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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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XXI.
La peste a Bergamo – Ritorno di Fermo al paese nativo – Suo incontro con Don Abbondio e con Agnese

Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero132 ci conviene andare in cerca d'un personaggio separato da lui per condizione, per abitudini e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza. Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente; alla fine, per non essergli troppo a carico, intaccò i cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per lui. Il passaggio della soldatesca interruppe quelle scarse e imbrogliate comunicazioni di pensieri e di notizie che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca venne la peste, ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero il commercio col territorio milanese finitimo, mandarono commissarj ad invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come era accaduto nel Milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra, più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco non credevano nè pur essi molto alla peste e trattavano di soppiatto coi loro vicini; e, con molta fatica e con molto pericolo, ottennero di potere avere anch'essi la peste in casa. Entrata che fu, invase poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città133. La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti, presenta molti tratti di somiglianza notabile con quelli del Milanese. Come in questo paese, così nel bergamasco, dopo scoverta la peste, si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici e per inauditi portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni; v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini e il rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il male fosse cessato. Quivi pure una processione, contrastata con ragioni savie e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure licenza e avanie degli infermieri e becchini, che ivi erano chiamati nettezzini, come in Milano monatti; quivi pure preservativi e rimedi strani o superstiziosi. Quivi pure, come in Milano, subitanei spaventi per voci sparse di sorprese nemiche, sognate dalla paura, o inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure all'udire che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte e le pile delle chiese134. Ma la cosa non andò oltre; e come in questo particolare, così nel resto, gli accidenti tristi, che abbiam toccati, furono in Bergamo men gravi, meno portentosi; l'incrudeltà fu meno ostinata, men clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la violenza meno bestiale e meno impunita. Di questa differenza v'era molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone e quale nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro argomento. Quello che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la superò felicemente. Tornato alla vita, dopo d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure e i desiderj della vita, cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della salute, della vita di lei, in quel tempo dove il vivere e l'esser sano era una come eccezione alla regola. Tutte queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben riconfortate, egli, con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in sè stesso: andrò e vedrò io come stanno le cose. Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello che si passava in Bergamo egli vedeva che la peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un obblivione, o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben poca forza e poca voglia d'agire centra i delitti della giornata, e tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva, per la voce pubblica, che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande. Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano. Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire di luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.

 

. Il Manzoni ne possedette una copia fatta dall'ab. Bentivoglio, che gli fu procurata dal suo amico Gaetano Cattaneo. Sulla peste conobbe anche il Ms.º Vezzoli. Preservatione | dalla peste | scritta dal sig. Protomedico | Lodovico | Settala | con privilegio. | In Milano | Per Giovan Battista Bidelli. | M. DC. XXX; in-8º di pp. 60.

Cura | locale | de' tumori | pestilentiali, | che sono il Bubone, l'Antrace, o Car- | boncolo, & i Furoncoli. | Contenente tutto quello, che si ha da fare | esteriormente nella cura di questi mali. | Tolta dal Libro della cura della Peste | del Signor Protofisico Lodovico | Settala. | In Milano, | Per Giovan Battista Bidelli. 1629; in-8º di pp. 32.

La peste del | MDCXXX | Tragedia nouamente | composta | dal padre | Fra Benedetto Cinqvanta | Teologo, e Predicatore | generale | De Minori Osservanti | Fra li Accademici Pacifici | detto il Seluaggio; in-24º di pp. 239, senza anno e note tipografiche. [Il permesso della stampa, dato in Milano da fra Leone Rossi, Ministro provinciale, è del «10 genaro 1632»; la lettera dedicatoria del Cinquanta a «Gio. Battista Calvanzano, Mercante Pio e diuoto», è data dal Convento di Santa Maria della Pace in Milano il «6 genaro 1632». Parecchi versi di questa tragedia furon dal Manzoni trascritti ne' suoi Estratti.]

La pestilenza | seguita in Milano | L'anno 1630 | raccontata da | D. Agostino Lampvgnano | Priore di San Simpliciano | Al Serenissimo | Carlo primo Gonzaga | Duca di | Mantova, Monferrato, Neuers, | Vmena, Rethel, etc. | In Milano per Carlo Ferrandi, | con licenza de' Superiori. | 1634; in-12 di pp. 82.

Raggvaglio | dell'origine | et giornali successi | della gran peste | Contagiosa, Venefica & Malefica seguita nella Città | di Milano & suo Ducato dall'Anno 1629. | fino all'Anno 1632. | Con le loro successive Provisioni & Ordini. | Aggiuntovi un breve Compendio delle più segnalate specie di Peste | in diuersi tempi occorse | diviso in dve parti | Dalla Creatione del Mondo fino alla nascita del Signore, | Et da N. S. fino alli presenti tempi. | Con diversi antidoti | Descritti da Alessandro Tadino Medico Fisico | Collegiato & de' Conservatori dell'Illustriss. Tribunale | della Sanità dello Stato di Milano. | All'Ill.mo Sig.r Francesco Orrigone Vicario | di Prouisione della Città & Ducato di Milano. | In Milano. M. DC. IIL. | Per Filippo Ghisolfi. Ad instanza di Gio. Battista Bidelli. | Con licenza de' Superiori & Privilegio; in-4º di pp. 151, oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerare.

 

Alleggiamento | dello | Stato di Milano | per | Le Imposte, e loro Ripartimenti. | Opera di | Carlo Girolamo Cavatio | prosapia de' Conti della Somaglia, | Gentilhuomo Milanese, | giovevole | Per rappresentare alla Cattolica Maestà | del Re N. S. | Filippo IV. il Grande | L'Amore Costante del Dominio, | E la forma facile di Benigno sollevamento. | Honorevole | Per le Prodezze de Cittadini. | Dilettevole | Per le Storie, ed Informationi. | Dedicata a gli Illustrissimi Signori | Vicario, e Sessanta | del Consiglio Generale | della Città di Milano. | In Milano M. DC. LIII.; Nella Reg. Duc. Corte, per Gio. Battista, e Giulio Cesare fratelli | Malatesta Stampatori Reg. Cam. & della Città; in-fol. di pp. 732, oltre 58 in principio e 76 in fine senza numerazione.

Vita | di | Federico | Borromeo | Cardinale del Titolo di Santa Maria degli Angeli, | ed Arcivescovo di Milano, | Compilata | da Francesco Rivola | Sacerdote Milanese, | e dedicata da' Conservatori | Della Biblioteca, e Collegio Ambrosiano | Alla Santità di Nostro Sig. Papa | Alessandro Settimo. | In Milano, | Per Dionisio Gariboldi. M. DC. LVI.; in-4º di pp. 769, oltre 24 in principio e 55 in fine non numerate.

Il | memorando contagio | seguito in Bergamo l'anno 1630. | historia | scritta d'ordine pubblico | da Lorenzo Ghirardelli | libri otto. | Consacrata | all'immortalità | della stessa Ill.ma Città | di Bergamo. | In Bergamo, M. DC. LXXXI. | Per li Fratelli Rossi Stampatori di essa Città. | Con licenza de' Superiori; in-4º di pp. 361, oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerazione.

Memorie | delle cose notabili | successe in Milano intorno al | mal contaggioso l'anno 1630. | Del riccorso da Signori della città a Padri Capuccini | per il Governo del Lazzaretto. | Come fu destinato il Molto Rev. Padre Felice da Milano della | Nobilissima Famiglia de Casati, ed il Rev. Padre Michele | da Milano della Famiglia de' Marchesi Pozzobonelli. | De' Portamenti d'essi Padri in quelle calamità; e come entrasse | la Peste ne' Conventi loro. | Delle ammirabili azioni, ed affannose fatiche d'Eccellentissima Carità | dell'Illustrissimo Signor Marchese | Don Gianbattista Arconati | di Gloriosa ricordanza, luce splendidissima di que' tempi, | Reg. Senatore, e Presidente della Sanità. | Del bel passaggio all'Eternità di molti Capuccini Vittime di | Carità, E d'altri risanati per intercessione della Gran | Vergine Miracolosa delle Grazie | Nella Chiesa delli Molto Reverendi Padri Domenicani | in Porta Vercellina. | Con in fine tre Capitoli in compendio della purga | delle cose infette, e sospette usata. | Raccolte da Don Pio La Croce, | Consagrate | all'Illustrissimo Signore il Sig. | Don Giuseppe Arconati | Marchese di Busto Garollo | Arconate, etc. | In Milano Nelle Stampe di Giuseppe Maganza. 1730; in-4º di pp. 92, oltre 8 in principio e 2 in fine senza numerazione.

Del conte Pietro Verri consultò e cita la Storia di Milano e le Osservazioni sulla tortura, che postillò; come postillò il suo discorso Dell'Annona. Cfr. Opere inedite o rare di A. M. vol II, pp. 122-124 e 374-386. Cita pure il trattato Del governo della peste di Lodovico Antonio Muratori, edizione modenese del 1714; cita Del morbo petecchiale… e degli altri contagi in generale, opera del dott. F. Enrico Acerbi; l'amico e medico suo.

Cfr. inoltre: Ghiron I., Documenti ad illustrazione dei «Promessi Sposi» e della peste dell'anno 1630; nell'Archivio storico lombardo, ann. V, fasc. 4 [31 dicembre 1878], pp. 749-758.

Degli Estratti manzoniani ne trascriverò qualche brano, per saggio.

«Danno portato dai soldati veneziani. Ghirar[delli], p. 55 – Processione, p. 161 – Sintomi della peste, p. 224. – Unzioni, p. 244. – Inumanità dei nettezzini, p. 252. – Non furono mai veduti tanti frutti pendere dagli arbori, etc., p. 258. – Mortalità: città e borghi, 9,533; territorio, 47,322, p. 341. – Continuò la mortalità, sicchè più d'un terzo fu trovato mancar di peste – Esenzioni per 10 anni ai forestieri in Bergamo, p. 356».

«Deputati delle parrocchie. Rip[amonti], p. 58 – 10 cal. maii, p. 75 – Quatuor homines deprehensos esse, etc., p. 111 – Lazzeretto e P.re Felice, p. 128 – Diluvio ai 23 di luglio, p. 131 – Sed belli graviores esse curas, p. 245».

«Viveva in un certo castello, etc. Rivola, p. 254 – Card. Fed. Borromeo raccomanda ai parochi che inculchino il dovere di rivelare la malattia contagiosa, p. 582 – Condotte a termine di salire in fin sopra i tetti, etc., p. 759».

«Morti della peste in Milano, 1630. Ripamonti, pagine 228-229, morti 140,000. Vedere il luogo, dove le ragioni per cui il calcolo sembra a lui stesso al di qua del vero – Tadino, p, 136, morti 185,558 – Somaglia, p. 500, morti 180,000 – Rivola, p. 584 (a mezzo settembre), morti 122,000 – Ms.º Vezzoli, p. 73, morti 122,464 – Lampugnani, pag. 67 (la stessa avvertenza che al Ripamonti), morti 160,000».

In un foglio volante, non però di mano del Manzoni, si legge: «Il giorno 21 giugno a Milano il sole leva a 4.h 12.', tramonta a 7. 48. Era uso in Italia incominciare a contare le ore o al preciso tramonto, o ad una mezz'ora dopo di esso. Nel primo caso le 8 ore italiane corrispondono a 3. 48 della mattina, ossia 24 minuti prima del levare del sole; che è precisamente all'aurora. Se si contino le 24.h mezz'ora dopo il tramonto, lo che è il 2º caso, le 8 ore corrispondono a 4. 18 dell'orologio francese, perciò 6 minuti prima del levar del sole. In Milano si contava dunque le 24 al preciso tramonto». (Ed.)]

I pochi, che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra popolazione come una razza privilegiata. Una grandissima parte della gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a fuggire, e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto. I pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro: erano come i cavalieri dell'undecimo secolo, coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno, agile all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle membra non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità del pericolo ispira il sentimento e dà il contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche ardito. Con questa baldezza, temperata però dalle inquietudini che noi sappiamo e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene, donde ad ogni tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il fresco e spezzato luccicare della rugiada, all'aria frizzante dell'alba e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte. Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere, che era portato alla fossa senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti, che erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria aperta, birboni che agguantavano dove fosse da spogliare impunemente. Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi; sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più infocate, riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un momento, come sopraffatto dalle rimembranze e dai pensieri dell'avvenire, e ripreso fiato, procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male135; ma non fu riconosciuto da esso, che gli piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era quale l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e là affumicata, e dentro vuota, ma non già pulita, che vi rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo in fretta inorridito, ritirando l'occhio dallo spettacolo e la mente dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.

Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile, appoggiata ad un lato della finestra. Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo, che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza, lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza e volle passar di lungo. Ma tosto, l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta, così potente in quelle circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: – Oh, signor curato, come sta ella in questi tempi? – Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo; ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio – Per amor del cielo! disse, voi qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella di cattura…?

– Oh via, signor curato, disse Fermo non senza dispetto, mi vuol ella fare anche la spia?

– Parlo per vostro bene, disse Don Abbondio, che nessuno ci sente. Chi volete che ci senta. Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perchè quando si tratti di castigar voi e di tormentare me, pover uomo, vi sarà dei vivi ancora.

– Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?

– Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?

– Ella deve ricordarsi, signor curato, disse Fermo con voce alquanto risentita, che Lucia ed io… non eramo grilli.

– Oh! disse Don Abbondio, figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio, spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con libertà, da vero padre, perchè vi ho sempre voluto bene. So io quel che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia – e già, pur troppo, non la schivereste – che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la peste…

– La peste l'ho avuta, disse Fermo, son guarito, e non ho più paura.

– Vedete che avviso vi ha mandato il cielo, per farvi pensare al sodo… Anch'io l'ho avuta e son qui per miracolo.

– Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?

– Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono tanti.

– Ma noi siam pur vivi, e…

– Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam trarre è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano, figliuolo! chi vive in Milano? Questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno. Non vi passasse mai pel capo…

– E Agnese, signor curato?

– Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le fareste dispiacere.

– Sia lodato Dio; ma ella nè mi vuole ajutare, nè vuole che altri m'ajuti.

– Che dite, figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perchè vi voglio bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo… Dio guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare… chi sa? gente che vuol bene, ma… gente che si piglia impegni di proteggere, e poi… sostenere… cozzare… basta, parlo con tutto il rispetto… ma, Dio solo è da per tutto… Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno… si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perchè la riordini… e chi ne va col capo rotto è il curato… Fate a modo mio, tornate dove siete stato finora.

– Basta, disse Fermo, non mi aspettava da lei più soccorso di quello che mi abbia avuto. Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a modo mio.

– No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo, che ha bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse. Quello che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno. Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi. Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato… e ho dovuto… e basta… sono stato ricoverato da un degno signore… basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere agli appestati… e ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima della mia carità; d'allora in poi non son più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e mi tocca servirmi da me, povero, vecchio e malandato, come sono. Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli…

– Signor curato, disse Fermo, io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia ella non me la vorrà fare; del resto, io mi rimetto nelle mani di Dio. Attenda a guarir bene, signor curato.

– Sentite, sentite, – continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.

– Oh povero me! questo ci mancava! continuò a barbottare fra sè Don Abbondio, ritirandosi dalla finestra. Povero me! Se costui va a Milano, se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato l'imbroglio. Un Cardinale che dirà: voglio che si faccia il matrimonio; un signore che dice, non voglio: ed io tra l'incudine e il martello. Basta… disse poi soffiando, dopo d'avere alquanto pensato… muore tanta gente… che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!

Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria. Alla vista di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli un gran sospiro, e bussò.

– Chi è là? gridò da dentro la voce d'Agnese: state lontano; non bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra. – Son io, rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta, aveva fatte in fretta le scale e apriva la finestra. – Son io; mi conoscete? disse ancor Fermo, quando la vide. – Oh Madonna santissima! sclamò Agnese: voi? – Io, rispose Fermo; sono il benvenuto?

– Oh figliuolo! sclamò di nuovo Agnese, quanto vi avrei desiderato, se non avessi avuto paura per voi? Ma ora che venite voi a fare?

– A saper nuove di Lucia e di voi, rispose Fermo. A vedere se tutti si sono scordati di me. Che n'è di Lucia?

– Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene di salute; ma ora chi può sapere…?

– Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia, disse Fermo risolutamente.

– Voi? disse Agnese: ma e… mi capite. Basta…

– Volete aprirmi e parleremo più liberamente?

– E la peste, figliuolo?

– Grazie al cielo ella non ha ammazzato me ed io ho ammazzato lei, e son sano e salvo, come mi vedete. Aprite con sicurezza.

– Scendo ad aprire, rispose Agnese; oh con quanta consolazione v'avrei riveduto. Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano.

– Come vorrete, rispose Fermo.

– State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate alla porta; lasciatemi rientrare; poi entrerete e vi porrete in un angolo, lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno bisogno di toccarsi. Oh quante cose ho da dirvi!

– Ed io a voi, rispose Fermo.

Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta e venne a sedersi nell'angolo opposto. E subito cominciò come una sfida d'inchieste.

– Come vi siete fidato di venir da queste parti?

– Perchè Lucia non mi ha mai risposto?

– Come avete potuto fuggire?

– E perchè non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?

– Chi v'ha strascinato in quei garbugli?

– Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata propriamente la cosa?

Fatte le prime interrogazioni più pressanti, ognuno cominciò a rispondere brevemente a quelle del compagno. Fermo finalmente pregò Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo di soddisfarla egli poi della propria. Così Fermo conobbe per la prima volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato. Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora diede dei pugni all'aria ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento; maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il perdono del cielo sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, nè Agnese sapeva dilucidarlo. Perchè non è venuta con me? con me, suo promesso? con me, che doveva, che poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari, e il cielo gli aveva mandati. Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e fosse disgustata d'ogni cosa.

– Oh? andrò io a saperlo da lei, disse Fermo; voglio vedere l'acqua chiara. Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se non mi vuoi più… e qui avrebbe pianto se gli uomini non si vergognassero di piangere: se non mi vuoi più, me lo ha a dire di sua propria bocca, e mi deve dire il perchè.

Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le narrò sinceramente. Questa storia fece molto piacere ad Agnese e le rimise Fermo nell'antico buon concetto. – Voleva ben dire io; sclamava essa di tratto in tratto. Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere, l'una peggio dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara.

– E voi, madonna, disse Fermo, non mi avete mai data soddisfazione sopra quello che io voleva sapere.

– Basta, disse Agnese, lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di questi sapienti. Ma voi come vi fidate di andare a Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove…?

– Chi mi conoscerà! rispose Fermo, non m'hanno visto che un momento; e il nome… ne piglierò un altro; non ci vuoi gran lettera per questo; e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste. Sono tutti in confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice… Ah! pur che viva Lucia!

– Dio lo voglia! sclamò Agnese; e lo vorrà, io spero. Quella poveretta innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per salvarla ora, Ah! Fermo io ho buona speranza; andate pure; mi sento tutta riconfortata dall'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i guai sono alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti.

Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non li seppe dir altro se non ch'egli era a Palermo, che è un sito lontano lontano, di là dal mare. Scontento, e perchè sperava da lui ajuto e consiglio, e perchè desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perchè avrebbe riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza. Disse però: brav'uomo! vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli. Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non avvicinarsi a quell'altro luogo. Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava. Era venuta l'ora della cena, e la massaja si diede ad ammanirla. Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta. Fermo, da giovane ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna e fare egli il lavoro: ma Agnese, levando la mano: guardatevi bene dal toccar nulla, disse; lasciate fare a me. Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la rimenava dicendo: Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona compagnia. Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca» tornò con una brocca di latte, dicendo: vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica compagnia. Prese un bel pezzo di polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno alla persona, perchè non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi, allo stesso modo, gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia; gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena. Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia. Fermo amò meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute. Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a Fermo due pani e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschette ch'egli aveva portato con sè, dicendo: in questi tempi potreste morir di fame prima di trovare chi vi desse da mangiare. Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento e di speranza. Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un ricovero al di fuori. Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città. Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve di un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta136.

132Il lazzeretto. (Ed.)
133Il canonico Giovanni Finazzi, amico del Manzoni, pubblicava a pp. 409-485 del tom. VI della Miscellanea, di storia italiana, edita per cura della Regia Deputazione di storia patria, Torino, Stamperia Reale, 1865, la Relazione della carestia e della peste di Bergamo e suo territorio negli anni 1629 e 1630, scritta da Marc'Antonio Benaglio, premettendovi, tra le altre, queste parole: «Chi volesse la storia della peste di Bergamo del 1630, la c'è (dice il Manzoni al cap. XXXIII de' suoi Promessi Sposi), scritta per ordine pubblico da un tal Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba, che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze. E quantunque il Ghirardelli, come pubblico cancelliere della città e dell'offizio di sanità, fosse uno di quegli uomini, ai quali (per dirlo collo stesso Manzoni nella Colonna infame) in qualche caso può esser comandato e proibito di scrivere la storia, nondimeno pel carattere di onoratezza e lealtà sua propria, e pel savio e liberale incarico raccomandatogli dal voto del maggior consiglio della stessa città, con rara accuratezza dei più minuti dettagli (come appunto portava la parte presa in proposito il 26 dicembre 1631 dal maggior consiglio) descrisse le vicende e il successo di quella peste dai primi pronostici che se n'ebbe e dai primi principii ond'essa pullulò e andò serpendo nel territorio, con i progressi, accrescimenti e strage atrocissima, così nella città, come nel contado; narrando e descrivendo non solo li ordini e provvisioni fatte dal Magistrato della sanità per la preservazione universale, ma anco gli errori occorsi per aversi poco esperienza di sì fatti maneggi, con filo continuato di narrar veramente tutte le cose più notabili, con l'ordine e serie de' tempi, sino all'intiera e totale estirpazione. Ma di quella peste, che fu sì fiera e desolante, oltre al Ghirardelli, altri de' nostri lasciarono più o meno dettagliate memorie, che se fossero pubblicate tornerebbero per avventura di non inutile commento o supplemento alla storia di esso Ghirardelli, e potrebber recare alcune particolarità di fatti, da far meglio conoscere quel tratto di storia patria, più famoso che conosciuto. Ora fra gli scrittori di così fatte memorie crediamo di dover prescegliere Marc'Antonio Benaglio, cancelliere che fu del venerando consorzio della misericordia: che in più succoso e vivace stile, che non facesse per avventura il Ghirardelli, ce ne lasciò una dotta e coscienziosa Relazione». (Ed.)
134Dal capitolo IV del tomo IV tolgo il seguente brano riguardante gli untori: «La cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di popolo agli untori: si disse con asseveranza e si ripetè con furore, che quegli uomini, congiurati allo sterminio della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta tutta unita, per così dire, in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti. L'opinione delle unzioni, che fino allora non aveva prodotta che una vaga inquietudine e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire ben altri effetti. Due principali furono distinti e notati dal Ripamonti, uomo che, in molti punti, liberandosi e segregandosi dalla opinione pubblica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta e dalla oscurità stessa delle insidie, si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza, che è compagna della disperazione. L'altro effetto più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di giustificare, di santificare tutte le offese più crudeli, che quei sospetti potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via pubblica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa. Ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale. Il viandante straniero che, non ben sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdraiasse per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo la mano, colui che inavvertitamente toccasse la parete di una casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano untori; al terribile grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o trascinato alle carceri, tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore. «Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico l'irreligione, perchè se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre cagioni, di cui abbiamo parlato di sopra, poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di quel popolo corrotto, che rendettero quella opinione attiva e feroce nell'applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che prepara gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone, se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è paziente, benigna, che non si irrita, che non pensa il male, che tutto soffre. Ma l'intolleranza della sventura, la disciplina e l'oblio delle speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte erano le cagioni che mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento. «Il Ripamonti riferisce due esempi di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi lettori di averli trascelti non già perchè fossero dei più atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perchè di quei due egli fu testimonio. «I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari, che abbiam riferiti, con carneficine più lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero». Nel capitolo V del tomo IV della prima minuta il Manzoni prese a trattare esclusivamente del processo degli untori; poi stralciò que' fogli, per formarne un'appendice al Romanzo, svolgendo il soggetto in modo più largo. Se ne conserva il primo sbozzo, già intitolato: Capitolo V, poi Appendice storica su la Colonna infame. Sono 60 fogli di 4 pp. l'uno, il primo de' quali non è numerato: gli altri portano la numerazione 1-59, fatta dal Manzoni stesso. Alcuni fogli serbano, ma cancellata, la numerazione che ebbero quando fecero parte del manoscritto del Romanzo e sono: 53, divenuto I; 54-57, divenuti 2-5; 62-67, divenuti 10-15; 65-67, ripetuti, diventati 18-20; 68-70, mutati in 21-23. Comincia: «Due femminelle, Catterina Rosa e Ottavia Boni, trovandosi sgraziatamente alla finestra di buon mattino il giorno 21 di giugno»; finisce: «e noi con uno scopo ben meno importante, e con tanto minor corredo d'ingegno, ci siamo però proposti di fare ciò che non era ancor stato fatto». Quando il Manzoni depose il pensiero di stamparla insieme col Romanzo e invece stabilì di farne una pubblicazione separata, la intitolò: Storia della Colonna infame, e vi premise queste parole: «Fra i molti giudizj legali che nel 1630 e al di là, furono portati in Milano, su persone accusate d'aver propagata la peste con unzioni, uno parve ai giudici così degno di memoria, che decretarono un pubblico monumento a mantenergliela; e fu quella colonna nominata infame, che stette in piedi cento quarantott'anni. E in questo eglino s'apponevano: il giudizio fu veramente memorabile. Ma un monumento non è una storia: anzi talvolta è, non solo meno, ma qualche cosa di contrario alla storia. Ma se quei giudici non ci avessero dunque lasciato altro, ci avrebbero dati, per verità, ben pochi mezzi per conoscere ciò di che volevano farci ricordare. Ma, senza volerlo, e probabilmente senza pensarvi, essi furono occasione che altri, probabilmente ancora senza averne l'intenzione, conservasse al pubblico i materiali bastanti per la storia di quel giudizio. In mezzo a quei tapini accusati si trovò, per le singolari circostanze che racconteremo, un uomo di gran condizione. Quest'uomo, potendo per la sua giustificazione ricorrere a mezzi dei quali gli altri non avevano per avventura nemmeno l'idea, e che non sarebbero stati in poter loro quand'anche i difensori gli avessero loro suggeriti, quest'uomo, dico, pubblicò con le sue difese e in appoggio di quelle, un grande estratto del processo, che, come a reo costituito, gli fu comunicato. Su quel volume, che non debb'essere mai stato comune, ed ora è singolarmente raro, si è principalmente compilata la seguente storia. Il soggetto di essa è il giudizio dei due condannati, il nome dei quali fu iscritto nel monumento, e quello dell'uomo di condizione che fu assoluto. Degli altri avviluppati in quello sciaguratissimo affare si citerà ciò che serve ad integrare la storia principale, o anche quei tratti che per la loro singolarità e importanza loro possono parere sempre opportuni, e che uno non saprebbe risolversi ad ommettere, quando vi sia un appiglio per farli conoscere». In fine allo sbozzo dell'Appendice il Manzoni scrisse la seguente dichiarazione: «Alcuni libri, collezioni, manoscritti, rarissimi, ed anche unici, da cui l'autore ha ricavato molte notizie per questo lavoro, e per quello che lo precede, gli furono comunicati con molta gentilezza, e lasciati con molta sofferenza o da amici, o da persone ch'egli non ha l'onore di conoscere personalmente, ma che per obbligar qualcheduno non hanno bisogno di conoscerlo. Si degnino tutti di gradire l'attestato della sua gratitudine, e l'omaggio reso ad una cortesia che in altri casi potrebbe essere di molto vantaggio alle lettere». Tra le carte del Manzoni si trovano alcuni fascicoli, che egli stesso intitolò: Estratti e citazioni per servire alla descrizione della peste, al processo degli untori, alla storia politica di quel secolo. Son copie di documenti tratti dall'Archivio Civico e dall'Archivio di S. Fedele di Milano, spogli di gride, appunti presi da manoscritti e da opere a stampa. Con la guida di questi Estratti e delle citazioni che il Manzoni stesso fece ne' capitoli XXVIII, XXXI e XXXII de' Promessi Sposi, do qui un elenco delle fonti alle quali attinse nel descrivere la carestia e la peste famosa. Josephi Ripamontii | canonici scalensis | chronistae urbis | Mediolani | Historiae patriae | decadis V | libri VI. | Mediolani | Ex Regio Palatio, Apud Io: Baptistam et Iulium Caesarem Malatestam Regios Typographos, senza anno; in-4º di pp. 419, oltre 42 in principio e 1 in fine non numerate; col ritratto del Ripamonti, disegnato dallo Storer e inciso in rame dal Blanc. Josephi Ripamontii | canonici scalensis | chronistae urbis Mediolani | de Peste | quae fuit anno CIƆ | Ɔ CXXX. | libri V. | desumpti | ex Annalibus | urbis | quos LX. | Decurionum | autoritate | scribebat (In fine:) Mediolani | Apud Malatestas, Regios ac Ducales | Typographos, senza anno; in-4º di pp. 411, oltre 12 in principio e 1 in fine non numerate. [Nel primo libro tratta della carestia e della peste, nel secondo degli untori; il terzo ha per soggetto le geste del cardinale Federigo Borromeo e del clero durante il contagio; nel quarto parla del Magistrato di Sanità; nel quinto paragona la peste del 1630 con quelle precedenti. Le postille che vi fece il Manzoni sono a stampa a pp. 449-453 del vol. II delle sue Opere inedite o rare. Cfr. anche: La Peste di Milano del 1630 libri cinque, cavati dagli Annali della città e scritti per ordine dei XL Decurioni dal canonico della Scala Giuseppe Ripamonti, istoriografo milanese, volgarizzati per la prima volta dall'originale latino da Francesco Cusani, con introduzione e note, Milano, tipografia e libreria Pirotta, 1841; in-8º gr. di pp. XXXVI-362. – Cfr. pure: Cusani F., Paolo Moriggia e Giuseppe Ripamonti, storici milanesi; nell'Archivio storico lombardo, ann. IV, fac. I, 31 marzo 1877, pp. 43-69]. Borromeo card. Federigo, De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit; ms. nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. [Cfr. Galli G. Un'operetta del card. Federico Borromeo sopra la peste ed i «Promessi Sposi»; nell'Archivio storico lombardo, serie III, ann. XXX [1903], vol XX. pp. 110-137
135In margine il Manzoni vi scrisse: «Stupido: gli parve Gervaso ed era Tonio». (Ed.)
136Questo brano è tolto dal capitolo V del tomo IV. (Ed.)

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