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Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

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Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che consisteva la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso Campanella ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui le più esatte notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta de' più celebri, da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu inventata nella 1a metà del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso criminalista bolognese e Giudice nella Valle Lugana, «avverso gli ostinati e coloro i quali non temevano i tormenti». Egli si serviva soltanto di uno scanno di legno su cui faceva sedere l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i quali, ogni qual volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con la mano sul capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di tempo in tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare; e il De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale, come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che un tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece ebbe a vedere «non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi resistere» (era feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi in due notti ed un giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito confessava tutto, e però bisognava rammentarsi di questo genere di tormento che era della massima potenza e non affliggeva il corpo, «sicchè per esso il Giudice non incorreva mai in sindacato». Immediatamente i suoi contemporanei e successori se ne giovarono, accertandone tutti i vantaggi, come li accertò p. es. Paolo Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si fece sentire anche in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi copioso cibo e vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto più grave, e si finì col modificare lo scanno ed associarvi altre specie di tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo scanno una maggiore altezza affinchè i piedi dell'inquisito non poggiassero a terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo, denominando perciò lo scanno capra, cavallo o cavalletto, affinchè le parti deretane dell'inquisito ne venissero travagliate. E vi si associò pure la sospensione dell'inquisito alla corda con le braccia torte in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri fermati mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora perfino col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente al dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante un lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano ligati i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello attaccato alla parte media del bastone lo attirava verso il muro di fronte, senza dubbio per impedire del pari che il tormentato, con lo stringere le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo sottrarre le sue parti deretane all'azione di esso. Prospero Farinaceo, criminalista appunto del tempo del quale trattiamo, volle mostrarsi umanitario rifiutandosi di descrivere il tormento della veglia, perchè, egli disse, non era «nè aguzzino nè birro»; ma l'Ambrosino accennò alle condizioni dello scanno, alto 7 o 8 palmi, fornito di tre piedi e a superficie angolare ottusa, su cui doveva poggiare l'inquisito con le parti deretane nude, aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno ad angolo acuto, che poteva uccidere il torturato venendogli rotte e perforate quelle parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo, ci diede la descrizione completa del tormento quale allora si usava, e non è dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco in quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi abbiamo stimato necessario riferire249. Che al Campanella sia stata amministrata la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti risulta dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di legno detto il cavallo, la sospensione alla corda con le mani ligate dietro la schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo toccava ed avvertiva di non dormire, è citato anche il funicello applicato a' piedi, che il povero tormentato chiedeva si portasse più in alto perchè i piedi gli bruciavano; e risulta egualmente da quanto ne lasciò scritto in ispecie nelle Quaestionum moralium, non che dalle parole stesse della sua Narrazione, in cui i funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono ricordati anche i guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. «Al tempo del Manini (int. Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale, ch'andò fin a Roma personaliter per tal licenza, tormentato 40 hore di funicelli usque ad ossa, legato nella corda a braccia torte, pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia: che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo pesta et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne, e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie rotte, et sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di medici quasi per miracolo, nè confessò heresia nè ribellione, è restò per pazzo non finto come diceano». E qui non possiamo dispensarci dal far avvertire che questa menzione del Sances, fatta già anche nella lettera a Paolo V, ci apparisce uno de' più spinti ripieghi del Campanella per mettere nella penombra l'opera dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la ferocia degli ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non presso Roma, presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è stata sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente, «clericus regulariter torqueri non potest per laycum». Non intendiamo mettere in dubbio che il Governo Vicereale, e per commissione di esso il Sances, abbia potuto insistere presso la Curia, perchè si badasse bene a provare energicamente la pazzia la quale si avea ragione di credere simulata; ma crediamo assai difficile poter ammettere che da tali insistenze fosse nata l'idea di amministrare il tormento della veglia. Da un lato non si comprende in che modo il Sances avrebbe potuto sapere, o mostrar di sapere, lo stato della causa di S.to Officio e prendervi un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano bisogno di eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia, non solo perchè era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti pazzi si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte250, ma ancora perchè, ogni qual volta a Roma appariva necessario un tormento gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare l'amministrazione della veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio si rileva che, meno di un anno dopo di aver data la veglia al Campanella, ad un altro frate Domenicano, fra Raimo dell'Olevano, essendo stata inutilmente adoperata la corda nel tribunale della Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data pure la veglia e del pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato alle galere: vero è che questo frate trovasi qualificato «Theologo et Predicatore se bene un gran tristo», già evaso dalle carceri del Nunzio fin dal 1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con 7 palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti capitali ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era niente meno grave per la Curia Romana251.

 

Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e che pubblichiamo tra' Documenti252. Tutti i Giudici erano al loro posto: il Campanella introdotto dal carceriere Martines e richiesto del giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in adiutorium…; ammonito su' guai a' quali andava incontro rispose, dieci cavalli bianchi; toccato dal cursore della Curia Arcivescovile gli disse, non mi toccare che sei scomunicato per la bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino (ora 11a) fu ligato alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere ligato diceva, ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte grida cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi, dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava il Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore, e il Vicario Arcivescovile «zio Arciprete». Chiese che gli si pulisse il naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono ligati i piedi; toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare, che sii squartato. Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate al molo presso il Castel nuovo, e disse, suonate, suonate, sono ammazzato frate; guardò la porta della camera che stava aperta e disse all'aguzzino, aprimi, oh frate, oh frate. Poi abbassò il capo e tacque per un pezzo, e toccato dall'aguzzino disse, oh frate, e continuò a stare per un'ora col capo e col petto abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e rispondere, accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero poi discendere perchè soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu posto di nuovo al tormento (2a volta) e disse, ora mi ammazzate ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, nè rispose mai alle continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle diverse interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si lagnava di tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva. Si giunse così alle 8 della sera (ora 24a) essendo questa volta rimasto sempre nel tormento senza interruzione, nè altro si udì da lui che, ohimè, ohimè; e battute le 9 (1a ora di notte) chiese da bere e l'ebbe, nè mai rispose alle interrogazioni, ma si notò che mostrava di udire con cura e di percepire le parole e le ammonizioni a lui dirette, e guardava anche i circostanti. Di poi disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che era di Stilo, Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero di S. Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò anche Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi chiese da bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che chiamassero suo padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano, «Tommaso Campanella che dici? non parli?», ed egli non rispondeva, e solo volgevasi di qua e di là guardando i vicini. Sorse così il giorno e furono aperte le finestre e spenti i lumi, ed egli, sempre taciturno, appena diceva qualche volta, moro, moro, non posso più, non posso più, per Dio. Ma poco dopo parve che svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo dal tormento e porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare a certa sua necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore di tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi morire, e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose di sì e che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla essendosi ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel tormento, ed egli incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate frate mio; gli fu detto allora perchè mai avesse tanta cura del corpo e non dell'anima, ed egli, «l'anima è immortale». Fu dunque riposto nel tormento (3a volta), e rimase taciturno, ma poi chiese all'aguzzino che portasse più in alto il funicello con cui erano ligati i piedi, perchè questi gli bruciavano; e i Giudici lo concessero. Continuò a star quieto, gli si dimandò se volesse dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe avuta comodità di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed egli non parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le 11 del mattino (ora 15a); i Giudici aveano profittato di quella seduta per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea presentate; gli ordinarono quindi di parlare al Campanella che stava nel tormento, e di persuaderlo a rispondere formalmente, ad evitare i tormenti che per lui erano affatto inutili, avvertendolo che il S.to Officio avrebbe procurato di ottenere da lui le risposte in tutti i modi! Fra Dionisio, come si notò nell'Atto, «adempì l'incarico con bastante diligenza e carità», discusse, disputò, e il Campanella gli disse che voleva rispondere alle interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse deposto dal tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda; intanto gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità, lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di un'ora di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di consigliarlo, ma si può supporre in qual senso). Fecero di poi sedere il Campanella presso il loro tavolo, l'eccitarono a rispondere e gli dimandarono perchè si trovasse carcerato nel Castello; il Campanella rispose, che volete da me? Avendone solo parole, lo fecero riporre nel tormento (4a volta), e il Campanella vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di tempo in tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire la menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato nel tormento per circa 36 ore.

La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più grande perchè nel tormento del polledro non gli era riuscito di mostrarsi forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli, era stato posto allo strazio e vi avea resistito un giorno e mezzo: i suoi amici ne rimasero ammirati, e vedremo segnatamente fra Pietro di Stilo farne gli elogi più entusiastici. Cosa ne avessero concluso i Giudici, si può rilevarlo dal Carteggio dell'Agente di Toscana. Era morto allora il Battaglino fin dalla notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli successo Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con forte stipendio il «Jus civile della sera» nello studio pubblico di Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per gli affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il Turaminis fin dal 2o giorno del tormento, essendone l'esito tuttora ignoto, avea scritto a Firenze che il Campanella veniva provato «nella sveglia ad istanza del S.to Officio» sul fatto della pazzia; e il 12 giugno scrisse, che avea lasciato «dopo hore 37 di risveglia confuso ognuno, et in dubio più che mai se fosse savio o matto»253. Rimase dunque scossa l'opinione che la pazzia fosse simulata, se dobbiamo credere al Turaminis, che potè veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra poco che ad ogni modo si ebbe presto motivo di non recedere da quella opinione, ed intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi tormenti. Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito nella sua Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed in qualcuna delle sue opere, col ricordo che era stato «sette volte tormentato»; e per l'ultimo tormento trovasi detto, più o meno, che avea perduta «una libbra di carne nelle parti deretane e diece libbre di sangue», che «era uscito sano dalla fossa (int. dalla sua tristissima condizione) dopo sei mesi», che avea «riacquistata la sanità per la diligenza dell'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli»254. Senza dubbio in tutto ciò deve riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni nel tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo procurato di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro riposizioni nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del Vescovo di Termoli, e le due riposizioni nel polledro avuto per la congiura; nè sarà inutile ripetere ancora una volta che tutti questi tormenti furono dati sempre da Giudici deputati dal Papa, dietro ordine o consenso espresso del Papa, sicchè non riesce giusto attribuirli agl'inumani spagnuoli, pur riconoscendo che questi avrebbero fatto molto peggio se avessero potuto. Non è dubbio poi che la veglia abbia prodotto una ferita lacero-contusa con mortificazione ed emorragie consecutive, sebbene le valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano fatte con molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che due mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre a letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò le sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci abbia destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci abbia costato il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di consultare i libri parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo. Sapevamo che in ogni Castello si tenevano a que' tempi, con misero stipendio, un medico ed un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci era riuscito di trovare che funzionava allora da medico-chirurgo un Bonifazio del Castillo con cui senza dubbio il Campanella dovè aver che fare quando più tardi fu trasportato a S. Elmo, ma pel Castello nuovo le scritture di più Archivii non ci aveano rivelato che il medico Gio. Geronimo Orabona fino all'anno 1591255: d'altronde nel processo attuale trovavamo, per altre cure delle quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo Scipione, e da un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del Campanella, non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi sono abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo ci hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante in quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi impiegate: onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero filosofo, e meritarne la stima e la riconoscenza256.

 

Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2o giorno del tormento del Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate. Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la lettera inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra Dionisio l'avesse ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea sapere, dicendo di aver ricevuta la lettera del Petrolo già da otto o nove giorni per mezzo di Felice Gagliardo carcerato per la congiura, il quale glie l'avea data passandola per la fessura superiore della porta del carcere, in cui si trovava egli solo e sempre chiuso. E i Giudici non se ne brigarono ulteriormente, nè chiamarono a nuovo esame il Petrolo come costui dimandava. – Si fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare fra Pietro di Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture, del Campanella con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli profetali257. Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin dall'anno scorso, nel principio di quaresima, il Campanella gli avea mandate certe carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle carceri ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per la fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua richiesta, perchè erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella settimana santa, fece copiare il 1o fascicolo da fra Pietro Ponzio venuto allora a stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un compatriotta, Vincenzo Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in Napoli con un suo fratello, presso un Signore che non sapea dire chi fosse e che avea udito essere andato alla guerra, e il detto Ubaldini l'avea fatto copiare da un copista258. Aggiunse che gli originali non c'erano più, perchè il copista non volle restituire quello a lui consegnato, dicendo che era cosa curiosa, e l'altro, consegnato a fra Pietro Ponzio perchè lo copiasse, fu dato al Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle restituir nulla dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò quelle scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale predetto, ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati presenti il Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato. Aggiunse che aveva bensì lette quelle scritture, ma senza capir nulla dei profetali, e facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio qualche cosa del fascicolo che egli copiava: inoltre che il martedì o un altro giorno della settimana santa, il Campanella «che non si era ancora publicato pazzo» mandò a chiedergli le copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi glie le rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere di mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del solito. Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro quelle scritture, nè sapeva che alcun altro le avesse viste all'infuori de' già nominati, e che non le avea presentate prima perchè non le avea potuto aver prima. – È superfluo dire che molte circostanze di tale racconto erano mentite: lasciamo da parte il non conoscere il figliuolo che a nome del Campanella avea portato gli originali delle scritture (forse Aquilio Marrapodi) e il copista laico che avea trascritto una di esse; lasciamo da parte che quelle scritture erano state sempre nelle mani del Pizzoni, e poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a circa tre mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto con bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in tempo mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che i frati vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone forse un grande effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo a tempo opportuno esposto con larghezza la materia di tali scritture, che rappresentavano le Difese del Campanella nella causa della congiura: potrebbe sembrare che il Nunzio, uno de' Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir l'obbligo di trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella causa era finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che mettersi d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances, il Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi risentimenti, se non si fosse trovato nella necessità di parlarne il meno possibile; non farà quindi meraviglia che quelle Difese fossero rimaste inserte nel processo dell'eresia, utili solamente a noi, che abbiamo così potuto avere la comodità di esaminarle. Ma perchè furono esse presentate al tribunale dell'eresia? Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro di Stilo non potè aver altro scopo, che quello di fare un tentativo disperato per allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione della veglia, senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare perdute. E il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in alcun modo sull'esito della causa della congiura.

Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici periti; il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro Vecchione, il 15 quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro appartenevano alla più elevata categoria de' medici allora in voga, e non sarà inutile darne qualche notizia, onde riuscirà manifesto che le ricerche sulla pazzia del Campanella, se vennero condotte con precipitazione, almeno in quanto alle persone de' periti vennero prese certamente sul serio. Pietro Vecchione da Nola, col suo esercizio d'insegnante privato, secondo il costume napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione, che giovane ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano maggiore era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato lettore della «theorica della medicina ordinaria», cattedra fra le più stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani, e già occupata da Filippo Ingrassia (insieme con la pratica) dal 1547 al 1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas nel 1560, da Gio. Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel 1565, da Salvio Sclano nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da Quinzio Buongiovanni nel 1579, da Latino Tancredi in qualità di straordinario nel 1589, tutta una serie di uomini stimati altamente. Esercitava poi la pratica con immenso successo, ma del resto era uno de' molti, anzi troppi, che non avevano scritto mai nulla, facendo parte di quella beata falange degli uomini illustri inediti, specialità non napoletana soltanto ma italiana, ancor oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che la sua è la via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le alte cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura di pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico nell'aprile 1619. Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino, calabrese259, già distinto allievo dell'Ingrassia, era un vecchio cultore di anatomia e chirurgia assai accreditato, e basta dire che fu maestro di Marco Aurelio Severino: non ebbe lettura pubblica essendo allora la cattedra di chirurgia ed anatomia occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che fu il primo a riunire insieme nel pubblico studio in un modo definitivo queste due branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed anche illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60 anni al tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua relazione sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto nella Chiesa di S.ta Chiara. – Ecco ora ciò che essi riferivano intorno al Campanella260. Pietro Vecchione scrisse, che invitato a visitare più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero desipiente e melanconico o simulasse tale malattia, per quanto avea potuto esplorare con la mente, con la conversazione e coll'opera, avea ben rilevato che egli aberrava nell'immaginativa, nel discorso e nella memoria; ma poichè non avea visto alcuno de' sintomi che sogliono trovarsi negl'infermi di tale malattia e v'erano grandi cause per simulare, era venuto nel dubbio che quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad esplorarla con maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza degli astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di certo; ma conchiuse, «per quanto mi è dato scorgere congetturalmente, giudico che colui simuli la malattia». D'altra parte Giulio Jasolino, con un lungo scritto, venne nella medesima conclusione, ricingendosi di alquanto maggiori riserve, ed appoggiandosi ad un nugolo di citazioni d'Ippocrate e di Galeno. Ciò che fa riuscire notevole per noi questa sua relazione si è qualche notizia che vi si rileva intorno al modo tenuto nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo di congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide «melancolico» nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale ovvero «acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia» (non si parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che «essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata»: ma aggiunse che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe voluto, conchiudendo «che cossi si potrà chiarire della verità della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia». Adunque, tra il sì e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.

Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a' Giudici che la pazzia doveva essere simulata261. L'aguzzino che aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le «parole che si lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento». Ed egli rispose: «essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che si pensavano che io era co… (int. sciocco) che voleva parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente». A voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura del Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera; ma l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in modo, da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse procurata dal Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta sotto giuramento da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni modo un valore incontrastabile.

Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del tempo accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le altre prove e «purgare gl'indizii»; e giacchè il tormento era stato gagliardo e non ordinario, tanto più l'inquisito veniva a giovarsi dell'esito avuto, secondo le dottrine de' criminalisti più in voga. Così il Campanella dovea giuridicamente ritenersi pazzo, quantunque tutti fossero persuasi che egli simulasse la pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.to Officio non era indifferente: come «relapso» egli anche pentito avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che l'avrebbe fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna, e laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire e pentirsi262. Non occorre dire quanto siffatto principio sia degno di nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma venne presa più tardi intorno al Campanella.

249Ved. Hippolyti De Marsiliis Bononiensis, In nonnullos ff. et C. titulos Comment. et Repetit. etc. Venet. 1635 p. 45: «Aliud est tormentum, quo saepe usus sum contra obstinatos et contra non timentes tormenta, et vere nemo ita ferox invenitur qui huic tormento possit resistere, et est tormentum non laedens corpus, tamen est maximae potentiae, et antequam de ipso fecissem experientiam, videbatur mihi potius res ridiculosa quam tormentum, quod tormentum tale est. Nam ponitur reus super uno scamno ad sedendum, et ibi adsunt duo qui eum custodiunt ut non dormiat, nec de die nec de nocte, et cum ipse reus inclinet caput in una parte propter somnum, ille famulus qui est ibi ab illa parte dat cum manu sibi in capite, et excitat eum et elevat sibi caput, et idem faciat alter famulus quando inclinat caput ab alia parte versus eum, et quando illi duo sunt fessi et volunt dormire, alii duo novi subrogantur in locum illorum, et non permittunt unquam dictum reum dormire nec quiescere, in tantum quam ad tardius in duabus noctibus et uno die, reus omnia confitebitur promissa sibi quiete…» etc. – Grillandus Paulus Castilioneus, Tractatus de hereticis et sortilegiis omnifariam coitus etc. Lugd. 1536 fol. 94 t.o. «Profecto vidi ea quae prius non credebam, quod illud affert maximum tormentum et fastidium in corpore, absque aliqua membrorum lesione». – Ambrosini Tranquilli Senogalliensis Processus informativus; acced. Bernardini Franc. Mediolanensis Scholia, et Farinacei Prosp. Decisiones de indiciis et tortura Venet. 1649, pag. 348: «Quomodo haec duo tormenta dentur (ignis et Vigilia) consule alios, ego enim non sum apparitor aut birruarius». E pag. 237: «Tormentum vigiliae est scamnum quoddam altum a terra per septem vel octo palmos in circa tribus inhaerens hastis tanquam fulcris, non planum sed paulum acclive et in medio elevatum, conficiens angulum sed obtusum, super quo angulo manet reus ano denudato. Dixi angulum obtusum, quia si esset acutus, ut quandoque vidi, posset tortum ipsum fractis et foratis sibi inferioribus partibus interimere». – Zacchia Paul. Quaestiones Medico-legales, ed. 4.a Avenion. 1655, t. 1, pag. 411: «Secundum tormentum, quo in praesentiarum utuntur, illud est quod tormentum Vigiliae nominant, quod quidem ex nonnullis conditionibus atrocius multo videtur quam tormentum funis; est autem hoc tormentum hujusmodi. Reus in totum denudatus, illique pilis omnibus etiam reconditarum partium derasis, brachiis versus spinam retro contortis, ut in tormento chordae, alligatur tanquam fune torquendus. Tripes tum scamnum in promptu est, quod Capram, vel Equum, vel vulgo il Cavalletto nuncupant, sexipedalis altitudinis, cujus summitas ex quadrangulari tabula lignea est pollicaris crassitudinis, latitudinis undique bipalmaris: ejus tabulae superficies plana quidom in totum non est, sed sensim paulatimque versus medium ex singulis latibus sese elevans, in obtusum angulum desinit seu potius obtusam planitiem efformat. Reus eo modo chordae ex trochlea pendenti alligatus hic sedens sistitur. Lata insuper fascia ad pectus inditur, ac retro in proximo pariete firmatur; uterque humerus muris hic inde a lateribus existentibus longo funiculo medius deligatur; tum ad pedes longus inditur baculus ipsos pedes divaricans, ne eos Reus jungere possit; hic baculus per alium funiculum, quo medius ligatur, sursum elatus pedes etiam, et crura Rei attollit, adversoque parieti firmatur. Hoc modo relinquitur misellus per decem, duodecim, quindecim, aut viginti, et plures horas ad Judicis libitum, nisi delicta confiteatur, ea tamen cautela adhibita, ne brachia retro contorta per crassiorem funem trochleae appensam nimis extendantur; fit enim, ut miseri Rei multum extensis brachiis de vita periclitentur» etc.
250Ved. Eymerici Nicol. Directorium Inquisitorum etc. Rom. 1578, p. 136: «Saepe contingit huic fictae insaniae remedium afferre torturam; nam dolor non facile patitur jocum et fictionem, atque in hoc casu nullum videtur periculum ad explorandum animi morbum… cum nullum hic mortis periculum timeatur».
251Intorno a questo fra Raimo ved. nell'Archivio di Firenze il Carteggio del Nunzio; Lett. da Napoli 19 febb. 1593; 1o giugno e 28 10bre 1601; 25 febb.o e 20 9bre 1602; e Lett. da Roma 16 feb.o 1602; 28 mag. e 4 giugno 1604. Fra Raimo non confessò nulla nemmeno alla veglia e fu mandato alle galere Papali; ma giunse a farsi credere inabile e quindi a farsi liberare dal Generale delle galere; di poi fu nuovamente carcerato per indebita liberazione. Può servire per esempio del come andassero le cose a que' tempi.
252Ved. Doc. 402, pag. 498. Per le frequenti parole in dialetto ed anche per l'abbondanza del latino, onde l'Atto potrebbe riuscire oscuro ad alcuni lettori, ci crediamo obbligati ad esporlo qui senza restrizioni, mentre avremmo tanto volentieri fatto il contrario.
253Ved. Doc. 168 e 169, pag. 86.
254Nella lettera al Card.l Farnese del 30 agosto 1606 pubblicata dal Centofanti si legge: «Quello Altissimo Dio, che mi liberò di sette tormenti horrendi»; e in quella al Papa e Cardinali del 12 aprile 1607: «bis tormentum eculei sustinui; semel torturam brachiorum; et 40 horas suspensus fune et funiculis ad ossa penetrantibus, insidens acutissimo ligno quod devoravit carnes meas ad duas libras, et sanguinem ad octo sextertia exhausit plagis decurrentibus». – Nella Lett. al Papa del 1607 pubblicata da noi: «oltre li tormenti asprissimi di corda, e dui polledri, et 40 hore di veglia con funicelli sin'all'ossa, et sedendo sopra un acutissimo legno, chi mi secaro più di due libre di carne e più che vinti di sangue in diverse volte»; e in quella a Mons.r Querengo dell'8 luglio 1607: «per sapientiam et per stultitiam 7 volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi liberò; et inanti à questi 8 anni stetti in carcere più volte, che non posso numerar un mese di vera libertà se non di relegatione: hebbi tormenti inusitati e li più spaventosi del mondo cinque fiate e sempre in timore e dolore»; (non contemplandosi qui il solo caso dell'ultima prigionia di Napoli, le cinque fiate darebbero motivo di sospettare che vi sia stato anche un tormento in Roma nel 1591, ma bisognerebbe ammetterne dippiù un altro in Padova nella 1a prigionia della fine del 1592, altrimenti il conto non tornerebbe, e non abbiamo criterii bastevoli a chiarirlo). – Nelle Poesie filosofiche, ediz. d'Ancona a p. 110, si legge: «Cinquanta prigioni, sette tormenti Passai…»; e a pag. 117, «Il corpo sette volte tormentato». – Nella Lett. allo Scioppio posta come proemio al ms. dell'Atheismus triumphatus e pubblicata dallo Struvio, a pag. 6: «Vide quaeso simne asinus ipsorum qui quidem jam in quinquaginta carceribus huc usque clausus, afflictusque fui, septies tormento durissimo examinatus, postremumque perduravit horis quadraginta, funiculis arctissimis ossa usque secantibus ligatus, pendens manibus retro de fune super acutissimum lignum, qui carnis sextertium in posterioribus mihi devoravit, et decem sanguinis libras tellus ebibit. Tandem sanatus post sex menses divino auxilio fossa demersus sum». – Nelle Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis, Quaestionum moralium pag. 8: «Id ego expertus sum 40 horis pendens de fune tortis brachiis ligatus et funiculis simul usque ad ossa adstrictis; super acuminatum lignum insidens, ita ut si velim brachiis me subtinere contortis, nimis affligerentur brachia scapulae, et pectus, et collum, si me demitterem a ligno nates devorabantur: quae distentae usque ad vessicae collum et radices genitalium, sanguinem multum emittebant, donec tanquam mortuum post 40 horas torquere cessarunt. Homines alii me maledicebant, et intendebant dolores, funem excutiendo: alii laudabant clanculum fortitudinem». – E ne' Medicinalium juxta propria principia lib. 6, pag. 58: «Mihi autem et venas et arterias disrupit nedum carnes laceravit cruciatus equulei in posterioribus partibus, et tamen diligentia Chirurgi Scamardelli, optimi viri, sanitatem adeptus sum».
255Nelle Cedole di Tesoreria e Cassa Militare vol. 439 (an. 1610), fol. 869 si legge: «a ultimo de maggio 1610… a Bonifatio del Castillo medico Cirugico del r.o castello di Sant'Elmo per suo soldo de mesi ventidue etc. a ragione de d.ti 3 il mese, D.i 72,3, – ». Pel medico Orabona ved. segnatamente i Processi della Cappellania maggiore.
256Nel Lib. I. Baptizatorum ab. an. 1544 usque 1600 si legge: «A di 3 de Agosto 1566 Lucretia Camardella fig. de Gio. Antonio Camardella et Mad.a lavina Camardella» etc. Nel Lib. III Baptizatorum et Mortuorum, all'elenco de' morti si legge: «A dì 22 de febraro 1601 morse lavina madre de sipione (sic) camardella medico»; inoltre «A dì 29 de luglio 1631 morì Scipione Cammardella Gerusico del Castello sepolto alla sep.ra de Sacerdoti nella Chiesa». – È facile intendere che le parole scritte da fra Tommaso «diligentia Chirurgi S. Camardelli (Scipionis Camardelli)» sieno state nella stampa interpetrate «diligentia Chirurgi Scamardelli». Così nella stessa opera Medicinalium a p. 350 si parla di «Cioccio del Tupho», evidentemente Ciccio ossia Francesco del Tufo; a pag. 378 si parla del «medicus Santarellus nolanus», alludendo senza alcun dubbio al medico Antonio Santorelli da Nola, celebratissimo in quell'età, lettore di pratica nello studio pubblico dopo il Cannizales nel feb.o 1613, poi lettore di filosofia dietro il ritiro di Latino Tancredi nell'8bre 1617 etc. etc. In somma è difficile avere un nome senza storpiatura, ciò che s'incontra egualmente ne' non pochi libri italiani del tempo, dati a stampare all'estero senza la revisione degli autori.
257Ved. il cit.to Doc. 400, pag. 476.
258Questo Vincenzo Ubaldini non ci riesce ignoto. Era di Stilo e insieme con tutta la famiglia dimorava in Napoli. Andato a Stilo col fratello Francesco, fu carcerato insieme col fratello e tradotto in Vicaria; l'Archivio di Stato ci fa conoscere la famiglia loro ed anche il motivo della loro carcerazione; trovandosi in Vicaria ebbero più tardi ad essere chiamati quali testimoni in una informazione di S.to Officio presa appunto contro fra Pietro di Stilo. – 1o Numerazione de' fuochi, vol. 1385. Fuochi di Stilo della vecchia numerazione (1598) estinti: «n.o 39. Bartolo Baldino a. 48; Livia uxor a. 30; Vincenzo f.o a. 18; Francesco f.o a. 15; Mutio f.o a. 5; Dalfina Brescia famula a. 18». – 2o Reg.i Curiae vol. 55 fol. 9 t.o «All'Audientia di Calabria ultra… Da alcune Monache del Mon.io di S. Maria della gratia de' Vergini della città di Stilo ci viene scritto dell'insulto, et parole ingiuriose fattoli, da Vincenzo et Francesco baldini dell'istessa città in detto loro monasterio…» (segue l'ordine di prendere informazione, assicurarsi delle persone ed avvisare) 29 maggio 1603. – 3 °Contra fratrem Petrum Dominicanum etc. nella n.a Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2o, fol. 267.
259Nei suoi scritti si disse sempre «Hipponiata», dando così luogo ad interpetrazioni diverse, onde fu dichiarato di Monteleone, di S. Eufemia, di Gerace, di Taverna. In un curioso documento da noi trovato, del 1614, egli si dice napoletano, di circa 72 anni, figlio del q.m Mario e Lucrezia Galfuna. Intanto ci consta pure che dopo il Perrotta, dal 23 8bre 1607 fino al 1622, tenne la cattedra di chirurgia ed anatomia un Mario de Burgos y Azolin; potrebbe stare che questo Mario fosse un parente di Giulio, accomodatosi a ripigliare l'originario cognome spagnuolo per ottenere più facilmente la cattedra; se così fosse, s'intende che riescirebbe accertata l'origine spagnuola di Giulio Jasolino, ma è indubitabile che egli era nato in Calabria, e ci consta da altri fonti che aveva due fratelli in Napoli, Orazio e Ferrante, oltrechè vi fu contemporaneamente qualche altro dottore Jazzolinus di Taverna in Calabria (ved. per quest'ultimo nel Grande Archivio la Collectio Salernitana vol. 170 fasc. 1.o f. 47; il tom. 1.o fasc. del 1588 della stessa Collezione ha un autografo di Giulio Jasolino).
260Ved. Doc. 403, pag. 502.
261Ved. Doc. 404, pag. 503.
262Ved. Pegna, Scholia in Eymerici Directorium Inquisitorum, Romae 1578, Schol. XXV pag. 136; «Quid si revera haereticus in furorem incidat… quomodo ejus causa tractanda? Respondeo custodiendum esse omnino, donec ad sanam mentem revertatur: nec potest damnari priusquam in furore moriatur, quia fortassis resipiscet et reconciliabitur Ecclesiae: nec ob id dicetur recedere impunitus, cum satis ipso furore puniatur». Anche se l'eretico fosse divenuto pazzo mentre era già condannato all'ultimo supplizio, bisognava sospenderne l'esecuzione: «Minus malum videtur eum impunitum relinquere, quam puniendo animam perdere; differendum est igitur aut etiam amovendum penitus omne supplicium» (Ibid.).