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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla necessità di trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati Felice Gagliardo e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere stato carcerato in Castelvetere per un colpo di fucile tirato in rissa ad un suo cognato, e poi essere stato tradotto in Napoli per la causa della ribellione, dopochè Cesare Pisano, venuto nelle stesse carceri di Castelvetere e quivi visitato da fra Dionisio e dal Campanella, lo avea nominato in tortura qual complice nella detta ribellione. Chiesero allora i Giudici di che aveano parlato al Pisano il Campanella e fra Dionisio; ed egli rispose che aveano parlato segretamente, e non ne sapeva nulla, ma che fra Dionisio gli aveva poi detto che avesse dato credito a quanto gli diceva Cesare Pisano, e soggiunse, «io credo che mi volesse significare che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à prestarli dinari, di che ne hò fatto fede à detto frà Dionisio» (ben si vede che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno curarsi delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre dimande disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non avendo prima conosciuto nè visto fra Dionisio, costui avesse potuto dirgli che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, «lo detto Cesare havea detto che io era felice gagliardo gentilhomo di hierace, et cossì detto fra Dionisio me disse quelle parole»! Ma infine si venne alla faccenda delle scritture, e dietro varie dimande rispose, che ciascuno de' frati carcerati, co' quali si trovava di camera, aveva una cassa, ma egli non aveva nè cassa, nè scritture, nè libri, e solamente qualche lettera; che in luglio «perchè in detta camera ci entrava ogn'uno et non so che si perdío… frà Paolo portò la sua cassa alla camera di Geronimo Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe (Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio»; che il Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture sigillate perchè glie lo conservasse, ed egli non sapeva che scritture fossero, ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano scritture proibite, senza manifestargli altri particolari sopra di esse, e che le avea fatte trovare in camera di fra Dionisio per rovinarlo, ond'egli ne avea rilasciata una fede, alla quale si rimetteva. Mostratagli questa fede, la ratificò, negando di sapere che specie di scritture fossero state trovate nella cassa. Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse parlato con lui di cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia a' superiori come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea parlato anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di Gerace, e il Vescovo quando poi vennero «li rumori universali di Calabria» mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua deposizione, con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi commesso dalla Sacra Congregazione di Roma e sollecitato dal Vescovo di Caserta l'esame di D. Pietro Manno in Gerace. – Fu quindi esaminato fra Pietro Ponzio288, ed egli narrò il trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio, per furti verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in altra camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il Soldaniero e il S.ta Croce si erano concertati di far trovare le scritture proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in camera sua con la scoverta di un libretto di poesie che egli teneva sul letto, e di altre scritture che stavano sotto la materassa del Gagliardo. Riconobbe il libretto di poesie e disse, «è scritto di mano mia et è intitolato (int. dedicato a) francesco gentile, e son sonetti del Campanella e di diversi altri autori, che sono andato radunando, et vanno per tutta questa città di napoli». Fece avvertire che il Gagliardo soleva scrivere con caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto presso il Bitonto una carta con un circolo e un segreto «per havere una donna», che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di velluto. Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture, fra Paolo avea trovato un libro stampato di astrologia con un circolo e un segreto contro la tortura di mano del Gagliardo, e disse averlo letto insieme con gli altri frati e poi consegnato al luogotenente del Castello. Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto e sempre a danno del Gagliardo, contro il quale non agiva soltanto fra Pietro per iscagionare suo fratello, ma si erano rizelati senza ritegno principalmente i già suoi complici in materie sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la quistione delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.

Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra scrittura del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni scorsi avea veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla segretamente a un paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della Marchesa della Valle, carcerato per ordine della Marchesa e chiamato Nicolò, il quale avuta la carta venne a farla leggere ad esso Bitonto per sapere se poteva starci bene in coscienza, e udito che la carta recava la scomunica a chi la teneva, glie la lasciò. Ed esibì la strana scrittura a' Giudici, i quali la fecero unire con le altre scritture proibite. Dietro altra domanda poi disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di Condeianni, dimorante in Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto più volte nel carcere, ed avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era lamentato che gli avea fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto, aggiungendo che spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una volta «haveano fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et ossa, cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti, et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico di stignano» (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi). Aggiungiamo che la novella scrittura fu subito mandata al P.e Cherubino, che la qualificò col «sapit haeresim manifeste», e fu unita con le altre costituenti il 2o gruppo o gruppo delle scritture appartenenti al Gagliardo289. – Frattanto venne subito chiamato Nicolò Napolella, giovane a venti anni, nativo di Napoli e paggio come sopra si è detto, il quale credè opportuno mettersi in assoluta negativa, onde il suo interrogatorio ci risulta un modello di pervicacia nell'inquisito e di pazienza ne' Giudici. Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il Gagliardo nel Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui; averlo visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con molti, «e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la mano»! Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai parlato di scritture nè chiesto consigli, aggiungendo, «faccionosi li fatti loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à queste cose». E i Giudici, «che dica chi sono quelli che lo voleno inbrogliare, et in che»; ed egli si fece allora a narrare che la sera precedente fra Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli di avere informato il tribunale del segreto per amore dato al Gagliardo e raccomandandogli di deporre che era vero, ed egli avea risposto «buono» (int. «bene», espresso alla spagnuola); poi l'avea condotto presso il Bitonto che gli disse e gli raccomandò la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma nella notte ci avea pensato meglio e si era deciso a non farne nulla, dicendo, «mi sono risoluto di non dannare l'anima mia». E i Giudici, «in che cosa si pensava di dannare l'anima sua»: ed egli, «in dire una falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire una falsità»! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità sul fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone Garzia spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto disse, «non è vero niente». – Immediatamente vennero esaminati i tre testimoni indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in quel momento medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata avuta da fra Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto che non sapeva tal cosa. Il dottore Calderon della città di Pax, di anni trenta, disse che nel passeggiare sulla loggetta col Garzia e col Napolella avea veduto fra Pietro accompagnato da un altro frate, chiamare il Napolella in disparte, parlargli segretamente e poi condurlo alla camera in cui stavano il Petrolo e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure la stessa cosa. – Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse che veramente avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro di Stilo, e l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno al segreto sarebbe stato certamente esaminato, e però attendesse a dire la verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto, perchè avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il quale gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.to Officio era stato obbligato di agire come aveva agito. – Ed ecco in iscena fra Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere il Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la faccenda del segreto, perchè «stando lui male con la Sig.ra Marchesa dela valle che havesse fatto casare lo figlio per via di magarie, si saria confermata in questa opinione et non l'haveria mai fatto escarcerare de Castello»290. Aggiunse aver visto la carta del segreto in mano al Bitonto, ed aver avuto preghiere da fra Paolo e dal dottore Calderon perchè facesse buono ufficio verso il Napolella acciò non fosse rovinato presso la Marchesa; aver avuto inoltre preghiera dal medesimo fra Paolo, perchè non facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il S.ta Croce, considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza grandissima al fatto in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta negativa del Napolella). – Infine fu esaminato anche il Bitonto, il quale confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di lui, ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del segreto, avrebbe manifestato la verità.

 

Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo meglio sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere stato esaminato all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver saputo cosa si dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto bene); laonde supplicava Monsignore, che si degnasse «di restar servita di novo venirlo a saminarlo, che dirra la ystessa e pura verità come passa chi li ha dato detti scritti».

Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato dapprima il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e confessò di aver narrato al Gagliardo che «amava una donna ma non sapeva se si era dismenticata» di lui, onde il Gagliardo gli volle dare quel rimedio perchè la donna non se ne scordasse; e riconobbe lo scritto avuto e attestò di averlo mostrato al Bitonto e di averlo poi lasciato nelle mani di lui quando udì che recava la scomunica. Dietro dimande, disse che non in questa circostanza, ma fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo gli avea chiesto «un paro di calzoni usati per amor de Iddio» ed esso glie l'avea donati; che dopo il suo esame avea udito tenere il Gagliardo «mala fama di queste poltronerie». Infine scusò il non aver detto prima la verità, allegando l'essere «giovanetto di poca età… è travagliato di carcere longo tempo», e l'aver dubitato che accettando quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua. – Si passò allora all'esame di Orazio S.ta Croce, il quale, sempre dietro dimande, disse che era stato già carcerato in Siderno e a Castelvetere il 22 luglio 1599, per aver bastonato un tale che gli aveva uccisa una giumenta, e poi era stato incolpato della ribellione e tradotto in Napoli; che nelle carceri di Castelvetere udì esservi già venuti il 2 luglio il Campanella e fra Dionisio per far liberare Cesare Pisano; che costui parlava di cose contro la fede e tutti i carcerati ne presentarono memoriale al Principe della Roccella per mezzo di Mario Scadova carceriere. Inoltre che conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di Gerace, che non aveva mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni aveva udito che veniva processato «per fatochiaro». Ed avendo detto che era in grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite scritture (tanto del 1o che del 2o gruppo), e le riconobbe tutte di mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli veniva mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella contenente la poesia in dialetto calabrese, a proposito della quale disse crederla di mano del Gagliardo «tanto più che lui fà professione di fare versi è sonetti volgari» (non gli fu mostrata la scrittura contenente il segreto dato al Napolella, forse perchè era stata trasmessa al P.e Cherubino, ma intanto per tutte le altre potea dirsi decisivo il giudizio del S.ta Croce, uomo competentissimo e non sospetto). – Si continuò ancora l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio291. Si volle sapere da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era a sua notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra Dionisio, cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono. Gli furono quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di mano del Gagliardo (come si era fatto pel S.ta Croce), ed egli confermò che veramente lo erano, escludendone solo quella sulla musica che disse di mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto delle poesie trovate a lui, quelle del Campanella, ed in ciò importa conoscere la dimanda e la risposta testualmente. «Et dimandato alcuni sonetti che stanno scritti al libro n.o septimo, che sono maledicenti, altri che trattano di cose oscene (sic), et ci sono alcune cose scritte à donne amate che sapiunt idolatriam, da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.t io un altra volta me ricordo di havere deposto che ad instantia di francesco Gentile haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli quali parte mene havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so l'authore, et alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.ra Maria et alla Sig.ra donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri carcerati, li quali dicevano che erano stati composti da frà thomaso Campanella, et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio de rinaldo calandoli con uno filacciolo dala fenestra del torrione, et che depoi la morte di Mauritio lhavea dati alli altri carcerati uno Cesare forse che havea servito detto Mauritio, et altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de pizzone» (il Vescovo di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore peggiorato, e fra Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi, massime perchè composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in dubbio l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti). Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al Napolella delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto l'obbligo del silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo zelo di carità, e il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli avesse detto il vero intorno alla scrittura data dal Gagliardo al Napolella. – Da ultimo fu esaminato anche fra Paolo della Grotteria il quale disse di non conoscere il carattere del Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con lui, comunque egli dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta la notte (negativa tirata un po' troppo). Dietro dimande, attestò che il Gagliardo avea pessima fama, dicendo, «et ognuno se ne lamenta e ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere molte cose de fattochiarie»; attestò ancora che la cassa trovata nella camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto, «che nella ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte scritture furono trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e andati via gli Ufficiali il Bitonto trovò a terra un libro e disse dover essere quello il libro che il Gagliardo dolevasi di avere perduto». Così mentre il Bitonto deponeva che il libro era stato trovato da fra Paolo, costui deponeva essere stato trovato dal Bitonto, e tutto induce a far ritenere che il libro stava nelle mani di entrambi, come pure che il Gagliardo avea bensì copiate di sua mano le più notevoli tra quelle scritture, ma in servigio specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto interesse e le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si riuscì a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche, fino ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della causa principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.

Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il Figueroa già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato del medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al Gagliardo anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più dimorante nel Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si curò di comparire; laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di Caserta ed intimata dal cursore una nuova citazione in iscritto esistente in processo, con monitorio di dover comparire l'indomani personalmente sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda, e malgrado ciò anche questa volta egli non comparve. Ma comparve il Navarro e poi il Figueroa (20 e 22 aprile). Francesco Navarro, di Montbeltran nella nuova Castiglia, disse aver conosciuto il Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato nel Castello dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel tempo certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano Figueroa. – D. Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella Nuova Spagna292, disse di aver tenuto carcerato nel Castello dell'uovo il Gagliardo, e perchè era molto inquieto, avere ordinato che fosse chiuso in un criminale lui ed anche Orazio S.ta Croce; narrò la ricerca di scritture fattagli dietro avviso di altri carcerati, e la scoverta di molte carte di negromanzia, per le quali fece relazione a D. Gio. Sances, non nascondendo che alcune di quelle scritture furono prese dall'Auditor Moccia, ed altre rimasero presso di lui, le quali offrì di esibire al tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro altra dimanda disse che il Gagliardo avea «molta mala fama e di huomo pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li havea fatta una scritta col suo sangue». – Venne poi finalmente ridotto anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di Caserta ordinò contro di lui una nuova citazione per sentirsi dichiarare scomunicato coll'affissione de' cedoloni, e non avendo il Moya neanche questa volta obbedito, il 29 aprile lo dichiarò scomunicato, ordinando che fosse come tale pubblicato mediante i cedoloni affissi ne' luoghi pubblici della città, dandone all'uopo la relativa bozza293. Ed ecco, affissi i cedoloni, immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta, il 1o maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S. Anna di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed anche i domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente l'assoluzione per avere parlato con lui ne' due giorni ne' quali egli trovavasi scomunicato. Ben poco intanto ci tratterrà il suo esame che fu raccolto dal solo Notaro Prezioso294. D. Cristofaro de Moya, della città di Mensiner nella nuova Castiglia, narrò l'istanza fattagli da un carcerato calabrese, di cui non si rammentava il nome, perchè avesse proceduto ad una ricerca di scritture proibite nella camera e cassa di fra Dionisio; la ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon, dal carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si rammentava in particolare; la presa della cassa che fu portata al Castellano; e la scoperta di altre scritture in essa contenute; infine la sua andata al Vicerè con le scritture raccolte, per ordine del Castellano, e tutti i particolari che su questo proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro dimande, disse di non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di avervi visto disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di avere udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, «che erano cose di fattochiarie»; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle scritture venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale fra Dionisio fu ferito nel capo. Mostrategli le scritture, riconobbe i circoli e la mano disegnata che altra volta avea visto, e cadendogli sott'occhio il libretto di poesie (le poesie del Campanella) disse, «et questo libro ancora riconosco che portai al vicere con l'altre scritture, et lo riconosco alla coperta, et alle zagarelle, benissimo». Notiamo che nulla egli accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra della camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.

 

Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances, avea subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo nel Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.e Cherubino le aveva immediatamente qualificate con una sua relazione in data del 24 aprile, e il tribunale, costituendone un 3o gruppo, le avea fatte riunire alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare indebitamente il volume delle così dette scritture proibite trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, tanto più indebitamente perchè non erano punto proibite, riguardando tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si studiò di non consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta, e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione, sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica.295

Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una piena conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute in sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro Veronese padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio 1600; con essa il Veronese gli dà notizia della salute della moglie, sorelle e madre, lo eccita «a far cose honorate», e riverisce il Signor Orazio (S.ta Croce) dal quale ha avuta una lettera, come pure i due fratelli Moretti. Segue una lettera di Marcello Gagliardo, scritta da Gerace il 12 9bre 1600 forse ad Orazio S.ta Croce (manca la carta della soprascritta); e in essa si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta di un invio di danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte del Principe (il Principe della Roccella che era Signore di Condeianni) etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta da Gerace il 14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di aver visitato il figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà notizia della salute de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig. Orazio (S.ta Croce) «et tutti quelli Signori», e gli partecipa che a Gerace «fu amaczato gelonardo regitano come vile». Questo disgraziato verosimilmente apparteneva alla famiglia del cognato di Felice Gagliardo a nome Francesco Regitano, che il Gagliardo avea ferito con un colpo di fucile, causa della sua carcerazione; l'essere stato ammazzato come vile, nel gergo de' facinorosi ancor oggi in uso, vuol dire che era stato ammazzato per non aver saputo tacere sulle mosse loro. Pertanto a siffatto annunzio esulta il Gagliardo e scrive una poesia in dialetto calabrese, intitolata «Capitolo delo scaduto», che rappresenta un'altra delle scritture raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per saggio:

 
«Piangia Geraci, hor ridarà eterno,
per ch'e guarito delo antiquo mali,
hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.
Ridi Siderno, che Matteo Spetiali
dessi li cunti à lo amaro scaduto
ridimu tutti, riditi ho (sic) Casali.
Non darà parapezzi296 lu tributu,
no sarà chiu Brombaci assassinatu
hora che fu amazatu stu fallutu.
Tu Condianni statti arritiratu
e fa allegriza d'ogni cantu e locu
chi li frutti anderanno à bon mercatu.
E vui massari fati festa e giocu
cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),
hora che Riggitan' e intra lu focu» etc.
 

E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha ucciso; e il P.e Cherubino, che in tutte le scritture del presente gruppo non trova «nihil contra fidem vel bonos mores» definisce la detta poesia «una facetia ridiculosa», mostrando bene che pure i Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del tempo. Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al Gagliardo, l'una scritta «dala per me oscura selva li 22 di xbre 1600», l'altra da Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio 1601: sono due lettere brigantesche, atte a chiarire molto bene i procedimenti de' fuorusciti di que' tempi, e massime a tal fine ci è parso bene riportarle tra' documenti297. D. Giuseppe di Capoa, come si rileva dalle lettere, era un capo di fuorusciti con 43 compagni, tra' quali Luzio fratello del Gagliardo ed altri «amici sui et del Sig.r Veronese che li comanda», tutti del resto in relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata, dopo il 12 10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace senza saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e figlio, teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde scriveva al Gagliardo, «ho dato licenza a Caporale Giulio et compagni per haver fatto un atto brutto, che si unirno con minichello et lutio il vostro, et hanno boscato molti migliara di scuti et volevano dar parte a me, ma per nessuno modo la volse, che tant'anni sono in campagna ho vissuto con le mie intrate, ne habbia dio ordinato tal furfanteria». Poi agli 11 gennaio, dietro la persecuzione da parte di un Auditore che faceva ogni sforzo per prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48 compagni erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di dove scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora raccomandava la lettera propria ad un tale, che non è nominato, con queste parole caratteristiche, «la gentileza d' V. S. et la protetione che come Cavaliere Cristiano tine (sic) de miseri gentilhuomeni travagliati attortamente dalla fortuna et dalla giustitia ne danno animo». Il Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe che presto sarebbe uscito dal carcere, che un Cavaliere suo amico, in procinto di ottenere la commissione di capitano, aveva offerta a lui l'insegna (il posto di alfiere) per arrolar gente, che tutta la banda avrebbe potuto andarsene con lui alla guerra; e D. Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i suoi compagni, aspettandosi di essere guidato per questo, come allora si usava, e faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli sei canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, «tutto quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il cervello suo balzano et non con consiglio di amici»; poi, all'ultima data, s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua parola se fra un mese il Gagliardo non avesse l'insegna, sottoscrivendo la lettera insieme con altri compagni, «Lutio Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi alias il Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura»298. Non sapremmo dire se la proposta di andare alla guerra, fatta dal Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma dobbiamo attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si trovava pure carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro Piccolomini, 5o Duca di Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12 anni di carcere per parte del Governo Vicereale ed una condanna a 10 altri anni da doversi espiare nel Castello di Aquila, dopo di avere avuto anche un processo di S.to Officio, per bestemmie ereticali e ricerche di segreti e sortilegi, finito con la condanna all'abiura e ad un anno di carcere, chiedeva allora appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo di andare a servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia dal Conte di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con rescritto del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto offerto il posto d'alfiere al Gagliardo299. Ad ogni modo riesce maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima liberazione, mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In ciò bisogna vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono egualmente un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo che dobbiamo ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di commedie (oltre una storia di S. Agata e S.ta Dorotea e un principio di racconto mitologico), che si mostrano infiorati di concetti non ispregevoli, certamente raccolti da trattati di siffatta materia, e che potrebbero pure rappresentare semplici ricordi di prologhi composti da altri e da lui recitati, ma sempre scritti col colore locale e con que' suoi curiosi modi calabresi300. Vi è poi una Lettera in versi italiani, in cui finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per averla udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in libertà, e finalmente rimastane ingannata, perchè egli con la scusa di andare a visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito per la Calabria; una specie di Didone abbandonata, invano confortata dalla sua nutrice Tolla (a que' tempi vezzeggiativo di Vittoria), che sfoga il suo affanno, e narra e rampogna e prega il seduttore che ritorni, stemperandosi in oltre 300 endecasillabi, qualche volta zoppi, non di rado privi di senso ovvero sconnessi, ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti «Al S. F. G. dela C. di G.» (evidentemente Al Sig.r Felice Gagliardo dela Città di Gerace).

288Ved. Doc. 420, pag. 525.
289Eccola questa scrittura; è brevissima, e possiamo soddisfare chi voglia un saggio di tali scempiaggini: «Aric sequi Cunaim Enamenìcon Amael settantol Coniuro vos per Dom. nostr. Jes. Christ. et Mariae (sic) Virginis matris eius ut statim talis in amore meo corrumpere faciatis.» E poi: «Abagator Amon Averamon canus masque pedasque conturbant te
290Su questa faccenda del matrimonio di D. Andrea de Mendozza, figlio di D. Isabella de Mendozza 2a moglie e già vedova di D. Pietro Gonzales de Mendozza 4o Marchese della Valle Siciliana e Rende, abbiamo trovato notizie quasi complete nel Carteggio del Nunzio, notizie che non dà il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli 1654 part. 1a p. 398); ed è bene saperne qualche cosa, poichè madre e figlio abitavano nel Castel nuovo, e in questa faccenda del matrimonio si trovano implicate certe persone che hanno potuto aver relazione col Campanella. Adunque D. Andrea, essendo capitano d'infanteria spagnuola in guarnigione a Bisceglie, s'invaghì di D.a Ilaria Sifola, che abitava in quella città con la madre Beatrice Sassi, ed apparteneva a famiglia nobilissima e potentissima in quella regione, tanto da far correre il proverbio notato dagli scrittori di cose nobiliari, «pe' Sifoli e Palagani non si può vivere in Trani». D. Andrea la sposò e vi si unì, ma la madre Marchesa della Valle montò in tanta collera da far istituire un processo di rescissione di matrimonio nel tribunale del Nunzio; D.a Ilaria Sifola, contro la volontà della Marchesa che avrebbe preferito vederla in un convento, venne sequestrata presso una nobile Signora di Barletta D.a Giulia Gentile, certamente de' nobilissimi Gentili che vantavano nella loro famiglia 14 Conti di Lesina (ved. Zazzera, della nobiltà dell'Italia, Nap. 1625 t.o 2.o pag. 81) sorella di Michele 2o Gentile e di Tommaso, che da D.a Eleonora della Gatta ebbe Francesco Gentile. Il Carteggio del Nunzio offre alcuni memoriali della madre della Sifola ed anche di D. Alonso de Mendozza il Castellano, che era fratello della Marchesa della Valle e quindi zio di D. Andrea, diverse lettere di Roma e di Napoli su questi memoriali, ed una lettera del Nunzio medesimo a D. Artuso Pappacoda, che sappiamo essere anche parente della Marchesa della Valle (marito della zia D.a Caterina de Mendozza) ed inoltre a quel tempo Governatore della Capitanata, onde avea voluto ingerirsi nella quistione, tentando, a quanto sembra, far uscire D.a Ilaria dalla casa Gentile per ingarbugliare semprepiù la lite sul matrimonio (ved. Lett. di Roma 13 7bre, 11 8bre e 1o e 29 9bre 1602; e Lett. di Napoli 18 7bre, 25 8bre, 22 9bre e 6 10bre 1602). Ma il matrimonio fu da ultimo dichiarato valido, sicchè D. Andrea si unì di nuovo a D.a Ilaria e n'ebbe figli e figlie, una delle quali si maritò ancora a un Gentile: i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo recano i nomi di taluno de' discendenti di D.a Ilaria e D. Andrea, cominciando peraltro D.a Ilaria a figurarvi non prima dell'anno 1618.
291Ved. Doc. 421, pag. 526.
292Ved. Doc. 422, pag. 527.
293Riportiamo qui la bozza de' cedoloni; vi apparisce anche il fisco per pura e semplice finzione legale: «Hic auctoritate Apostolica denuntiatur et publicatur Excomunicatus, et ab omnibus christi fidelibus arctius evitandus Capitaneus Moya, qui fuit locumtenens Regii Castri novi hujus Civitatis, ob non paritionem mandatorum Apostolicorum eidem intimatorum, instante fisco et petente. – … locus sigilli. – Donnus Benedictus Episcopus Casertanus et Commissarius. – Amoventes, et lacerantes, aut quomolibet (sic) deturpantes sint etiam Excomunicati».
294Ved. Doc. 423, pag. 528.
295Nel Carteggio del Nunzio (Let. da Napoli filz. 230) trovasi la seguente lettera del Nunzio al Card.l di S.ta Severina: «17 marzo 1600. Hò ordinato mi sia chiamato quel Melchiorre Mescia de Figueroa che V. S. Ill.ma mi scrive per la sua de' 10 del corrente che sta in Castello dell'ovo et è scomunicato, acciò sappia che hò facoltà di assolverlo, come l'assolverò tuttavia che venga conforme al suo ordine».
296Contrada nel territorio di Gerace.
297Ved. Doc. 435, pag. 547.
298Nel Grande Archivio non mancano notizie intorno ad alcuni di costoro, e propriamente intorno a quelli che hanno maggiore attinenza co' soggetti della nostra narrazione. Luzio Gagliardo finì ammazzato con taglia promessa dal Governo, come si rileva dal seguente dispaccio Vicereale all'Audienza di Calabria ultra: «Magn.ci viri etc. Per parte de Vincenzo Schinosi ci e stato fatto intendere come ritrovandosi Cap.to della città di S. Agata di quessa Prov.a andando in perseq.ne di Banditi ammazzò lutio Gagliardo Capo di Banditi, la testa del quale ha presentato a D. Garsia de Toledo olim Governatore di quessa prov.a et per tal causa li spettano D.i cento in virtù deli regii banni…» (dietro la dimanda di pagamento il Vicerè vuole informazioni) 14 10bre 1603. Ved. Reg. Curiae vol. 55, an. 1603-1604, fol. 78. – Ed anche il Veronese dovè saldare qualche conto, come si rileva da un altro dispaccio parimente diretto all'Audienza di Calabria ultra: «Magn.ci viri etc. Si è ricevuta l'informatione che ci havete inviata con la vostra delli 4 di maggio prox.o passato presa di nostro ordine in Gerace ad instantia del Rev.do Vescovo di quella città contra alcuni particolari laici di essa, et essendosi vista per noi et referitaci in questo regio Collaterale cons.o ci è parso per risposta di detta vostra dirvi sincome per questa ve dicimo et ordinamo che al recevere di questa la debbiate (sic) incontinente con ogni diligenza procurare de haver in mano Pietro Veronese inquisito tra l'altri in essa et carcerato che l'havereti debbiate incontinentemente mandarlo sotto buona e cauta custodia nelle carcere della gran Corte della Vicaria con vostro aviso a noi, verum offerendove plegiaria di venirsene à presentare fra termine di un mese dandola di d.ti mille debbiati liberarlo e permettere che venga inviandoci copia di detta plegiaria et aviso del dì della sua scarceratione acciò che non venendo fra d.to tempo si possa procedere all'accusa di quella. Dat. neap. die 30 junii 1612. El c.de de lemos». Ved. Reg. Curiae vol. 83, an. 1612-1616, fol. 24 t.o.
299I Registri Curiae (vol. 30 an. 1581-1588, fol. 241) recano solamente, in data del 21 gennaio 1587, l'ordine al dot.r Vello, Commissario di campagna contro fuorusciti e malfattori, di avere in ogni modo nelle mani il Duca di Amalfi. Il processo di eresia, che abbiamo potuto esaminare, reca la notizia della carcerazione sofferta, secondo i diversi tempi, nella Vicaria, nel Castello nuovo, nel Castello dell'uovo, e così pure quella della condanna avuta e della grazia concessa, oltre tutti i particolari de' fatti in materia di S.to Officio. Vi abbiamo notato fra' testimoni «carcerati in Castello» fin dal 1595, anche il Sig. Cesare d'Azzia (che fu in relazione col Gagliardo nella faccenda delle scritture proibite) insieme con altri nobili di primo ordine, come Alvise d'Aragona, Arimanno Pignone, Francesco Loffredo. Il duca aveva posseduto egli pure una copia della Clavicola di Salomone, e fin dai primi anni suoi, nel 1579, passando per Venezia, con un monaco del convento de' Frari si era occupato di sortilegi, continuati poi di tratto in tratto con altri frati e preti in modi spesso curiosi. Abiurò il 21 agosto nella Chiesa di S. Maria a Cappella, dove fu tradotto dal vicino Castello dell'uovo. Il rescritto di abilitazione da parte di Clemente VIII, in data del 6 gennaio 1600, fu firmato anche da fra Alberto (Tragagliolo) Vescovo di Termoli Commissario generale del S.to Officio; e la commutazione dell'anno di carcere in penitenze salutari fu decretata dallo stesso fra Alberto il 13 gennaio 1600. La rimozione dell'empara fu fatta il 24 marzo 1600, e a questa data il Duca dovè uscire in libertà, ma alla guerra andò nell'anno seguente e durò molti anni nella vita militare. – Il Residente Veneto, effettuata l'abiura, la partecipò al suo Governo in data del 7 7bre 1599 in questi termini: «Il Sig. D. Alessandro Piccolomini Duca di Amalfi, che per antichità di titolo era uno de' primi SS.i di questo Regno, dopò havere alienato il stato et consumato affatto ogni altro suo havere, et permesso che sua moglie con potestà Pontificia si sia sacrata monaca, et essendo poi lui per diverse colpe stato dal Conte d'Olivares confinnato xij anni in Castel novo si è questi ultimi giorni nella Chiesa di Capella alle mure della Città abiurato in valida forma di cose hereticali». Di poi, il 23 maggio 1600, partecipò il desiderio del Duca «già libero» di servire la Repubblica Veneta. Infine, il 9 gennaio 1601, partecipò l'andata del Principe di Avellino alla guerra con 24 compagnie e 43 capitani, tra' quali il Duca di Amalfi.
300Ne diamo alcuni brani per saggio. «Prologho (sic). Se 'l verno coprisse di continuo la terra di giaccio, e di neve, e gli estivi, et tepidi soli non la disfacessero, come potrebono gli alberi e gli pianti produrre i fiori et frutti? cossì se qualche breve riposo non iscemasse tal volta la fatica, et alleggiasse il peso de' continui fastidj, et de noiosi pensieri ch'agravano gli animi nostri, come potremmo noi lungamente vivere? non à dubio che per ripararci dell'arma della morte più che si può, ne fa bisogno d'alcun soccorso honesto, ò utile, ò dilettevole, et che soccorso può dunque trovarsi più convenevole che la Comedia, che à in se tutte questi tre parti, è honesta, perche fu trovata per ritrarre gli huomeni dell'ampia strada de vitii, et guidarli per lo stretto sentiero della virtù…» etc. «Ma all'età nostra si prezzano si poco che rarissime si ne veggono a rapresentare, nè so si di ciò debba incolpare l'avaritia o il poco amore che si porta alla virtù, dall'un canto mi cade nel pensiero di darne cagione all'avaritia poi che non e chi voglia scomodarsi di un mino danaro (sic) per fare una scena, e dall'altro canto m'induco ad accusare il poco amore della virtù, per che gli ascoltanti, vedendosi porgere a gli occhi un vitio, del quale essi sono machiati, temono in presentia dell'altri non arrosirse, et conferma questa mia oppinione il vedere che non voglino in quelle poche comedie che si fanno, che si reprendino vitii ma solo si dicano ciance et cose ridicole e di nisuna sostantia, servendosi della Comedia per uno spasso et per un gioco, e non a quel fine che fu ritrovata, et sono alcune persone che essendo elle degne di riso, come sentonu una parte che move meraviglia à dolorore (sic) à compassione ò ad altro effetto contrario o diverso dal riso si sentono svenire, et bisogna apparechiare lo aceto per unger loro i polsi, et stimano più una chiachiarata all'improviso et fori di proposito d'un vecchio venetiano o di un trastullo accompagnata di quattro accione disonesti et vili usati farsi da bagattellieri, che una Comedia grave che si serra stentato tre anni a comporla et sei mesi a recitarla, vedete a chi termine e ridotto il poeta Comico, che essendo stato ripotato da ingegni eccellentiss.mi più difficile a comporre che lo Epico e 'l tragico, non mancano infiniti che non havendo pure una minima notitia di poesia solo con un certo loro discorso naturale, o per dir meglio materiale, et con l'osservanza secca c'hanno fatta in leggere quattro o sei comedie, stimandosi dotti senza arte presummono darne giudicio, et poi come sentono una protassis, una epitassis, una catastrophe, o simil altra sorte di voci convien loro di ricorrere ogni tratto al Calepino: et perciò (intend. se perciò) l'autore havesse pensato di contentare tutti i cervelli non si sarrebbe mai messo a durare questa fatica, perche non à tanta albaglia (sic) nel capo, che presumma esser miglore di Plauto, e di terentio, et di gli altri Autori moderni eccellenti, le Comedie de i quali non hanno potuto passare senza reprensione per li mani di certi Maestri Aristarchi, che con la barba quadra et col mantello lungo, col passo della picca, col far carestia delle parole et non dire che non sieno sesquipedali et preugne di sententie, aquistono credito appresso gli ignoranti et fanno profissione di havere i nasi critici che sentono l'odore insino al vetro, et non componendo essi mai, sono severissimi Giudici delle compositione altrui…» etc. «La Comedia è nova non più recitata e pur hora uscita di sotto il pennello del pittore e chiamasi torti Amorosi, da torti grandi che fa Amore alle persone che ne intervengono, facendole seguir chi le fugge scacciar chi li brama e i desiderii loro difformi et non corrispondenti, ma acortosi al fine che la Comedia sì rapresenta in Gerace che è questa che vedete, che è lugo (sic) dove si puniscono severamente le ingiustitie et i torti ben che legerissimi, et però temendo che costoro non ricorressero per gustitia (sic) al tribonal dello sdegno, si risolve far raggione a ciascuno, et farlo rimaner contento. Di silentio non ardisco ricercarvi, perchè mi parrebbe far inguria (sic) alla cortesia et alla gentileza vostra vedendove stare cossi chieti, attendeti che adesso si derra principio».