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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Il Nunzio non tardò a comunicare al Vicerè la risoluzione di S. S.tà, ed il 26 settembre potè ragguagliare il Card.l Borghese su quanto avea fatto407. Egli avea mostrato a S. E., che la risoluzione presa «non alterava quello che era stato fermato co' suoi antecessori in tal negotio»; D. Pietro de Vera «doveva intervenire a tutto quello che si trattava in detta causa; solo si voleva che non apparisse più come giudice». Arrestandoci un momento su queste parole del Nunzio, osserviamo che egli non interpetrava fedelmente la risoluzione Papale, e la rendeva nel fatto assai meno amara; poichè ammetteva che D. Pietro sarebbe intervenuto a tutto e bastava che non apparisse giudice, mentre S. S.tà avea ritenuto non conveniente che giudicasse, ed ordinato al Nunzio che conoscesse spedisse e terminasse la causa per sè solo. Il Vicerè, che sicuramente avea avuto notizia della risoluzione originale di S. S.tà, mediante gli ufficii non mai interrotti della fazione Cardinalizia attaccata a Spagna, potè mostrarsi sereno, ma nel tempo medesimo dovè sentirsi preso sempre più da diffidenza; d'altronde era per lui molto facile vedere che a nulla avrebbe giovato il rinfocolare una quistione già pregiudicata da un solenne pronunciato del Papa, e conveniva meglio farlo cadere senza strepito, opponendovi la forza d'inerzia: ciò spiega il suo contegno nel momento, quale lo espresse il Nunzio nello scrivere a Roma, ed anche il suo contegno ulteriore, quale lo vedremo nello svolgimento successivo della faccenda. Secondochè scrisse il Nunzio, egli «mostrò di restare in pace», ma per non essere informato del fatto richiese che glie ne fosse lasciata memoria; rappresentava dunque la parte dell'ingenuo, e voleva intanto poste in iscritto le parole del Nunzio che già costituivano un guadagno. Da parte sua il Nunzio potè ancora scrivere a Roma, «non vedendo in questo quello che si possa opporre, spero che il negotio andrà per i suoi piedi»: con ciò egli mostravasi ingenuo davvero, mentre pure ricordava quale fiera lotta giurisdizionale vi era stata per costituire il tribunale, e sapeva che il Governo Vicereale non era punto avvezzo a cedere facilmente in queste lotte; ma forse rappresentava egualmente la parte dell'ingenuo con Roma, dando larghe speranze per non avere richiami sul modo in cui aveva interpetrata la risoluzione di S. S.tà. E quasi sentisse il bisogno di far bene intendere la sua interpetrazione, conchiudeva, che con D. Pietro aveva fin allora trattato unitamente e così procurerebbe di trattare per l'avvenire, acciò il negozio si tirasse avanti. Dalle quali parole può rilevarsi che egli intendeva un po' meglio le circostanze, e può rilevarsi ancora che avrebbe fatto terminare la causa condannando senz'altro il Campanella, giacchè D. Pietro non si sarebbe certamente pronunziato per un'assoluzione.

L'indomani, 27 settembre, il Nunzio scrisse la memoria chiestagli dal Vicerè: nel suo Carteggio n'è rimasta la minuta che noi pubblichiamo408. Dopo di aver fatta la storia particolareggiata di tutti i precedenti, egli terminava con lo specificare sempre meglio che S. S.tà si contentava che D. Pietro intervenisse ad ogni cosa «eccetto che al sententiare» aggiungendo, «il che alla sustanza del negotio non vuol dir nulla, perche saremo d'accordo come siemo stati sin'adesso, et quello che concordemente si fermarà si esseguirà, sì che l'effetto sarà il medesimo come le dissi à bocca; desidero dunque che ella commetta al medesimo che intervenga quanto prima». Da tutto ciò il Vicerè potea desumere anch'egli ben chiaramente, che per parte del Nunzio il Campanella sarebbe stato senza alcun dubbio condannato; ma o si serbò diffidente o non volle passar sopra alla quistione giurisdizionale, e veramente si ha motivo di ritenere l'uno e l'altro concetto, per intendere l'ultimo periodo del processo. Così tanto nel Vicerè quanto in D. Pietro de Vera si vide una mollezza, una fiaccona, da doversi dire che già si era deciso di opporsi a Roma col non far nulla: e non è dubbio che D. Pietro trovavasi nello stadio più acuto dell'«attender solo a star allegramente innamorato della propria moglie» come ci lasciò scritto il Bucca; ma se il Vicerè avesse voluto, D. Pietro avrebbe adempito all'ufficio suo.

Il 3 ottobre, e poi il 9, e poi ancora il 17, il Nunzio faceva sapere a Roma, che il Vicerè avea commesso a D. Pietro di andare a vederlo, che D. Pietro non era venuto ed il Vicerè avea detto che vi sarebbe andato ad ogni modo, che poi D. Pietro avea mandato a fare le sue scuse con l'assicurazione che sarebbe venuto nella prossima settimana409. – Ma in che modo fu appresa in Roma l'interpetrazione data dal Nunzio alla risoluzione di S. S.tà? Il 24 ottobre il Card.l Borghese, partecipando al Nunzio che la lettera del 26 settembre era stata letta in Congregazione innanzi a S. S.tà, diceva laconicamente, «in risposta non mi occorre altro, se non ch'ella si regoli conforme a quel che sopra di ciò per ordine della S.tà sua le fù scritto». Riesce impossibile vedere in queste parole un consentimento; tutt'al più vi si potrebbe vedere un'acquiescenza, ma vi si trova ad ogni modo ripetuto l'ordine di adempiere alla risoluzione quale era stata trasmessa410.

Finalmente in data del 7 novembre il Nunzio fece sapere a Roma essersi dato ordine che i frati, i quali avevano avuto il termine alle difese avessero l'Avvocato e il Procuratore, per poter poi finire il negozio coll'intervento del Sig.r D. Pietro de Vera411. Non apparisce qui chiaramente che D. Pietro abbia preso parte nella decisione di dare quell'ordine, ma parrebbe piuttosto di no. È superfluo intanto ripetere che l'Avvocato e il Procuratore occorrevano solamente per intimar loro la citazione ad dicendum, necessaria nel momento in cui il tribunale dovea riunirsi per sentenziare; ma le difese erano state già fatte pel Campanella, rinunziate dagli altri rimanenti frati. Si potrebbe credere che allora veramente l'Avvocato avesse dovuto cominciare l'adempimento dell'ufficio suo, e perfino che la Difesa scritta del De Leonardis abbia a ritenersi composta nel periodo al quale siamo pervenuti: ma oltrechè la procedura del tempo non giustificherebbe tale credenza, il titolo di advocatus pauperum aggiunto al nome del De Leonardis basta ad eliminarla; poichè abbiamo già visto l'Avvocato De Leonardis promosso a Fiscale, e successivamente anche a Consigliere il 3 aprile 1602, sicchè egli era già Consigliere in tal tempo, e qui possiamo aggiungere che l'ufficio di Avvocato de' poveri si teneva da Gio. Geronimo di Natale, con esecutoria di Privilegio notata il 21 giugno 1602412. Adunque, come è stato detto altrove, le difese doveano dirsi compiute, e l'intervento dell'Avvocato rappresentava una quistione di forma più che di sostanza413.

Dopo il 7 novembre 1603 si verificò una lunga interruzione perfino nelle notizie riguardanti la causa: e questo non può spiegarsi in altro modo, che ammettendo un'assoluta noncuranza di D. Pietro de Vera nell'adempimento del suo ufficio, naturalmente col consenso segreto del Vicerè. Le lettere del Nunzio non offrono più alcun cenno del Campanella fino al 23 luglio 1604; manca veramente un registro ossia un fascicolo di queste lettere, ma la mancanza si estende appena dal 4 maggio al 5 luglio 1604, e la lettera del 23 luglio, nella quale si ricomincia a parlare del Campanella, è concepita in modo da fare intendere che non se n'era mai più parlato da lungo tempo. Anche le lettere di Roma non offrono nulla per tutto il suddetto periodo; nè può supporsi che nella raccolta di esse vi sia qualche lacuna concernente il Campanella, poichè se da Roma fosse venuta la menoma richiesta di notizie intorno a lui od intorno alla causa de' frati in generale, il Nunzio non avrebbe potuto mancare di rispondere, e nel modo in cui sono registrate le lettere o meglio le minute delle lettere del Nunzio, la risposta si sarebbe dovuta trovare. Ciò mostra bene quanto pensiero si davano del Campanella in Roma, e quanto siano andati lungi dal vero i biografi, i quali hanno ritenuto che in Roma volevano assolutamente trarre il Campanella da Napoli, e che il S.to Officio con la sua condanna, concepita nel senso che conosciamo, aveva avuto principalmente quello scopo. Frattanto è certo che un nuovo aggravamento si era verificato nelle condizioni del Campanella. Il silenzio serbato per tanto tempo dal Nunzio, e poi la solita necessità d'ingarbugliare taluni fatti da parte del filosofo, hanno contribuito del pari a rendere oscuro questo periodo della sua prigionia: ma le deposizioni di Felice Gagliardo in punto di morte, e un altro documento da noi trovato in altre scritture d'Inquisizione, ci mostrano indubitatamente che il filosofo venne separato da' frati suoi compagni e rinchiuso con maggiore durezza nel torrione del Castel nuovo; altri documenti poi, allegati al processo di eresia, ed anche alcune notizie date in sèguito dal filosofo medesimo, ci fanno argomentare che tale trattamento più duro dovè essergli inflitto nel luglio o agosto 1603, sebbene egli, per procurarsi la commiserazione di Roma e dissimulare varie circostanze sfavorevoli, abbia esposte le cose in modo da far intendere che l'avessero tradotto nel Castello di S. Elmo in una fossa, la qual cosa accadde veramente più tardi, con ogni probabilità appunto nel luglio dell'anno successivo.

 

Ecco distintamente quanto era avvenuto al Campanella da che l'abbiamo lasciato, cioè dagli 8 gennaio 1603, giorno in cui gli fu letta la sentenza avuta nel processo di eresia. Egli continuò a rimanere per circa sei mesi nelle carceri comuni del Castel nuovo, in relazione co' frati, e segnatamente con fra Pietro di Stilo, unico suo confidente oramai dopo la liberazione di fra Pietro Ponzio, in relazione del pari con Felice Gagliardo, che da molto tempo bazzicava anche troppo co' frati: ed abbiamo avuta occasione di dire che ebbe una visita del Marchese di Lavello cui consegnò la sua opera della Metafisica, ma dobbiamo aggiungere che dal 25 febbraio al 15 aprile di quest'anno ebbe anche occasione di far la conoscenza di alcuni Signori tedeschi venuti nelle carceri del Castello, uno de' quali divenne da tale data suo amicissimo e caldo protettore. Il Conte Giovanni di Nassau avea fatta in incognito un'escursione a Napoli per curiosare la città, seguito da due gentiluomini, Cristoforo Pflugh e Geronimo Tucher, e dal domestico Giovanni Winckes, inoltre accompagnato da Gio. Ottavio Gonzaga che aveva al suo sèguito Uberto Caroni di Bozzolo. Visitata la città i viaggiatori si trovavano oramai in partenza, quando un dispaccio da Roma del Duca di Sessa avvertì erroneamente che un figlio, o nipote, o fratello del Conte Maurizio di Fiandra ribelle al Re di Spagna, con un sèguito di Cavalieri francesi era venuto in Napoli; il Vicerè diede immantinente ordine di catturarli. Il Conte col suo domestico era già partito in precedenza e fu raggiunto a Sessa, gli altri furono rinvenuti ancora in Napoli, tutti furono tradotti nel Castel nuovo414. Al Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che dimostrò essersi accidentalmente trovato in compagnia de' tedeschi fu concesso di tenere per carcere, insieme col Caroni, la casa del Principe di Conca; al Nassau col suo domestico fu assegnata nel Castello una carcere separata, agli altri furono assegnate le carceri comuni, ma certificato l'equivoco mediante un'informazione presa da D. Pietro de Vera, furono poi rilasciati con molte cortesie equivalenti a scuse415. Durante la prigionia il Campanella si strinse in grande amicizia sopratutto con Cristoforo Pflugh, latinamente Flugio, il quale parrebbe che appartenesse alla celebrata ed opulenta famiglia de' Fuggers negozianti di Augusta e divenuti Baroni di Kirchberg e Veissenhorn, più conosciuti in Italia col nome di Fuggheri e Foccari; ma avrebbe dovuto rabberciare il suo cognome e dichiararsi Sassone per rimanere incognito, e riesce allora notevole che perfino dopo molti e molti anni, a tempo della redazione del Syntagma il Campanella abbia continuato a chiamarlo «Flugio», come riesce notevole che a tempo della prigionia in Castel nuovo sia stato di religione protestante. Da alcune parole che leggonsi nel Carteggio del Turaminis, Agente Toscano, parrebbe che al pari degli altri suoi compagni di carcere egli dimorasse allora in Siena, forse ad oggetto di studio, e questo nemmeno si accorderebbe troppo coll'età del Cristoforo Fugger che conosciamo dall'opera del Custos416. Ad ogni modo non sembra dubbio che egli appunto abbia fatto conoscere il Campanella a' Fuggers, come certamente lo fece conoscere a Gaspare Scioppio, onde queste poche notizie su' Fuggers non saranno state inutili, avendo ancora ad incontrarli nel corso della nostra narrazione. Una lunga lettera posteriore del Campanella diretta allo Pflugh e da noi pubblicata, riferibile all'anno 1607, ci fa conoscere che tanto lo Pflugh quanto il Conte Giovanni s'interessarono molto della sua sorte, e promisero di aiutarlo presso i Principi di Germania, che lo Pflugh specialmente si affezionò a lui, ascoltò le sue meditazioni filosofiche e religiose chiamandolo Mastro, gli giurò che avrebbe avuto pensiero della sua libertà, ne ebbe l'opera della filosofia (senza dubbio l'Epilogo, e probabilmente anche altre opere tra le quali la Monarchia di Spagna); mostrò poi una volta al Campanella un libro di spiriti che il Campanella derise, e videro anche insieme certe donzelle, che dalle finestre invitavano il Campanella a scherzi più che egli non avrebbe voluto (certamente le donzelle abitanti ne' piani superiori del Castello, a taluna delle quali il Campanella avea diretto e forse dirigeva ancora poesie più o meno vivaci); infine liberato dalla carcere ed andato a Roma si convertì al Cattolicismo, onde al Campanella balenò la speranza che glie ne sarebbe derivato un gran bene presso la Curia, avendo lui influito su tale conversione, e poi, col procurargli l'aiuto di altri suoi potenti amici e più tardi anche quello dello Scioppio, diè motivo di fargli concepire speranze sempre maggiori417. Le deposizioni di Felice Gagliardo, fatte al S.to Officio in punto di morte, compiono la conoscenza di questo incidente. Lo Pflugh ed il Tucher andarono a stare nella camerata del Gagliardo, il quale insegnò loro le orazioni cattoliche poichè dubitavano di essere stati presi come eretici; ma fecero anche, tutti insieme, certe pratiche di negromanzia per rendersi invisibili ed uscire così dal Castello, secondo i precetti di Gio. Wierio, avendone procurato il libro De Menomachia daemonum (sic) e trattane anche una copia418. Fu questo certamente il «libro di spiriti», che lo Pflugh mostrò al Campanella, e, come si vede, il Gagliardo trovavasi già molto avanti negli sperimenti di negromanzia e nella evocazione de' demonii.

Ma dopo circa sei mesi il Campanella dovè essere separato dagli altri frati e posto nel torrione del Castello, come risulta da più documenti. In primo luogo le medesime deposizioni anzidette del Gagliardo ce ne danno notizia precisa, rivelandoci in pari tempo fatti della maggiore importanza, capaci d'illustrare non solo tale periodo della prigionia ma anche il tema difficilissimo delle credenze riposte del Campanella con qualche tratto della sua vita intima: e sebbene al Gagliardo non si possa menomamente accordare una cieca fede, massime poi nelle condizioni in cui si trovava al momento di deporre questi fatti, vedrà ognuno se essi non concordino con le notizie che abbiamo da altri fonti indubitabili419. Il Gagliardo disse, che essendosi già dato alla negromanzia, esercitata pure con taluni de' frati prigioni ed egualmente con altri, avea conosciuto il Campanella nel Castello, e nella carcere dove il Campanella stava, «al torrione», aveva appresa da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle Effemeridi del Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con altri ancora, e con gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante sotto le carceri, con la quale il filosofo «faceva all'amore», conservava e poi porgeva mediante una cordicina dietro segnali convenuti, allorchè il filosofo li voleva: aggiunse, riportandosi evidentemente ad un periodo anteriore, che il Campanella non era affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la vita, che quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con lui e con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento vecchio e del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto «che ne credesse solo quello che havea potuto essere naturalmente, et che l'altre cose che non potevano essere naturalmente non bisognava crederle, ancor che fussero scritte alla biblia» etc.; che poi gli aveva pure insegnato in Castello come dovesse adorare Dio, facendoglielo scrivere ed anche scrivendoglielo di sua mano, cioè a dire in piedi, col capo scoperto o coperto a volontà, guardando al cielo e recitando alcuni determinati salmi (ved. nel d.to Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc., non credendo alla 2a e 3a persona della Trinità, ed invece dicendo: «Deo optimo maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è supplico per lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et amore et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle erranti è fisse…». E gli aveva insegnato egualmente come dovesse adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto, fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, «O sacro santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle cose à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea» etc. per poi dimandare ciò che desiderava; ed alla luna, «Matre di tenebre» etc. etc. facendo lo stesso anche verso ciascun pianeta, le quattro parti del mondo e gli angeli che ad esse presedevano. Conchiuse poi il Gagliardo affermando, che con tali preghiere non aveva mai ottenuto nulla, che le eresie apprese dal Pisano e dal Campanella erano «capricci di huomini bestiali, dissoluti, senza fondamento di ragione alcuna», che il Campanella talora gli diceva certe cose e talora il contrario, e quando egli dimandava il motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non essere stato inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella, con la solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi di vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte dal Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato il riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal Campanella, co' suoi principii metafisici, con le cose esposte nella Città del Sole ed anche cantate nelle Poesie420. Si ha quindi un gravissimo argomento per non dubitare del racconto del Gagliardo, della relazione del filosofo con D.a Oriana, la quale evidentemente sarebbe la Dianora che abbiamo visto celebrata da lui con un Sonetto, non che dell'essere stati insieme contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo «al torrione»; gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare nel torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino al 2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col S.to Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.

 

Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre scritture d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il filosofo, nel periodo anzidetto, trovato nel torrione del Castel nuovo separato dagli altri frati: è la deposizione di un carcerato della Vicaria in una Informazione presa contro fra Pietro di Stilo quando era già uscito dal carcere. Un Ciommo ossia Girolamo dell'Erario, dimandato se fosse mai stato in altre carceri oltre quelle della Vicaria, rispose di essere stato, precisamente verso il marzo 1604, nel Castel nuovo; e «prima (egli disse) fui posto in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi fui levato da la fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che si diceva fusse Campanella, et portava la chierica come portano li frati, non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à quello torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati, è poi ne erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un mese, fui messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai uno monaco che andava vestito da monaco con le veste bianche, che si chiamava frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino… etc., et alla carcere di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui tormentato in castello per la causa mia, è fui messo al civile del castello, dove stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano tre frati vestiti di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli altri non mi ricordo lo nome» etc.421. Questa separazione anche di fra Pietro di Stilo, questa differenza di trattamento, più duro per fra Pietro e meno duro per gli altri frati, meritano del pari di essere avvertite. Sorge naturalmente il pensiero che fra Pietro, l'amico intimo del Campanella, avesse dato motivo di richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo: rimanga intanto assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel torrione, e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si trovava tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso e per la sua «corona»; qualunque fatto anche minimo della persona sua ci apparisce sempre memorabile.

Nè questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.ti 200 inviati da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi del Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna duc.ti due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5, mancandovi il Campanella: questo stesso si verifica in due altri ordini posteriori (27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe impossibile che specialmente nel 1o ordine del 2 settembre 1603 fosse corsa una pura e semplice dimenticanza del Campanella da parte di quel Vescovo, che se ne curava così poco e così male: egli vi dimenticò certamente fra Paolo della Grotteria, ma ve l'aggiunse subito come il documento mostra, e così avrebbe potuto aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde bisogna dire che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo per il povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o agosto che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di pagamento poi, l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due memoriali de' frati, e segnatamente uno di essi reca che «li poveri quattro frati di S.to Domenico carcerati nel Regio Castello novo» si trovano ignudi ed affamati, senza il denaro della Corte da più mesi e senza alcuno indizio di prossima spedizione, onde supplicano che si dia loro quel poco danaro rimasto e si parli a S. E. per la spedizione della loro causa422; adunque nemmeno da questo lato figura più il Campanella, e parrebbe veramente che soli quattro frati fossero rimasti in Castel nuovo e che il Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile passar oltre alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e quindi persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel torrione, toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed anche co' frati suoi compagni; questi non ne parlarono ne' memoriali presentati, essendo loro vietato di comunicare con lui, e forse pure avendo dovuto persuadersi, che a voler fare causa comune con lui non sarebbero mai più venuti a capo di nulla.

Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più lettere ed anche nell'opera dell'Atheismus triumphatus, che scrisse dopo questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli siasi ingegnato di fondere insieme il passaggio al torrione e quello alla fossa di Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa, in data del 13 agosto 1606, egli scrisse cosi: «Hor sono tre anni (e quindi verso il luglio o l'agosto 1603) havendo interrogato il demonio che si faceva angelo, e compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi pareva disposto per la sua natività che mirai, rispose di tutti i regni che dimandai… (seguono molte rivelazioni singolari specialmente intorno a Venezia e a Roma). Io accorto che era diavolo in molti segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa fossa pur dal diavolo predettami». Ecco qui un disegno di evasione trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal Nunzio e che, naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora lo mettiamo da parte. Al Card.l Farnese, pochi giorni dopo, il Campanella scrisse pure: «M'occorse ver la natività d'una persona, li dissi ch'era inclinata alla profezia, li donai il modo di disponersi all'influsso divino, e perchè egli era scelerato, li comparse il diavolo e dicea esser angelo, e ci donò avviso di molte cose future in molti regni del mondo e del Papato e di Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai segni come Gedeone; s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perchè non insegnassi a colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere in questa fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere». Egualmente al Card.l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca differenza di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo «fè capitar male quel pover'huomo», senza dirne altro423. Non occorre poi riportare testualmente i brani dell'Atheismus triumphatus allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un pezzo occasione di riportarli (ved. vol. 1.o pag. 21 in nota). Il Campanella in essi parla di «un astrologo moderato» spinto dalla superstizione di Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina de' Santi, che istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli Angeli de' pianeti, lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e il giovane cominciò a vedere cose mirabili, apparendogli uno spirito che si fingeva Angelo o luna, o sole, o Dio: l'astrologo per mezzo di costui ebbe risposte su cose gravissime, ma essendosi accorto che si trattava del demonio, si vide il falso angelo con inganni incredibili separare il giovane dall'astrologo e condurlo a morte violenta, oltrechè si vide un altr'uomo, che aspettava certe promesse fatte prima del caso del giovane, condotto a malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a commentare tutto questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si tratta qui delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con le preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre cose insegnategli mentre componeva appunto la sua opera di Astronomia, essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena nell'Atheismus, una persona sola, il Campanella. Le lettere chiariscono i racconti dell'Atheismus, ed esse, come abbiamo veduto, ci menano al luglio o agosto 1603 quanto alle pratiche astrologiche fatte dal Gagliardo con l'assistenza del Campanella; d'altro lato il processo del Gagliardo ci mena al 2 marzo 1604 quanto alla separazione di lui dal Campanella, giacchè appunto in tale data egli fu liberato dal carcere, per poi tornarvi di nuovo ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni dopo. Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella del passaggio «nel torrione del Castello» dove il Campanella di certo si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo difficilmente avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne fosse stato tolto prima: risulta perciò ben giustificata anche l'affermazione di Ciommo dell'Erario, d'averlo visto nel torrione in marzo 1604 separato dagli altri frati, e come il non trovare il Campanella contemplato negli ordini di pagamento della sovvenzione ai frati in data del 2 settembre 1603, e 27 febbraio 1604, non implica che egli fosse stato già tradotto a S. Elmo, così non l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in quello del 9 giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti per farci dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione nella fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo indagare perchè sia stato posto nel torrione in luglio o agosto 1603, ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in tal tempo giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, con le sue ciarle già narrate della prossima liberazione del Campanella. Il fatto della conversione di fra Dionisio alla fede maomettana, che recava un aggravio manifesto a' giudizii già gravi intorno alle imprese disegnate in Calabria, fu sentito dal Campanella al punto, da vederlo schermirsene con tutti gli argomenti, possibili ed impossibili, in ciascuna delle lettere che scrisse nel 1606-1607, non appena vide la necessità di far udire la sua voce direttamente ai personaggi altolocati. Il fatto poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata turca, veleggiando verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella costantemente, e col proposito suo di volerlo dissimulare si spiega benissimo l'aver confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo, il disegno di evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre avvenimenti affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.

Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e del passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione egli pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di silenzio, ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23 luglio 1604 egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per la spedizione della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di D. Pietro de Vera, ricordava la risoluzione presa da S. S.tà per tale circostanza, esponeva le sue sollecitazioni continue per venire «a qualche conclusione». E soggiungeva: «Ma l'essersi scoperto quà un certo Greco che praticava di fare scappare di Castello Fra Tommaso Campanella, come scappò Fra Dionisio Pontio et un'altro suo compagno, hà tenuto il negotio sospeso in modo, che non si è potuto trattar della sua speditione. Finalmente sabato passato fummo insieme, et quanto al detto Campanella S. E. l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo, et non vuole che per ancora si tratti della sua speditione, crederò io, per quanto scuopro, per non haver interamente chiarito questa pratica che si teneva per la sua liberatone. Trattammo degli altri quattro che restavano» etc.424. Se non c'inganniamo, dal contesto della lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e che difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a chiarire le pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il Campanella a S. Elmo; dovè quindi esservi un altro motivo che il Nunzio volle dissimulare, e la cosa riuscirà confermata da quanto saremo per dire. Innanzi tutto cerchiamo d'indagare chi mai abbia potuto avere tanta pietà pel povero prigioniero da intavolare trattative di evasione, chi mai abbia potuto essere quel Greco che praticava di farlo fuggire, come pure in che data potè questo accadere.

407Ved. Doc. 145, pag. 79.
408Ved. Doc. 147, pag. 79.
409Ved. Doc. 148 a 152, pag. 80 e 81.
410Ved. Doc. 153, pag. 81.
411Ved. Doc. 154, pag. 81.
412Ved. Registri Sigillorum vol. 39, data suddetta.
413Il Campanella medesimo diè modo di farlo rilevare, quando più tardi, in agosto 1600, vistosi abbandonato con la causa indecisa, scrisse a Papa Paolo V: «hora informano monsignor Nuntio come essi vogliono… e diran ch'è finita la causa, che mi condanni senza ascoltarmi». Ved. Centofanti, Arch. storico italiano 1866, pag. 24.
414Riproduciamo qui un brano di documento, che abbiamo raccolto nell'Arch. di Spagna in Simancas e che concerne il fatto di questa carcerazione: è una relazione di D. Pietro de Vera, annessa in copia a un dispaccio di D. Francesco de Castro al Re, in data del 2 marzo 1603. «Quel che resulta de l'informatione presa contra Giovanni Conte di Nassau Todesco, è, che essendo gionto in Napoli esso Conte Giovanni l'ultimo sabato di Carnevale prossimo passato, in compagnia di D. Giovan Ottavio Gonsagha, e di Cristofaro Pflug di Sassonia, Geronimo Tucher di Germania, Uberto alias Roberto Caroni de la città di Bozoli trà Mantua et Cremona et Giovanni Winckes Alemano creato d'esso Conte Giovanni, et andando incognito, si fe diligentia d'haverlo nelle mani, et mentre D. Giovan Ottavio Gonsagha giovedì passato 20 del mese presente di febbraro mandò in Palazzo per haver licentia esso con tre altri d'andar con cavalli di posta à Roma, si mandò a pigliar tanto esso quanto tutti quelli di sua compagnia, che foro esso D. Giovan Ottavio, Cristofaro Pflug, Geronimo Tucher, e Uberto alias Roberto Caroni, et non si trovò detto Conte Giovanni di Nassau, perchè lo detto giovedì mattino, per tempo, esso Conte Giovanni insieme con detto Giovanni Winckes suo creato s'erano partiti à cavallo senza la compagnia di detto D. Giovan Ottavio, et altri sopradetti, e V. E. li mandò appresso gente per haverlo, e D. Antonio Sanchez de luna che andò fra gli altri lo trovò vicino Sessa et lo condusse in Napoli col detto suo creato… etc. etc. D. Pedro de Vera i Aragon» (Ved. Arch. sud.to Scritture Estado, legazo 1099).
415Questi particolari risultano da' Carteggi dell'Agente Toscano e del Residente Veneto, e in parte dalla relazione del De Vera mandata in Ispagna, dalla quale veramente si hanno i nomi di tutti i prigionieri, che ne' Carteggi non sono punto registrati. Ved. nell'Arch. di Firenze, Scritture Medicee filz. 4090, Lett. del Turaminis del 25 feb. 1603; nell'Arch. di Venezia, Senato-Secreta Napoli, Lett. di Anton M.a Vincenti del 25 feb. 1602 (more veneto) e degli 11 marzo e 15 aprile 1603.
416Malgrado le più vive ricerche non abbiamo potuto vedere alcuna delle varie edizioni dell'opera del Custos e Kilian intitolata «Fuggerorum et Fuggerarum… quot extant aere expressae imagines, Augbsb. 1593, 1618, 1630» etc., ma abbiamo trovata ultimamente in Roma, nella Corsiniana, l'altra opera del medesimo Custos intitolata «Atrium heroicum etc. August. Vindelic. 1602», in cui si hanno non meno di 12 Fuggers, tra' quali Giorgio, che nel corso della narrazione incontreremo protettore accanito del Campanella, e Cristoforo figlio di Giovanni, che dovrebb'essere il Cristoforo di cui qui si parla. Ma il suo ritratto, alla data del 1592, lo mostra già adulto, di bella e distinta figura, non giovanotto, qualificato illustre e generoso Barone; evidentemente egli è il Cristoforo della branca di Kirkeim, padre di Ottone Enrico già nato al tempo di cui trattiamo, e non può avere nulla di comune con Cristoforo Pflugh.
417Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 63.
418Ved. Doc. 518, pag. 585. Il Bierio citato dal Gagliardo è senza dubbio Gio. Wierio, dotto e benemerito medico Belga, che trattò ampiamente delle cose demoniache. Nella ristampa delle sue «Opera omnia Amstel. 1660 t. 2» si ha il trattato intitolato veramente «Pseudo monarchia Daemonum» con gli altri «De origine et lapsu Daemonum, De Praestigiis daemonum et De Lamiis»; il trattato «De Menomachia (o meglio Monomachia, duello) daemonum» ci apparisce una svista del Gagliardo.
419Ved. Doc. cit. pag. 589.
420Sarà bene ad ogni modo rammentare le parole testuali che si leggono nella Città del Sole, riferibili alle deposizioni fatte dal Gagliardo. «Studiarono (i solari) aver propizie le quattro costellazioni di ciascuno de' quattro angoli del mondo (ediz. d'Ancona pag. 267). Al mattino… rivolgendosi verso oriente recitano breve orazione (ibid.). Ogni volta che fanno orazione si rivolgono a' quattro angoli del mondo; al mattino guardano prima all'oriente, poi all'occidente, indi al mezzodì (274). Onorano, non adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, statue e tempii di Dio ed altari animati del cielo… Nel sole contemplano l'immagine di Dio e lo nominano eccelso volto dell'Onnipotente, statua viva, fonte d'ogni luce e calore, vita e felicità d'ogni cosa…; in lui i sacerdoti adorano Dio, e raffigurano nel cielo un tempio, nelle stelle altari, ed anche case viventi di angeli buoni nostri intercessori appresso Dio (275). Adorano Dio nella trinità e ciò fa meraviglia, ma dicono che Dio è somma Potenza dalla quale procede la somma Sapienza che è pure Dio, e da ambedue poi l'Amore, che è Potenza e Sapienza…; non hanno però distinte nozioni delle tre nominate persone come i Cristiani, non avendo essi avuto rivelazione» (277). – Rammenteremo inoltre ciò che si legge nelle Poesie, a proposito dell'orazione a Dio nella «Canzone 3a in Salmodia metafisicale»: «Poi ti prego, ti supplico e scongiuroper l'influenze magnenecessità, fato, armonia, che 'l regnodell'universo mantengon sicuro… ,pe 'l tempo, e per le statue tue viventistelle, uomini ed armenti»; etc.; e a proposito dell'orazione al Sole nell'«Elegia al Sole» «Tempio vivo sei, statua, e venerabile voltodel verace Dio, pompa e suprema face.Padre di Natura, e de gli astri rege beatovita, anima e senso d'ogni seconda cosa» etc. etc., aggiuntovi in nota che «il Sole è insegna della semblea d'esso autore». Circa la preghiera alle stelle e agli angelici spiriti in esse abitanti, se ne trova un saggio perfino nella «Canzone di pentimento»: «Aria, tu vivo ciel, voi sacre stelle,e voi spirti vaganti dentro a loroch'hor m'ascoltate ed io non veggio voi,mirate al mio martoro,di voi sicuri pregate per noi».
421Ved. Informazione contro fra Pietro di Calabria Domenicano carcerato in Castel nuovo, depos. suddetta, nella nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2.o fol. 273-1/2.
422Ved. la nostra Cop. ms. tom. 2o, fol. 125-1/2.
423Aggiungiamo che la data del luglio o agosto 1603, come quella dell'entrata in una fossa venne sempre mantenuta dal Campanella anche in altre lettere, come p. es. in quella opuscolare sulla peste di Colonia e quella a Mons.r Querengo, da noi pubblicate, dove in data 24 giugno e 8 luglio 1607, afferma trovarsi nella fossa già da 4 anni (ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 54 e 60). Ma in altre lettere e p. es. in quella al Papa da noi pubblicata, nell'altra latina al Papa ed a' Cardinali, e nelle altre al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria pubblicate dal Centofanti, tutte sicuramente del 1607, egli dicesi da 8 anni nella fossa, vale a dire fin dal momento in cui venne tradotto a Napoli, ciò che riesce assolutamente inesatto: laonde bisogna ammettere che egli abbia parlato di fossa, ogni qual volta intese dire di essere stato posto in carceri dure.
424Ved Doc. 155, pag. 81.