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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici giorni. Stavasi colle donne, coi vecchj e coi fanciulli nel luogo il più riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non gli accrescessero lo spavento. L'aspetto dell'armi, dei preparativi di difesa, da una parte, lo rincorava alquanto; dall'altra, gli era intollerabile, facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in movimento a far carne. Si percoteva il petto e le guance, pensando alla minchioneria che aveva fatta. Mi son messo in gabbia da me stesso128, diceva tra sè, sospirando. Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due pettegole. E in questo pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra di essa. Ma quando Perpetua, giustificandosi, alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere e cessava di garrire anch'egli, tutto impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte, tornando all'antica natura, non facesse il diavolo. Don Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno, che facevano da ufiziali, le signore e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte, da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in comune, perchè i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento. Bisognava dunque parlare e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto, egli allora, sforzandosi di mangiare e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura veramente compassionevole.

Ma tutte le cose hanno veramente un termine: passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati; quando piacque al cielo passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadrone volante de' Veneziani si mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due Stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando le due retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come uno stormo di passeri si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e fronzati d'una gran quercia, dove erano accorse a ricoverarsi dalla tempesta. Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar tosto cogli occhj proprj il suo dolore e il guasto che v'era stato fatto, e nello stesso tempo perchè i barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan potuto lasciare. E poi per quanto il Conte avesse dato segni e prove d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata. Ma, dall'altra parte, lo riteneva la paura di abbattersi in qualche lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in porto. Era quindi sempre su le mosse e sempre s'indugiava, domandando novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano dolorose. Quei pochi, rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi troppo presto, si erano trovati sbigottiti, storditi dalle percosse e dallo spavento; ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle case un impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il respiro, dimodochè ognuno tornando con ansia alla casa derelitta ne usciva alla prima con fastidio e doveva farsi forza a poco a poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone, avanzando così per la sua casa, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato, che languiva infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente l'immagine confusa, ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.

Il Conte, argomentando da queste relazioni, che Agnese, se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse, di quello che gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e, caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che aiutassero la povera donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.

La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla esclamazione, cento volte ripetuta, di povera gente, succedette il povero me: parola che, generalmente parlando, esce da una parte più profonda.

Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra, e tra con questi rimasugli e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa, se non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani. Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: oh che gente! oh che gente! La sua casa era la più maltrattata del villaggio, perchè era la più apparente; e gli ospiti eroi, sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, nè le cure erano state inutili: e Perpetua, mettendo il piede su la soglia, tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati e le piume delle sue galline, scorse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza e lo ritraeva, dava tre passi e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza, oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ragunati in un picciolo angolo, come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul focolare della cucina, per esempio, si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere e di carboni spenti; e con quei carboni, come per compenso e per un complimento al padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di fantocciacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che, per verità, non poteva fallire a tali artisti.

Don Abbondio, mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigi su le tempie, balzò di casa come un forsennato e andò di porta in porta a gagnolare, a scongiurare quegli, che tornati da qualche giorno avevano assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola; tanto che con gli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno in casa, per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco. Passati quei primi giorni e nel tempo appunto delle brighe e delle spese, Don Abbondio ebbe con sè stesso e con Perpetua una guerra assai fastidiosa. Perpetua, parte con la sua vista, acuta come il fiuto di un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini: ne fece tosto avvertito Don Abbondio, perchè si facesse rendere il suo. Ma Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che gli dispiacesse assai vedersi così rubato a man salva e sapere il fatto suo in mano d'altri, ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del suo gregge; quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa, piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati e lodati come i più savj ed esemplari. Sicchè sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.

– Vada a cercarlo al tale, che lo ha, diceva Perpetua, e che non lo avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un… buon uomo.

 

– Zitto, zitto, Perpetua, zitto.

– Zitto, zitto, rispondeva Perpetua, e così ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare.

– Oh che spropositi! oh che spropositi! sclamava Don Abbondio. Ma sapete pure… Col nome del cielo… volete la mia morte!..

La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore, perchè quando si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter competere, e taceva la prima. Tutto quello che fece Don Abbondio fu di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore ad un predicatore di Corte. E pure, appena quelle parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare dell'ira e della mansuetudine e del gran male che è l'infierire centra quelli che non vogliono nè possono far difesa.

XX.
Dialogo sulla peste tra Don Ferrante e il Signor Lucio

Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po' più reconditi e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era costui professore d'ignoranza e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; perchè i libri, diceva egli, fanno perdere il buon senso. Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.

Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che, divenendo di giorno in giorno più risoluti, cominciavano a non far distinzione di persone e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda.

– Tutto questo, diceva il Signor Lucio, in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine che hanno scaldata la testa d'alcuni, i quali, per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia e pietà nello stesso tempo il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perchè? perchè l'ha trovata nei suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci.

– Piano, piano, disse Don Ferrante; il quale, benchè occupato a dissertare in un altro crocchio, aveva intesa quella scappata del Signor Lucio. Piano, piano; se si tocca la scienza, son qua io a difenderla.

– Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori, disse una signora; e il tratto riscosse un mormorìo di applauso da tutta la brigata.

– Quand'anche ciò fosse vero, disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso. Comunque sia, continuò egli, son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome.

– Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere, rispose il Signor Lucio, che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, o che so io, non sieno cavate dalla scienza.

– Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie, rispose Don Ferrante. Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un non-ente.

– Sono cose che le donne possano intendere? domandò quella signora.

– La materia è un po' spinosa, disse Don Ferrante; ma vedrò di renderla trattabile. Dico dunque, che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere nè dell'uno, nè dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum natura. Le sostanze… prego di tener dietro al filo del ragionamento… sono semplici, o composte. Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea, perchè se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi: non è acqua, perchè bagnerebbe; non è ignea, perchè brucerebbe; non è terrea, perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, nè meno, perchè tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio, o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto; non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro. Mi pare che la cosa sia evidente.

– Intanto, disse il Signor Lucio, senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno.

– Non lo sanno; perdoni, rispose Don Ferrante, lo indovinano a caso, come atomi senza cervello che, girando senza saper dove, concorressero a comporre una figura regolare. Mi dica un po', di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità.

– Oh bella! disse il Signor Lucio; la cagione è chiara; in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti, perchè v'ha più malattie; e questo è il caso nostro.

– Si, disse Don Ferrante; ma la malattia, la cagione prima delle malattie?

– Nè qui pure c'è sotto gran misterio, rispose il Signor Lucio: la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie.

– Tutto bene, disse Don Ferrante, ma la cagione prima?

– Io non so che cosa ella intenda per cagione prima, disse Don Lucio.

– Ora vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza, disse Don Ferrante. Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perchè non si vuoi fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare nè come, nè quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa, causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique. Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse!

Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò, la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, e articolò la formola terribile: mortales parat morbos; miranda videntur.

– O poveretti noi! disse una signora, e, rivolta al suo vicino, chiese che cosa volesse dire quel latino.

– Le prime parole, rispose egli, voglion dire che il morbo appare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente129.

Don Ferrante continuò: Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare e resistere all'evidenza e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se, alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di furoncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione…

– Eppure, disse il Signor Lucio risolutamente, perchè gli pareva di avere alle mani una buona ragione, eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni…

– E qui li voglio, interruppe Don Ferrante; qui dà in fuora lo sproposito. Confessano questi signori, perchè a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze, discese dai corpi celesti in questo mondo sublunare, potessero schifarsi; come se quando le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi celesti. Per me credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici, che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato, acciocchè, per giunta di tanti mali, ci tocchi anche il flagello dei regolamenti.

Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso; sapevano che era comparsa quella cometa; avevano inteso dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto, ma da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavar quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima e nello stesso tempo più irritati contra i regolamenti e più disposti a trascurare come inutili tutte le cautele. Lo stesso contraddittore Signor Lucio partì da quella disputa più pensoso, perchè le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.

Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute e predicate, con che fiducia applicate ai casi e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti sarebbe stato in molte cose l'uomo il più illuminato e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni130.

 

Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perchè no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti insomma per una, due, più generazioni, talvolta senza proteste, senza richiami. Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro verso. Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi e con istravaganze volgari. Dal che si vede quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacchè non ardivano impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire, della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee, si trova generalmente che dopo quei primi assalti staccati, comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola. Allora un trambusto da non dire: quelle idee, disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza è con ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti, così inconcusse, come in quel momento: ma noi posteri, che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo; gli abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio terribile; pare che vadano ad una conquista, o che celebrino una vittoria; ma guardate al nido, è vedrete ch'egli arde; v'accorgete che tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.

È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci e renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto arguti; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contra di essi; poichè sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scovare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o l'avevano rifiutata avvertitamente.

Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze raccolte insieme e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa, che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro, l'affermare la tal altra, che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio, vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito; in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe un tale errore proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro, annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, creciuto e morto in un paese: tale, recato da di fuori e ricevuto con gratitudine; tale, sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine; tale, scovato in un libro vecchio; tale, immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale, messo fuori da un uomo senza credito e senza merito, aver fatto grande fortuna, perchè conforme ad altre idee storte già dominanti e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista, che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal popolo e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodochè su quel punto i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.

Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute, si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee, dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto, per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a sè stessa come un giogo, che le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacchè è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali, e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura, comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che, senza studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un errore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all'autorità dei morti e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza: quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo? Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che… Eh ma! signori, voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore e torno alla storia131.

128In margine il Manzoni aggiunse: «son venuto a fuggir l'acqua sotto una grondaja». (Ed.)
129Segue, cancellato: «Il Signor Lucio volle ancora opporsi, ma l'impressione di terrore che Don Ferrante aveva prodotto su gli uditori, gli rendeva poco disposti a sentire la forza delle opposizioni. Io non so niente, disse il primo, di tutte queste predizioni; so però che senza di esse si capisce benissimo perchè ora tanti muojano: muojono perchè è venuta la loro ora. Nessuno badò all'argomento del Signor Lucio». (Ed.)
130Il Manzoni aveva in animo di rimaneggiare tutto il rimanente di questo brano. Infatti v'incollò un fogliolino, che dice: «Deduzione più logica: 1.) generazioni; e divenute poi il ludibrio delle generazioni susseguenti; 2.) Sarebbe una storia fino a più di ammirazione; 3.) Talvolta senza richiami, etc. fino a rifiutata avvertitamente; 4.) Conclusione: Ma una siffatta storia, etc. Rifondere il tutto per adattarlo alla nuova deduzione». (Ed.)
131Il Manzoni soppresse questo dialogo, con il quale termina il capitolo III del tomo IV della prima minuta; ma, nel capitolo XXXVII del testo definitivo, raccontando come morì don Ferrante, non mancò di esporre quello che esso pensava intorno la peste. Ecco le parole del Manzoni: «Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto, l'anonimo ha creduto d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto. «Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. «In rerum natura, diceva, non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser nè l'uno nè l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perchè bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perchè brucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; che questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi; perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, di esantemi, d'antraci…? «Tutte corbellerie, scappò fuori una volta un tale. «No, no, riprese don Ferrante: non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. «Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuoi dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a disteso era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi. «La c'è pur troppo la vera cagione, diceva; e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino…? Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno? «His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». Olindo Guerrini [Achillini e Manzoni; in La Rassegna settimanale, di Roma, vol III, n.º 59, 16 febbraio 1879, pp. 130-131] notava, per il primo, che il ragionamento posto dal Manzoni in bocca a don Ferrante, lo «copiò di sana pianta, senza dirci dove l'avesse preso», e ne indicava la fonte: una lettera di Claudio Achillini ad Agostino Mascardi. Tornava a trattare la questione, con grande serenità e molto garbo, Luigi d'Isengard [Claudio Achillini e don Ferrante; in La Rassegna nazionale, di Firenze, anno XX, vol 104, 1º decembre 1898, pp. 629-636.] Agostino Mascardi di Sarzana, che visse dal 1591 al 1640 ed ebbe grido tra' letterati d'allora, mentre a Milano e nel resto d'Italia infieriva la peste e correvano le più strane e orribili voci intorno gli untori, scriveva all'Achillini: «Ditemi, di grazia, signor Claudio, che credete delle cose di Milano? Non parlo degli accidenti di guerra e della peste, che per via d'ordinario contagio si propaga, ma di quell'altra, che si dice esser seminata dagli uomini con mistura d'incanto. Io per me, come non sono dei più arrendevoli a creder tutto quello che si attribuisce al diavolo, così non lodo l'ostinata credulità di certi filosofastri, che, per far troppo del saccente, danno nell'infedele. Che in altri tempi si sia trovata cotal sorte di peste, dalla malvagità degli uomini appiccata con diverse misture, è notissimo». Qui tira in ballo Seneca e Tito Livio, Paolo Diacono e Procopio, Pomponio Leto e Gregorio Nisseno, Evagrio, Cedreno e Sigiberto; poi prosegue: «Può nondimeno accadere che la moltitudine, credula al suo peggiore e inchinata alla superstizione, v'aggiunga molte cose del suo, in virtù dell'eccessivo timore che la toglie di senno. Però, figliuole della paura e della sciocchezza stimo io quelle larve di Principi, di vecchi e di palazzi, delle quali s'empiono i fogli di Lombardia, quando non sieno macchine mal composte di qualche ingegno, più curioso che discreto, per dar materia di spavento alla plebe, e agli uomini sensati o di riso o di sdegno. È certo nondimeno che nelle pubbliche calamità gli autori antichi osservano molte fiere visioni, o vere, o immaginate dalla paura… Tantochè, per abbattere dalle sue fondamenta Milano, era necessario che alla fame compassionevole, alle violenze di barbara soldatesca, alle ruine di tanti anni di guerra, alle stragi della peste comune, s'aggiungesse il veleno, dirò insanabile, se è composto fin nell'Inferno con liquori nel nostro mondo non conosciuti». L'Achillini gli rispondeva dalla sua villa al Sasso, nella valle del Reno, dove s'era rifugiato per paura del contagio: «È toccato alla peste lo svegliare il mio nome che dormiva sotto i ricchi padiglioni della vostra memoria: nè voglio già ringraziamela, perchè non merita grazie una siffatta disgrazia; ben rendo grazie a voi che cotanto m'avete onorato con la vostra eloquentissima ed eruditissima lettera, alla quale come potrò mai rispondere a parte a parte, se, subito ch'io l'ebbi ricevuta, vennero a me alcuni gentiluomini bolognesi, fra i quali un Paride letterato la riconobbe per un'Elena e me la rubò?.. Voi mi richiedete il mio senso intorno agli spettri di Milano e alla magica peste portata dalla fama su certi fogli curiosi, che vanno attorno. Qui, o ragioniamo del potere, o del fatto. Se del potere, chiara cosa è, e la teologia non ci lascia dubitare, che il Demonio può naturalmente queste e cose maggiori, purchè Dio non gli sottragga il potere: intendo però, s'egli eserciterà le sue forze naturali dentro alla latitudine del moto locale, trasportando e applicando gli agenti alle materie: perchè se noi credessimo che nei predicamenti della qualità, della quantità o della sostanza egli potesse immediatamente produrre sì fatti termini, noi, s'io non m'inganno, faressimo errore. Se poi ragioniamo del fatto, certo che per le continue relazioni che vengono da Milano, anche in quest'ultimo spaccio, io molto agevolmente m'induco a crederlo; ma non già credo quelle favolose circostanze che questa estate andavano attorno, le inverisimilitudini delle quali erano troppe note a chi leggeva quei fogli: e che altre volte siano avvenute sì fatte pestilenze, o col concorso del Demonio, o con l'arte ignuda degli uomini, oltre le nobilissime autorità addotte da voi, io mi rimetto ad un certo trattatello manuscritto, che va attorno, il cui titolo è: De peste manufacta, nel quale sono registrate molte altre autorità di simil fatto; ma quello che mi confonde l'ingegno si è come si trovino uomini di barbarie tanto inumana, che cospirino coi Diavoli alla distruzione di tutta la propria spezie. Io qui impazzirei col pensarvi, e però vengo ad un'altra non meno curiosa maraviglia, e chieggo a voi che cosa è egli mai questo fomite, o seminario pestifero, che resta impresso nei panni e con fecondità così tragica fruttifica la morte delle famiglie e dei popoli interi? È egli accidente, o sostanza? Se accidente, o è trasportato, o prodotto; al primo modo repugna la filosofia, la quale non ammette il passaggio degli accidenti da un soggetto all'altro. Al secondo pare che ripugni il non potersi intendere con quale energia possa l'appestato tradurre dalle radici o dalle potenze dei panni agli atti una sì fatta qualità, oltre che non sarebbe agevol cosa lo assegnare in quale spezie di qualità dovesse riporsi. Se è sostanza, come vogliono tutti gli antichi e Greci e Latini, o è semplice, o è composta: se semplice, o ella è area, e perchè in breve tempo non vola alla sua sfera, liberandone i panni? O è acquea, e perchè non bagna, o non è dall'ambiente, tante volte accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea, e perchè non abbrugia? O è terrea, e perchè non si vede, o col tatto non si sente? Se è sostanza composta, torno a dire che dovrebbe, o coll'occhio, o col tatto discernersi; e pure egli è verissimo che un panno bianco, mondissimo agli occhi nostri, ucciderebbe una città intera». Queste lettere, che subito furon date alle stampe, levarono un gran rumore e più volte tornarono a veder la luce. La prima edizione ha questo titolo: Due lettere | L'una | Del Mascardi all'Achillini | L'altra | Dell'Achillini al Mascardi | sopra le presenti calamità. | Dedicate all'Illustriss. Signora | D. Maria Pepoli | Contessa di Castiglione, Sparvi, | E Barragazza. | In Bologna, per Francesco Casanio 1630. Con licenza de' Superiori | Ad istanza di Bartolomeo Cavalieri et Cesare Ingegneri; in-4º picc. di pp. 24. Furono riprodotte: In Firenze, MDCXXXI. | Nella Stamperia di Pietro Nesti al Sole | con licenza de' superiori; in-4º di pp. 16 —In Roma, Per Lodovico Grignani, MDCXXXI. | Con Licenza de' Superiori; in-4º di pp. 20 —e In Roma, et in Milano | Ad istanza di Gio. Batt. Bidelli | MDCXXXI; in-18º di pp. 32. Poi vennero inserite nella raccolta delle Rime e prose dell'Achillini, stampata a Venezia nel 1656, 1673, ecc. È probabile che il Manzoni leggesse la lettera ispiratrice in una di queste ultime edizioni; ma non si può escludere che potesse avere avuto tra mano anche una delle altre stampe, sebbene assai rare. Infatti consultò un numero grande di libri e di opuscoli intorno alla peste del 1630; quanti ne potè trovare. E poi pizzicava di bibliofilo. Sta lì a provarlo un esemplare, postillato di suo pugno, della Serie | de' | testi di lingua | usati a stampa nel Vocabolario | degli Accademici della Crusca | con aggiunte | di altre edizioni da accreditati scrittori molto pregiate, | e di osservazioni critico-bibliografiche, | Bassano MDCCCV. Dalla Tipografia Remondiniana | con R. permissione; in-8º; che si conserva nella libreria di Brusuglio. Il prof. Lorenzo Stoppato [La Biblioteca di Don Ferrante, Milano, tip. Bortolotti di G. Prato, 1887; pp. 47-49] pigliò le difese di don Ferrante, ponendogli in bocca questa risposta al Guerrini: «Caro signor mio, Ella mi imputa di plagio? Ma non sa Ella che il distinguere fra sostanza e accidente è una delle formule più consuete e precise della filosofia aristotelica, e che l'applicazione della formula importa uno sviluppo eguale di ragionamento, per ogni caso? Che non varia altro che la materia alla quale viene applicata? E mi crede così da poco da aver bisogno di copiare un ragionamento, come farebbe uno scolaretto? E Lei mi fa un gran caso dell'aver io considerata la peste come sostanza e come accidente? Ma non sa che gli scolastici hanno disputato per fino se Dio fosse accidente o sostanza». Fin qui la difesa non fa una grinza; dove zoppica è in quello che segue: «Nè mi venga a dire che io ho copiato dall'Achillini… Dica piuttosto che anche l'Achillini ha copiato quel ragionamento, e lo ha copiato precisamente da Massimiliano Viani di Pallanza. Costui infatti, nei suoi Dialoghi su i rimedi efficacissimi per guardarsi dal mal contagioso, stampati a Milano, dal Rolla, l'anno 1630, a pag. 40» [correggi pp. 44-45], «scrive: – Per compiacervi dirò quello che dice alcuno filosofo sopra tali particolari, circa il punto che sii questo fomite, o seminario pestifero… Se egli sii accidente, o sustanza. Se accidente, o è trasportato, o è prodotto. Al primo modo repugna la filosofia, la qual non ammette passaggio degli accidenti da un soggetto all'altro… Se sustanza, o è semplice, o è composta. Se è semplice, o ella è aerea, e perchè in breve tempo non vola alla sua sfera? O è acquea, e perchè, o non bagna, o non è dall'ambiente, tante volte accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea, e perchè non abbrucia? O è terrea, e perchè, o non si vede, o col tatto non si sente? Se è sostanza composta, dicono che dovrebbe, o con l'occhio, o col tatto discernersi… Quanto poi alla generazione di questo male, può seguire per alterazione o correzione d'aere, cioè per l'aere viziato e corrotto per aspetti nemici di stelle – ». Lo Stoppato conchiude: «Eccovi, caro signor critico, che anche il vostro Achillini è un plagiario e ha copiato ad litteram dal Viani». Ho qui dinanzi il suo libro e comincio col trascriverne il titolo: Remedii efficacissimi | per | guardarsi dal mal contaggioso, | Accioche non vadi infettando i Vicini, | nè faccia progresso; | con altri avertimenti | necessarii per tali bisogni. | Opera | composta in forma di Dialogo | da Massimigliano Viani | di Pallanza | Per beneficio pubblico. | In Milano, | Appresso Carlo Francesco Rolla Stampat. | vicino al Verzaro. È un volumetto in-8º di pp. 51, oltre 8 in principio e 3 in fine. L'anno manca; ma si deduce dalla lettera dedicatoria del Viani All'Ill.mo Magistrato della Sanità dello Stato di Milano, scritta da «Milano li 23. Giugno 1657»; nonchè dall'approvazione del Magistrato stesso, che è del 27 del medesimo mese. In questa approvazione si commenda anche il libro, e si esortano le Comunità, «per il loro particolare beneficio, a provvedersene d'una copia, prohibendosi a ciascun stampatore et ad ogni altra persona il stampare, far stampare, o introdurre da di fuori di questo Stato per anni dodici prossimi avvenire la medesima opera; et ciò sotto pene pecuniarie et anco corporali». Ecco dunque provato che l'Achillini non è per nulla un plagiario. Lo sarà il Manzoni? Osserva Luigi Morandi [cfr. La Perseveranza del 19 febbraio 1879]: non solo non può parlarsi «di plagio, ma neppure d'imitazione, almeno nel senso più ovvio che si da a questa parola»; è «una trovata storica», la quale prova che anche i personaggi e i fatti inventati, furono dal Manzoni «coloriti con tinte ricavate da fatti e da personaggi consimili e realmente storici di quel tempo». Ribadisce Orazio Bacci: «Non si potrebbe parlar mai di un plagio, sibbene di un substrato storico – quasi direi – che l'autore volle dare alla sua figura; e la citazione della fonte non era necessaria, nè forse artisticamente possibile». Notevole è poi ciò che scrive il D'Isengard: «Che il Manzoni, volendo ritrarre nel suo romanzo la Lombardia del secolo XVII, abbia fatto uno studio accuratissimo di quell'età, dei luoghi, dei costumi, dei caratteri e degli avvenimenti, è cosa risaputa… Non si contentò di studiare quel secolo nelle linee principali, ma scese ai particolari; ben sapendo che i fatti minimi, come insegnò Bacone, giovano a spiegare i fatti massimi. Colla virtù assimilativa dei grandi ingegni, e coll'industriosa abilità delle api, fabbricava il suo miele. Nel libro di Stefano Stampa si legge: —Una volta mi mostrò nel Ripamonti [Qui lo Stampa è tradito dalla memoria. Gli mostrò invece il La Croce, dove a pag. 77 si riporta la predica. (Ed.)] il testo somigliantissimo della predica del padre Felice, dicendo: —Vedi son quasi le stesse parole delle quali mi son servito io. – Della lettera dell'Achillini avrebbe potuto dire egualmente: Vedete, per far parlare a don Ferrante il linguaggio della pedanteria, con tutti gli errori e le superstizioni del tempo, non m'è parso vero di trovare in quella lettera il fatto mio. Ma come l'orpello dell'Achillini nel crogiuolo manzoniano sia divenuto oro purissimo, questo è un segreto dell'arte». Giuseppe Galli [Un'operetta inedita del Card. Federico Borromeo sopra la peste in Milano ed i «Promessi Sposi»; nell'Archivio storico lombardo, ann. XXX, vol XX, pp. 110-137] scoprì che il Manzoni approfittò di un'opinione espressa dal Lampugnano a p. 13 del suo libro: La peste seguita a Milano l'anno 1630, stampato nel 1634, per metterla in bocca a don Ferrante. L'opinione del Lampugnano è questa: «Nè finalmente mi da l'animo di concedere che la peste sia qualità contagiosa. Perchè sarebbe accidente. Nè potendo l'accidente essere contrario alla sostanza, non capisco come possa da subietto in subietto passare ad operare la corruzione». Sentiamo adesso la medesima opinione uscita dal crogiuolo manzoniano: «Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; che questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro». Il Manzoni dice che nella «scienza cavalleresca» don Ferrante «meritava e godeva il titolo di professore», e non a torto, giacchè «aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso». Il Forno o vero della nobiltà, dialogo del signor Torquato Tasso, vide la luce a Vicenza, nel 1581, per Pierin Libraro; il Trattato del modo di ridurre a pace l'inimicitie private, di Fabio Albergati, fu pubblicato a Roma, co' torchi dello Zannetti, nel 1583; i Discorsi cavallereschi del conte Annibale Romei, divisi in cinque giornate, vennero impressi a Venezia dallo Ziletti nel 1585. Di Girolamo Muzio, giustinopolitano, si hanno ben cinque opere: Le Risposte cavalleresche, Venezia, Giolito, 1551; Il Duello, Venezia, Giolito, 1558; La Faustina, dell'armi cavalleresche a' Principi e cavalieri d'onore, Venezia, Valgrisi, 1560; Il Cavaliero, Roma, Blado, 1569; Il Gentilhuomo, distinto in tre dialoghi, Venezia, Valvassori, 1575. Lo spagnuolo Girolamo d'Urrea è autore del Dialogo del vero onore militare, nel quale si definiscono tutte le querele che possono occorrere fra l'uno e l'altro uomo, con notabili esempi di antichi e moderni, che fu tradotto in italiano da Girolamo Ulloa e stampato a Venezia dal Sessa nel 1569. Di Fausto da Longiano si ha Il Gentilhuomo, diviso in due parti, Venezia, 1542 e 1544; e Il Duello regolato alle leggi dell'onore, con tutti i cartelli missivi e responsivi, Venezia, Valgrisi, 1552; e di Paride dal Pozzo i Libri IX del Duello, Venezia, 1521. Oltre questi «antichi», c'era un suo contemporaneo, che don Ferrante riteneva «l'autore degli autori», il «celebre Francesco Birago». E anzi il Manzoni nota che «fin da quando venner fuori i Discorsi cavallereschi di quell'insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso i posteri». Li Discorsi cavallereschi del Signor Francesco Birago, Signore di Melone e di Siciano, ne' quali, con rifiutar la dottrina cavalleresca del Signor Gio: Battista Olevano, s'insegna a racchettare honorevolmente le querele nate per cagione d'honore, ebbero una prima edizione a Milano, dal Bidelli, nel 1622, che poi li ristampò «riveduti et accresciuti» nel 1628. Oltre un Trattato cinegetico, o vero della Caccia, Milano, Bidelli, 1628, il Birago compose tre altre opere cavalleresche, «nobili sorelle» de' Discorsi, cioè: Dichiaratione et avvertimenti poetici, istorici, politici, cavallereschi e morali sulla Gerusalemme conquistata del Tasso, Milano, Somasco, 1616; Consigli cavallereschi, ne' quali si ragiona circa il modo di far le paci, con un'Apologia cavalleresca per il Sig. Torquato Tasso, Milano, Bidelli, 1623; e le Decisioni cavalleresche. Si hanno insieme raccolte col titolo: Opere cavalleresche del Signor Francesco Birago, distinte in quattro libri, cioè; Discorsi, Consigli libro I e II e Decisioni, Bologna, Longhi, 1686; in-4º. Il dott. Ubaldo Mazzini [La Cavalleria nei Promessi Sposi, nuovo contributo alla ricerca dei fonti manzoniani; nella Rassegna nazionale, di Firenze, ann. XXI, vol. 109 della collezione, 16 settembre 1899, pp. 333-346], ritiene che il Manzoni «ha avuto per guida un'opera soltanto d'un solo di quegli autori», i Consigli cavallereschi del Birago. «Gli altri autori e le loro opere» (così il Mazzini) «ha trovato citati ne' Consigli ad ogni capitolo, ad ogni pagina, e parecchie volte: con questo però non voglio escludere che egli li abbia consultati; ma più letti che studiati, come direbbe egli stesso». No: il Manzoni era troppo coscienzioso, troppo diligente, per contentarsi di bere a una sola fontana; gli ha letti tutti, gli ha tutti studiati; c'è da giurarlo. Scorrendo i Consigli (è sempre il Mazzini che scrive) «non solo è facilissimo trovarvi il riscontro con alcuni passi dei Promessi Sposi, ma ben si comprende ancora come abbia fatto del Birago l'autore prediletto di don Ferrante, il suo amico; come io elevi sopra tutti gli altri, e il perchè della profezia intorno all'Olevano. Ultimo venuto nella nobile falange dei trattatisti dell'honore, contemporaneo e compatriota di don Ferrante, il Birago, per lo stile, il gusto, il modo di argomentare caratteristico dell'età in cui visse, è ben naturale che tanto andasse a' versi di don Ferrante… Si può pensare che lo stesso nome di don Ferrante il Manzoni l'abbia tratto dai Consigli del Birago, giacchè nel Consiglio IV, in cui si esamina il caso di chi pretende essergli stato venuto meno della parola, si tratta appunto della vertenza insorta tra certo signor Ferante Novà ed il signor Giovaniacomo Latuada». Intorno a questa incarnazione d'un dotto del Seicento, morto, «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», è pure da consultarsi: Albertazzi A., Don Ferrante, in Fanfulla della Domenica, ann. XXII, n. 6. (Ed.)

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