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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata utilissima egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il 3.o articolo non era neanche messo in discussione; il 2.o articolo provocava la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita; il 1.o articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni del Curato e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia. Da questo lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale veramente avrebbe potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò abbastanza impacciato nella sua deposizione; ma ad ogni modo attestò il fatto essenziale, e non si comprende come i Giudici non si fossero creduti in obbligo di udire su quel fatto il Martines ed anche il Domenicano confessore del Pizzoni, che avrebbero potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia bisogna ricordare che si era avuta una dichiarazione scritta per conto del Pizzoni vicino a morire, avendo lui voluta sgravare la sua coscienza per quegli scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati (ved. pag. 200); e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza, se veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto fra Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del Pizzoni, che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno a quel fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro di Stilo, che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle persone di casa Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno del tormento per confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere nell'accusa di falsa testimonianza col disdirsi, o veramente la sua coscienza non gli permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce difficile non abbracciare questa seconda opinione; ad ogni modo egli non si disdisse nè sulla ribellione nè sull'eresia come si era sperato. Quando le copie degli esami raccolti furono date a fra Dionisio, costui, non trovando quella dell'esame del Petrolo, potè capire come la cosa fosse andata: non di meno il Campanella, dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più tardi nella Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che «fatto poi processo nel S. Officio… tutti li testimoni si ritrattaro in utraque causa», come pure che «li monaci fur in S. Officio ritrattati o convinti di falsità». Per lo meno il Campanella non fu bene informato: solamente il Lauriana fu sufficientemente provato falso testimone, ma il Pizzoni e il Petrolo, i due testimoni davvero gravi per lui, non si poterono dimostrare ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare quanto la cosa debba dirsi importante.

Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non fu eseguita prima del 18 giugno312. Per l'abitudine poi di quel Vescovo di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi, la causa de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto si procedè a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo memoriale al Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di Caserta (20 e 28 agosto) reclamò contro l'empara interposta dal S.to Officio alla sua liberazione mentre era stato «liberato dalle altre cause», e supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario emise l'opinione che fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e il Vescovo emanò da Caserta un decreto per l'abilitazione, la quale fu accolta anche dal Nunzio e dal Vicario generale Graziano e subito eseguita, con la fideiussione prestata dal padre del Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli sotto pena di D.i mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella quale fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a S.ta Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava coloro i quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in Caserta, il 30 agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e dei suoi colleghi, perchè fosse citato fra Dionisio ad dicendum nel palazzo del Nunzio, dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata spedita la causa nella sua prossima venuta a Napoli313. Quest'ordine singolare, con l'assegno di un giorno non determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle ingiunzioni che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del Nunzio che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio l'andamento del tribunale di S.to Officio, ed ogni qual volta ne vedeva sospese le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2 agosto il Nunzio scriveva al Card.l Borghese (successo nelle cose dell'Inquisizione al Card.l di S.ta Severina morto il 1.o giugno 1602), che più volte il Vicerè gli avea ricordata la spedizione de' frati inquisiti di eresia «per che poi si potesse spedir anche il negotio della Ribellione trattato son già circa due anni», e il giorno precedente gli avea pure fatto scrivere dal suo Segretario Lezcano un biglietto in tale proposito; laonde pregava che si desse ordine a Mons.r di Caserta di mandare a Roma le scritture e quanto si era fatto per la spedizione della causa. Il 9 agosto ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni avute da D. Gio. Sances «Fiscale di permissione di N. S.re nella causa della rebellione di Calabria»; e nella stessa data il Card.l Borghese gli facea sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo di Caserta di mandare «il resto delle scritture co' voti de' signori Congiudici», sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad occuparsene senza ritardo.

Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò di nuovo S. S.tà perchè la sua causa fosse spedita, non essendosi in lui trovata alcuna colpa314. Il 17 agosto il Card.l S. Giorgio lo partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S.tà che desse informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli perciò una copia del memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di aver sofferto innocentemente tre anni di carcere, di essere più volte ricorso al Vicerè, al Nunzio, a D. Pietro de Vera senza aver mai ottenuto nulla, di trovarsi in carcere solamente perchè fratello di fra Dionisio, concludendo col supplicare S. S.tà che si degnasse «ordinare à Mons.r Nuntio, et altri Giudici, che debbano con effetto provederlo di giustitia, giudicandolo secondo la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo la ragion di Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo dovria cessare». E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato carcerato «più per essere fratello di fra Dionisio… che per delitto che si pretendesse contra di lui», ma «pe' suoi ragionamenti molto domestici» avuti di notte col Campanella, era stato ritenuto conscio del fatto e quindi da dover rimanere in carcere fino a che la causa fosse spedita: «intanto (egli aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si fermò il negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine, et si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa dell'Inquisitione»; questa si era protratta tanto che i Ministri Regii ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di Caserta era stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di lui in Napoli dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata la spedizione di fra Pietro315.

In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta il Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente, fra Pietro aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e dovè rassegnarsi a vedere prima terminata la causa di eresia per tutti gl'inquisiti, tra' quali apparve egli pure compreso, mentre neanche il Nunzio nella sua lettera a Roma avea mostrato di essersene mai avveduto! Fortunatamente si era già ordinato di venire alla conclusione intorno all'eresia, per poi passare alla conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta appunto a narrare esponendo gli esiti de' processi.

V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni, dal maggio 1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un qualche sollievo all'infinita noia inflitta a' lettori coll'esposizione del processo di eresia, inflitta veramente non per colpa nostra, ma per colpa de' Giudici. Come avea cominciato fin da' primi momenti dell'arrivo nelle carceri di Napoli, egli continuò a comporre poesie e prose, e per determinare nel miglior modo la data rispettiva, sarà bene dividere in due il periodo anzidetto. Nel 1o, che va dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, data della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali del Castello, egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono trovate presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo veduto costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente; inoltre compose o meglio ricompose il libro della Monarchia di Spagna. Nel 2o, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano alle opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica, che si ricorderà essere stata trovata sotto la finestra del suo carcere, buttata giù al momento in cui vi entravano gli ufficiali del Castello.

 

Al libro della Monarchia di Spagna egli attese certamente con la maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la difesa della causa della congiura: dopo gli Articoli profetali, probabilmente dalla 2a metà del maggio 1600, dovè esser questa la sua unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda mano il ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo spiegati a lungo altrove intorno alla data della composizione della Monarchia (ved. vol. 1o, pag. 146-47) e ne abbiamo anche detto qualche altra cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e 113); non sentiamo quindi la necessità di discorrerne ulteriormente. Solo diremo, che prima del giugno 1601, data in cui fra Pietro di Stilo presentò le Difese al tribunale, il libro dovè essere stato già scritto e mandato a Stilo, per farlo trovare in quel posto e farne menzione appunto nelle Difese. Nè ci dissimuliamo che siffatto termine di un anno, impiegato nella ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il Campanella, sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare che il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel carcere; ma ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu guardato di molto a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a provarla col tormento della veglia. Del resto, come abbiamo già fatto notare altrove, importa poco che il libro sia stato composto nella fine del 1598 o nel 2o semestre del 1600, non essendovi gran differenza tra l'essere stato scritto quando si meditava una congiura o quando si voleva dimostrare che non c'era stata congiura; importa solo sapere che non fu composto dopo dieci anni di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di occasione, destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde non gli si può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni del Campanella.

L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove, negli esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran copia, esso reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora al Reggente Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e di data, ora reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data del dicembre 1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore. Nel Syntagma de libris propriis troviamo registrato che egli compose la Monarchia dapprima in italiano, e poi essa «giunse nelle mani di tutti, nella lingua italiana e nella latina, dalle collezioni di Gaspare Scioppio e di Cristoforo Flugio». Vedremo più in là che il Flugio fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe certamente la Filosofia che il Campanella finì di scrivere dopo la Monarchia; non ci sembra quindi arrischiato l'ammettere che abbia avuta anche la Monarchia in siffatta occasione; lo Scioppio poi ebbe egli pure la Monarchia con diverse altre opere verso la metà del 1607. Volendo prestar fede al Syntagma, bisognerebbe dire che il Campanella abbia voltata in latino la Monarchia innanzi il 1607: ad ogni modo ci pare che le due date diverse della consegna di questo libro, il 1603 e il 1607, dieno la ragione del trovarlo indirizzato una volta semplicemente a D. Alonso, e un'altra volta al Reggente Marthos con tutte quelle altre sfolgoranti circostanze della provenienza e della data. Giacchè appunto nel frattempo, alla fine del gennaio 1604, come si rileva anche dal Carteggio del Residente Veneto, era trapassato il Marthos; avea quindi potuto il nome di lui esser posto in luogo di quello di D. Alonso, rimanendo così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas, e fornita una prova più limpida dell'affezione dell'autore agli spagnuoli, se non presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene, presso la Curia Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il medesimo Re di Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il povero filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro altre innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo tempo l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra gli eruditi; del resto un confronto qualunque de' diversi esemplari non è stato mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così per questa come per ogni altra opera del Campanella rimasta lungamente manoscritta, poichè nelle varianti potrebbe rilevarsi meglio la mano dell'autore e scoprirsene anche l'animo o piuttosto i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si conosce che la Monarchia fu pubblicata per le stampe dapprima in tedesco, senza indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo Besoldo, il quale l'ebbe certamente dal suo amico Tobia Adami cui fu consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto più tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte dell'autore, in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo (Hardevici 1640, Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643); quindi fu tradotta anche in inglese da Ed. Chilmead con pref. di Wil. Prinae in Londra 1649, ma nell'originale italiano fu pubblicata solamente a' giorni nostri a cura del D'Ancona in Torino 1854316. Una lettera inedita del Campanella, che noi pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli ultimi anni della sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme con un'altra analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al Vicerè317; ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne la pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore ed anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in Napoli (tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP. Gerolamini), una in Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne passarono a Parigi (Bibl. Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e una ne giunse pure a Londra (Mus. Brit. Egerton-collection no 10,689) che reca essere stata eseguita «anno 1634 a quinto di Septembre». Non paia eccessiva tutta questa discussione, trattandosi della Monarchia di Spagna, che per lo meno riguarda troppo da vicino l'argomento nostro.

Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in questo periodo occupato pure della revisione de' «Discorsi a' Principi d'Italia» etc. che tanta attinenza aveano col libro della Monarchia di Spagna e che furono menzionati egualmente nella sua Difesa. Ma ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati a Massimiliano, e d'altronde, così come li possediamo, offrono la citazione di qualche opera scritta ancora più tardi; bisogna quindi rimandarne l'avvenimento della revisione a una data posteriore.

Venendo alle Poesie, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come p. es. la Sig.ra D.a Anna che vedremo dover essere stata una parente di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e dobbiamo ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo circoscritto dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi allora ben riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito assegnarne al detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le poesie indirizzate a persone, specialmente del bel sesso, in rapporti più o meno diretti con la famiglia del Castellano, nè poi il Campanella dopo la veglia avea peranco cessato di mostrarsi pazzo. Bisogna dunque conchiudere che nel Castello, perfino presso il ceto autorevole, non mancarono persone pietose e ben disposte verso il prigioniero; nè egli mancò di procurarsene la benevolenza e mostrarsene grato, esaltandone le virtù, carezzandone anche la vanità, abbandonandosi perfino al genere erotico e lascivo, sempre col gusto de' tempi, non senza comporre versi egualmente per conto di altri, spesso per procurarsene qualche favore e sovvenzione nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà quindi maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di niun valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; nè farà maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più elevati, si notino principii politici e religiosi comuni, mentre l'autore avea bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano circolare tra persone sovente attaccate al Governo, più sovente attaccate alla religione nel senso volgare. Si comprende agevolmente, che non potremmo fare una rassegna minuta di tutte queste poesie senza allungar troppo la nostra narrazione, ma si comprende pure che non possiamo passarcela di volo, dovendo rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in questo notevole periodo della sua prigionia.

Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e menzionati nel Syntagma quali Ritmi consolatorii, diretti a dar vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso

 
«La scola inimicissima del vero»
 

e l'altro col verso

 
«Mentre l'aquila invola e l'orso freme»318.
 

Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non senza mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra quanto il Campanella tornasse volentieri su questo tema, per ricordare «il fine instante delle cose umane»: esso fu dettato ad occasione di una richiesta avuta di scrivere qualche Commedia, e comincia col noto verso

 
«Non piaccia a Dio che di comedie vane» etc.319.
 

Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire Felice Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di Commedie. Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello poco convenientemente intitolato «Al Principe di Bisignano», che è veramente un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella medesima prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il poeta ha motivo di dire

 
 
«Gran forza e speme tanto essempio adduce»320:
 

vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni passati dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia, ed anche circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri calabresi la sola «cessata ragione di Stato» dovea sembrare un motivo soddisfacente.

Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque, intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e «Roma a Germania»321. Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma di Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di Sonetto con appendici, e fu anche intitolata «Agl'italiani che attendono a poetare con le favole greche», mentre originariamente non aveva titolo determinato; nè sarà superfluo far avvertire, che le prime notizie delle proprie Poesie date dal Campanella nella lettera al Card.l Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.l S. Giorgio e al Re di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del 1611, fanno distinta e principale menzione di tali poesie politiche322.

Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel quale son pure notevoli diversi concetti generali e particolari: l'essere cioè «sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere», il ferir sempre di nuovi affanni «lo stilense» il quale «quella patria honora che poi lui dishonora», il non cessar mai «di servir chi la paga d'ignoranza, discordia e servitute» alludendo certamente a Spagna ed a' Principotti italiani. Non parliamo poi del Sonetto a Genova nè di quello a Venezia, permettendoci solamente di ricordare ancora una volta, che da quest'ultimo, e non da ciò che dovè scrivere in certi momenti tristissimi, conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a quella mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa il Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile

 
«Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,
ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando»,
 

mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più «vergognarsi per l'onor di Dina» nè Simeone nè Levi. Ecco dunque uno spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve sfuggire che il Sonetto fu scartato quando si venne alla pubblicazione delle poesie, e si può anche osservare, che mentre ne' versi originarii della poesia menzionata più sopra e diretta «Agl'italiani» etc. si leggeva

 
«… la gran Roma
dove anche ha Dio suo tribunal costrutto»,
 

ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse

 
«E del cielo alle chiavi alfin pervenne»;
 

cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto «Roma a Germania», esso segna il passaggio alle poesie religiose, rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma è nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii d'immancabile rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto fu pure scartato, e manifestamente uno studio dello scarto fatto riescirebbe davvero istruttivo. – Citiamo qui, al sèguito degli anzidetti, il Sonetto «Sovra il monte di Stilo»323, poesia di niun valore, ma espressione di un caro ricordo del povero prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti religiosi. Essi sono al numero di sei, de' quali furono poi pubblicati quattro, e riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la Croce, l'Ostia consacrata324. In tutti brilla la professione di cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo di Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato; intorno alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la tendenza a mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo trionfante, ed anche in ciò si trova una giustificazione riferibile alle cose emerse dal processo. De' due, che non furono poi pubblicati, l'uno tratta ancora del sepolcro di Cristo ma in tuono assolutamente predicatorio, l'altro rappresenta un fervorino sull'Ostia consacrata, e risulta esso pure una giustificazione. Si direbbero tutti questi Sonetti composti nella Pasqua del 1601.

Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse, talora non determinate, talora più o meno determinate, delle quali, potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia, massime allorchè si tratti di persone benefattrici del povero prigioniero. Ci liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per l'entrata di un alunno incognito nell'ordine monastico de' Somaschi, l'altro per l'entrata di un'Artemisia del pari incognita in un convento325. Citiamo poi due Sonetti indirizzati a due persone delle quali già abbiamo fatto conoscenza326: l'uno al Sig.r Cesare Spinola «splendor d'Italia, difensor di virtù», che l'autore encomia e ringrazia

 
«Del Campanella per la defensione
contro lo stuol traditoresco e rio»,
 

e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre 1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari data e per la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di Castiglia, che l'autore loda molto anche come poeta, cantore di donne sante, di cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E forse egualmente al Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi indirizzato il Sonetto che nella Raccolta vien subito dopo327: esso rappresenta una gentile ammonizione al seguace del Tasso, cui addita una meta più alta e abbastanza notevole per l'argomento della nostra narrazione, quella meta per la quale, il poeta dice, gioverebbe avere a guida Dante e Petrarca, scaldarsi al «fuoco de' lor petti», sentirsi il cuore punto «da giuste ire», elevarsi ed elevare

 
«Al degno oggetto dell'umana mente».
 

Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.r Aurelio328, un «canoro Cigno» tra' molti che si riunivano nelle Accademie napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da Spagna. Non sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi abbia potuto essere questo Sig.r Aurelio: ad ogni modo egli dovè vedere il Campanella ed eccitarlo a cantare di Cesare, e il Campanella se ne scusò adducendo le sue tristi condizioni,

 
«Che in atra tomba piango i miei dolori
sol pianto rimbombando il ferro e il sasso».
 

Ecco ora un Sonetto al Sig.r Troiano Magnati329, un cavaliere del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.a Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente, egli faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una specie di Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè, composta per metà di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti sempre tra le persone nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra le persone nobili di prim'ordine: una cedola di pagamento del soldo per l'anno 1596, ed una dimanda di licenza al Vicerè per l'anno 1610, che si leggono nelle scritture dell'Archivio di Stato, ci hanno fatto conoscere questa sua condizione di Continuo330. Il Campanella, dopo lodi enfatiche e seicentesche, gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi compagni:

 
«… vendichi l'onte
fatte a tanti virtuosi e a me meschino».
 

Veniamo a D.a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre poesie331. Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, ci mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia Cavaniglia Conte di Montella, ma forse figliuola naturale, già vedova fin dal 1593 di Fabio Magnati, e madre di Troiano, Flaminio, Gio. Battista e Geronimo332. Si sa che i Cavaniglia, gente valorosa e fida e di sangue regio, vantavano l'essersi stabiliti nel Regno col 1.o D. Garzia, venuto da Valenza in Napoli con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445 e celebrato dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più tardi, nel 1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano nella Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel Sarrubbo, e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.o D. Garzia, Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento suddetto non lascia dubbio sulla origine di D.a Ippolita, mentre d'altra parte i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo fanno spesso menzione di lei e de' suoi333. Quanto a Fabio Magnati, il Capaccio mostra la famiglia de' Magnati proveniente da Bologna, dove essa era una delle 40, venuta in Napoli con Carlo 1.o, e dichiara Fabio «dottore di leggi, gentil' huomo virtuosissimo»334: non è improbabile che egli fosse Auditore del Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua famiglia. Nel corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a D.a Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio, che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello. Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni storielle suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi, vediamo esaltata la sua

 
«Generosa pietà, man liberale»
 

e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà sovente lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso; onde si vede che effettivamente il Campanella sentiva per lei quanto le esprimeva nel verso

 
«L'altre femine son, tu donna sei».
 

Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella rivela tutta l'intensità della sua gratitudine:

 
«.. mille grazie e benefizii farmi
volesti ancor; felici ferri e sassi,
che stringete i miei passi,
ringraziar non poss'io
nè gioir del sol mio,
ringrazio voi e di voi più non mi doglio» etc.
 

Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è l'altra seguente, indirizzata a una Sig.ra Olimpia335: non ci è riuscito interpetrare chi abbia potuto esser questa Signora e parrebbe che non abitasse nel Castello, poichè i libri parrocchiali non fanno alcuna menzione di un nome simile; il Campanella ne loda essenzialmente «l'umanità». Lo stesso dobbiamo dire della Sig.ra Maria, della quale il Campanella esalta la grande bellezza ed invoca la cortesia e la pietà, mostrando pure che glie ne avesse dato prova una volta e poi si fosse posta in contegno336: tali circostanze ci hanno fatto per un momento pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina e moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il Campanella con la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo all'indole de' tempi veder chiamata la Castellana di casa Mendozza col nome di «Sig.ra Maria», e difatti «D.a Maria» o semplicemente «Maria» si trova sempre chiamata ne' libri parrocchiali del Castello. Potrebbe essere stata una Maria Gentile o una Maria Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le si vede anche indirizzato ad istanza del Sig.r Francesco Gentile un Madrigale tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi sarebbe una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui qui si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in supposizioni troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.ra «D.a Anna». Qui il titolo è tale da dover fare ammettere senz'altro una Signora di casa Mendozza, ma, secondochè insegnano i libri di materie nobiliari e i libri parrocchiali del Castello, vi furono non meno di tre Signore di questo nome; 1.o D.a Anna di Toledo figlia di D. Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro di Mendozza già Castellano e madre di D.a Maria la Castellana moglie di D. Alonso, rimaritata a D. Lope di Moscoso Osorio 4.o Conte di Altamura, onde ne' libri parrocchiali trovasi anche detta «Anna Moscosa»; 2.o D.a Anna sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia di D.a Maria ed anche dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che le era cugino, maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S. Angelo, lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone, spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.o D.a Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo e dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre «D.a Anna» ne' libri parrocchiali337. Forse a quest'ultima, forse anche meglio alla prima D.a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu indirizzato il Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette Signore sia stato esso indirizzato, si tratterebbe sempre di persone in parentela stretta col Castellano, ed in ciò precisamente risiede la singolarità del fatto, mentre il filosofo mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia. Quanto ai concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza e nobiltà di D.a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli spasimi a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in poesia tanti e tanti anni senza nauseare338: lo stesso si trova egualmente in più composizioni del Campanella, delle quali dobbiamo ancora discorrere, onde si rileva che pure da questo lato egli abbia sacrificato al gusto e alla necessità de' tempi senza esitazione.

312Ved. Doc. 416, pag. 520.
313Ved. Doc. cit.
314Ved. Doc. 127, pag. 73.
315Ved. Doc. 128, pag. 74.
316Da una lettera del Campanella del 10 agosto 1624 a Cassiano del Pozzo, lettera pubblicata dal Baldacchini, apparisce che il Campanella riteneva essere stata la Monarchia tradotta anche in ispagnuolo e che questo accresceva le sue speranze di liberazione: per lo meno se fu tradotta in ispagnuolo, non fu stampata in questa lingua, avendola noi invano cercata nella Bibl. naz. di Madrid e in quella dell'Escuriale. Il Bosoldo poi ebbe cura di tradurla o farla tradurre in tedesco, perchè la politica era uno de' suoi studii prediletti, ma non si comprende perchè non l'avrebbe pubblicata in latino, se fosse stata già tradotta in latino, e questo ci dà motivo di sospettare che le affermazioni del Syntagma sopra citate possano essere inesatte. Quanto alla pubblicazione in italiano, essa fu condotta sulla copia scorrettissima esistente in Firenze, e il D'Ancona dovè lavorarvi assai e se la cavò con molto suo onore; ma ci sia lecito ripetere il voto, che laddove abbia a rifarsene l'edizione si tengano presenti le copie napoletane che si prestano tanto bene a' confronti.
317Ved. Doc. 524, pag. 604.
318Ved. Doc. 497 e 498, pag. 572 e 573.
319Ved. Doc. 494, pag. 571.
320Ved. Doc. 488, pag. 569.
321Ved. Doc. 504, 512, 515, 513, 517, pag. 575, 579, 580, 581.
322Nella lett. al Card.l Farnese si legge: «un volume di sonetti e canzoni a varie repubbliche regni et amici e salmodie…» etc. Nel Memoriale al Papa, pubblicato dal Baldacchini e riprodotto dal D'Ancona, si legge: «un volume di varie rime e Salmodie… morali e politiche».
323Ved. Doc. 502, pag. 574.
324Ved. Doc. 507, 505, 506, 509, 510, 508; pag. 576-577.
325Ved. Doc. 495, pag. 571; e 511, pag. 579.
326Ved. Doc. 462, pag. 559; e 491, pag. 570.
327Ved. Doc. 492, pag. 570.
328Ved. Doc. 499, pag. 573.
329Ved. Doc. 463, pag. 559.
330Ved. le Cedole di Tesoreria vol. 427, an. 1596, pagamento in data 30 giugno di D.i 150 per soldo de anno uno; e le Carte diverse del Governo dei Vicerè, fasc. 2o, an. 1610, dimanda in data 10 luglio, con la quale D. Troiano chiede licenza di poter rimanere un anno fuori Napoli.
331Ved. Doc. 467, 468, 477; pag. 560, 561, 564.
332Ved. i Registri Privilegiorum vol. 104, an. 1593-95, fol. 84. Sospettiamo che la madre di D.a Ippolita non sia stata Porzia Pignatelli moglie di D. Garzia, giacchè in questo documento, oltre l'assegno in moneta fattole dal padre, si ricorda anche questa promessa da lui avuta, «vita durante della madre di d.ta D. Ipolita consignarli ogni anno mensatim tomola ventiquattro di grano».
333Ved. Sarrubbo, Trattato della famiglia Cavaniglia, Nap. 1637, e De Lellis, Famiglie nobili di Napoli, ms. della Bibl. naz. nap. X, A, 3. fol. 263, e X, A, 8, fol. 175-193. – Negli stessi Reg.i Privilegiorum vol. 86, an. 1587-88, fol. 96, trovasi la donazione della parte legittima de' suoi beni fatta da Cornelia Cavaniglia nel vestirsi monaca, e in essa si citano la madre Porzia Pignatelli e i fratelli Troiano, Scipione, Fabrizio e Mario. Ne' libri parrocchiali della Chiesa di Castel nuovo è citato più volte Fabio Magnati fino al 1585, e Troiano Magnati due volte, nel 1596 e 1598; D.a Ippolita Cavaniglia poi è citata un grandissimo numero di volte, specialmente come madrina, anche in compagnia di D.a Anna e di D.a Maria de Mendozza, talora in compagnia del Principe di Bisignano quando costui era carcerato; e da ultimo l'elenco de' morti reca, «A dì 29 de xbre 1615 morì D.a Polita Cavaniglia, sepolta nel ihs vecchio» (intend. nella Chiesa del Gesù vecchio).
334Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 774.
335Ved. Doc. 469, pag. 561.
336Ved. Doc. 465, pag. 560.
337D.a Anna de Mendozza, figlia di D. Diego e D.a Claudia de Caro fu sposa a D. Ferrante de Bernaudo (ved. Reg.i Sigillorum 18 7bre 1595) e ne ebbe varii figli, Claudia, Francesco, Diego, Beatrice (ved. i libri parrocchiali per gli an. 1595-98-99 etc.); era dunque figlia e non moglie al Bernaudo, che fu poi creato Duca, la Claudia di cui parla il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1564 vol. 1o pag. 399). Aggiungiamo che vi fu una Claudia Antonia de Mendozza, ultima figlia di D.a Isabella Marchesa della Valle e quindi nipote di D. Alonso il Castellano, la quale nel 30 8bre 1614 sposò Alessandro Ridolfi di famiglia fiorentina, generale del Papa, Ambasciatore straordinario di Mattia Re d'Ungheria al Re di Spagna, divenuto in Napoli Consigliere del Collaterale, pensionato con D.ti 1000, ed anche Marchese di Baselice: costui parecchi anni più tardi fu in relazione col Campanella, il quale parlò appunto di lui in una Lettera al Papa del 9 aprile 1635, che è tra quelle pubblicate dal Berti, quando disse che co' fratelli Ludovico ed Ottavio (Ridolfi) stava «in Castel di Napoli dove era accasato il Marchese et io carcerato».
338Ved. Doc. 466, pag. 560.