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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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II. Passiamo all'esito del processo della congiura; e qui esporremo dapprima le poche altre notizie che ci è riuscito raccogliere intorno agli Atti ulteriori del tribunale pe' laici, il quale non cessò mai di funzionare durante il lungo tempo in cui funzionò il tribunale dell'eresia, ed anzi si tenne ancora aperto per qualche anno dopo. Abbiamo già detto altrove, che secondo il costume del tempo si sentenziava separatamente e successivamente per ciascuno inquisito e per gruppi speciali d'inquisiti; vi furono quindi, di tratto in tratto, sentenze non solo pe' catturati, ma anche pe' contumaci che con pubblico bando erano stati dichiarati «forgiudicati». Possiamo dire con certezza che non si ebbero altri supplizii, poichè conoscendo i nomi de' principali inquisiti, li avremmo senza dubbio ravvisati ne' Registri dell'Archivio de' Bianchi di giustizia: si ebbero invece gravi condanne a parecchi anni di carcere, come per taluno degl'inquisiti ci risulta da documenti che abbiamo trovati nel Grande Archivio; e si ebbero ancora più numerose assoluzioni e rilasci, come ci risulta dalle notizie autentiche, registrate nel processo dell'eresia, circa coloro i quali figurarono egualmente in tale processo o vi furono semplicemente nominati.

Cominciando da quest'ultima categoria, non abbiamo che a riassumere le notizie sparsamente apprese dal processo di eresia. Ricordiamo dunque, che verso la fine di settembre 1600 erano stati abilitati e si trovavano pronti a partire per la Calabria tutti o quasi tutti gl'inquisiti di Catanzaro, segnatamente Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, e con costoro probabilmente anche il Franza, il Flaccavento, gli Striveri etc., onde a tale data nel processo dell'eresia fra Dionisio chiedeva che fossero interrogati di urgenza, prima che partissero. Ricordiamo che Felice Gagliardo, già torturato una prima volta in Calabria, ebbe un'altra tortura per la ribellione, un po' prima del 19 marzo 1602, quando fra Pietro Ponzio ne fece menzione come di un fatto non remoto381; e la tortura fu acre, verosimilmente tamquam in cadaver come allora si soleva prescrivere ne' delitti gravi, onde il Gagliardo medesimo disse di aver avuto «a morire», ma non confessò nulla e dovè essere assoluto, poichè non trovò alcuno ostacolo all'uscita dal carcere quando finì di saldare i suoi conti col S.to Officio. Ricordiamo inoltre che tra il febbraio e l'aprile 1602 erano già stati assoluti il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, probabilmente anche il S.ta Croce, tutto il gruppo degl'inquisiti che insieme col Gagliardo e col Pisano si trovarono rinchiusi nelle carceri di Castelvetere; e i primi tre aveano pure fatto ritorno in Calabria subito dopo l'assoluzione, mentre il S.ta Croce rimase in carcere essendo implicato nelle materie di S.to Officio. Ricordiamo infine che nel tempo medesimo era stato egualmente assoluto Geronimo Campanella e forse anche Gio. Pietro Campanella (ved. pag. 241): l'ultima notizia avuta intorno a Geronimo si fu l'assistenza che egli faceva insieme con Gio. Pietro, il 2 agosto 1601, al povero fra Tommaso ancora ammalato pel grave tormento sofferto; più tardi, tra il febbraio e l'aprile 1602, egli era già tornato a Stignano.

Relativamente a' contumaci forgiudicati, dallo stesso processo di eresia abbiamo appreso che Gio. Gregorio Prestinace nell'agosto 1601 voleva presentarsi, e fra Pietro di Stilo vivamente raccomandava che se ne astenesse: nè altro sappiamo intorno alla fine di questo amico intimo del Campanella, come pure dell'altro egualmente fuggiasco, Fulvio Vua, mentre intorno a Tiberio e Scipione Marullo possiamo ritenere che non patirono gravi molestie, poichè troviamo Scipione registrato tra coloro i quali si dottorarono nell'aprile o maggio 1604, e però bisogna ammettere che egli abbia potuto fare i suoi studii negli anni precedenti382. Abbiamo appreso poi da documenti, che ci è riuscito del pari trovare nel Grande Archivio, talune altre notizie sul Baldaia, sul Dolce, sull'Alessandria, sul Tranfo, inscritti, come si è veduto a suo tempo, in una lunga lista di forgiudicati.

Geronimo Baldaia di Squillace verso la fine del 1603 scorreva la campagna con comitiva di fuorusciti, ed aveva pur allora commesso un omicidio, d'accordo, a quanto pare, col capitano di Petrizzi (tanta era la confusione e corruzione amministrativa a que' tempi): la Corte del Principe di Squillace lo catturò, e pretese di farne essa la causa, ma l'Audienza di Calabria ultra si diede a raccogliere contro di lui informazioni «de più delitti»; nel luglio poi 1604 il Vicerè ordinò che queste informazioni gli fossero trasmesse, come pure che il Baldaia fosse dalle carceri di Squillace tradotto a Napoli, senza per altro fare alcun cenno della sua condizione di forgiudicato per la causa della congiura, sicchè dovrebbe dirsi essere stata quella condizione affatto dimenticata383. Quanto a Tolibio Dolce di Satriano, nel giugno 1604 il Capitano di Stilo aveva già catturato un Gio. Antonio Lucano, che gli avea dato ricetto mentre trovavasi «forgiudicato per la causa di ribellione», e poi finì per essere catturato egli medesimo, nell'ottobre di quell'anno, per opera di D. Carlo di Cardines Marchese di Laino, Governatore di Calabria ultra in quel tempo: il documento che lo riguarda non fa menzione di altri delitti da lui commessi, ma lo dichiara solamente «forgiudicato nella causa della pretensa ribellione», ed inviato a Napoli perchè quivi «in detta causa… si procede per delegatione», onde il Vicerè loda molto nel Marchese «la diligentia de un cossi accertato et signalato servitio»384. Da ciò rilevasi che al cadere del 1604 il tribunale speciale della congiura pe' laici era sempre aperto; ed aggiungiamo che un altro documento ci mostra il Dolce tuttora nelle carceri del Castel nuovo nel 1610385. Passando a Gio. Francesco d'Alessandria, dobbiamo dire che egli continuava nella sua mala vita di fuoruscito in compagnia pure di Antonio suo padre, e nel 1605 venne finalmente catturato: un reclamo contro di lui lo dichiara «carcerato inquisito per la causa della Rebellione», sottoposto ad informazione per un omicidio in persona di un Antonio Lapronia e per «altri homicidii et enormi delitti»; un reclamo poi contro l'Auditore Ferrante Barbuto, successo all'Auditore Hoquenda come delegato a tale informazione, rivela che il Barbuto ebbe per mezzo di Carlo di Paola, nostra vecchia conoscenza, D.ti 200 «acciò guastasse l'informatione presa»386. Entrambi questi documenti meritano di essere consultati per acquistare una nozione de' tempi sempre più esatta, ma principalmente il secondo, scritto dal figlio di Gio. Geronimo Morano, altra nostra conoscenza, merita di essere consultato in tutta la sua estensione: poichè esso, oltre l'Alessandria, menziona diversi inquisiti, tra' quali Paolo e Scipione Grasso figli di Jacovo, presi con bando che concedeva indulto a chi li consegnasse vivi o morti; ed anche Gio. Domenico Martino famoso fuoruscito, probabilmente «il figlio di Nino Martino», che insieme co' «figli di Jacovo Grasso» il Campanella nominò nella sua Dichiarazione scritta come individui sui quali i Contestabili facevano assegnamento per la ribellione. Nessuno di costoro trovasi qualificato «inquisito per la causa della ribellione» come s'incontra in persona del D'Alessandria; e notiamo qui che la cosa medesima accade pure per altri fuorusciti egualmente nominati dal Campanella come amici di Maurizio disposti alla ribellione, cioè per Carlo Bravo e pe' Baroni di Reggio, secondochè ci mostrano altri documenti dello stesso tempo, onde si può dire che essi nemmeno vennero perseguitati per questa causa387. Infine quanto ad Alessandro Tranfo, un documento del Grande Archivio ce lo mostra nel 1606 nella sua Baronia di Precacore, ma non perseguitato, sibbene in conflitto con un altro individuo di nostra conoscenza, quel furfantello di Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo (ved. pag. 129). Verosimilmente egli si presentò e riescì ad opporre qualcuna delle eccezioni consentite dalla giurisprudenza del tempo anche a' forgiudicati, e dovè difendersi in modo da rimanere assoluto: cosi, trovandosi nel luglio 1606 in compagnia del Capitano di Precacore, ed essendogli passato arrogantemente dinanzi Aquilio Marrapodi già divenuto contumace per cause criminali, diede ordine che fosse preso, ma ne ebbe immediatamente minaccia di morte e dovè lasciarlo andare; nè manca qualche documento che accenna alle violenze ed omicidii commessi così da Aquilio come dal medesimo Gio. Angelo Marrapodi suo padre388. Di Marcantonio Contestabile, del Famareda, dell'Joy etc. non c'è riuscito trovare altra traccia; non ci farebbe meraviglia che, dopo un'ecclisse durante qualche tempo, abbia ognuno ripigliata la sua solita maniera di vivere, rimanendo nella mala vita coloro i quali vi erano abituati; senza dubbio questo s'incontra per parecchi già imprigionati e tormentati per la congiura, con essersi in loro verificato un peggioramento di vita dietro i travagli sofferti389. Ma in somma, per quanto finora sappiamo, col 1605 cessano le notizie intorno al processo della congiura pe' laici, e non abbiamo motivo di ritenere che siasi ulteriormente proceduto per essa. Ci resta solo la notizia di una relegazione del D'Alessandria all'isola di Capri nel 1615, senza alcun cenno della causa; ma verosimilmente fu questa una mitigazione della pena negli ultimi anni che dovevano ancora scontarsi, secondo il costume del tempo390.

 
 

Veniamo ora all'esito del processo della congiura per gli ecclesiastici. Anche da questo lato dobbiamo dire innanzi tutto, che il tribunale Apostolico non solo rimase aperto, ma tenne pure altre sedute, dopo che ebbe liberati i 12 inquisiti presi per sospetti senza fondamento, e trattate le cause di tutti gli altri ecclesiastici incriminati, riservando la spedizione di esse fino a che ciascuno, o come principale o come testimone, avesse esaurito il suo còmpito nel processo dell'eresia. Così per Giulio Contestabile, visto nel corso di quest'ultimo processo che egli risultava non più incriminabile come principale ed era stato già più volte interrogato qual testimone, dopo il suo ultimo esame del 15 novembre 1600 il tribunale dovè immediatamente riunirsi per spedirne la causa della congiura, e sappiamo che emanò una sentenza di condanna a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria. Tale esito della sua causa trovasi notato in coda del Riassunto degl'indizii compilato contro di lui391; e che la sentenza abbia dovuto essere pronunziata appunto nel novembre 1600, si desume da' documenti relativi all'espiazione della pena assegnatagli. Infatti una lettera del Card.l S. Giorgio al Nunzio, in data del 15 novembre 1602, fa conoscere che il Contestabile avea supplicato S. S.tà di rimettergli per grazia tre anni di esilio che gli rimanevano da scontare, avendone già scontati due, e S. S.tà volea sapere qual fosse l'opinione del Nunzio intorno a ciò392. Fermandoci un momento a questo punto, dobbiamo indispensabilmente notare che circa tale condanna il tribunale non chiese a Roma la risoluzione da doversi prendere, ed anzi non ne diede nemmeno partecipazione alla Curia, come si può desumere dal non vederne fatto alcun cenno in questo senso nel Carteggio del Nunzio: eppure il Breve avea prescritto di procedere «usque ad sententiam exclusive»; sicchè bisogna dire esservi stato un tacito abuso da parte del tribunale e una tacita acquiescenza da parte di Roma. Ciò forse diè poi motivo o pretesto al Campanella di credere che il Breve avesse prescritto di procedere «usque ad sententiam inclusive», come egli scrisse in una Lettera del 1624 a Cassiano del Pozzo pubblicata dal Baldacchini, dolendosi perchè nella persona sua non aveano neanche osservato il Breve che così prescriveva: ma invece è certo che il Breve avea la parola exclusive (noi l'abbiamo riscontrata tanto nella copia che se ne conserva in Firenze quanto nella copia che se ne conserva in Simancas), e bisogna pur dire che coll'abbandono di tale riserva divenne tacitamente compiuto in fatto, mentre non stava in dritto, l'abbandono degli ecclesiastici all'influenza del Governo Vicereale, essendo questa predominante per l'apatia del Nunzio verso di loro. Tornando ora alla grazia chiesta dal Contestabile a S. S.tà, dobbiamo dire che il Nunzio, in data del 22 novembre 1602, rispondeva che non stimava conveniente alcuna grazia prima che il negozio fosse finito, «perchè, diceva, come viene rimproverato da questi Ministri Regii la tardanza in tale speditione, non ne venisse rimproverato anche questo»393: e per verità in Roma non si teneva abbastanza conto dell'irritazione non del tutto ingiusta del Governo Vicereale, e deve anzi notarsi che nella stessa Lettera suddetta del Card.l S. Giorgio il Contestabile era indicato al Nunzio quale «bandito da V. S. di Calabria et di Napoli», come se D. Pietro De Vera non fosse esistito. Nè l'opinione del Nunzio valse a nulla. Non appena deliberata da Roma la sentenza da doversi pronunziare nella causa dell'eresia, il Card.l S. Giorgio nella data medesima scrisse al Nunzio essere cessato il rispetto che si opponeva alla grazia chiesta dal Contestabile, poichè nella Congregazione del S.to Officio era stata «spedita la causa del Campanella»; il Nunzio naturalmente rispose, che quando non si era mostrato favorevole alla grazia perchè il negozio non era finito, aveva inteso dire che dovesse aspettarsi la fine del processo della congiura, nel quale il Contestabile era stato condannato, ma che poi se ne rimetteva a quanto in Roma si stimasse meglio394. E si può ritenere per fermo essersi in Roma stimato meglio accordare la grazia, poichè troppo vive furono le insistenze del Card.l S. Giorgio, troppo potenti le raccomandazioni delle quali godeva il Contestabile; nè occorre dire come il Governo Vicereale dovesse rimanere disgustato ed anche sospettoso relativamente agli altri giudicabili, massime relativamente al Campanella, vedendo che da un momento all'altro poteva esser concessa da Roma una grazia la quale rendeva frustranea ogni condanna, mentre esso avea tanto penato perchè alla determinazione di questa condanna avesse preso parte un Giudice di sua fiducia.

Dopo il Contestabile venne la volta di D. Marco Antonio Pittella, che scappato già in Calabria fu poi ripigliato e tradotto a Napoli verso il marzo del 1601: in tale data il tribunale dovè riunirsi di nuovo e procedere allo svolgimento di questa nuova causa, la quale compì nell'aprile seguente, come rilevasi da una lettera del Nunzio che abbiamo pure avuta altrove occasione di menzionare395. Potremmo dire in breve che questa causa procedè e finì come quella del Contestabile, cioè con una tortura e con una condanna a 5 anni di esilio; ma appunto perchè si tratta di una causa finita con una condanna, gioverà sapere come e perchè essa si ebbe. Oltre il Riassunto degl'indizii contro il Pittella, ci è pervenuta pure la Difesa scritta per lui dallo stesso Regio Avvocato de' poveri Gio. Battista de Leonardis che difese il Campanella: questa Difesa del Pittella non solo ci fa intendere le accuse del fisco, ma anche rischiara tutto lo svolgimento della causa396. Si ricorderà che il Pittella a Davoli accoglieva in casa sua Maurizio e poi il Campanella ed altri incriminati di congiura. Esaminato affermò che Maurizio veniva in una casa la quale egli avea data in fitto ad un Astolfo Vitale parente di lui, e quanto al Campanella egli non lo conosceva: fu sottoposto ad oltre un'ora di corda e non confessò nulla; infine ebbe il decreto per le difese. Il fisco pretese che dovea dirsi colpevole di conversazione con Maurizio e col Campanella e di ricetto di Maurizio, sciente la ribellione e preparato a prendervi parte dietro la testimonianza del Vitale, convinto sciente e non rivelante dietro le testimonianze del Vitale e di Maurizio; e questa volta il Leonardis, avendo una buona causa per le mani, fu piuttosto audace nel farne la difesa. Dopo di aver ricordato che la conversazione e il ricetto si effettuarono in agosto e che il Bando proibitivo fu emanato il 17 e 18 settembre, il Leonardis fece anche notare che quel Bando, emanato da un Giudice laico, non poteva colpire il Pittella clerico; che la deposizione del Vitale, testimone unico e socio nel delitto, non provava nulla e non avrebbe dovuto neanche bastare a far dare la tortura, tanto più che era stata fatta innanzi ad un Giudice laico, tanto più che era controbilanciata da un'altra testimonianza in contrario fatta da Maurizio capo di quella fazione; che per altro il Pittella con la tortura sofferta si era scolpato di tutto; che il Vitale e Maurizio, socii nel delitto ed infami, non potevano convincere nemmeno nel delitto di lesa Maestà, tanto più che erano stati esaminati in un foro laico ed incompetente, non ripetuti nel foro ecclesiastico, nè poi il Pittella, clerico, era obbligato a rivelare la ribellione contro il Principe di cui non era suddito. Malgrado tutte queste ragioni, il tribunale lo condannò a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria, come avea fatto pel Contestabile, verosimilmente ritenendolo del pari sospetto di complicità nella progettata ribellione. Ognuno troverà senza dubbio un po' grave questo giudizio e la relativa condanna, poichè il Pittella avea per sè la testimonianza decisiva di Maurizio in punto di morte, attestante che egli non era nella congiura come gli altri, nè mostrava di goderne come gli altri; si vede bene quindi che il tribunale Apostolico non avea punto smesso il suo rigore, comunque il tempo trascorso avesse dovuto calmare i furori primitivi. Nè occorre dire che esso riteneva sempre la tentata ribellione qual fatto vero ed indiscutibile, mentre condannava il Contestabile e il Pittella a quel modo, donde è facile desumere abbastanza chiaramente come avrebbe trattato il Campanella e gli altri frati più compromessi. E possiamo oramai occuparci appunto di costoro.

Il Campanella e gli altri frati, avuta la condanna per l'eresia ed esauriti tutti gli Atti relativi a questa condanna, nel febbraio o tutt'al più nel marzo 1603 avrebbero potuto vedere spedita la loro causa della congiura. Ma da una parte avvenne allora un mutamento di Vicerè, succedendo il 3 aprile a D. Francesco de Castro D. Alonso Pimentel d'Herrera Conte di Benavente, e sempre, fin dalle prime notizie di prossima mutazione, gli affari d'ogni genere solevano rimanere più o meno incagliati; d'altra parte sopraggiunse direttamente, nello stesso tribunale per la congiura, una difficoltà inaspettata. D. Pietro de Vera, già divenuto sin dall'aprile 1601 pro-Presidente del Sacro Regio Consiglio per morte di Vincenzo de Franchis, poi dal 16 10bre 1602 passato a Presidente per la promozione di Fulvio Costanzo a Reggente di Cancelleria397, comunque in età più che matura, era preoccupato del non aver discendenza e trattava un matrimonio. Non era questa veramente la prima volta che a D. Pietro fosse venuto tale pensiero; il Residente Veneto, che non si lasciava sfuggir nulla ed anche di siffatte cose teneva informato il suo Governo, nel 1598 (25 7bre) scriveva che D. Pietro era sul punto di sposare la figlia di D. Hernando Mayorca già Segretario di più Vicerè, il quale, egli diceva, «prima non avea che la penna» ed allora, morendo, lasciava alla figlia 50 mila duc.ti di dote, ad un figlio 15 mila duc.ti di entrata. Ma poi non se ne fece nulla, ed al tempo al quale siamo pervenuti, come accade col progresso dell'età, D. Pietro non andava più in cerca di ricca dote ma di bellezza e gioventù, ed aveva intavolate trattative con la figliastra appunto del Reggente Fulvio Costanzo, D.a Livia Sanseverino, sorella di D. Scipione che abbiamo visto Marchese e poco dopo Duca di S. Donato (confr. pag. 115): era questa, come dice un manoscritto di Ferrante Bucca che l'aveva probabilmente conosciuta, «la più bella e bizzarra dama dell'età sua», e quasi non occorre dirlo, D. Pietro fu tutto occupato a vagheggiare la sua Diva andando allegramente incontro alle solite conseguenze398. Un altro motivo tenne pure distratto D. Pietro in questo tempo, la morte di suo zio Francesco de Vera, Ambasciatore di Spagna a Venezia, ond'egli dovè partire per quella città: un documento rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere che D. Pietro sottoscrisse il contratto di nozze il 29 aprile, ed una lettera rinvenuta nel Carteggio del Residente Veneto ci fa conoscere che partì per Venezia il 30 aprile399. Con queste circostanze e queste date si può intendere una lettera del Nunzio, nientemeno del 18 luglio 1603, nella quale faceva sapere a Roma (dove non apparisce punto che si pensasse tuttora al Campanella) che subito dopo la spedizione della causa di S.to Officio egli non aveva mancato di sollecitare il suo collega D. Pietro per la spedizione della causa della congiura, ma senza riuscirvi mai; che avendo avuta notizia della partenza di lui per Venezia, l'aveva sollecitato di nuovo ed aveva pure sollecitato il Vicerè, tanto più che i frati ne facevano istanze continue, ma gli si era risposto non essere possibile far nulla prima dell'andata, bensì tutto si sarebbe fatto al ritorno; che infine essendo D. Pietro tornato, e trovandosi prossimo a sposare, fra 10 o 12 giorni, la figliastra del Reggente Costanzo, egli non avea mancato di muovergli il dubbio che siffatta mutazione di stato poteva recare impedimento alla funzione di Giudice de' frati, e gli si era risposto che non dicendo il Breve dover essere clerico non coniugato, non appariva impedimento alcuno. Ora su tale quistione il Nunzio chiedeva gli ordini di S. S.ta400.

Gli ordini, al solito, tardavano a venire da Roma, e per sollecitarli il Nunzio scrisse ancora il 1o, il 15, il 29 agosto, inoltre il 12 settembre, e a quest'ultima data aggiunse esser venuta nuova che fra Dionisio trovavasi coll'armata turca; ma poi ebbe a sapere che in Roma già aveano avuta da altro fonte una tale nuova, ed anzi l'avevano partecipata al Duca di Sessa Ambasciatore di Spagna ed Agente di Napoli401. Il fatto merita bene di essere considerato, ed importa fermarci alquanto sopra di esso: un dispaccio del Bailo Contarini, da noi trovato nell'Archivio di Venezia, ci mostra che n'era rimasto anch'egli colpito, e torna impossibile immaginare che non ne dovesse rimanere colpito il Governo Vicereale. Il Contarini scriveva, che col Cicala si erano imbarcati due uomini del Regno, concertatisi con lui per guidarlo a «svaligiare» un posto di quel paese; inoltre era venuto un frate già carcerato col Campanella per complicità nella congiura e poi fuggito di prigione. Costui, trattenutosi segretamente sulle galere di Malta, nella fazione di Lepanto avea trovato modo di venirsene a Costantinopoli, avea preso l'abito di turco «come haveva anco il cuore», avea «havuto ricapito in casa del Cicala», diceva di conoscere in Calabria oltre 300 affiliati alla setta maomettana e tra essi alcuni di conto, predicava in italiano a' giovani rinnegati «facendo assai danno con la sua lingua», affermava «che presto uscirà anco di prigione il predetto Frate Campanella et ch'ancor lui venirà qui; il che se riuscirà, per esser anch'esso molto litterato, risulterà à grandissimo prejudicio della religione christiana»; aggiungeva poi il Contarini, che «oltre di questi» si erano imbarcati pure due soldati di Malta fuggiti in Lepanto, i quali fattisi turchi offerivano al Cicala l'isola di Gozo etc.402. È agevole comprendere quanto siffatte notizie dovessero aumentare nel Governo Vicereale il sospetto e l'avversione pel povero Campanella. Possiamo affermare con sicurezza, che il Governo Veneto trasmise a Napoli, come era solito, le notizie della prossima venuta dell'armata turca con due uomini del Regno accordatisi col Cicala, e non disse una sola parola del frate già carcerato col Campanella, del quale d'altronde il Bailo non avea distintamente detto che si era imbarcato del pari: questo abbiamo rilevato dagli ordini de' Savii del Consiglio, registrati ne' così detti Codici-Brera che si conservano nell'Archivio Veneto403. Ma il Governo Vicereale avea pure informazioni proprie direttamente da Costantinopoli e in brevissimo tempo, onde non si può affatto dubitare che gli fossero egualmente pervenute le notizie relative a fra Dionisio, tanto più che era già preoccupato dell'amicizia intima di lui col Cicala, siccome ci mostra una Lettera Regia da noi rinvenuta nel Grande Archivio di Napoli404; nè occorre dire come per siffatte cose dovesse sentirsi rimescolato. Esso era stato sempre persuaso che questi frati aveano già iniziati i loro disegni di ribellione e di eresia col mettersi d'accordo co' turchi, segnatamente col Cicala, ed è facilissimo intendere l'impressione che dovea fargli il contegno di fra Dionisio dopo la fuga, la sua andata tra' turchi, l'apostasia, l'intimità col Cicala, la venuta con l'armata nell'ordinaria escursione di essa verso il Regno, l'annunzio misterioso della prossima libertà del Campanella che sarebbe andato del pari a Costantinopoli. Come fin da principio, così anche adesso il Campanella era danneggiato dall'imprudenza, dalla loquacità, dalle vanterie di fra Dionisio, il quale non si smentì mai in tutta la sua vita; e bisogna sommare anche queste circostanze con tutte le altre, per intendere il contegno del Governo Vicereale verso il povero frate, ritenuto sempre pericoloso per la sicurezza e la fede del Regno. Vedremo più in là che fin dal momento in cui giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, il Campanella fu rinchiuso in un carcere molto più duro. – Poniamo intanto qui che il Cicala in quest'anno, come ne' tre precedenti, non potè compiere alcuna impresa contro la Calabria, ed anzi fu notevolmente disgraziato: gioverà conoscere quanto avvenne tra napoletani e turchi in detto periodo di tempo. Dopo l'inutile venuta in Calabria nel 1599, egli uscì di nuovo da Costantinopoli in luglio 1600 con 30 galere, portando scale, zappe e badili, con l'intenzione, per quanto fu riferito, di scendere a Cotrone, sicchè venne spedito a quella volta il Priore di Capua D. Vincenzo Carafa: e il Cicala mandò, come allora si diceva, «due lingue» cioè due galere a prender lingua, a ricevere e dare notizie in Puglia e in Calabria, e scrisse anche al Vicerè, il 14 settembre, che passerebbe nella fossa di S. Giovanni, «quando non per altro, per sbarcare il Sig.r Carlo suo fratello escluso dal possesso del Ducato di Nixia»; ma un grosso temporale lo colse alla Vallona, e lo costrinse a ritirarsi in Costantinopoli, dove rientrò a' primi di dicembre. Anche Arnaut Memi, in settembre, apparve con tre galere in vista di Brindisi, ma forse per la ragione medesima non si mostrò più: invece Amurat Rais, uscito da Biserta più presto, ebbe a soffrire la perdita di una galera presagli da D. Garzia di Toledo, e tornò per vendicarsene e se ne vendicò pur troppo in Calabria. D. Garzia, a' primi di agosto, scorrendo con sei galere le coste del capo Bianco vi aveva incontrate tre galere di Biserta, ne aveva presa una facendo 110 schiavi e liberandone altrettanti, e secondo lui avrebbe preso anche la capitana se i suoi artiglieri avessero fatto fuoco a tempo: Amurat, tornato con sei galere e con una scorta di rinnegati calabresi, a' 23 settembre sbarcò a Cetraro presso Scalèa, vi uccise il Principe di Scalèa nostra vecchia conoscenza con altre 27 persone, e rimbarcò a suo comodo portando con sè 30 prigioni e il corpo del Principe405. Nel 1601 poi, al 1o di luglio, il Cicala uscì da Costantinopoli con 35 galere che giunsero per via fino a 60, e con queste potè prendere qualche nave; ma avendo, il 22 ottobre, spedito da Navarino verso la Calabria tre galere per lingua, ed essendo stato informato che la costa era molto ben munita, alla fine di dicembre rientrò in Costantinopoli senza aver nulla tentato. Nel 1602, parimente in luglio, uscì con 37 galere che sempre si accrescevano per via, col proponimento di danneggiare la Calabria o la Puglia, e però senza ritardo, fin da' primi di luglio fu mandato per Governatore di Calabria ultra D. Garzia di Toledo: alla fine di agosto apparve al capo di Otranto l'armata divisa in due squadre e diretta verso la Calabria, ed a' primi di settembre, giunta nella fossa di S. Giovanni, ne sbarcarono circa tre mila uomini, ma furono respinti con la perdita di 5 de' loro; poi l'armata si diresse a Reggio e vi perdè circa 100 uomini, si rivolse indietro e tentò di sbarcare al Bianco, luogo del Principe della Roccella, e vi soffrì la perdita di circa 100 morti e 30 prigioni, infine spiccò 10 galere da quest'altra parte della Calabria e vi furono incontrate dalle galere di Genova, sicchè doverono anch'esse desistere da ogni impresa. Se ne tornò quindi il Cicala anche prima del solito a Costantinopoli, in novembre, e vi fu universalmente biasimato, tanto più che al tempo stesso giunse la nuova che i napoletani aveano fatta una diversione in Algieri e presa Bugia nell'ottobre. Da ultimo nell'anno presente 1603 egli uscì di nuovo in luglio con 37 galere che poi si accrebbero sino a 60, ma dovè in agosto liberarsi di parecchie di esse andate a male per vetustà, ed impazientito le fece vendere in Negroponte, rinunziando a tutti i suoi progetti e contentandosi di rimanere nell'Arcipelago a dar la caccia alle navi che andavano in cerca di grani: così fra Dionisio non giunse nemmeno a vedere le coste della Calabria, e il Cicala, compiuti i servizii annuali in Salonicco, in Scio, in Alessandria, rientrò a' primi giorni dell'anno seguente in Costantinopoli. Aggiungiamo che quivi era pur allora morto il Gran Signore «senza precedente male», come scrisse il Bailo Contarini, e succeduto Achmet giovanetto a 13 anni; e con suo dispiacere il Cicala dovè abbandonare il capitanato marittimo, inviare la moglie e la suocera al Serraglio e recarsi come generalissimo in Persia.

Giungeva frattanto, il 19 settembre, la risoluzione di S. S.tà circa il dubbio sorto pel matrimonio di D. Pietro de Vera406. S. S.tà non credeva conveniente che un coniugato giudicasse cause di persone ecclesiastiche; ordinava quindi al Nunzio che «per sè solo» conoscesse, spedisse e terminasse per giustizia le dette cause, ma contentavasi che D. Pietro lo assistesse nel conoscerle e spedirle, rimanendo «la totale giuridittione» presso il Nunzio. Pur troppo Roma mostrava di non avere il sentimento esatto della situazione, o piuttosto dava un'altra fra le tante prove di voler mantenere senz'altro riguardo «la superiorità ecclesiastica», con quella insistenza che sovente è stata detta fermezza, ma che evidentemente si sarebbe dovuta dire incorreggibilità. Vi era prima di tutto una notevole contradizione con la teorica ogni giorno professata dai Vescovi e sostenuta sempre da Roma, che i clerici coniugati dovessero ritenersi quali veri e pretti clerici, con tutte le immunità e prerogative ecclesiastiche; il Governo non aveva mai voluto riconoscerlo, ed avrebbe avuto torto a pretenderlo in tale circostanza; ma poteva Roma sconoscerlo? In fin de' conti poi, dopo sforzi non lievi, bene o male, da Roma si era ottenuto che una persona di fiducia del Governo sedesse e giudicasse nel tribunale Apostolico per la congiura; ed ora, nel momento decisivo, profittando di una circostanza che non poteva punto menare a tale conseguenza, si ordinava che quella persona sedesse ma non giudicasse, mentre uno de' principali imputati, fuggito dalle carceri senza sapersi come, si era unito a' turchi e veniva con essi ad offesa del Regno, strombazzando che l'altro imputato sarebbe uscito dalle carceri egualmente e presto! Ma qualora al Nunzio fosse parso bene assegnare al Campanella una pena relativamente mite, si dovea perfino sottostare al ludibrio che l'uomo di fiducia del Governo si trovasse presente a tale decisione? Ci affrettiamo a dirlo: se il Governo si fosse seriamente preoccupato di questa ipotesi, avrebbe avuto torto. Il Nunzio, come si rileva da tutto il suo Carteggio, era pronto a dare mille volte il Campanella al braccio secolare. Egli era convinto che il Campanella fosse colpevole e non aveva per costui, al pari di Roma, il menomo sentimento di pietà: gli fosse pure apparso innocente, per un Nunzio il bisogno supremo era quello di mantenere le buone relazioni tra i due Stati, attendere al ricupero delle grosse entrate della Camera Apostolica e al riconoscimento della «superiorità ecclesiastica» senza guardare troppo pel sottile in tutto il resto. Ma gli uomini di Stato professavano allora strettamente la massima che abbiamo vista enunciare dal Conte di Lemos, «per non errare, fa mestieri ritener sempre il peggio». Il Campanella era pure una forza potente, come avea ben dimostrato col riuscire ad eccitare in tanto poco tempo gli animi di molta gente in Calabria; a Roma poteva essersi formato il pensiero di tenere viva ed in mano sua questa forza per ogni evenienza futura, e poteva esser questo il significato del volere che la pena inflitta al Campanella per l'eresia fosse da lui scontata nell'alma città. Varie altre ipotesi avrebbero potuto ancora affacciarsi alla mente del Governo Vicereale, ammesso che faceva mestieri ritener sempre il peggio. Ma poi, in ultima analisi, perchè doveva esso rinunziare alla sua influenza con tanti sforzi conquistata in tale causa? Come potea riconoscere in modo assoluto la superiorità ecclesiastica anche pe' delitti di lesa Maestà, ciò che si era sempre negato a riconoscere? Senza alcun dubbio, agl'incessanti motivi di sospetto e di diffidenza venivano ad aggiungersi il risentimento e il puntiglio giurisdizionale, e bisognerebbe dimenticare tutta la storia napoletana per credere che questo risentimento e puntiglio avrebbero potuto rimanere senza conseguenze; evidentemente c'era più che non bisognasse per far ricorrere il Governo a' propositi più atroci, a fine di non lasciarsi sfuggire di mano il Campanella.

381Ved. Doc. 420, pag. 526.
382Ved. la così detta Collectio Salernitana, vol. 171, fasc. 1.o fol.o 166 t.o: «Ego Scipio Marullus Stilensis» etc.
383Ved. Doc. 219, 220 e 221, pag. 116 e 117. Vi sarebbe anche un altro Documento, per brevità omesso, una lettera Vicereale che prescrive l'invio della persona stessa del Baldaia nelle carceri della Vicaria in Napoli, sempre per l'omicidio suddetto, senza alcun ricordo de' fatti della congiura. Ved. Reg. Curiae, vol. 55, an. 1603-1604, fol. 163 t.o.
384Ved. Doc. 222 e 223, pag. 117.
385Ved. Doc. 224, pag. 118.
386Ved. Doc. 225 e 226, pag. 118 e 119.
387Intorno a' Grassi sarà bene conoscere ancora i documenti di data anteriore che abbiamo trovati nel Grande Archivio: 1.o Registri Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 40, t.o «All'Audientia di Calabria ultra… Semo informati come Paulo, Pompeo et Scipione Grassi del Casale de Gionadi destritto di Melito hanno commesso molti delitti, per il che fu mandato Commissario dal nostro predecessore, et se le verificorno molti homicidii et furno reputati contumaci per la Vicaria, et dall'hora in poi sempre hanno (sic) armati in cometiva di dodici et più banniti commettendo delitti, et particolarmente li dì passati introrno in lo casale de S.to Constantino et scassorno la casa de una vidua nomine Gratia, et pigliatole due sue figlie l'una zita, et l'altra vidua, et, violentemente conosciutole et stupratole, al che volendo noi provedere come conviene…» (segue l'ordine di catturarli, prendere l'informazione sul fatto e darne avviso) 27 giugno 1600. – 2.o Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 195. «All'Aud. di Calabria ultra… Con questa v'inviamo l'alligate copie d'informationi contro Paulo Pompeo et Scipione grasso sopra il particolare della causa delle scoppettate tirate a francesco aquaro et sua cometiva, et vi dicimo et ordinamo che nella causa predetta debbiate procedere à quanto sarà de justitia che tal'è nostra voluntà. Dat. neap. die xo 7bris 1604». – Al 1606 parrebbe che Pompeo fosse stato già ucciso.==Relativamente a' Baroni di Reggio, essi erano parecchi e si distinguevano da' Baroni di Tropea e da' Baroni di Annoya, egualmente fuorusciti ed anche più numerosi; intorno a loro abbiamo i seguenti documenti, contemporanei e successivi alla data de' processi: 1.o Reg. Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 30. «All'Aud. di Calabria ultra… Dal Capitaneo della città de riggio ci viene scritto che havendo havuto notitia, che alcune persone di quella si erano disfidati et che la città stava in… (sic) andò in persequtione di quelli et carcerò li capi de le due partite che si erano disfidati nomine francesco pesello et domitio barone, per la quale carceratione se quietò il rumore, et forno excarcerati. dopoi li sopraditti francesco et domitio giontamente con innocentio candeloro della medesima città, per causa che il caporale di detta Corte li havea carcerati, in presentia di detto Capitaneo assaltorno detto caporale et con scoppette et spade l'ammaczorno, et fattesi per esso alcune diligentie non ha possuto averli nelle mani stando in paliczi..» (segue il fatto di un altro caporale ammazzato per la stessa ragione, avendo carcerato Paolo Melissari «contumace et uno delli predetti che si disfidorno», e quindi l'ordine di catturare i delinquenti). Ultimo di 10bre 1599. – 2.o Id. vol. 54, an. 1603, fol. 15. «A D. Garzía de Toledo (governatore di Calabria ultra)… Per la vostra delli 7 del presente havemo visto quel' che vi veneva havisato da riggio, che Paulo et Gio. Domenico barone fratelli haveano ammazzato Pietro Gueria per causa di una lite civile che tenevano fra loro, quali si sono andati à salvare dentro una Ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie attorno, il Rev.do in Christo P.e Arcivescovo non li ha voluto permettere se non per quaranta passi attorno detta Ecclesia dentro la quale si stanno detti delinquenti senza nessuno timore, supplicandoci ve si ordinasse quel' che doverete exequire. Al' che respondendo ve dicimo et ordinamo, che si l'homicidio predetto è stato commesso appensatamente, poi che non deve godere dell'immunità dell'Ecclesia debbiati procurare d'haverli nelle mani in ogni meglior modo avvisandoci di quel' che exequireti acciò ne si possi ordinare quel' che convenerà per castigo di detti delinquenti. Dat. neapoli die ultima mens. februar. 1603.»==Da ultimo relativamente a Carlo Bravo, costui scorreva la campagna già prima del 1599 con un suo fratello Fabrizio, e poi, rimasto solo, fu preso nel 1603, ma per delitti comuni, secondochè risulta dai seguenti documenti: 1.o Reg. Curiae vol. 45, an. 1596-1601, fol. 47 t.o «Commissione in persona del magnif.o u. j. d. Julio Cesare malatesta quale si conferisce nella terra di filogasi a pigliare informatione… A noi è stato presentato memoriale del tenor sequente videlicet: Ill.mo et excell.mo Sig.re la povera gratia teti d'anni undici della terra de filogasi della prov. di Calabria ultra fa intendere a V. E. come li mesi passati da fabritio et carlo bravi et ferrante pisano di monte santo fu proditoriamente ammazzato Vincenzo teti patre d'essa supplicante ad instantia di Minico di tini della terra di filogasi per antiquo odio che detto Minico portava ad esso Vincenzo suo patre mediante una certa quantità di denari data a' detti tre assassini, quali fatto detto assassinio perchè poco distante veddero una certa donna nominata antonia quale haveria possuto vedere commettere detto assassinio l'ammazzorno, et dubitando detto minico di tini mandante che tale sceleragine non si scopresse fè dare subito tutore dal Capitaneo d'essa terra, come potente in quella et essendo persona facultosa, ad essa supplicante Masiello di nofrio con il quale proprio haveva trattato di farsi fare subito la remissione per potersi transigere con la corte baronale…» (segue la Commissione ad istanza del R.o fisco e con la proeminenza della Vicaria). Ult.o di ottobre 1597. – 2.o Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 80. «Al Marchese de layno… Per la vostra delli 15 del passato havemo inteso come havete incominciato a procedere nella causa contra Carlo bravo conforme l'ordine nostro non obstante la remessione che dimandava il Prencipe de melito et Duca di Nocera, et como che tal remessione l'ha dimandata quessa città di Catanzaro, et per non farsene mentione nel predetto nostro ordine ci supplicate di posser procedervi non obstante detta remessione si dimanda per questa città con lo de piu che in cio andate significando. Alla quale respondendo ve dicimo che cossì si intende lo predetto nostro precalendato ordine ancorche non ci sia particulare expressione…» (segue la raccomandazione che si spedisca con sollecitudine, vedendo che «in questo negotio se ci procede con molta flemma») 19 decembr. 1603. – 3.o Id. ibid. fol. 175. «All'Audientia di Calabria ultra… Havemo visto la relacione che di ordine nostro ci havete fatta delli delitti che si ritrova inquisito Carlo bravo, per lo che considerato la gravità et moltiplicità delli delitti che hà commessi ve rispondemo et ordinamo che ci debbiate procedere all'espedicione della sua causa conforme à giustitia senza perdere un momento di tempo, et prima de publicare la sententia ci debbiate donare particolare aviso del voto che seranno quessi magn.ci Auditori in tal causa et cossì l'essequirete che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die 28 mens. julii 1604». – 4.o Id. vol. 64, an. 1605-1608, fol. 21. «All'Aud. di Calabria ultra… Per una nostra de li 18 del passato havemo visto per che voto è quessa Reg.a Audientia di condennare à Carlo bravo carcerato in quesse carceri per l'inquisitione di suoi delitti, mà non haveti voluto publicare la sententia per exequtione del ordine che da noi teneti, et ci supplicati siamo serviti darvi ordine di quel tanto in ciò haveti da exequire, alla quale rispondendo vi dicimo et ordinamo che nella causa di detto Carlo bravo debbiate procedere à quanto vi parirà che convenga de justitia che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die ult.a mensis martii 1605».
3881. o Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 138. «All'Aud. di Calabria ultra… Dal Capitanio della Baronia di precacore et S.ta Agata di quessa provintia di Calabria ultra ci è stato scritto come alli 14 de luglio prossimo passato ritrovandosi in compagnia de Alexandro tranfo Barone di detta Baronia venne passando per avante di esso Barone Aquilio marrapodi suo vassallo armato di scoppetta a focile delle lunghe, et essendo passato con arroganza senza levarsi la barretta, et in contento dela Corte mentre era contumace per cause criminale, detto Barone havendoli detto per che causa passava cossi mal creatamente ordinò fosse carcerato, et detto Aquilio con la detta scoppetta che portava calò il cane drizzò la bocca di essa verso detto Barone dicendo adietro non passati avanti che vi ammazzo fando resistenza non lasciandosi pigliar carcerato, per lo che ni ha preso informatione et l'ha inviata a noi per che si proveda a lo che conviene..» (segue l'ordine che procuri aver nelle mani il detto Aquilio e lo mandi in Vicaria) Dat. Neap. 27 septembr. 1606. – Inoltre a fol. 178 t.o trovasi pure una lettera sullo stesso tema al Cap. di Precacore. – 2.o Id. Ibid. fol. 142. «Al Gov.re di Calabria ultra che faccia relatione di quanto per la vedova portia sotira della terra di precacore è stato scritto intorno all'eccessi et homicidii commessi per Gio. Angelo Marrapodi et Aquilio suo figlio in persona de molte persone di d.ta terra et precise del suo marito à finem providendi». Lett. dell'ult.o di ottobre 1606.
3891. o Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 60. «A D. luise de moncada gov.e di Calabria ultra… A nostra notitia è pervenuto come francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, Gioseppe di Paula et aurelio biase di quessa città di Catanzaro non lassano ogni dì fare assassinii, robare chiese, svergognare monasterii de donne monache, stuprare vergine, uccider hor questo et hor quel altro, tagliar facci ad homini et donne honorate, mantener latri et far altri delitti, et che nel mese di 8bre prox.o pass.o non contenti delle cose predette habbiano svergognato a una casa nobile di quessa città in haver appostatamente struppiato un povero homo delli più honorati di quessa città in havendoli tagliato il naso, cavato un occhio et tagliatoli le labra et datoli una ferita in testa, delitti veramente molto imperiosi…» (segue l'ordine che coll'intervento dell'Aud.re Barbuto s'informi) 18 9bre 1605. – 2.o Ibid. fol. 71. «A D. luise de moncada… Dall'Auditor fabritio auletta, et Marc'Antonio rossino advocato fiscale di questa reg.a Audientia, et anco dal Capitaneo di quessa città di Catanzaro semo stati avisati como essendono stati occisi Gio. francesco, et vitaliano bonelli patre et figlio da Geronimo et Gio. Paulo di Cordua di d.ta città di Catanzaro, che nel pigliare dett'informatione sia stato maltrattato il detto Capitaneo dalli Commissionati et soldati di quessa Regia Audientia..» (segue l'ordine che prenda subito informazione) 15 10bre 1605. – 3.o Ibid. fol. 81 t.o «Risposta à don loise di moncada per conto delli forasciti di Catanzaro… Havemo recevuta la vostra relatione de nostro ordine fattaci intorno li delitti se pretendono essere stati commessi per francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, gioseppe di paula et aurelio biasi di quessa città di catanzaro, et come per voi sono stati inviati in certi lochi destinati, et de poi usate tutte le deligentie possibile per scoprir li detti delitti non haveti possuto in sin adesso havere tracza alcuna de essi, solo havete inquisito à Gio. thomaso del stroppio fatto in facci de gio. domenico marcello per la causa contenta in detta relatione, et como non l'haveti possuto havere alle mani, narrandoci come li predetti insieme a gio. paulo di cordova ammazzorno gio. francesco et vitaliano bonelli padre e figlio et anco insultorno al dottor fabio Conte…» (lo loda e ordina che continui) 30 gen.o 1606. – Questo per la sola città di Catanzaro, dove è manifesto che il Franza, il Cordova e lo Striveri con gli altri, aveano intimidato tutti; e senza uscire dallo stesso sud.to vol. Curiae si può vedere cosa accadeva a Stilo, dove (fol. 59) trovandosi il Capitano in Guardavalle, «alla casa del giudice di Stilo absente fu fatta petriata due notte» etc. etc.
390Ved. Doc. 228, pag. 120.
391Ved. Doc. 263, pag. 175.
392Ved. Doc. 132, pag. 75.
393Ved. Doc. 133, pag. 75.
394Ved. Doc. 135 e 136, pag. 76 e 77.
395Let. del 6 aprile 1601; ved. Doc. 119, pag. 71.
396Ved. Doc. 266, pag. 183.
397Ved. Registri Privilegiorum vol. 124, an. 1602, fol. 114. Il Privilegio per D. Pietro in data «Vallis Oleti 16 xbris 1602» ebbe l'esecutoria in Napoli il 18 marzo 1603.
398Ved. il ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, c. 20), intitolato «Desgratiato fine di alcune case napolitane», fol. 62. Pur troppo si rinvengono in questo codice registrate molte nostre conoscenze, il Principe di Conca, D. Ottavio Orsini Conte di Pacentro, Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, Marc'Antonio d'Aponte, Gio. Battista De Leonardis. Non la finiremmo più a voler dare anche un piccolo cenno delle miserie patite da tutti costoro.
399Ved. Registri Privilegiorum vol. 137, an. 1607-1608, fol. 80, ove trovasi il Regio assenso alla convenzione tra D.a Livia e D. Scipione Sanseverino Duca di S. Donato, pel pagamento di D.ti 15mila assegnati in dote con molti patti e clausule dalla madre e balia D.a Lucrezia Carafa Marchesa di Corleto già moglie di D. Ippolito Sanseverino, ed è citato «l'albarano» tra la Marchesa e D. Pietro nella data suddetta. – Ved. inoltre il Carteggio del Residente Veneto anno 1603, Dispaccio del 29 aprile.
400Ved. Doc. 138, pag. 177.
401Ved. Doc. 139 a 142, pag. 77 e 78; inoltre Doc. 144, pag. 79.
402Ved. Doc. 200, pag. 99.
403Ved. Doc. 201, pag. 100.
404Ved. Doc. 237, pag. 124. Si noti che il 12 di luglio avvenne la partenza dell'armata: il 27 già poteva il Governo Vicereale averlo conosciuto, poichè soleva contemporaneamente partire un legno sottile con una spia, che in quindici giorni toccava le coste del Regno e trasmetteva le notizie a Napoli.
405Tutti questi fatti, e così pure i seguenti, sono stati raccolti nell'Archivio Veneto e nel Toscano, da' Carteggi de' Baili da Costantinopoli, del Residente di Venezia e dell'Agente di Toscana da Napoli. I Baili al ritorno del Cicala, sempre che potevano, facevano procedere all'interrogatorio con giuramento di qualche schiavo o di qualche altro individuo loro confidente che avea preso parte alla spedizione, e mandavano il processo verbale a Venezia; tanta era l'importanza che Venezia annetteva all'avere notizie precise di ciò che avveniva sul mare. Il Parrino fa succedere la spedizione ben riuscita di D. Garzia allo sbarco di Amurat, ma è attestato invece il contrario tanto dal Residente di Venezia quanto dall'Agente di Toscana. Vedi pe' Dispacci Veneti i volumi degli anni suddetti, e per quelli di Toscana le filze Medicee 4087 e 4088, dispacci del 22 e del 29 agosto 1600.
406Ved. Doc. 143, pag. 78.