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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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«Questi mesti sospiri è questi versi
da le mie proprie man vergt' e scritte (sic)
coss' cantando, e sospirando muore
del bel Meandro in su l'herbose rive
il bianco Cigno à la sua morte appresso
se cancellanti (sic) e malamente intesi
seranno i tristi miei dolenti versi
fia solo (oime) perche sarà la carta
dal proprio sangue mio machiata e lorda
allor dovean l'invidiose parche
che dispensan l' vite de i mortali
haver finito d'avoltare il fuso
lo stame di mia vita all'hor potei (sic)
chiudere in bella et honorata sera
i miei sì belli et honorati giorni
quando te vidi in quella Real Sala
rapresentare in detti versi belli
il pastor Ergasto»…
 

E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche a dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.e Cherubino dichiarò questa scrittura «litera amorosa… simpliciter enarratur amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae aliquo modo sapiant haeresim». Ci resta infine a menzionare ancora un'altra lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in caratteri molto grossi segnati con la matita o forse col carbone, da uno che stava nella segreta, in questi termini: «Patron mio V. S. me mandi per il Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa che non so quello mi fare il giorno, mandatime si avete alcuno altro spassatempo, il grinto voli ch'io amo scosse che vostra Matri ami o la cara del Carpio et il carniero del barone (gergo di convenzione tra carcerati), avisatime alcuna cosa et dite al Sig. Scipione (Scipione Moccia Auditore del Castello), e al sig. Gio. Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme con il Sig. Castellano farne uscire de qua o farme unire con mio Compare» (notiamo che Orazio S.ta Croce dicevasi compare del Gagliardo e trovavasi allora egli pure in segreta). – Così uno de' «passatempi» del Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e tutto ciò che di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo giovane a 22 anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi realmente, nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo, di venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande circospezione.

Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.to Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar notizia di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo, singolarmente poi di questo che ci fece avere le Poesie del Campanella, ma anche per mettere in luce tutti gli elementi capaci di farci intendere le qualità del Gagliardo. Aggiungiamo che i colpevoli delle scritture proibite pervennero con le loro deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle precisamente del Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo: fu dunque stralciato questo carico dal processo principale e riunito agli altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo secondario contro il S.ta Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr. pag. 239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo qui, che contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale, poichè non lo troviamo esaminato ulteriormente; contro il Soldaniero, non avendo lui osservato l'obbligo di rimanere in Napoli ed essendosene partito per la Calabria, si prescrisse una apposita informazione, si confiscò la cauzione data, si ordinò a' Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a comparire fra tre giorni, sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, e fu carcerato di nuovo in Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne con comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la sua liberazione, impedita dall'empara interposta dal S.to Officio, e l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro prestata da un Michele Cervellone palermitano301. In tal guisa rimasero sotto il processo già istituito i soli S.ta Croce e Gagliardo. Si ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio, cominciando dal S.ta Croce, il quale si ricorderà che fin dal marzo era stato già esaminato intorno alla rissa e alla ferita inflitta a fra Dionisio (ved. pag. 241-42). Egli fu questa volta esaminato intorno alle cose della fede, e disse che si trovava «lo più maravegliato huomo del mondo» per tale imputazione, negando ad uno ad uno tutti i capi di accusa e qualificandoli invenzioni de' suoi nemici, vale a dire de' frati ed anche del Martines, al quale egli avea «fatto perdere le chiavi» perchè convivea pubblicamente con la cognata nel Castello ed angariava i carcerati con le estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene in Calabria «li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo diavolo, tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono», ed espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva, ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia, come le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto alla Messa. Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il Bitonto, che ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure cattive informazioni sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.ta Croce fu, come allora dicevasi, «abilitato» ad uscire dal carcere, coll'obbligo di tenere per carcere il domicilio che avrebbe indicato in Napoli e di dare per questo una cauzione di 25 once d'oro, che fornì un Rev.do D. Marcello Palermo (18 e 23 luglio): in sèguito trovò più comoda per lui una casa «nel fondico d'Eliseo alla carità dove si dice la pigna secca», e si rinnovò l'obbligo impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi che per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito D. Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col termine di due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto): ma egli espose che tutto procedeva dalle inimicizie capitali contratte, con Alonso Martines per avergli fatto perdere l'ufficio, co' frati in generale a motivo della rissa, col Bitonto in particolare «perchè mandato da fra Dionisio alla casa di esso comparente fu, insieme coll'altro, autore di farlo trovare inquisito di ribellione»; e però dava la ripulsa a tutti i testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti medesimi (12 settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora il Martines già carceriere, il quale confermò le accuse principali, senza punto mostrarsi nemico del S.ta Croce. Ma costui, prima che la causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria, come spessissimo facevano gli «abilitati», lasciando i fideiussori alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un cespite ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal Prezioso, per commissione del Vicario, Lucrezia Papa l'albergatrice con altre due donne (17 novembre), ed accertata la fuga del S.ta Croce venne «incusata» la cauzione e carcerato D. Marcello Palermo, il quale, per la fideiussione prestata e per qualche altro conto che dovea saldare, riuscì appena a liberarsi nel principio dell'anno successivo, sborsando D.ti 30, avuti, come egli disse, «per carità d'alcuno timoroso d'Iddio». – Quanto al Gagliardo, le cose andarono molto più in lungo, poichè si era commesso al Vescovo di Gerace l'esame di quel D. Pietro Manno, che egli avea nominato qual suo confessore pel tempo in cui trovavasi nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e gli Atti relativi a tale commissione, benchè compiuti con la maggior sollecitudine, giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima del 1603, ed il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente dal maggio 1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il Gagliardo continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione data a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale, non mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel tempo, fra Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente quest'ultimo cercò di scusarsi mercè una serie di garbugli sostenuti con una improntitudine singolare302. Narrò che al tempo del suo primo esame que' due frati gli consigliarono di negare ogni cosa, perchè altrimenti sarebbe stato bruciato dal S.to Officio, ma volendo ora manifestare la verità, riconosceva che quelle scritture erano di mano sua nella più gran parte, avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del Pizzoni (il morto), i quali gli davano in compenso un carlino al giorno e gli dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le scritture, indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti di esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi restituito l'originale; ammise che la carta data al Napolella era stata scritta da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale diceva essere un segreto contro la corda che volea mandare ad un suo amico, e poi gli «fece il tradimento» col sedurre il Napolella e suggerire a costui un secondo esame in contradizione del primo, acciò apparisse che era un segreto di tutt'altro genere avuto da esso Gagliardo, aggiunse che il Bitonto gli era divenuto nemico, perchè amoreggiava con una donna la quale stava sotto la loro carcere e corrispondeva con loro per un buco fatto al pavimento, ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso quella donna, e infine tutto era stato inventato da' frati, perchè egli si era esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver segreti per corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la suocera e la sorella della suocera trovando più dolce il concubito con le persone parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè (giusta le accuse originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio); negò inoltre di aver mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano erano state annunziate nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i capitoli del fisco, e gli fu assegnato il solito Avvocato Cracco; ma rinunziò alle difese, ed innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii, Graziano e Palumbo, sostenne un'ora di corda senza rivelar nulla, onde fattane relazione a Roma, coll'assenso della Sacra Congregazione fu decretata per lui l'abiura de levi, l'imposizione di alcune penitenze salutari, e il rilascio in libertà dietro fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città di Napoli. Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once d'oro Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi dire già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro la grave tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi superfluo dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma avendo poi là commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e quivi giustiziato due anni dopo, e in tale occasione venne a trovarsi di nuovo alla presenza del S.to Officio, avendo voluto fare una deposizione in disgravio della sua coscienza; questa deposizione, molto importante per noi, ci darà ancora motivo di parlare di lui.

 

Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene dire, che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse per loro la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di Calabria, ed attesa fin dal settembre dell'anno precedente; ma non ci volle poco per ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte. Si era in marzo 1602; sapevasi che 200 Ducati erano giunti a Napoli con lettera di cambio nelle mani di un frate del convento di S. Domenico, e questo frate non compariva: il Vescovo di Caserta, in data 23 marzo, mandò un precetto al P.e Arcangelo da Napoli priore di S. Domenico, perchè sotto pena di privazione del suo ufficio nel presente, e d'inabilità a qualunque altra dignità e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in quel medesimo giorno il frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse una fede dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S. S.tà in Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo bisogno che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23 maggio. A questa data il Vescovo di Caserta emise i primi ordini di pagamento, ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui girata tutta la somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte della Pietà; nella stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo fino al 9 giugno 1604, giorno in cui stava ancora in cassa un piccolo residuo della somma, e i frati reclamavano, il Vescovo ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu bisogno di un ordine al Prezioso sotto pena di scomunica ipso jure incurrenda! Tutti gli ordini di pagamento, le copie delle polizze di Banco, i ricevi di ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti, ed anche i memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo, che rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di un'importanza grandissima: poichè esso non ci mostra solamente come e quando il danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa conoscere le miserevoli condizioni de' frati e la condizione speciale del Campanella, il quale fu sempre riguardato qual pazzo, sicchè dapprima fra Pietro Ponzio e poi fra Pietro di Stilo riceverono per lui la rata che gli spettava; inoltre ci fa conoscere la data delle vicende successive de' frati rimasti in Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio fu rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso non fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la massima parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8 ducati, poi 2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato fra Pietro Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non averne bisogno; fu anche pagata in due rate una somma per medicinali forniti a fra Dionisio infermo dallo speziale del Castello Ottavio Cesarano, ma una somma di D.ti 14 e tarì 2 fu data al Prezioso per la copia degli Atti offensivi e difensivi mandati a Roma, ed anzi il primo ordine di pagamento fu per questa somma. Un ordine simile da parte del Vescovo di Caserta risulta indubitatamente biasimevole sotto tutti gli aspetti: egli non prese in benefizio suo, come avea già fatto altra volta fra Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma che doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche di un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno antecedente. Le prescrizioni erano: che per le cause del S.to Officio non si esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero anche gratis a Roma gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il Vescovo di Caserta non poteva ignorarlo303.

Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire le ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il tribunale non lasciò di provvedere intorno a queste difese durante l'informazione sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio 1602 aveva assegnato a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di 15 giorni; ma fra Dionisio chiese che gli fossero prima date le copie degli esami de' testimoni, come pure che gli fosse assegnato un Avvocato e procuratore, che fosse esaminato di nuovo il Petrolo, che fosse presa informazione sulla ritrattazione fatta dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo, quando fu chiamato all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò tali dimande con una comparsa e protesta scritta esistente in processo, dimandando di più che prima si vedesse nel tribunale «caritativo e santo dell'inquisitione» la falsità de' testimoni a suo carico, avendo questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione, ciò che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la potenza del fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero, contro cui nella stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte del Gagliardo, del Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.ta Croce, attestanti quasi tutte, che le scritture proibite erano state fatte trovare nella camera di fra Dionisio per astuzia del Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale assegnò per Avvocato il Rev.do Attilio Cracco, ordinò la consegna della copia degli esami testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio e prescrisse al Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a' Giudici, nel palazzo del Nunzio, ad dicendum. Il 30 marzo, non appena intimato questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a' Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui, poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle scritture proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere, impedì a' Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte fra Dionisio, il 15 aprile, presentò una nuova comparsa, per chiedere copia di altri esami che non trovava fra quelli consegnatigli (l'esame del Soldaniero in Gerace, e quelli del Priore e del Lettore di Soriano), come pure «lettere e monitorii contro coloro che tenevano o in qualsivoglia modo conoscevano la ritrattatione fatta dal Pizzoni»; nè prima del 19 aprile furono da lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti di sua mano, ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra questi articoli304. L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che fra Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia degli esami consegnatigli, perchè verificata la mancanza di quelli nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra due giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea dimandate le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il 24 aprile, e con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami già consegnati e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati: infatti si vede nel processo registrata la consegna de' documenti mancanti, tra' quali pure la confessione ultima di Cesare Pisano in punto di morte, che fra Dionisio richiese posteriormente, ed inoltre si vede registrata una seconda consegna finale di tutti gli esami raccolti a tempo del Vescovo di Termoli; la prima consegna reca la data del 31 aprile, la seconda quella del 18 maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero esser pronti, e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.

Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di tre305. Col 1.o egli affermava che il Pizzoni venendo a morte, per disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e diverse persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio e di ribellione, ed avere solamente aspettato, per ritrattarsi, che fosse posto in carceri ecclesiastiche. Col 2.o affermava che il Petrolo avea dichiarato ad infinite persone volersi ritrattare su quanto avea deposto contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio, voler mostrare tutta la radice della falsità del processo, ed avere perciò fatto due volte istanza a' Sig.ri ufficiali di essere riesaminato. Col 3.o affermava che Giulio Soldaniero «per dar credenza alle falsità da lui deposte contro esso fra Dionisio» avea fatto mettere scritture proibite in una cassetta dentro la sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli ufficiali, onde egli era stato chiuso in un torrione per sei mesi e il Soldaniero l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli semplicissimi evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita; ed ecco i testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.o, Alonso Martines olim carceriere (era stato licenziato, come si è detto altrove, appunto nel maggio), il dot.r Michele Caracciolo, D. Francesco di Castiglia, il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso Blanch), il clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il D'Azzia era stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu scartato dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il Blanch, il D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato del Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul 2.o articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il cav.re gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il Petrolo; ma tra questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse solamente il Petrolo e il Capece. Sul 3.o articolo era riprodotta la dichiarazione scritta di Felice Gagliardo ed altri, coll'istanza che fossero esaminati i dichiaranti nel caso in cui non lo fossero stati ancora; ma il Vescovo di Caserta li ritenne già esaminati (la qual cosa era vera per alcuni e non per tutti) sicchè di tale articolo non si parlò più. – Vogliamo intanto, giusta il nostro costume, dar qualche notizia delle persone de' testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile in questo momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come pure del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti ma un po' troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare d'Accetto, le scritture della Cappellania maggiore che si conservano nel Grande Archivio, ed egualmente i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno conoscere i punti più notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense nel Sorrentino, ed a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano della Chiesa del Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa, dietro un processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore col titolo De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis: pertanto nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo, per l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea sposare una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e fu trovato ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già in funzione di P.e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto limitato, come lo mostrano gli Atti del processo del Campanella ne' quali prese parte, non apparisce punto inframmettente, e nel tempo di cui trattiamo tirava innanzi con una licenza annuale di poter confessare e amministrare gli altri sacramenti nel Castel nuovo, al pari di tutti gli altri ecclesiastici dello stesso ordine, mentre anche il Cappellano maggiore, D. Gabriele Sances fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti temporanei da parte di Roma, in seguito di una fiera lotta giurisdizionale allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno seguente, anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui era della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per questa ragione meno gradito: infatti non divenne P.e Cura che verso il 1609, mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del Cappellano maggiore in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de Magistro napoletano, «precedente (dice il decreto) la nomina nobis fatta da Maria de Mendozza moglie e procuratrice di D. Alonso de Mendozza Castellano del d.o Castello»; fino a tale punto si estendevano le ingerenze delle mogli de' Castellani306. Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio. Tommaso Blanch, come leggesi sotto la sua deposizione. In questa egli si disse figlio del Barone di Olivito (int. Oliveto) dell'età di 19 anni, carcerato da oltre 13 mesi per un «preteso insulto» in persona di Ottavio Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari e sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto307. Era uno de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2o Barone di Oliveto, e di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò moltissimo nella carriera militare: il terzogenito di costoro, Alfonso Blanch, si distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte e morì in Fiandra, nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi ordini il fratello Mario cavaliere gerosolimitano, che fu poi ucciso da' vassalli in Oliveto; il De Lellis non parla di questa brutta fine di Mario, ma ne parla il Nunzio nel suo Carteggio, perocchè il principale tra gli uccisori fu un clerico, ed opponendo le solite difficoltà delle prerogative ecclesiastiche il Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più anni, finchè il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere e sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso Blanch, entrambi clerici per poter godere delle prerogative ecclesiastiche, gli fecero «un brutto assassinamento con ferite et in casa propria» secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il disgraziato dottore, un po' troppo tardi, si munì di licenza d'arme «con 4 suoi creati» come si legge ne' Registri Sigillorum308. Vincenzo Blanch riuscì a mettersi in salvo, ma Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere la remissione al foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo, quanto Gio. Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele, finirono con abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti. Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso, divenuto Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di Vercelli, fu promosso Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna Gattola: ma al tempo del quale trattiamo, essendo giovanissimo e spensierato, non farebbe meraviglia se si fosse accordato co' frati per assumere la parte che rappresentò nell'informazione della quale andiamo ad occuparci. Rimane a parlare di Gio. Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23 anni, trovavasi imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già due volte avuta la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a lui un documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i Giudici menomamente309.

 

Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati tutti i testimoni310. D. Francesco di Castiglia depose aver veduto il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere Martines insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere udito dal Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi esaminato contro fra Dionisio e il Campanella perchè così gl'impose un monaco di cui esso deponente non ricordava il nome (fra Cornelio), a fine di declinare la giurisdizione laica e liberarsi; che perciò ne avessero fatta testimonianza scritta, avendone lui già discorso col Curato e con altre persone, ma esso deponente non volle intrigarsi in questa faccenda, tanto più che il Pizzoni diceva esservi altre persone che lo sapevano. Dietro dimande aggiunse che non era stato ricercato da fra Dionisio nè da alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza, e non ignorava quanto importasse far testimonianza falsa specialmente in materia di S.to Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle dichiarazioni di volersi ritrattare fatte dal Petrolo. – Si passò al Blanch, il quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo, richiesto dal Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perchè il Pizzoni volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria e in Napoli contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al foro temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia, ed aver udito dal Pizzoni che erano attesi perchè volea si facesse detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo) e sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con la mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda aggiunse aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea dichiarato voler ritrattare le sue deposizioni contro il Campanella e fra Dionisio, le quali erano false, ed aver presentato per questo un memoriale al Nunzio ed un altro al Papa; aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni dopo fatta quella scrittura, la quale rimase in potere dello stesso Pizzoni, che volea darla al suo confessore perchè fosse presentata. È da notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del Castiglia in quella circostanza. – D. Gaspare d'Accetto depose non aver mai trattato nulla col Pizzoni nè prima nè dopo l'infermità da cui fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al ritorno aver trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile che Don Francesco della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio di Curato, sapesse qualche notizia della dichiarazione per cui veniva interrogato. – Gio. Francesco d'Apuzzo disse essere stato condotto dal Martines presso il Pizzoni insieme col Blanch, e non ricordarsi bene se il Castiglia fosse venuto con loro o si fosse trovato già nella camera del Pizzoni; avergli il Martines detto che il Pizzoni si volea ritrattare per disgravio di coscienza e che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a scrivere quanto il Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò che avea detto contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia di eresia come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal Blanch e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), «atteso francesco de Castiglia non ci si volse intromettere», ed essere rimasta quella carta in potere del Pizzoni, che diceva volerla dare al suo confessore. Dietro dimande aggiunse essersi lui offerto di fare questa deposizione, ed esserne stato quindi ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre avere più volte udito dire dal Petrolo che si volea ritrattare di quanto avea deposto, e che avea dato più volte memoriali a questo fine. – D. Francesco della Porta disse aver confessato il Pizzoni solamente pochi giorni prima che morisse, avergli anche amministrata l'estrema unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra loro, essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio. – Fu poi esaminato il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi, espressa e comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima deposizione che egli fece: «Signori, la verità è che io non posso vivere in queste carceri alle persecutioni che mi fanno li frati, non solo li carcerati, et altri dela religione, mà hanno sollevato tutta la Calabria contra di me, con dire che io habbia infamata la provintia è la religione con quello che hò deposto, et che per ciò io per defendermi et mantenermi, vado dicendo con li carcerati è con altri per posser vivere con poco di quiete, et per non essere offeso, che mi voglio retrattare sempre che haverò commodità, per mantenerli così in speranza perche non mi offendano, mentre stò quà, et anco che non facciano offendere li miei in Calabria, mà la verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo mettere ad effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor Vescovo di termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et per questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria dela vita et dell'anima». E i Giudici ordinarono che di questa deposizione non si rilasciasse copia311. – Infine fu esaminato il Capece sul 2o articolo, sul quale era stato dato per testimone, vale a dire sulla volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a più persone; e il Capece depose non saperne nulla.

301Notiamo di passaggio che questo Michele Cervellone, propriamente messinese, fu poi uno de' 4 principali imputati nella così detta 2a congiura del Campanella, che finì col supplizio di fra Tommaso Pignatelli il 1634.
302Ved. la nostra Copia ms. de' proces. ecclesiast. tom. 2o, fol. 215-1/2.
303Il decreto leggesi nel Carteggio del Nunzio, Filz. 216. Esso è stampato, e fu così trasmesso al Nunzio per farlo conoscere a tutti, con lett. del 18 10bre 1602; bensì la sua data è anteriore, e rimonta al 1601. Le ragioni del decreto sono espresse ne' considerandi: «Ut causae et negocia quovismodo spectantia ad Sanctam Inquisitionem cognoscantur et expediantur omni qua docet integritate, amotis quibusvis sordibus ac pecuniariis solutionibus» etc. Vero è che la Camera Apostolica non dava mai nulla e non compensava neanche il Ministro Generale della S.ta Inquisizione; si attesta infatti in una lettera a proposito della morte di Mons. Carlo Baldino predecessore del Vescovo di Caserta, che egli avea «servito 30 anni all'officio dell'Inquisitione senza mercede» (Lett. di Roma del 10 aprile 1598, Filz. 211). In che modo dunque dovea provvedersi alle spese? Ne' tribunali Diocesani vi provvedeva il Vescovo con l'entrate del Vescovado, e infatti in un'altra lettera, scritta a tempo della vacanza della Chiesa Napoletana per la morte del Card.l Gesualdo, si ordina al Nunzio, amministratore temporaneo, che faccia pagare dall'entrate dell'Arcivescovado «le spese del vitto et altre necessarie occorrenti per li carcerati del S.to offitio et speditioni delle loro cause» (Lett. di Roma del 23 maggio 1603, Filz. 218): ma nel tribunale del Ministro Generale dell'Inquisizione potevano sopperire alle spese unicamente le confische delle cauzioni degli «abilitati»; ad ogni modo non avrebbero mai dovuto sopperirvi l'elemosine raccolte in sollievo de' poveri carcerati.
304Ved. Doc. 412, pag. 513.
305Ved. Doc. cit.
306Le scritture della Cappellania maggiore, dalle quali abbiamo desunto i particolari suddetti, sono rappresentate da' Processi della Cappellania maggiore, che avemmo a studiare nel far le ricerche sul chirurgo Scipione Camardella.
307Ved. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654-71, vol. 2o, part. 3a, pag. 349. – Carteggio del Nunzio, Lett. di Roma 30 nov. 1601, 23 feb. 1602, 24 genn. 1603; e Lett. di Napoli 14 10bre 1601, 25 gen. 1602, 21 marzo 1603, 24 marzo 1605.
308Ved. Reg. Sigillorum vol. 38 (an. 1601) sotto la data 24 di maggio.
309Ved. Reg. Curiae vol. 52 (an. 1601-1603) fol. 17, ove leggesi il seguente memoriale: «Gio. Francesco de Apuczo expone a V. Ecc.tia come sono octo mesi e più che se ritrova carcerato senza haver' fatto male sotto pretesto fosse consapevole dela morte del q.m notar' Gio. Carlo d'Apuczo suo padre per il che fu delegato per la felicis.ma memoria dell'Ecc.tia del Conte di lemos in detta causa il giudice Gio. Andrea Auletta, il quale come delegato procedè in detta causa et hà tormentato atrocissimamente esso supplicante mediante il quale (sic) è ridotto in tanta poca salute che si ritrova in pericolo di morte senza posser' ricorrere à persona alcuna che lo proveda per non haver' giodice…» etc. (supplica che gli si faccia giustizia, e S. E. all'ultimo di ottobre 1601 delega per la causa il giudice Tirone).
310Ved. Doc. 413, pag. 514.
311Ved. Doc. 414, pag. 518.