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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una lunga fermata, sicuramente perchè i forti calori della stagione estiva solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e poi più tardi perchè la malattia la quale afflisse il Vicerè, e finì per trarlo alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile sollecitatore della causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto nel resto dell'anno, e con molta fiacchezza, per un novello incidente sorto in questo tempo.

Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le particolarità precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè intervenire il tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a narrare le cose a modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere intorno ad essa dalle migliori testimonianze non soltanto degl'inquisiti ma anche degli ufficiali del Castello. Quello spirito irrequieto di Felice Gagliardo era stato dapprima in compagnia di Orazio S.ta Croce nel Castello dell'ovo per 17 mesi, ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co' banditi delle vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col padrigno suo Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po' per bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia: il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea fatto rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra questi anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano molte carte di negromanzia e già molte altre dello stesso genere ne avea lacerate, fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le carte che trovò, delle quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances, altre tenne presso di sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia Auditore del Castello. Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo venne posto in una medesima camera con Orazio S.ta Croce, con fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di poi insieme col S.ta Croce passò a stare col Soldaniero, più tardi fu di nuovo allogato nella camera in cui si trovavano fra Paolo e il Bitonto, e con essi il Petrolo e fra Pietro Ponzio: naturalmente egli si strinse subito in amicizia con fra Paolo, che sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e col Bitonto, che già conosceva e che si mostrò egualmente proclive a questo genere di cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano, li aiutò grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta della così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel giuoco del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti, ricette, scongiuri ed artifizii magici263. Il Gagliardo e il Bitonto si diedero subito a trarre una copia di tali scritture, e s'intesero tra loro al punto, che o per amicizia o piuttosto dietro qualche piccolo compenso, facile ad assumere ogni maniera di responsabilità quasi bravando i rigori del tribunale, il Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta in presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa affermava non esser vero quanto in processo leggevasi deposto da lui contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in ordine perchè presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato falsamente inserto da quelli che formarono il processo. Tali scritture, con altre ancora, si conservavano in una cassa appartenente al Bitonto, e questa cassa, non molto tempo prima dell'avvenimento che dobbiamo narrare, fu portata dal Bitonto nella camera di fra Dionisio, ritenutane la chiave in poter suo, pel motivo o pel pretesto che nella camera in cui stava erasi verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra Pietro Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo dalla camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì di allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.ta Croce. L'Adimari uscito fuori sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perchè già stavano troppi letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il quale gli diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una parte e i frati dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli altri in difesa di fra Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.ta Croce e il Gagliardo, si azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed inoltre con fra Dionisio uscito dalla sua camera per quel rumore, avendo i frati «sarcene alle mani e seggiolelle di paglia» (fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e servendosi i laici de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano. I soldati del Castello e il carceriere intervennero e separarono i contendenti, cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu trovato ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il S.ta Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.

Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si presentò al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya, d'altro lato il S.ta Croce e nientemeno anche il Gagliardo si presentarono al sergente Francesco Alarcon, dicendo che per servizio di Dio e di S. M.tà facessero fare una ricerca nella camera di fra Dionisio, rovistando tutta la camera ed una cassa che là si trovava, perchè sarebbero venute fuori «scritture e carte triste e prohibite»; e quegli ufficiali, insieme con due soldati e col carceriere Martines, si portarono a fare la ricerca non solo nella camera di fra Dionisio, facendolo stare presente, ma anche nella camera degli altri frati e in quella del Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera e segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza la chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed avuta la chiave dal Bitonto, ne furono estratte le «carte di fattocchiarie», la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in favore del Bitonto ed anche le scritture concernenti la persona di fra Dionisio nella causa di eresia, vale a dire gli articoli del fiscale contro di lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù una «Consideratione dell'essamina et lettura del processo de pretensa rebellione». Presso fra Pietro Ponzio fu trovato «dentro uno marzapane grande tondo» (canestro tondo di vimini fornito di coverchio) un libretto di Poesie rivestito di pergamena, «con zagarelle di seta pavonazze e rangiate» per fermagli; erano le poesie del Campanella che fra Pietro si occupava di raccogliere e divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì infruttuosa, ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo, che stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata condotta con maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero fuora altre carte di sortilegi. Infine presso il Campanella fu trovata qualche altra cosa, e ne lasciamo il racconto al sergente Alarcon che così si espresse quando fu poi esaminato più tardi su tale incidente: «Andassemo ancora à cercare la camera di frà Thomaso Campanella, et non vi trovai altro eccetto che una lettera serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et perche lui stava malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la camera, non mi ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera, et mentre si faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello di Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una scrittura di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io pigliai è portai al Sig.r Castellano»264. Vedremo più tardi cosa fosse questo scritto del Campanella: diremo intanto che il Castellano D. Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo ordinò che fossero rinchiusi nel torrione del Castello, in due criminali separati, fra Pietro Ponzio primo motore della rissa e fra Dionisio ritenuto autore delle carte proibite; ordinò inoltre che tutte le carte trovate nella ricerca fatta fossero portate al Vicerè dallo stesso luogotenente De Moya. Con ogni probabilità allora appunto, nell'essere fra Dionisio preso e tradotto al torrione, vennero trovate ancora nella camera di costui quattro lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto, scritte pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti di Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi chiamato a deporre: «Le fici portare… à sua Eccellenza del vicerè di questo Regno, che stava alhora à chiaya alle case è giardino di Don Pietro di toledo, et io proprio in nome di detto Sig.r Alonso castellano le consegnai al vicerè alla presentia di Don Pietro Castelletta Regente di Cancellaria, è di Don Giovanni sanges de luna, dandoli conto come si erano trovate è dove, et in particolare dissi che alcune di quelle scritture erano state trovate dentro di una cassetta di detto fra Dionisio pontio, et detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è lessero, et alhora medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro date al detto Sig.r don Giovanni sanges de luna, il quale se le pigliò in suo potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte restorno in potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che scritture fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali foro quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che io ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io mi licentiai dal vicerè et me n'andai»265. Probabilmente le scritture che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di segreti, ricette e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad ogni modo doverono certamente destare curiosità sopra tutte le altre quelle della difesa di fra Dionisio nella causa di eresia, per le quali si potè avere una notizia abbastanza precisa di detta causa. Riesce poi notevole che il Vicerè non abbia fatto trasmettere al S.to Officio le carte che cadevano sotto il dominio di quel tribunale: è impossibile ammettere che egli non vi avesse dato importanza, ma si può meglio ritenere che egli non le abbia trasmesse per evitare un motivo di ulteriori lungaggini. Invece se ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non quietò, finchè non venne ordinato di pigliare informazione su questa faccenda delle scritture.

 

Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, supplicandolo di venire in Castello «per cose importantissime di S.to Officio»; e il 26 agosto, innanzi al Vicario Arcivescovile e al Rev.do Antonio Peri, trovandosi impedito il Nunzio ed assente il Vescovo di Caserta, fu interrogato circa il memoriale mandato266. Egli disse che coloro i quali gli si erano esaminati contro, in materia di eresia e di ribellione, avevano assaltato lui ed il germano fra Pietro, l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e poco dopo, fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate scritture proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto, che l'avea portata presso di lui perchè la conservasse; e ne' giorni seguenti aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto gli avesse «fatto il tradimento» d'accordo col S.ta Croce, Soldaniero e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si trovava, come egli stesso, in un criminale, avea minacciato costoro di volerli denunziare al S.to Officio per cose gravissime. Chiese quindi che si pigliasse informazione intorno a quelle scritture, che ne fossero gastigati gli autori o possessori, che si desse a fra Pietro suo germano il modo di poter presentare i capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero costoro «separati e posti in clausura», tanto perchè potesse scovrirsi la loro perversità, quanto perchè erano incorsi nella scomunica. Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture di carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea veduto in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i capi del fisco in materia di S.to Officio (così profittava dell'occasione, se pure non l'aveva egli stesso provocata, per giustificare i suoi ritardi e prender tempo ulteriormente): disse ancora che tutti e tre que' ribaldi l'aveano percosso, ma il S.ta Croce l'avea ferito, mostrando la ferita, medicatagli «dal chirurgo del Castello nomine Scipione» di cui non sapeva il cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de' testimoni, e dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio discacciare dalla camera sua il Gagliardo «per alcuni furti et perche haveva inteso che andava vendendo magarie»; aggiunse che la cassa del Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera sua. – Verso lo stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al Vicario Arcivescovile contro fra Pietro Ponzio, perchè aveva insultato esso querelante pacifico e quieto, e gli avea dato uno schiaffo in presenza della maggior parte de' carcerati, onde chiedeva una diligente informazione su questa insolenza e un provvedimento di giustizia. Naturalmente fra Pietro non poteva starsene tranquillo, dovea rispondere alla provocazione e già avea mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non gli mancava la materia per la risposta. D'altra parte ancora, non si saprebbe dire perchè, il Lauriana mandò al Rev.mo Vicario un memoriale, supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non si riscaldò menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto dell'anno, nè ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci dalla parte del Governo di Napoli erano venute meno.

Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da certi edemi che gli erano comparsi e che si dicevano «pienezza di carne»; quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma a' primi di settembre già susurravasi essere la malattia dell'intestino retto e dover finire con una «fistola penetrante»; se ne indicava anche la cagione, attribuendola alla intemperanza dell'infermo, per la proclività ad accettare i banchetti offertigli continuamente da' Nobili e forse graditi alla sua Signora più che a lui. I medici erano in moto, e come faceva sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18 7bre ritenevasi ottenuto un miglioramento, per una medicina che «una parte de' medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri». Una insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta di consiglio e rimedio, fu inviata dalla casa del Vicerè al dottor Diaz a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è l'Archivio di Firenze267: ma un medico di provincia, che abbiamo già avuta occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse francamente male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di esser chiamato al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo Provenzale dovuto recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli era stato concesso nel 1598 e che si godè fino al 1612268. Dopo di aver molto penato, «con febbre, flusso, siero e fistola penetrante», il 19 ottobre il Vicerè venne a morte; a 57 anni di età, dopo 57 giorni di malattia, come notarono gli studiosi de' numeri di quel tempo, calcolando il principio della malattia dal giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi notarono ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello suo da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de' distinti personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del Vicerè, tra i quali Carlo Spinelli; così pure le lodi dell'estinto, il compianto dei cittadini etc. etc. e questa volta bisogna dire che abbia ragione, poichè dopo la condotta per lo meno scempiata del Conte Olivares suo predecessore, la condotta del Conte di Lemos apparve tanto più degna di encomio. Non mancarono a' canti delle vie, come già in certi altri momenti del suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli infamatorii, sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi goffi, ma che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p. es. il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro il Lemos, e talora con parole estremamente acerbe269. – Successe come Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito del Lemos, il quale pure altra volta, in assenza del padre andato a Roma, avea governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo che allora non mancò d'insistere perchè il negozio de' frati avesse un termine, ma non apparisce che avesse fatto sollecitazioni in questo periodo del suo governo, avendo invece cominciato a farle molto più tardi.

Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a languire nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per comprendere alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo dovremo passare a rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin dal 7 7bre al Provinciale de' Domenicani di Calabria270, ci fa sapere che da' conventi di quella Provincia erano stati una volta mandati danari perchè fossero distribuiti a' carcerati, ma che appunto il Campanella, il quale ne avea «bisogno più che gli altri come malato, non hebbe nulla»; e però il Nunzio aveva ordinato che fosse risarcito con la somma che allora si diceva pronta per lo stesso oggetto, e che tutti i danari rimanessero in mano di un corrispondente del Campanella in Napoli, il quale l'avrebbe provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe badato, «sendo mentecatto», che non gli fossero rubati; aggiungeva poi il Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano passare per varie mani e poteano per lo meno incagliare per via. Difatti vedremo più in là che una somma di D.ti 200 inviati da Calabria, con ogni probabilità quella medesima per la quale avea scritto il Nunzio, ebbe a patire la detta traversìa ed anche qualche cosa di peggio. Nè ci mancano documenti da' quali si desume che i poveri carcerati, nel tempo cui siamo pervenuti, doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a Napoli, perchè si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.

 

IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto cessata la sospensione della causa271. Il 4 gennaio, a nome della Congregazione de' Cardinali colleghi il S.ta Severina scriveva che non si era saputo più nulla intorno alla causa, che oramai per la morte del Vescovo di Squillace, pel lungo tempo trascorso etc. non c'era nulla da attendersi sulle informazioni commesse in quella diocesi, che infine si voleva conoscere se fosse stato provvisto al vitto de' carcerati, come più volte erasi da Roma ordinato a' loro superiori. – E gli 11 gennaio i carcerati dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo272 facendogli sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo scrivano dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro bisogni, ma avea «dimostrato non troppa intentione di charità», e quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la loro firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il carceriere Alonso Martines, e da ciò ben si rileva che egli continuava sempre a mostrarsi pazzo.

Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo sostituì definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute, fu esaminato di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse dire altro, poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non erano materia di S.to Officio. Fra Dionisio rispose che aveva inteso deporre sulle scritture trovate in camera sua e mostrategli dal Barrese, per le quali voleva essere punito se mai fosse risultato colpevole. Aggiunse poi che il Soldaniero, comunque scomunicato per averlo percosso, e già prima scomunicato anche dal Vescovo di Tropea per violata immunità ecclesiastica, non se n'era mai curato nè se ne curava, continuando ad ascoltare la Messa nella Chiesa del Castello. – Certamente il tribunale dovè allora rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture in quistione, giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S. Eccellenza, le scritture gli furono inviate: ma non credè di dover ritardare per questo la spedizione della causa principale, non si curò dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti ulteriori e poco dopo abilitò, come allora si diceva, il Soldaniero ad uscire dal carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene gravemente offeso, e pensò allora di rivolgersi al S.to Officio di Roma, dal quale vedremo in sèguito ordinato di procedere alla debita informazione sulla faccenda delle scritture. Non meno ebbe a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio, il quale poco tempo prima avea potuto finalmente presentare i suoi capi di accusa, una denunzia formale in materia di S.to Officio contro i laici intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro mesi ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come fossero anche per questo divenuti furiosi.

Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu iniziato un processo secondario contro Orazio S.ta Croce continuato poi contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della denunzia presentata da fra Pietro Ponzio, la quale veramente, oltre il S.ta Croce e il Gagliardo comprendeva anche Giulio Soldaniero e un Ferrante Calderon dottore spagnuolo del pari carcerato273. I lettori intenderanno che riuscirebbe impossibile seguire tutti i particolari di questo processo, condotto a sbalzi per due anni interi, senza intralciare orribilmente la narrazione del processo principale ed anche correre il rischio di non finirla più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni, i quali veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava la vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia di fra Pietro mandata al Card.le Arcivescovo di Napoli, recava le seguenti cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a questo modo: 1 °Contro il S.ta Croce; che era un pubblico bestemmiatore e diceva anche continuamente «santo diavolo» (esclamazione calabrese ancor oggi comunissima); che giocando a dadi col carceriere avea detto «Dio, non ti credo, se la prima volta ch'io giocarò con Martines non mi farai uscire da questo Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in canna» (un laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato a giocare col Martines; che avea detto essere «il diavolo assai più potente di Dio, perchè Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo aiuta li suoi vassalli li tristi»; che non dava alcun segno di devozione, non andava a Messa nè recitava officio nè rosario, e ne' giorni solenni era visitato da una certa Delia sua antica concubina, con la quale stava di giorno e di notte, mangiava e giaceva in presenza anche de' frati, ed essendogli stato ciò proibito avea proferita una laidissima proposizione (la quale perciò sarà meglio non ripetere); che avea ferito fra Dionisio nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era dato mai pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con un proverbio calabrese, «meglio essere scomunicato che comunicato all'imprescia» (comunicato in fretta). 2 °Contro il Gagliardo; che era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed un libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli ufficiali del Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di legno, che stava al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da lui avea detto che in quel Castello gli erano state trovate carte contro Dio; inoltre che nel Castel nuovo un certo Marcantonio Buono calabrese veniva a visitarlo per cose magiche, ed un giorno rimasti soli fecero insieme suffumigi con zolfo «e una pignatella piena di mill'imbroglie», e Geronimo Campanella entrando nella camera se n'uscì subito spaventato e cacciato dal puzzo gridando che là «ci erano cento mila diavoli», che in presenza de' carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con la suocera e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere di tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a prescriverli; che pubblicamente ritenevasi aver lui scritto col proprio sangue una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che era ladro, e in tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco timore di Dio. 3 °Contro il Soldaniero; che da due anni scomunicato per Cedoloni affissi alla Cattedrale di Tropea, e poi incorso nuovamente nella scomunica per aver percosso sacerdoti suadente diabolo non si era curato dell'assoluzione, continuando a udir la Messa e conversare con tutti absque resipiscentia. 4 °Contro il Calderon; che avendo chiesto a fra Pietro su che si fondava il Campanella per sostenere prossimo il dì del giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de' Padri, e tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di S. Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare nell'occidente la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel Breviario, si era lasciato dire queste essere ciarle fratesche per accrescere onore alla religione; che discorrendo della fede ne' beati ed in noi viatori, si era lasciato dire altro essere ciò che noi crediamo ed altro ciò che quelli vedono, ed esservi differenza non solo nel principio e nel mezzo, ma anche nelle conclusioni della fede; che infine si era lasciato dire la fede vera procedere dall'esperienza e non dall'udito, nè voler credere se non ciò che vedeva.

Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse stato tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere che nelle cose di S.to Officio non si transigeva facilmente in quel tempo, ed al contrario di quanto generalmente si ritiene, lungi dall'essere il tribunale della fede mal tollerato, vi si accorreva molto volentieri, come lo dimostrano le «spontanee comparse» contro la propria persona, numerose al punto da far rimanere stupiti allorchè si esamina una collezione di scritture di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia suddetta di fra Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo Adimari contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato, querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio Peri, nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno Brundusio Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta, nella 2a seduta e in qualche altra274; più tardi funzionò il solo Curzio Palumbo qual deputato speciale, e talvolta senza questo titolo, che anzi in qualche decretazione figurò il Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e il nuovo Vicario generale Alessandro Graziano. Un notevole elenco di testimoni fu dato da fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo riesce di molta importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco Castiglia, il carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres (sic), vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da fra Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro Prezioso, che dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi ultimi, eccetto quello di Gio. Pietro Campanella forse per dimenticanza, e vi segnò a lato il rispettivo domicilio, onde si legge, «Geronimo Campanella è in Stignano, Geronimo Conia à Castellovetere, Camillo Adimari è d'altomonte non si sà dove sia» etc; quanto a Francesco Gentile si legge, «è stato carcerato e liberato, non se sape dove habita», e poi, «à mezzo cannone alla banda de la fontana, sagliendo ad alto passata la fontana» (una via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando all'attenzione de' lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo ad occuparci più in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti che erano già liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella lista, ed anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro motivo perchè la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della congiura era dunque finito per essi prosperamente, nè il S.to Officio avea posta l'empara per quelli che aveva esaminati in materia di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra parte Geronimo Campanella, sicchè avea lasciato cadere le imputazioni dapprima accolte contro di loro. Ma la data in cui fu scritta la lista del Prezioso non è determinata; si può solamente dire che dovè essere scritta tra il febbraio e l'aprile 1602, e però tale sarebbe la data approssimativa del rilascio della maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che taluni di loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista quando trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo sappiamo aver patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il processo fu avviato realmente nel mese di marzo, e continuato a riprese in luglio, agosto, settembre e novembre. Dapprima, il 13 e 19 gennaio, fu esaminato fra Pietro Ponzio per lo svolgimento della denunzia presentata; di poi si attese fino al 6 marzo per esaminare il Soldaniero, il quale già trovavasi fuori carcere e ad ogni modo pervenne a giustificarsi, affermando che nella rissa si era limitato a dividere i contendenti, e che in Tropea non era stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al quale egli era subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati quali testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono i fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i Ponzii e il S.ta Croce, e costui, assolto dalle censure, venne quindi esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale affermò aver presa parte solo per dividere i contendenti, ed essere la ferita di fra Dionisio imputabile non a lui ma al Soldaniero. Dopo questo esame il processo rimase lungamente interrotto, nè venne ripigliato che scorsi quattro altri mesi, nel luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne l'esposizione.

263Su questo Cesare d'Azzia potremmo dare varie notizie, ma ci basterà dire che era di famiglia nobilissima, bensì di costumi molto tristi. Anche nell'Arch. di Stato in Torino, Lettere-Ministri Due Sicilie maz. 1o, lett. dell'Agente Melchiorre Reviglione 28 mag. e 7 giugno 1602, trovasi qualche cosa intorno a lui; poichè egli era Cav. di S. Lazzaro fin dal 1560 e possedeva le commende di Ariano, Barletta, Venosa e Rocca-Rainola. Il Reviglione suggerì di farlo processare e privare dell'abito dal Nunzio Pontificio, del quale il Duca di Savoia si serviva in simili casi.
264Ved. Doc. 417, pag. 521. Si ricordi che dopo la veglia il Campanella fu posto in una camera presso la Sala Reale, ed ora si badi che lo scritto fu trovato nel reveglino tra le due porte del castello: a chi conosce il luogo è chiaro che il Campanella dovea trovarsi nel bastione che rimane tra i due torrioni, quello detto Bibirella e quello detto del Castellano, ma più dappresso a quest'ultimo e nel 2o piano.
265Ved. Doc. 423, pag. 528.
266Ved. Doc. 405, pag. 504.
267Ved. Filza 4089, Lettere di particolari scritte da Napoli al Sig.r Lorenzo Usimbardi l'anno 1601 et 1602. La relazione è senza data, ma precede di poco l'annunzio della morte del Vicerè; per altro le Lettere stanno in quella Filza assai disordinatamente.
268L'Ughelli, Italia Sacra t. 6o p. 624, qualifica il Provenzale «nobile Filosofo e Teologo» non già medico; ma dice che Clemente VIII si servì dell'opera sua e cita i libri medici di lui. – Quanto al Bonaventura, può leggersi il Carteggio del Nunzio, Let. di Napoli 2 9bre e 7 10bre, 4 8bre 1602 e 26 7bre 1603; e Lett. di Roma del 30 9bre 1601, 13 7bre 1602, 15 maggio 1604. – Notiamo che negli ultimi giorni della malattia del Vicerè il Nunzio non si trovava in Napoli; avea dovuto recarsi, con suo vivo dispiacere, a Larino, dove il popolo avea chiuso le porte della città in faccia al suo Vescovo Mons.r Vello, e vi si era fatto accompagnare da 50 soldati a cavallo concessigli dal Governo; ved. il suo Carteggio, Lett. da Napoli del 21 7bre, 5 e 15 8bre 1601 etc. e il Carteggio Veneto, Let. del 9 8bre 1601.
269Anche ne' Diurnali di Scipione Guerra, ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, B, 11) si trova un Sonetto apparso al tempo della morte del Lemos, che canzona la sua intemperanza e comincia così: «Giungi roba al pignato Satanassovien teco a cena l'alma di un ghiottoneche andò mangiando per ogni pontonecon scusa di portar la moglie a spasso» etc. Nel Carteggio poi del Residente Veneto, una volta in data del 7 7bre 1599, a proposito delle doglianze affisse pe' cantoni circa la carestia, si biasima «la smoderata presunzione et superbia del popolo»; un'altra volta in data del 19 8bre 1601, a proposito delle accuse che si facevano al Lemos estinto, trovasi un'osservazione molto amara, ma che è bene conoscere, perchè rimossa l'esagerazione potrebbe anche offrire qualche cosa da apprendere, ed essa è, che i napoletani «per natura danno sempre per fatto da altri quello che fariano essi se havessero la potestà»!
270Ved. Doc. 123, pag. 72.
271Ved. Doc. 407, pag. 507.
272Ved. Doc. 406, pag. 506.
273Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2o, fol. 180 e seg.ti.
274D. Manno Brundusio di Fondi era stato dapprima Segretario del Vescovo di Lucera, e poi divenne Segretario del Vescovo di Caserta; secondo alcuni suoi reclami nè l'uno nè l'altro gli avrebbero dato mai compenso; vedi nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini Lett.e di Roma del 1o 7bre 1600 e 24 10bre 1604; e Lett.re di Napoli del 21 genn. 1605. Suo fratello parrebbe che fosse stato quell'«Appio Brundusio Fundano filosofo e medico preclarissimo» il quale diresse ad Antonio Serra l'economista alcune poesie che si leggono in fronte all'opera di costui intitolata: Delle cause che possono far abbondare gli Regni d'oro et d'argento, Nap. 1613.