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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la spedizione della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti il 19 gennaio 1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra Dionisio, e gli assegnò un termine preciso e perentorio di altri 15 giorni per fare qualunque difesa se volesse farne; e fra Dionisio espose che non aveva Avvocato, e che gli occorreva la copia delle difese sin allora fatte. Nel giorno medesimo tenne lo stesso procedimento col Petrolo, col Lauriana, con fra Pietro di Stilo, con fra Paolo, col Bitonto, chiamandoli in massa alla sua presenza, e non ricordando che fra Pietro di Stilo aveva già da un pezzo rinunziato alle difese. – Ma il 26 gennaio fra Paolo e il Bitonto presentarono egualmente la loro rinunzia e dimandarono di essere spediti secondo gli Atti del processo che ritenevano legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed innocentissimi, cruciati da lungo carcere «per la tentata ribellione pretesa e figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia»: lo stesso poi fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del pari innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e l'ultimo di loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora, il 31 gennaio, citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed il loro Avvocato Stinca e Procuratore Montella, perchè dopo di essere stata intimata tale citazione venissero sulle 19 ore (verso mezzogiorno) alle case de' Giudici, per dire ed allegare su' capi spettanti al S.to Officio ciò che volessero, tanto a voce che in iscritto, nel diritto e nel fatto; e l'intimazione fu eseguita il 2 febbraio. Certamente non si potè fare lo stesso con fra Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti che gli mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter fare le sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo Sciarava, copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del tempo al quale siamo giunti, senza saperne il motivo275.

Deliberavasi intanto l'«abilitazione» del Soldaniero, e il 12 febbraio, fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del Nunzio, lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di Napoli, in guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da' Giudici in iscritto, sotto pena di D.i mille in beneficio del fisco apostolico; e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando in garanzia tutti i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio l'alloggio di Lucrezia la bottegaia alla Carità. – Ma i frati già avevano concertato di far cadere interamente sopra di lui la responsabilità delle scritture di sortilegio, e senza alcun dubbio si diedero premura di far accedere anche Felice Gagliardo al loro disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra Dionisio potè presentare al tribunale una Dichiarazione in questo senso, scritta da Felice Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali si aggiunse inoltre fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche il S.ta Croce: costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro presenza, mentre stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto portava la sua cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero lo avea pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le quali erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio aveva aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture276. Il Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col Bitonto, con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione sua che quando il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al luogotenente e sergente del Castello perchè procedessero ad una ricerca di carte presso fra Dionisio, disse a lui Gagliardo, «non dubitare, ch'io cilo carricata (int. ce l'ho caricata) a fra Dionisio, et adesso sì che lo farò bruggiare, perche quelli scritture che me vedesti porre in quella cassa sono pieni di negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà il complimento della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione sue ch'ha fatte». Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto l'interesse di fare e di procurare che altri facessero simili dichiarazioni: fra Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente nell'interesse di tutti i frati, e si vede bene che i comuni pericoli aveano in lui cancellata ogni traccia della ripugnanza che avea sempre sentita per la persona di fra Dionisio. A questi tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.ta Croce, il quale per altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto portare la sua cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni probabilità egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto veridica, a fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la pace, che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da testimoni nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano del Castello, D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta, inoltre il sergente Alarcon e due altri: essi certificarono le firme de' dichiaranti, ma solo quelle de' primi tre, la qual cosa dà motivo di ritenere che il S.ta Croce dovè intervenire più tardi.

E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il 20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D. Juan Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di Caserta che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di consegnare a S. S.ia R.ma le scritture trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello Barrese sul come erano state trovate. Questa relazione o non fu fatta, o non rimase nel processo, ciò che riesce più probabile; ma le scritture furono consegnate tutte, per quanto è lecito giudicare dagli Atti processuali che ne trattarono, comprese quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa soltanto la lettera trovata chiusa presso il Campanella, della quale non si fece mai più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli Atti, e queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio, le quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la dichiarazione di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le cose che avea deposte in materia di ribellione (ved. pag. 231); quest'ultima scrittura, se i Giudici, e segnatamente il Nunzio, fossero stati più teneri del loro dovere, avrebbe dovuto essere trasmessa al tribunale della congiura, ma invece rimase nel processo dell'eresia. Tutte le altre scritture, divise in due gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.e Cherubino Veronese Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile; nel 1o gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state trovate nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però imputabili più o meno a' frati; nel 2o gruppo si contenevano quelle trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal processo, e tale distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe che ci dovè essere la relazione del Barrese, quando le scritture furono consegnate. Vedremo che al 2o gruppo si aggiunse ancora un'altra scrittura, composta dal medesimo Gagliardo nientemeno mentre il tribunale procedeva agli esami su tale argomento; e poi si formò inoltre un 3o gruppo con le scritture appartenenti del pari al Gagliardo, trovate quando egli era rinchiuso in Castello dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre relazioni successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa con una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono messe insieme in un volume col titolo «Scritture o Segreti manoscritti proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in Castel nuovo con le relazioni del Rev.do Teologo sulle loro qualità», mentre non tutte erano state trovate in Castel nuovo e nella cassa di fra Dionisio, e già sapevasi che la cassa non apparteneva a fra Dionisio ma al Bitonto.

Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed anche della qualificazione espressa dal P.e Cherubino su quelle che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte immediatamente tra gli atti del 4o volume del processo, e dapprima dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9 luglio 1601277. Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora ricevuto canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in poesia), e promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di fra Dionisio, la quale difatti giunse e trovasi in questo volume del processo che non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso contenuti: spera poi ardentemente la liberazione di tutti, manda un abbraccio al P.e fra Pietro «et all'amico», ricorda «la natività» e promette «alcuna cosella»; sulla soprascritta si dice quella lettera «data in potere della S.ra Donna Ippolita cavaniglia al castel nuovo». Vedremo che fu poi dichiarato essere appunto il Campanella l'amico, dal quale il Del Buono si aspettava che consultasse l'oroscopo e desse la natività di un suo figliuolo; e vuoi essere intanto notato il nome di colei alla quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita Cavaniglia, pietosa Signora che troveremo esaltata nelle poesie del Campanella come sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci di lei debitamente. – Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di Stilo278. Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e dirette tutte a Stilo, alla Sig.ra Giulia Prestinace sorella di Gio. Gregorio279, alla Sig.ra Porzia Vella suocera dello stesso, a Suora Francesca Prestinace monaca di S.ta Chiara altra sorella, ed al P.e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In sostanza, più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si ammonisce che l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle assicurazioni del fratello, partito da Napoli credendo «di haver effettuato ogni cosa à loro sodisfattione»; aspetti che la forgiudica sia tolta, la qual cosa solamente il giudice Marc'Antonio di Ponte può sapere quando accadrà, e non si piglino «viziche per lanterne» ma si ascoltino «li consigli delli mal patiti»; e badi l'amico «che con vane speranze se ne ritorni alla patria» e pensi che vi sono nemici «et massime nci è illoco Giuda Scarioto» (forse Giulio Contestabile), e che nel Castello «ci sono emoli… quali non cessano dalla loro anticha perfidia» (certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato), e finita ogni cosa ne darà avviso «et allora l'amico potrà far la sua risolutione di appresentarsi». Contemporaneamente vi si dà speranza di prossima fine della causa con buon esito, perchè il Campanella ha vittoriosamente superato un grosso tormento e deve averne un altro, e fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le scritture di segreti che si scoversero, ma un altro ne avrà anche il Petrolo, e su costui non si può contare come su' due primi, e però bisogna stare a vedere: questi concetti che esprimono i giudizii, le speranze e i timori, senza dubbio divisi dallo stesso Campanella, meritano di essere testualmente conosciuti. Fiero del suo fra Tommaso per l'ottima prova da lui data, alla Sig.ra Giulia fra Pietro dice: «Campanella hebbe quaranta hore di tormento chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la fè più di un lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro chiamato, pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà assoluto da ogni cosa, per tanto vidiamo (int. aspettiamo a vedere) questo fine, de più si hà di tormentare frà Dionisio per li secreti adesso si sebbero (int. le scritture di secreti che adesso si seppero) et si scoversero per vere, et si à questi dui non temeti come huomeni di honore, che diremo di fra Domenico di Stignano, quale rovinò tutta questa causa, quale harà di avere uno grave tormento?» E alla Sig.ra Porzia: «Campanella dopò lo tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente come leone, si dice per verissimo che in materia di ribellione lui et frà Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha di esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si bene si hà ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et per l'esperienza fatta non li dovemo haver credito». E a suora Francesca: «Campanella… queste settimane passate sostentò uno horribile tormento di quaranta ore non senza grande honor suo et bene quanto alla inquisitione; ben presto per materia di ribellione harà un altro pochetto di tormento insieme con frà Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi et assoluti omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti dubbio; lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo di stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità». E si adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora Francesca, dopo di avere con delicata attenuazione parlato del «pochetto di tormento» da doversi sostenere da' due principali inquisiti, scherzosamente dice che al suo ritorno le darà gran penitenza, perchè non ha pregato Dio per lui: confortatore egli che avrebbe pure avuto bisogno di conforto, quantunque ignaro che un tormento era riserbato del pari alla persona sua, questo frate dabbene non può non destare la più viva simpatia. Pertanto interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo, giudizii assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo è dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto che iniquo. – Circa la dichiarazione rilasciata da Felice Gagliardo in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta scritta in data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del dichiarante reca quella, scioccamente vergata, del Curato del Castello, ed anche quelle de' due clerici assistenti la Chiesa. Come abbiamo già esposto altrove, il Gagliardo con essa negava di aver detto ciò che trovavasi da lui deposto contro il Bitonto in materia di ribellione: ed afferma che è falsità «falsamente posta, con reverenza, da quelli che faceano il processo»!

 

Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e qualificate dal P.e Cherubino. Cominciando da quelle del 1o gruppo appartenenti a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo la così detta Clavicola di Salomone in molti fogli e con la seguente nota: «fatta experientia per il Re di franza, per il Gran Duca di fiorenza et altri Signori, et hoggi in questo Regno un solo la tiene et il Prencipe di Conca sta dando opera di far tal arte»280. Il carattere di tale scrittura non è da per tutto uniforme, sia per essere stata copiata in più volte, sia per essere stata copiata da diversi individui: vedremo che il S.ta Croce, molto competente, la disse di mano del Gagliardo, ma costui la disse in parte di mano sua e in parte di mano del Bitonto, avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia, e così confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data quella copia a fra Dionisio perchè la conservasse nella camera sua, dove poi fu trovata. Il P.e Cherubino, nel qualificarla, riconosce che è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano allora stampato essa è notata nella prima classe delle opere proibite di autori incerti, risultando dichiarati veementemente sospetti di eresia coloro che la leggono, la posseggono e si servono delle cose in essa contenute, e formalmente eretici coloro che credono vere le cose in essa insegnate. Si hanno poi diverse scritture di minor mole che recano quasi sempre scongiuri, per trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per avere uno spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc. etc. sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente il carattere è quello del Gagliardo, e il P.e Cherubino appone ad ognuna il «sapit haeresim manifeste». Inoltre si ha un opuscoletto sulla musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere di qualcuno de' frati281. Ancora un grosso fascicolo con moltissime ricette e «percantazioni» curiose; per non far dormire alcuni, per non esser preso, per far divenire zoppo un cavallo, per indurre discordia, per sciogliere un ligato o per chi non potesse stare con la moglie etc., tutto di mano del Gagliardo e qualificato dal P.e Cherubino nel solito modo; alla fine poi di questo fascicolo si trova una poesia in dialetto calabrese distinta in due parti col titolo di «Amorosa» e «Partenza», di mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non vista o non curata dal Notaro e dal P.e Cherubino. Sono 24 stanze, alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per conoscere le qualità dell'autore. Dell'«Amorosa» scegliamo le seguenti:

 
«Quandu ti viju a sa fenestra stari
mi pari in celu un Angela vidiri
e poi mu ti viju amacciari282
mi piglu pena affannu e dispiaciri
ca chi raggiuni non mi voi parlari
chi ti haiju fattu lu vorria sapiri
poi ca lu mancu non mi voi guardari
fingi chi non mi vidi e non fuijri283.
Volsi provari lu luntanu stari
forsi di menti mi potevi usciri
l'amuri a autra banda volsi dari
e ijri arrassu per non ti vidiri
st'afflittu cori dissi nun lu fari
non ti scordari di lu ben serviri
mill'anni mi paria lu riturnari
cara patruna mia per ti vidiri.
Si vidi un'ursa in silva tetra et scura
aspra silvaggia, mansueta fari
si vidi un scogliu et una petra dura
spissu cadendu l'acqua arrimollari
e vui chi siti humana creatura
non vi potiti cu piantu placari
eccu chi siti ingrata di natura
essendo amata non voliti amari».
 

E queste altre della «Partenza»:

 
 
«Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri
restati in guardia dilu miu sustegnu
e di lu pettu so mai ti partiri
ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu
avisami per via dili suspiri
si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu
e si canusci chi mi ha da tradiri
ijetta un suspiru chi subbito vegnu.
Gula d'argentu cinta di ligustri
pettu chi si la bianca nivi equali
bucca suavi chi parlando mustri
vivi rubini e perni orientali
occhi sireni più di un suli lustri
…»
 

Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo. Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.r Francesco Gentile patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle azioni, della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2 agosto 1601, vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde meritano di essere diligentemente considerate ed illustrate; noi l'abbiamo già fatto in parte e seguiteremo a farlo più in là, limitandoci per ora a notare che il P.e Cherubino le qualificò in latino ed italiano «Carmina in laudem et improperium multorum, ad amorem alliciendum; in quibus sunt multa quae videntur sapere idolatriam. Scrive a la donna da lui amata chiamandola Sommo bene. Dicteria multa, quae videntur sapere libellum infamatorium». Decisamente il P.e Cherubino era disposto a trovarvi il peggio possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel reveglino del Castello, sotto la finestra del carcere del filosofo, gettatavi dal fratello Gio. Pietro al momento in cui venivano gli ufficiali in cerca di scritture; ma essa non vi si trova, non essendo stata aggiunta alle altre inviate al P.e Cherubino e nemmeno inserta puramente e semplicemente nel processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa a' Giudici del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6 marzo 1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di questa scrittura merita di esser notata, ma non si può interpretrarla in modo plausibile, se non ammettendo in qualcuno de' Giudici, o de' loro auditori e segretarii, il gusto di possedere un'opera filosofica del Campanella, giacchè con la scorta dell'unico cenno datone nell'esaminare l'Alarcon si rileva che tale era detta scrittura. Vedremo infatti tra poco registrato in questo esame che essa, composta di 32 fogli, in carattere minuto e senza coperta, cominciava con le parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre, «ma che ne fece poi voi lo sapete»; donde si rileva che trattavasi delle due prime parti dell'Epilogo di filosofia, edito poi in latino dall'Adami nel 1623 col titolo di Philosophia realis epilogistica; e ci rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che se i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere, senza dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una scrittura, nella quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si trattava di Dio, di Dio creatore e della Provvidenza Divina, mentre il Campanella era stato incolpato di ateismo oltrechè di eresia: d'altra parte dobbiamo notare che il Sances e il Governo Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la detta scrittura, ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era tutt'altro che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.

Ben poco ci tratterranno le scritture del 2o gruppo, appartenenti esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola, in lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio istruzione di un dottore intorno al valore giuridico della tortura, che è dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico e di Farinacio e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far vedere che la tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre anche al delitto principale malgrado la protesta del citra prejudicium probatorum, poichè il Giudice rimane obbligato a punirlo con pene miti: vedremo poi come il Gagliardo profittò moltissimo di tale istruzione. Le rimanenti scritture, quasi sempre di una sola carta ognuna ed anche costituite da piccole cartoline, mostrano talora semplici ricette e disegni astrologici, talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per fare lo stagno, la tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi sono figure di circoli e pianeti, e il P.e Cherubino per queste come per la scrittura precedente dichiara «nihil contrà fidem». Vi sono d'altra parte segreti molto spesso ad amorem, con oscenità da non potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una scrittura tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza naturale, in più punti della quale son segnate certe parole, e qua e là, invocazioni di demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte queste scritture il P.e Cherubino dice «sapiunt haeresim manifeste». Tali furono le scritture dapprima raccolte, alle quali altre se ne aggiunsero ma un po' più tardi.

Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del processo. Il 1o marzo 1602 il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta284, che avendo fra Dionisio presentato memoriale, con cui esponeva essergli state tolte dagli ufficiali Regii le scritture della sua causa, ed essere state trovate in camera sua scritture cattive appartenenti al Bitonto, delle quali doveva rispondere il Bitonto e non esso fra Dionisio, S. S.tà avea ordinato che si procurasse di ricuperare le scritture delle cause di S.to Officio, e che si pigliasse la debita informazione contro il Bitonto od altri colpevoli per quelle scritture che risultassero cattive. In verità, come abbiam visto, il tribunale avea già procurato di ricuperare quelle scritture, ed anzi le avea ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato pensiero di restituire a fra Dionisio le scritture della causa, nè glie le restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente. Ma dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione prescritta, e dal 6 marzo al 1o maggio esaurì gli esami sulle scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata durante l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere intorno alle ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella causa principale, tollerando che il termine accordatogli fosse già scaduto. Diremo dapprima dell'informazione presa sopra le scritture.

Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi sempre innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e all'Auditore Peri, si venne agli esami de' testimoni e degl'interessati. Nella prima seduta del 6 marzo, si cominciò dall'interrogare il sergente Francisco Alarcon285, il quale narrò minutamente la causa ed i particolari della ricerca fatta dal tenente del Castello e da lui nelle camere di fra Dionisio, di ira Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in generale di scritture trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso fra Pietro, e della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali poterono prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un altro frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva. Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da costui trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli non aveva nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed aggiunse, «se io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino trà le due porte, menata, per quanto si potte sospettare da me et dal tenente, dal fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre non mi confideria di conoscerle»; aggiunse ancora che, dopo la pacificazione di fra Dionisio col S.ta Croce e col Gagliardo dentro la Chiesa del Castello innanzi al P.e Cura chiamato D. Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea sottoscritta una carta nella quale si dichiarava che fra Dionisio non avea colpa in quella faccenda delle scritture. E mostratagli la scrittura di 32 fogli che cominciava con le parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre «ma che ne fece poi voi lo sapete», disse, «questa mi pare la scrittura che fù trovata al reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere del Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata dal fratello del Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non ci era coperta, però quello che si contenga in detta scrittura non lo sò perche non lhò letta». – Si passò quindi all'esame di fra Pietro di Stilo286 e mostrategli le 4 lettere che gli appartenevano, disse che erano state scritte di sua mano nella camera di fra Dionisio ma non ancora mandate, e riteneva essere state prese con le altre scritture. Dietro dimande spiegò che l'amico del quale si parlava in quelle lettere, raccomandando che si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio Prestinace, fratello di Suor Francesca e della Sig.ra Giulia, e genero della Sig.ra Porzia Vella; che non sapeva «la causa di che era inquisito e lo vero negocio», ma da carcerati suoi compatriotti aveva udito «che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa dela ribellione» (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo); che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con tanto calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente e parente di Gio. Gregorio, «procurava farlo pigliare ò vivo ò morto, perche li era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al vicere del Regno, et lhavea trattato lo fratello di Giulio contestabile, li quali tutti erano inimici del detto» (studiata confusione di due periodi diversi, e diffidenza non cessata mai; nominato il fratello di Giulio, invece di Giulio Contestabile, per riguardi facili ad intendersi). Dimandato se il Prestinace praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai il Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in presenza di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava e conversava come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne avea detto negli esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti de' quali avea parlato nella lettera alla Sig.ra Giulia Prestinace rispose, «sono secreti di taverna, che ogni uno che viene porta novelle di quello che sente, è le dicono quà in castello, et non so veri, et di questi secreti io scriveva» (accorta confusione di cose per non dare spiegazioni compromettenti). – Venne poi la volta di fra Dionisio287. Egli disse che teneva le scritture, le quali gli furono trovate, in parte nelle sue tasche, in parte sotto la materassa, ma le scritture della causa erano state a sua dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la portò in camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero, suo nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene dal Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.ta Croce. Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano del Barrese, poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa al Castellano, e le scritture tolte da essa furono poi date a D. Gio. Sances e quindi portate in Castello dal Barrese, il quale glie le mostrò e voleva esaminarlo sopra di esse. Presentategli alcune scritture (quelle del 1o gruppo, escluse le poesie trovate a fra Pietro Ponzio), le riconobbe di mano del Gagliardo, ed una sola di esse, quella sulla musica, di mano del Pizzoni; riconobbe anche le scritture della sua causa, ed invitato poi a dare spiegazioni sulla lettera di Sertorio del Buono e massime sulla «natività» che costui gli chiedeva, rispose: «mi scriveva che io mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la quale mi cercò che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che havea inteso che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù in napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello, et che si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io non so che frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape fare, si ben lui diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa natività, perche io non so fare tal cosa». Nel rimandarlo, i Giudici ordinarono che gli fossero restituite le scritture della causa. – Il giorno seguente (7 marzo) fu esaminato fra Giuseppe Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto scritture ma solo qualche lettera, e con un poco di biancheria la teneva in una cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perchè nella camera di costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che mentre portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli in essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia, dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500 ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che fra Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti concernenti la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa fu presa dagli ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella quale il Soldaniero, il Gagliardo e il S.ta Croce vennero contro di loro frati «et li maltrattorno assai, con pugni, et con lo stregneturo (stringitoio, cinturone) et roppero la testa à frà Dionisio», la ricerca di scritture proibite fatta ad istanza de' tre sopramenzionati, come gli fu riferito da molti «et in particolare da Scipione medico di questo Castello» (già nominato anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della cassa che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che in detta cassa erano state trovate «la Clavicola di Salomone et altre cose di magarie», le quali il Gagliardo gli avea confessato esser sue, ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli dissero che avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il Gagliardo, costui gli rinfacciava di aver dovuto fare questo tradimento a' frati per servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo avea loro detto che era stato fatto concerto di porre le dette scritture sotto il capezzale del letto di fra Dionisio, ma poi aveano potuto riporle nella cassa (un mucchio di menzogne e una doppiezza veramente fratesca). Infine citò anche la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo su tale proposito (ma nella dichiarazione il Gagliardo non diceva che quelle scritture fossero sue proprie). I Giudici vollero allora che riconoscesse dette scritture, e mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse che «alli sigilli di pasta» che recava quella scrittura gli pareva essere l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che era di mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi parenti medesimi, i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto ad esso deponente che si era dato al demonio mercè una carta scritta col proprio sangue, e si trovava poi carcerato in Napoli per conto della ribellione; aggiunse che essendo stato durante un anno in Castello dell'ovo, il Castellano di quel tempo, a nome Figueroa, avea pure trovato presso di lui scritture sortileghe, come si era saputo da un soldato di detto Castello con la gamba di legno a nome Navarro, che era venuto a riscuotere da lui certo danaro per un letto datogli in fitto, ed avea detto di volerlo accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe che la Clavicola di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure tutte le altre scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate (quelle del 1o gruppo) insieme con la poesia «materno idiomate in octava rima»; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del quondam Pizzoni «quale si delettava di musica et ne sapeva molto»; e richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture, disse che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del Gagliardo, altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro Ponzio, ma più tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso deponente e a fra Paolo, trovarono entrambi «un libro stampato grande, in quarto foglio, di astrologia, con molti caratteri, et un pezzo di carta dentro, nel quale erano scritti secreti contra la corda con nomi di demonii, et ci era il nome di felice gagliardo, et questo libro e foglio, overo pezzo di carta, restorno in potere di fra Pietro Pontio». Infine gli fu mostrato anche il libretto di poesie «lingua paterna» (le poesie del Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.

275Ved. Doc. 408, pag. 507.
276Ved. Doc. 415, pag. 519.
277Ved. Doc. 410, pag. 509.
278Ved. Doc. 411, pag. 510.
279Questa Sig.ra Giulia fu poi moglie del medico e filosofo celebratissimo a' tempi suoi, Francesco Leotta, di cui fanno menzione il P.e Fiore, il P.e Elia de Amato etc. etc. Nella Numerazione de' fuochi di Stilo, fasc. del 1630 si legge: «n.o 411. Dott.r Francesco Leotta (assente nella città di Roma); Giulia Prestinace moglie a. 62» (con due serve).
280Il Principe di Conca, di cui qui si parla, non potrebb'essere altri che quel Matteo di Capoa, «grande Ammirante del Regno» fin dal 1597, cav.re del Toson d'oro etc. che abbiamo visto testimone a carico di Colantonio Stigliola nel processo che costui ebbe dal S.to Officio (confr. vol. 1o, pag. 95 in nota).
281Questo opuscoletto, di carte 11-1/2 non numerate, comincia così: «Pithagoram, cum occultam musices rationem admiratum esse legeretur, et ex fabrorum malleis juxta pondera invenisse: eumdem quoque ad hominum natales et genituras descendisse videtur. Ideoque hominis partum vitalem esse, quum armonias explesse (?) videtur: perfectiorem vero nonimestrem, eo quod pluribus simphoniis confectum esse dicitur (?): septimestris igitur ideo armonicus, quum id tempus ex triginta quinque (?) per senarium ductum constat. Triginta quinque vero ex sonoris numeris colligitur, quibus homo formatur in utero. Nam primis sex diebus semen ut lac decoquitur, sequentibus octo erubescit in sanguinem: subsequentibus 9 fit caro: postremis 12 organizatur et in hominem formatur. Unde per armonias transit. Nam a primis sex ad octo Diatesseron est: et ad novem Diapente: et ad duodecim Diapason: ex quibus triginta quinque confiantur; cui si denarium adas, quatraginta quinque conficies; quem si per senarium ducas efficies 270, quem numerum, si in menses dividas, novem menses faciunt. Denarium si per unum, duo tria et quatuor dividas totum decem faciunt: si binarium ad unitatem comparabis Diapason videbis: Ternarius ad binarium Diapente: Quaternarius ad ternarium Diatessaron: e contra vero Quaternarius ad unitatem Bis diapason: Ternarius ad unitatem Diapason cum diapente. Quae cum plures sint, nonimestris vitalis erit; Octomestris vero cum nullas istas habeat proportiones, immusicus est, et non vivet quod in eo nascitur mense, ut clarius in hoc exemplo schematis hujus patet». Segue una tavola schematica, che lasciamo, come tutto il resto, anche perchè la scrittura riesce di una lezione molto difficile; vi scapiteranno solamente i Musici e i Fisiologi, che avrebbero forse visto con piacere accomunati i più sublimi principii delle rispettive discipline.
282Pare che debba leggersi: «a mucciari» che vuol dire «a nascondere»; ma è scritto «amacciari».
283Veramente l'originale dice: «fingi chi mi vidi» etc.; ma non andrebbe nè il senso nè il verso.
284Ved. Doc. 409, pag. 509.
285Ved. Doc. 417, pag. 521.
286Ved. Doc. 418, pag. 522.
287Ved. Doc. 419, pag. 524.