Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella stanza del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma evidentemente bisogna guardare un po' in alto per la faccenda in quistione. Senza dubbio ebbe a visitarlo più o meno spesso il Marchese di Lavello Gio. Geronimo del Tufo, ed abbiamo visto che «nel 1603» ci fu una sua visita ricordata nel Syntagma. Pertanto il Residente Veneto, in data del 3 febbraio 1604, riferiva al suo Governo, che pareva si andassero «risvegliando novi pensieri del Campanella che si trova in Castello per li trattati da lui maneggiati in Calabria», che era stato ultimamente di ordine del S.r Vicerè «carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo, sospetta alla Ecc.za sua che tenesse le mani in simili negotii», e che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.425. Ecco un nome ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul progetto di evasione stato scoperto: il Residente potè non essere informato della cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che davvero non lo fu mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze che si facevano, e di una carcerazione, che riesce del tutto naturale credere motivata da qualche indizio o sospetto di maneggio in tale faccenda. Anche il Gagliardo nelle sue ultime deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a' motivi, ciò che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto di evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese «per un tempo stette carcerato in detto Castello»426. Considerando che il Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna conchiudere che il Marchese ne fosse già uscito a questa data, e però vi fosse rimasto un mese o poco più: naturalmente tale circostanza mena a ritenere essersi avuto per lui un semplice sospetto ben presto chiarito senza solida base, oppure aver lui avuta una parte del tutto secondaria ed anche inconsapevole ne' maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi? La mente ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel Panegirico ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la liberazione del Campanella, citò i «tot evanidos Fuggerorum ausus», ci aveano indotto a ritenere che con ogni probabilità i potenti mezzi di questa famiglia avessero potuto preparare l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario del Fabre ora pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che in particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella, convalidano sempre più tale opinione427. Aggiungiamo inoltre che non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco che praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma dal Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo trovavasi nel Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al quale facevano capo i parecchi Greci che venivano in Napoli con progetti di imprese da corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo delle spie del Levante per conto del Governo Vicereale, si era dilettato di simili imprese perfino nell'Adriatico, che la Serenissima considerava come suo Golfo: dietro richiami del Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel nuovo (6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina, e costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona «nelle viscere de i stati da mare di quella Serenissima repubblica», come diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo 1600 fu liberato per tentare l'impresa, essendo stato il suo ufficio già dato a un Jeronimo Combi: fatti i preparativi, il Lanza si unì con un Michele Protetri, egualmente bandito di Corfù e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo, e con lui si partì di notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono insieme d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, ma non riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti contro i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a prevalere su Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di spedizioni segrete: nè gli mancarono mai collaboratori levantini, specialmente Greci, che venivano in Napoli e si dirigevano appunto a lui nel Castel nuovo, con disegni di sorprendere senza pericolo, sicuramente, il tale o tal altro Castello turco e farvi ottima preda428. Riesce quindi del tutto verosimile che qualcuno di costoro siasi preso l'incarico di procurare la fuga del Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale poi finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò scritto il Campanella medesimo.
Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e sarebbe pure, naturalmente, di poco anteriore la data della comparsa del diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento incusso a quel Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe sembrare una grossa obiezione la difficoltà di una riunione di più individui, perfino con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma bisognerebbe non aver mai conosciuto la curiosità de' carcerieri, prigioni e visitatori di ogni genere, in fatto di cose soprannaturali, sempre supposte feconde di grandi guadagni, in grazia de' quali non c'è nè compromissione nè rischio che valga a trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna dire che la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta influenza sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo per ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto prossimo alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva conoscere la avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo facilmente il motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto dal Governo che il tribunale si riunisse per la spedizione della causa degli altri frati senza potersi occupare del Campanella, tanto più dopochè il Nunzio aveva insistito nel voler sentenziare egli solo; con ciò ci spieghiamo pure che il Nunzio abbia voluto dissimulare questo avvenimento rincrescevole, compiuto in dispregio di lui e della Curia. È chiaro infatti che dovendo il tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse anch'egli rimasto nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare, senza recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè fin da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi, nel progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che riescono a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di notarle a misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far avvertire che la scoperta del progetto di evasione non diede propriamente motivo di far finire il processo del Campanella nella barbara guisa in cui finì, ma diede soltanto occasione di giustificare in qualche modo il sistema dell'inerzia che era stato deciso ed attuato già da molto tempo; quando vi fu pericolo di vedere questo sistema compromesso, si venne nella determinazione di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a S. Elmo.
Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa, e tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i Giudici a riunirsi e ad occuparsene nella 2a metà di luglio 1604. D. Pietro de Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato, si decise allora a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole testuali del Nunzio in qual modo: «Trattammo degli altri quattro che restavano, et l'uno, Fra Domenico da Stignano, come più colpevole, fummo d'accordo che si condennasse per tre anni in Galera, gli altri che restavano, attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti, si licentiassero, con questo però che non potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di S. S.tà Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo che in esse il Sig.r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come prima, contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che non voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à N. S.re il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi chiese copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi necessario metterla anche nel processo». Così veramente D. Pietro discusse e fu d'accordo col Nunzio, il quale si attenne all'interpetrazione che avea data alla risoluzione Papale; e fra Domenico Petrolo fu condannato a tre anni di galera «come più colpevole», sicchè fino all'ultimo momento venne ammessa la colpa; gli altri poi furono rilasciati solamente coll'obbligo dell'esilio dalla Calabria, ad arbitrio di S. S.tà «attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti». Si vede qui ancora una volta con quanto poca attenzione il Nunzio si era occupato e si occupava di questa causa: per la congiura il solo Petrolo aveva avuto il tormento, gli altri non ne avevano avuto punto, siccome mostrano anche due loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242); l'avevano bensì avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto esente fra Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra causa. Ma riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel voler figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della risoluzione contraria di S. S.tà, come del pari l'atteggiamento del Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario Apostolico, per tanto tempo non si era curato di leggere la risoluzione Papale che lo riguardava, ed in ultima analisi volle prender consiglio dal Vicerè intorno ad essa: in tal modo egli mostravasi quello che realmente era, e che un Breve Papale non valeva a far cessare di essere, il rappresentante del Governo. Ed il Nunzio continuava a dar prova di una sorprendente ingenuità, obiettandogli che il parlarne al Vicerè «non serviva a niente, toccando a N. S.re il risolver sopra ciò». Fin allora dunque il Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli effettivi di D. Pietro col Governo erano ben superiori a quelli fittizii col Papa creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le tergiversazioni di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state spontanee ma prescritte dal Vicerè.
Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli avrebbe parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa «conforme a quello che comanda S. S.tà»; ma intorno al Campanella disse di nuovo, «bisogna lasciarlo star così per buon rispetto, per il tempo che sarà necessario». – Queste notizie trasmesse a Roma non vi fecero punto cattiva impressione; bastava che il comandamento di S. S.tà fosse per trionfare, il resto non importava nulla. Il 30 luglio429 il Card.l Borghese partecipava al Nunzio, che a S. S.tà era piaciuta la risoluzione sua di non ammettere a congiudice il de Vera e farne capace il Vicerè, che ordinava si regolasse tuttavia conforme alle lettere scritte ne' mesi passati, nè gli occorreva altro. E pel Campanella? Nè S. S.tà, nè alcuno de' Cardinali componenti la Sacra Congregazione, innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata letta, si diedero il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto si è finoggi creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice rimanesse a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione della sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche ragione per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perchè mai non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?
Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio, il Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione sull'incidente. A questa data430 il Nunzio faceva sapere a Roma, che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato «diverso» da quello di prima, perchè gli avea detto che non potendo D. Pietro de Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e nominato un altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che invano egli avea replicato al Vicerè non esser questo necessario, «perchè il fine principale di N. S.re era stato che intervenisse qualch'uno de' Ministri di S. M.tà acciò vedesse come passava la causa, la qual cosa era fatta» (!); dimandava quindi nuovo ordine, poichè aveva saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute e le sentenze erano in mano del medesimo D. Pietro, nè egli poteva andare oltre «senza qualche turbatione», che non gli era parso di dover eccitare mentre la faccenda poteva avere altro rimedio. – Ma il rimedio non poteva essere altro oramai che quello di cedere, poichè si aveva manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il Vicerè fosse stato mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente aveva adottato un modo di procedere del tutto opposto a quello del suo antecessore Conte di Lemos. Per quanto costui si era mostrato attivo, insistente, premuroso, personalmente impegnato, altrettanto egli aveva preferito mostrarsi freddo, inerte, distratto, poco informato; e lusingando a tempo la vanità della Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i richiami sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella, e fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati, rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della persona di sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo provvedere alla forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed anche non aver fretta, mentre al Nunzio non rimaneva che zittire. Costui avrebbe potuto e dovuto gridare quando il Campanella venne tradotto al Castel S. Elmo a sua insaputa, ed avrebbe potuto e dovuto ricordarglielo la Curia vedendo che egli non se n'era dato pensiero: ma per appellarsi alle convenzioni stabilite col Governo Vicereale, bisognava non pretendere di trasgredirle.
I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro causa, ed il 20 agosto431 il Nunzio ne dava conto a Roma, partecipando essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue sollecitazioni, che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che desiderava in luogo di D. Pietro de Vera.
E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento intorno alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è che bisogna ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle Lettere di Roma, e notare una lacuna evidente di tre registri delle Lettere di Napoli, da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio 1605. I soli documenti di questo periodo, che ci rimangono, son quelli pervenutici con gli Atti processuali inserti nel noto Codice Strozziano: 1o il Breve Papale del 27 ottobre 1604, calcato sull'altro precedente, col quale si ricorda la concessione fatta già al Conte di Lemos, si menziona la lettera ricevuta dal Conte di Benavente circa il matrimonio di D. Pietro de Vera, che «lo stesso Nunzio pretende» aver fatto spirare la facoltà accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto in luogo del De Vera, accordandogli identica facoltà432; 2o le note marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de' quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti le sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in galera, per gli altri il rilascio433. – Si può dunque ritenere che il Vicerè presentò direttamente a Roma il nome di colui che volea sostituito al De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad occuparsene nel suo Carteggio, e che venuto il Breve potè il tribunale tener seduta tutt'al più a' primi di novembre, e senza discussione emettere le sentenze secondo le minute già fatte e ne' termini stabiliti fin dal luglio precedente. Aggiungiamo qui che D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come si trova talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de Vera e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca data, nel 1602434. È superfluo poi far avvertire che doveva esser clerico; ed avendo di certo funzionato coll'apporre solo il suo nome alle sentenze, possiamo dispensarci dal discorrere ulteriormente di lui. Intanto la causa del Campanella rimase tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad occasione delle sentenze emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia tenuto obbligato di spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui: la lacuna sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette di affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò il suo ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella, sicchè bisogna dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e dalla Curia Romana affatto dimenticato.
Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali egli stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un memoriale che cominciava con le parole «Ill.mo e Rev.mo Signore, Noi amici, e parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella Sacerdote della Religione di S. Domenico carcerato in S. Ermo». Questo documento citato dal Nicodemo, e così pure dal Cipriano, dietro una nota rimessa loro dal Magliabechi intorno alle opere manoscritte del Campanella a quel tempo esistenti nella Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente perduto435; e la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime perchè le sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere i nomi de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di quella scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran parte la cultura napoletana del secolo 17o, secolo più calunniato che conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe nemmeno dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio 1604, allo scopo di reclamare contro i pessimi trattamenti che il Campanella soffriva senza ragione, ovvero sia stato presentato nella fine di ottobre 1604 ed anche più tardi, quando il tribunale era prossimo a riunirsi o si era già riunito per la definitiva spedizione della causa de' quattro frati, allo scopo di ottenere che la causa del Campanella fosse egualmente spedita. Ma quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed anzi veramente da rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in là che a questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi aderenti non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il memoriale rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente con esse andò poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.
Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del Petrolo che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per servire sulle galere di S. S.tà, il Campanella rimaneva in Castel S. Elmo, indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse, che i frati «subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella religione…» mentre in quanto a lui «non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma, nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli, perchè non poteano condannarlo in altro, e perchè non andasse a Roma dove sapean c'havea d'esser liberato. Però con crudeltà et astutia grande lo posero in Castel Santelmo dentro a una fossa oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla puzza oscuro et acqua, et quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci entrava luce, stava inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di vitto malamente». Che il Petrolo abbia dovuto essere graziato della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli, bisogna ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in quel tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del Gagliardo, in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra Pietro di Stilo nella 1a metà di quell'anno era già nel suo convento in Stilo, non sappiamo se in carica o no; ed un'Informazione presa contro fra Pietro Ponzio in Nicastro in data di dicembre 1604, ci dà notizia che fra Pietro trovavasi allora nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed era divenuto abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del Vicario capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino che sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione436. Che poi il Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo menomamente dubitare: abbiamo veduto qual'era la giurisprudenza del S.to Officio intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il Governo Vicereale non poteva non preoccuparsi di questa circostanza, e tanto più ricorrere ad ogni mezzo per non lasciarsi sfuggire di mano l'infelice filosofo. Ma che non sia stato permesso di far la causa della congiura, «perchè non poteano condannarlo in altro», deve ritenersi un assurdo, e nel tempo stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della sua vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover formulare la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per l'eresia, con la quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo la condanna per la congiura avuta dagli imputati di second'ordine, dal Contestabile, dal Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il Nunzio non avrebbe potuto non condannarlo, nè occorre dire che l'altro Giudice, compagno del Nunzio, non avrebbe esitato un momento ad emettere un voto conforme. Infine quanto all'essere stato cosi duramente trattato in Castel S. Elmo, ed anche all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia grande, bisogna accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una grande astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo i dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche il disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. Nè si può dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a trovarsi, poichè qualche notizia contemporanea intorno alle carceri gravi di Castel S. Elmo ce le mostra appunto a quel modo. In sostanza quindi, menzionando i suoi patimenti, egli non esagerò di molto, così nelle poesie e nei libri, che sappiamo aver sempre continuato a comporre coll'assistenza di fra Serafino di Nocera malgrado i rigori che soffriva, come pure nelle parecchie lettere, che conosciamo avere scritte al Papa, a' Cardinali etc. dopochè si era già da qualche tempo deciso a smettere apertamente la sua pazzia: non esagerò menzionando «il Caucaso» in cui si trovava qual Prometeo novello, la fossa nella quale era sepolto, l'acqua che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio fradicio, il puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi con 17 tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua «con tre hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire l'officio» sicchè invidiava «alle mosche et a' serpi la mirabile gratia della luce»437. Egli mostrò allora di attribuire questi crudeli trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi nemici, cioè Carlo Spinelli, Principe della Rocella, Barone di Gagliato, Barone di Bagnara e D. Loise Sciarava, amico de' «Satrapi» che avevano tanto guadagnato coll'ammettere la congiura. Sappiamo che Castellano di S. Elmo era D. Garzia di Toledo, già tornato in quel tempo dalla missione di Governatore di Calabria ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto Longone qual Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta il Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del Castello438. D. Garzia dunque, co' suoi «50 leopardi» (i soldati spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il Campanella, impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli avrebbe voluto, e ciò per suggestione de' Satrapi, i quali consigliavano il Vicerè «di non darlo al Papa e non lasciare che si difendesse secondo i canoni e la ragion naturale»: ma è chiaro che D. Garzia obbediva agli ordini ricevuti, e verosimilmente li eseguiva con un eccesso di zelo, facendo egli pure, secondo la curiosa espressione del Campanella, «come quelli che son pagati a piangere i morti, che gridano più che li figli e mogli che si doglion davero»; nè c'era da fare col Vicerè nuove difese secondo i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.
III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta il periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo rivolgersi dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera, mandando ad esporgli taluni suoi concetti che costituivano promesse mirabili pel bene del Regno e quindi in favore del Re; poi col rivolgersi al Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi una visita di costoro ed esponendo in essa gli studii fatti e certi suoi concetti intorno alla fine del mondo, gl'inganni avuti dal diavolo e poi le grazie avute da Dio con le rivelazioni vere, onde potea far cose mirabili ad utile del Cristianesimo, delle quali cose presentava l'elenco in un memoriale. A queste prime mosse tenne poi dietro più tardi il suo rivolgersi al Papa, ad alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato Cardinalizio, quindi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose sue, giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse delle cose mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato, presentavano l'elenco delle opere fin allora scritte, conchiudevano col supplicare che fosse udito e posto alla prova. Indubitatamente ciascuna delle dette mosse del Campanella fu coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava esprimendo in varie e successive opere di occasione, alle quali attese col maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo scopo manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua sorte, presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e spirituale della Curia Romana, infine anche direttamente presso la Curia e tutti i potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far acquistare di sè un miglior concetto nel campo politico e nel religioso, di mostrare quali e quanti servigi egli avrebbe potuto rendere laddove fosse posto in libertà. Riuscirà quindi utilissimo vedere in precedenza le opere che compose, con tutti gli accidenti della composizione di esse, in questo periodo che comprende gli esiti de' processi e che dalla fine del 1602 può protrarsi al 1605-1606, data almeno del termine della pazzia, giacchè il termine del processo della congiura non si vide per lui mai più.
Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato dal Campanella per una piccola parte nella composizione della Città del Sole, e per la massima parte nella composizione della Metafisica, la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del 1603 (ved. pag. 305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano a' 4 libri di Astronomia contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e Telesio, indicati anche col titolo De motibus astrorum juxta physica nostra e forse indirizzati alla memoria di Giulio Cortese, come abbiamo detto altrove potersi desumere da un brano dell'opera «Del Senso delle cose» che ha richiamata la nostra attenzione439. Sulla data di composizione dell'Astronomia non cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra le altre opere negli elenchi inviati il 1606 a' Card.li Farnese e S. Giorgio; la troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di Spagna coll'altro titolo De nova astronomia libri 4 etc., aggiuntovi che erano rimasti «imperfetti», la quale ultima circostanza, motivata con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè impedirgli di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra parte la cosa ci è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime del Gagliardo, per le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il filosofo si occupava di Astrologia e certamente ancor più di Astronomia, avendo per le mani, con quel singolare ripostiglio, il Magino, l'Almanach, il Cardano, senza il quale aiuto non avrebbe in verità potuto trattare una materia simile; e secondo lo stesso Gagliardo ne avrebbe trattato così nel carcere ordinario come nel torrione, vale a dire dal febbraio o marzo al luglio o agosto 1603 ed anche da questa data in poi, fin verso il tempo dell'uscita del Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il marzo 1604. È verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione, almeno quando vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il Marchese di Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa della congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate, egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e posto mano al trattato De Symptomatis mundi per ignem interituri; infatti questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a' libri di Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu inviato esso solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di Astronomia, col titolo di Prognosticum astrologicum de his quae mundo imminent. Il Campanella poteva servirsene per difesa, essendo ricominciato ad apparire il bisogno di ulteriori difese, e così come già si è visto aver fatto altre volte, egli passava immediatamente a comporre opere adatte a' suoi bisogni: aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi in qualche Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per l'autore andò certamente perduto insieme co' libri di Astronomia, che gli furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio il 1611, come apparisce dal Syntagma, nel quale per altro la data di composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate solamente in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È molto verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo trascorso nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in ultimo luogo nella scelta data alle stampe, dicendosi nel Syntagma che ve ne furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne' tormenti; esse sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603, quando tre de' frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna dire che veramente poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo. Negli elenchi delle opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova anche citata tra le Rime la «Salmodia della legge naturale e divina in tutte cose», ma essendo stati quegli elenchi compilati il 1606-1607, parecchie altre Salmodie poterono essere indicate sotto quella dicitura così generale; tuttavia le tre sopradette appariscono Inni suggeriti dalla speranza di un termine de' travagli, che a quella data poteva sembrare davvero imminente.