, ediz. D'Ancona pag. 151.
489Di testimonianze relative a tale notizia non conosciamo finora altra più antica di quella del Bulifon, cronista della fine del 1600 e principio del 1700; ed essa viene a luce oggi per la prima volta, comunicataci dal chiarmo Scipione Volpicella. Si sa che il Bulifon, libraio, registrava notizie di ogni sorte per compilare il suo così detto Cronicamerone; ma essendo stato saccheggiato il suo negozio e il suo domicilio il 1707, i manoscritti andarono perduti con tutto il resto, e poi se n'è venuto ricuperando qualche volume più tardi. Due di essi stanno nella Biblioteca Nazionale (X, F, 51-52), altri in mano di particolari, ed uno di questi ultimi reca: «La notte che divide l'anno 1679 dal 1680 morì in Roma quasi in miseria il celebre matematico Giovanni Alfonso Borelli d'anni 72. Egli nacque spurio, come dicono, nel Castello Nuovo di Napoli da un officiale spagnolo, sebbene v'è chi dica dal Padre Tommaso Campanella ivi carcerato. Ma restò tanto odioso di quella nazione che si assunse il cognome della madre. Questo nelle sue opere stampate e ristampate in più luoghi diede saggio della profondità di sua dottrina, con la quale gareggiò con li primi ingegni dell'Europa. Non si deve tacere che la maggior parte delle esperienze fatte nell'Accademia del Cimento in Firenze sono del nostro Borelli in quella aggregato. Le opere da lui stampate sono De vi… (sic), De motibus a gravitate pendentibus, De motionibus animalium, Dell'incendio del Vesuvio, e Euclide restituito». – Ognuno apprezzerà, come merita, la notevolissima ragione del cambiamento di nome del Borrelli addotta dal Bulifon, tanto più che da' posteriori è stata variamente e meno acconciamente interpetrata. Noi pertanto abbiamo raccolto e discusso in una speciale Illustrazione quelle poche cose che finora ci è riuscito di trovare su tale argomento ne' libri parrocchiali del Castel nuovo e nell'Archivio di Stato. Ved. Illustraz. V, pag. 646.