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Parvenze e sembianze

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VI

Quest'anima satirica di Gregorio Leti, anzi che infiacchirsi o addolcirsi, nella vecchiaia resistette e rincrudí, e oramai settantenne egli diede fuori quella Critica delle lotterie, per cui un ministro di Luigi XIV fu indotto a dire: “So bene perché il re di Francia ha fatto la guerra a tanti suoi particolari nemici, ma non so trovar la ragione che abbia possuto muovere il sig. Leti a farla a tutto il genere umano.„56

Infatti, giú botte da orbo a príncipi, ad ambasciatori, a generali; a tribunali, a senati, accademie, università, eserciti, nazioni; a nobili e a plebei; a ricchi e a poveri; a letterati e ad idioti; a religiosi di ogni chiesa e a increduli; a stampatori, a donne, a sé stesso.

E in tempi che per reo costume l'adulazione e la viltà ruinavano la società tutta, queste satire acerbe piacquero come opere sincere e forti; né fastidiscono oggi chi le riguardi; non foss'altro perché noi, gente temperata e morale, ripugnamo sí dalla maldicenza infamante e dagli scandali de' nostri giorni, ma ci volgiamo poi con certo gusto alla ricerca di vecchi scandali e infamie vecchie; vecchie, siano pure, di due secoli.

PUNIZIONE 57

Ammirata dell'opera fine e vivace delle miniature la signora aveva molte esclamazioni e troppe interrogazioni per ciascuna pergamena che le ponevo sott'occhio: – Che significa quest'allegoria? – Che festa solenne sarà questa a cui concorre sí lunga fila di dame e gentiluomini? – Chi è questa regina che scesa dalla carrozza a sei cavalli s'inginocchia dinanzi a un cardinale? – Che bel teatro, e quanta gente, e curiosi i comici in scena! Forse è un teatro di Bologna? – Sono scienziati o diplomatici costoro in grave radunanza?; – ond'io piú d'una volta mi confusi a rispondere o non risposi, ed ella levò a me gli occhi, ahi!, sorridenti, come le labbra, di sottile sarcasmo. Però quando fummo a una rappresentazione dello Studio ed ella accennandomi gli scolari – Come bellini! E come dovevano vivere lieti! – parve desiderare qualche notizia intorno ai loro costumi, e pure non sperarla da me, sentii giunta finalmente l'occasione a punirla un po' della curiosità sua e piú della sua malignità, e cominciai:

– Vivevano lieti, ed è piú facile trovar ricordi dei loro sollazzi e delle loro monellerie che dei loro studi. Cosí, se ai giovani capaci d'ogni gentile adoperare anche al principio del seicento veniva in premio l'amore, anzi tutto è da credere che le donne si disponessero a compiangerli allorché traevano la dolce pienezza dei suoni dal piú leggiadro degli istrumenti: il liuto. Sonavano pure il clavicembalo e la viola e cantavano a libro commovendo con diverse arie diversi affetti: l'arie lombarde accendevano l'animo all'ardire, le napolitane invece lo intenerivano, le francesi l'inacerbivano con veemenza, e le spagnole al contrario lo rendevano mansueto; l'arie toscane temperavano in cuore gli affetti. Ma giacché le donne furono sempre crudeli a pungere chi manchi di prontezza e sagacia nei discorsi, gli scolari del secolo decimosettimo cercavano con assai cura i motti arguti e le parole soavi, le quali avevano piú agio a profondere nei tardi giri e nei riposi frequenti della pavana. Per questo la pavana era sempre uno dei balli preferiti; ma a porre in mostra la grazia e l'agilità della persona tornavan meglio le gagliarde e ai giovani che, come si diceva allora, facevano professione di cappa e spada, conveniva esperienza di molti altri balletti, tra cui alcuni un po' licenziosi. Tale la nizzarda, per cui i ballerini movevano in fretta tre passi abbracciando la donna in guisa che pareva la baciassero; ed io, signora…

– Non c'era educazione in quei tempi!

– Veramente in conversazione riusciva non di rado piacevole certa grossolanità di atti e di parole, e, per esempio, una dama poteva punire con “una solenne pianellata„ l'innamorato troppo audace in richiedere, e quegli rispondere allegro: – “Buon destriero non teme calcio di cavalla„ – , ma poi la sottigliezza dei precetti a distinguere e rispettare i vari gradi delle persone era tanta che, stia certa, darebbe gran pena a noi oggidí. Il tormento peggiore era forse a girare in compagnia, perché passeggiando uno con persona degna di deferenza doveva sempre guardar di lasciarla alla parte piú onorevole, la quale cambiava nei luoghi diversi; e se in un giardino poteva essere determinata dalla vicinanza della porta d'ingresso, sotto un portico era invece dal lato del muro, e in una sala dalla disposizione degli usci e delle finestre. Per strada, in Lombardia camminava a piú onore colui che stava rasente il muro, dove nelle città di Toscana e a Venezia sempre colui che si teneva alla destra. E quando tre andavano insieme, in mezzo stava la persona di maggior grado, ma se i tre si sentivano uguali, ognuno, secondo l'usanza spagnola, prendeva il mezzo di tratto in tratto e di tratto in tratto passava alle parti e l'orgoglio di tutti era salvo. Bensí a spasso con un principe o con un gran personaggio non si penava, perché, rimanesse egli a destra o a sinistra, lo distinguevano tutti egualmente. A cavallo, in due o piú, d'estate riceveva onore chi precedeva; d'inverno, chi seguiva gli altri: in carrozza, il padrone secondava i gradi di coloro che l'accompagnavano con l'ordine dei posti; in camera, dinanzi al fuoco, faceva sedere il visitatore nel sito mediano; fuori o dentro la porta di casa… La storia è lunga, lunghissima poi per gl'intrecci di regole e di eccezioni che il barocco galateo stabiliva riguardo agli incontri per via, i quali potevano essere tra maggiori, inferiori, uguali; in istrada “propria„ o “altrui„; tra persone a piedi e persone a cavallo; tra carrozze recanti signori e carrozze vuote.

Bisognavan riguardi non pochi anche ai conviti, in cui sarebbe stata offesa grande alla gravità e all'assennatezza dei commensali offrir loro ravanelli, cervella e sale; e pe 'l sale era anzi un proverbio: “Né moglie, né acqua, né sale a chi non te ne chiede non gliene dare„, quasi che essendo male educati o ignorando l'adagio si potesse offrire la moglie agli amici. Ma oggidí, signora…

– Non esca di carreggiata e parli un po' piú degli scolari.

– Contra pupillos omnia jura clamant; e alla “spupillazione„ – ciò era “la ricognizione d'un paio di guanti o d'una dozzina di stringhe di seta„ che i nuovi studenti pagavano a quelli della nazione o città ove andavano a studio, – conveniva acconsentire per amore o per forza: ai neghittosi erano rubati i ferraioli e svaligiate le camere senza misericordia. Uccellavano gl'incauti “pupillotti„ anche i bidelli, i quali avendo una ricompensa da ogni scolaro che si laureasse, conducevano al loro dottore piú discepoli che potevano. Visitare i lettori era dovere; piaceva gridar viva ad essi nelle scuole e fin per le strade. Ma piaceva anche a non pochi ridere, susurrare, sbadigliare, zuffolare, discorrere forte, stropicciare i piedi durante la lezione; onde i maestri erano costretti piú d'una volta a scendere di cattedra: si vendicavano pungendo con motti i disturbatori.

Per altro a quei tempi infelici non tutti i lettori erano uomini di profonda dottrina e molti si disprezzavano e mordevano a vicenda. Cosí ad uno che disse a un suo emulo: – “V'intendete di fagioli, non di leggi – „ l'avversario rispose pronto: – “Sí certo che m'intendo di fagioli, poiché non a pena vi vidi, che per tale vi conobbi.„ Ma se gli scolari studiavano meno d'adesso, non giocavano meno. I giochi del secolo decimosettimo erano molteplici e leciti e illeciti: tra questi, quello dei dadi; tra quelli, il lotto, la farinazio, il giretto e la morra. Gli scacchi e la dama dilettavano come giochi “d'ingegno„; d'“ingegno e fortuna„ lo sbaraglino, la primiera e gli altri di carte, per i quali giovavano certe norme fissate in proverbi come: “Sette e fante dalli a tutte quante„, e “ambasso fatti avanti un passo„, e “non si può far assi senza risicare„; d'“ingegno, fortuna e agilità„, la palla, il pallone e il maglio; solo d'agilità, ma piú convenienti “a soldati che a scolari„, la corsa ed il salto.

Se non che agli scolari del seicento piacevano altri giochi, e non badando che “si trovano molti fiaschi rotti con le vesti nove„ – il detto è d'allora – pericolavano a smarrire la “grazia dell'aspetto„ e a ingiallare: ma ai dí nostri, o signora…

– Su quanti libri avrà sudato vossignoria per apprendere tutte queste belle cose!; – e stanca rifinita allontanava da sé le pergamene maledicendole tacitamente.

Io volli compiere con la punizione la lezione: – Al signor Annibale Roero, nel 1604 non per anche laureato dottore e tuttavia occupato, com'egli scriveva, nel “viluppo delle legali materie„, parve bene rivolgere la sua esperienza e dottrina di scolaro all'università di Pavia in profitto di quelli che si disponessero allo studio del giure, e imaginando sé stesso a ricevere consigli e istruzione dal signor Saglijno Nemours, dalla signora Caterina Roero Nemours e dal conte Galeazzo Roero, per via di quattro dialoghi diede l'“idea del perfetto scolare„. E poiché non solo raccolse le norme seguendo le quali i giovani avvantaggiassero di piú nella scienza, ma stese ancora le regole a procedere saviamente e gentilmente, nel libro dello Scolare, tra le nobili sentenze di filosofi e di poeti e gli umili proverbi, tra gli aneddoti antichi e nuovi e i racconti di nuove burle, tra i motti ridevoli e le risposte avvedute, restano non poche notizie de' costumi ch'erano propri alla miglior società nel principiare del secolo decimosettimo. Signora, vuol leggere il libro curioso?

 

– Grazie: preferisco Daudet.

MOLTO RUMORE PER NULLA

I

Questa, a linee brevi d'umile prosa, la figurina di un giovane che a mezzo il secolo decimosettimo derivasse dalle mode francesi la virtú di piacere molto alle donne e piú a sé medesimo.

Di sotto il cappellaccio bigio, povero di falde e ricco di nastri e fiocchi a vari colori, l'onda dei capelli, naturali o finti, diffusa su 'l largo collare; diffusa su lo stomaco e sfuggente dall'apertura del farsetto di “gialdiccio„, la camicia sottile e candida; i calzoncini strettissimi, verdi, a liste di passamani, trattenuti da lucide stringhe sotto il ginocchio; e quindi le calze rosse o bianche (bianche ne' partigiani dei Francesi e rosse degli Spagnoli) a seconda dell'opinione politica. Ma al diavolo la politica!; e per seguire in tutto la moda di Francia, meglio che le scarpette coperte in punta da grandi rose di seta e d'oro, due stivalacci coi calzari a rovescioni su 'l collo del piede.

E come belle le mani senza guanti, la sinistra poggiata all'impugnatura della breve spada e la destra, con un grosso anello di giavazzo nero nell'indice e un anellino d'argento o di rame nell'estremità del mignolo, intesa talvolta ad appuntare i baffi rivolti in su a punti interrogativi! Le donne rispondevano con sorrisi, ma secondo una canzonetta, forse maligna, pretendevano troppo:

 
Con le donne d'oggidí
Ci vuol altro, per mia fé
Che portar raso o tabí!
Stracciato e nudo
Se 'n vada il drudo,
Ché amor vero, allor sarà
Se per vestir altrui si spoglierà!58
 

Tuttavia i donnaioli non andavan nudi per strada, anzi, potendo, vestivano in conformità delle mode, che allora “variavano come la stagione„59. Però se è difficile seguire le vicissitudini delle foggie negli abiti degli uomini, i quali, per esempio, a distanza di pochi anni sostituirono ai calzoni stretti “bragoni scialacquati„, a mala pena si può cogliere la volubilità della moda femminile ne' suoi momenti piú singolari; e se è noto che a metà del secolo il guardinfante, ricoverto di lunghe gonne e sottogonne, era in uso comune ed utile a nascondere gravidanze legittime ed illegittime e piú d'una volta amatori furtivi, e in uso comune erano i corsetti a “basche„ con le maniche a sboffi e le ampie gollette di pizzo, non è poi facile rendere idea del come mutassero e rimutassero le forme secondarie e le cose minori d'una toilettecompiuta. Anche accadeva troppo spesso che qualche dama vaga di novità apparisse vestita e acconciata in maniera diversa dalle altre e traesse tosto molte altre ad imitarla.

Cosí fece quell'una vista e ritratta da don Agostino Lampugnani, la quale portava in testa un cappello di feltro con la falda tenuta a rovescio da un fermaglio di gioie; alla persona, una casacca alla francese di seta colore incarnatino, intessuta d'oro con maniche corte e con fiocchi di camicia bianchissima fuori dei gomiti; una gonna all'inglese d'“ormesino cangiante„, succinta tanto da lasciar vedere le gambe coperte da calze di seta color porpora; nei piedi, scarpette di raso con un dito di tacco e con due gran rose pur esse di color porpora; nelle mani, guanti logori e stracciati per porre in vista numerosi e preziosi anelli; al collo, un monile di granati; a un solo orecchio, “un pendente d'odorata mistura nera„; e a sinistra del petto un pugnale e a destra un piccolo archibugio a ruota. Dio ne scampi dal rinnovamento di moda sí fatta!

E neppure risorga mai piú l'usanza che in certo periodo del seicento costrinse le signore a farsi salassare per derivarne pallore e magrezza e a mangiare una terra detta bolarmico per cui l'avorio dei denti rimanesse “incastonato d'ebano„: aberrazione di gusto, che ebbe forse a causa e scusa il rovello delle gentildonne al vedersi imitate ed emulate dalle umili cittadine nella profusione della biacca e del minio su 'l viso e su 'l seno. Odiose borghesi, le quali smaniavano di copiare le dame in tutto! Almeno al tempo in cui usavano i manti era come stabilito per legge che le gentildonne li portassero di seta e le “cittadine e mercadantesse di criniletto; e guai a quella di queste che si fosse arrischiata di portarlo di seta, perché era certa che le sarebbe stato strappato d'attorno„, e talvolta per mano delle dame medesime! “Usanza – aggiunge il Ghiselli —60che sarebbe da desiderarsi che fosse stata mantenuta, ché non si vedrebbe al presente quella confusione che produce quel trattamento, ch'accomunato a tutti piú non fa comparire quella bella distinzione fra le persone di diversa condizione; contro l'uso d'oggidí, nel quale piú non si conosce dalla suntuosità del vestire una dama da una moglie di uno speziale o di qualch'altro uomo di piú bassa condizione.„

II

Scrittori che deridessero e sferzassero le mode barocche e le costumanze corrompitrici abbondarono pure nel secolo decimosettimo, ma per arte e per ironia acuta e fremebonda, che fa rammentare il Parini61, Gabriello Chiabrera superò tutti in due de' suoi sermoni e piú mirabilmente in quello all'amico Jacopo Gaddi:

 
Gaddi, ch'oggi sull'Istro e per li campi
Della fredda Lamagna ami battaglie
La gioventude, e sia disposta all'armi,
Negar non oso, e negherò via meno
Che dentro i dicchi della bassa Olanda
Si rimirino popoli feroci…
Dico che nella Fiandra e nella Francia,
E che dovunque il sol mostra i capegli.
Nascono destre da vibrare un'asta.
Da stringere una spada, ed avvi gente
Da piantar palme sulla lor Tarpea:
Tutto vi posso dir; bella fanciulla
Appiattar non si deve, e similmente
Però cosí parlai: ma d'altra parte
Forte contrasterò che né per Fiandra,
Né per dovunque il sol mostra i capegli,
Gente leggiadra mirerai, che agguagli
La leggiadria dell'italica gente.
Chi muoverassi a contraddirmi? E dove
Calzar potrassi una gentil scarpetta?
Un calcagnetto sí polito? Arroge
I bei fiocchi del nastro, onde s'allaccia.
Che di Mercurio sembrano i talari.
Io taccio il feltro de' cappelli tinto
Oltre misura a negro; e taccio i fregi
Sul giubbon di ricchissimi vermigli.
Chi potrà dir de' collarini bianchi
Piú che neve di monte? Ovvero azzurri
Piú che l'azzurro d'ogni ciel sereno?
Ed acconci per via che non s'asconde
Il gruppo della gola, anzi s'espone
Alle dame l'avorio del bel collo?
Lungo fòra a narrar come son gai
Per trapunto i calzoni, e come ornate
Per entro la casacca in varie guise
Serpeggiando sen van bottonature.
Splendono soppannati i ferrajoli
Bizzarramente, e sulla coscia manca
Tutto d'argento arabescati; e d'oro
Ridono gli elsi della bella spada.
Or prendasi a pensar quale è a mirarsi
Fra sí fatti ricami, in tale pompa.
Una bionda increspata zazzeretta
Per diligente man di buon barbiere
Con suoi fuochi e suoi ferri; e per qual modo
Vi sfavilli la guancia sí vermiglia,
Che può vermiglia ancor parer per arte;
E chi sa? forse, forse… O glorïosa,
E non men fortunata Italia mia,
Di quella Italia che domava il mondo
Quando fremean le legïon romane!..
 

Nel sermone a Francesco Gavotti il Chiabrera feriva in vece le donne, dubitoso che per le vanità delle mode e per le pompe e i sollazzi, la loro onestà potesse restar “salda in piede„:

 
… Io rimiro le donne oggi far mostra
Di sua persona avvolte in gonne tali,
Che stancano le man di cento sarti.
Men ricamato stassi infra le nubi
L'arco baleno: io tacerò dell'oro.
Oro il giubbone, òr le faldiglie, ed oro
Sparso di belle gemme i crini attorti.
Negletta fra' suoi veli appar l'Aurora
Sorta dall'Oceáno. Io già non nego,
Che assai sovente la beltà del viso
Fa tradimento alla mirabil pompa.
Or sí fatta donzella è non contenta
Di sua statura, ma levata in alto
Su tre palmi di zoccoli gioisce
Di torreggiare, e per non dare un crollo,
E non gire a baciar la madre antica,
Se ne va da man destra e da man manca
Appuntellata su due servi, ed alza
Il piede, andando, come se 'l traesse
Fuor d'una fossa; onde movendo il passo
È costretta a contorcer la persona,
E a ben dimenar tutto il codazzo.
O Democrito antico, ove dimori?
Ove sei gito? A sí leggiadre usanze
Giungi carrozze da città, carrozze
Per la campagna, seggiole, lettiche,
Staffieri, paggi. Il padre di famiglia
I golfi passerà per mezzo il verno
Su frale nave mercatando, ovvero
Con l'armi in dosso seguirà l'insegne
Fra mille rischi, e ne' palazzi alteri
Serva farà sua libertate a' cenni
D'aspro signor, per adunar moneta;
E poi disperderalla in compir voglie
E soddisfar vaghezze della donna?
La donna darà legge? avrà la briglia
D'ogni governo in mano?..
 

Ci voleva proprio il coraggio d'Arcangela Tarabotti per sostenere che le donne del tempo di lei e del Chiabrera erano in tutto schiave agli uomini!

III

Povera Tarabotti! A undici anni per volontà del padre suo, duro uomo di mare, era stata costretta a vestir l'abito di monaca nel convento di Sant'Anna in Venezia; a cambiare il bel nome di Elena in quello brutto d'Arcangela; a porgere un vóto quando in lei “diversa dalla lingua e dagli atti esteriori, altro intendeva la mente„. Cosí “fino alla consecrazione„ era rimasta “monaca di nome, ma non d'abito e di costumi; quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi„62: consacrata, nella condanna della sua calda giovinezza; nello strappo pur dai sogni di quelle gioie che avrebbe voluto gustare, quante gliene suggerivano la fantasia ed i sensi; nella racchiusa e muta disperazione d'ogni bene, d'ogni conforto avvenire, aveva imparato a scrivere, la monacella, e aveva studiato assai per richiamarsi un giorno con le sue opere alla giustizia e alla pietà del mondo. E riuscita che fu a comporre La semplicità ingannata, La tirannia paterna e L'inferno monacale, le parve d'aver tratta per l'infelicità sua e per quella di mille altre sciagurate sue eguali, un'aspra vendetta della crudeltà dei genitori, di una barbara costumanza, di una legge fatta contro la natura per l'amore di Dio. Ai due ultimi libri non fu data licenza di stampa, quantunque s'adoprasse per essa Vittoria Medici della Rovere granduchessa di Toscana: il primo usci a Leida solo nel 1654 e fu proibito da papa Innocenzo decimo perché tra l'una citazione e l'altra di storia sacra, tra l'uno e l'altro ragionamento sconclusionato, erano scatti d'odio contro i parenti che sacrificavano le figliuole alla clausura.

 

– “Com'è possibile, o ingannatori, che chiudiate in seno un cuore cosí crudele, che soffra di tormentar il corpo delle vostre figliuole, che pur son vostre viscere, con perdita forse della lor anima…; e che con la loro procuriate di precipitar anco le vostre medesime negli abissi dell'inferno, come rei di colpa mortalissima, per aver violentata la volontà di quelle, alle quali Iddio l'ha conceduta libera?.. Voi, tiranni d'averno, aborti di natura, cristiani di nome e diavoli d'operazioni… pretendete d'esser scrutatori di quei cuori che non si vedono se non da gli occhi di Dio, e disponete con pazza pretensione sino dell'arbitrio di quelle creature che pur anche stanno chiuse nell'alvo materno, senza aspettare ch'esse vi dichiarino a qual stato le inclini il loro genio, senza pensare quale iniquità sia lo sforzare l'altrui istinto„.

Questo e gli altri due libri passavano manoscritti di mano in mano, recando all'autrice lodi di scrittori famosi, che le si professavano divoti, e biasimi di frati maligni, che l'accusavano di farsi bella d'opere d'altri. Ma nel 1633 il cardinal Federico Cornaro patriarca di Venezia ebbe voglia di convertire al bene e alla rassegnazione la suora ventottenne divenuta oramai una ribelle pericolosa, e co' suoi consigli e rimproveri raggiunse l'intento: d'allora in poi Arcangela intese a scrivere cose buone: Il paradiso monacale; La luce monacale; La via lastricata per andare al Cielo; Le contemplazioni dell'anima amante; Il purgatorio delle mal maritate63. E si diede a compiere buone opere, tra cui piú la dilettava quella di maritar le novizze. Fra le sue lettere sono parecchie del tema di questa: “La novizza assolutamente non vuole il…; ella dice che quarant'anni son troppi per una giovanetta… Per ella (!) è piú proporzionato un giovinetto bello, vivace et affaccendato, che un uomo sodo e mezzo buffalo, qual'è il vedovo propostole. V. S. Illustrissima sa il suo bisogno; provveda di cosa a proposito, se vuole la mancia…„

Anche doveva sdegnarsi se, come io credo le accadesse, qualcuno s'innamorava di lei: certo metteva in burletta un tal B… (fosse il frate Brusoni, che era e dicevano suo amico e che – vedremo pur questo – dopo averle fatti grandi servigi s'inimicò con lei?), un tal B., il quale forse temperando l'amore con lo scherzo, o piú tosto, ciò che non era strano in quei tempi, adombrando l'amore con versi oscuri e bizzarri, le inviava de' cosí fatti sonetti:

 
Lucido mio piropo! E quando mai
Potrò stemprarti in olocausto il core?
Tu rintuzzi del sol fulgidi i rai,
Oroscopo fatal del pronto ardore.
Io t'offersi la fede e già passai
Per smeraldi di fuoco al ciel d'Amore,
Sollecito amatore il pié portai
Sotto i vestigi tuoi ricco d'onore.
Circonciso mio lume, ahi ch'io t'adoro
Funerato fra bende oscure e nere,
E mentr'io t'amo piú languisco e moro!
Vessillario son io di tue bandiere;
La fiamme mie velate alzo al martoro,
Solennizzando il cor vittorie intiere64.
 

Ma benché pentita e ammalata la Tarabotti persistette ad amare, se non gli uomini, il mondo, e piú la sua fama di scrittrice. E quando a quarantasette anni si sentí vicina a morire scrisse alla amica Betta Polani: “Perché il peregrinaggio della mia vita è giunto alli ultimi confini di questo mondo, a voi, che siete stata assoluta padrona della parte piú cara di me stessa, mando li miei scritti, che sono le piú care cose ch'io abbia e che mi rincresca di lasciare. Direi che fossero bruciati, ma qua dentro non ho di chi fidarmi. Le contemplazioni dell'anima amante, La via lastricata del Cielo, e La luce monacale sieno stampate, se cosí piace a voi; il resto sia gettato nel mare dell'oblio: ve ne prego in visceribus Christi… Amatemi se ben morta, e addio per sempre„65.

Oh s'ella avesse potuto trar seco nella tomba tutte le copie di quell'Antisatira in risposta al Lusso Donnesco del signor Francesco Buoninsegni, che per poco non le aveva sciupata ancora vivente quella celebrità a cui, approssimandola la morte, desiderava lasciare il suo nome per l'età sua e per l'avvenire!

Udite pettegolezzo, il quale, tanto era vano il seicento, parve rumore di gravi casi.

56Leti, Lett., II, 3. – Critica, storica, politica, morale, economica e comica su le Lotterie antiche e moderne, Amsterdam, 1697.
57Lo scolare, Dialoghi di Annibale Roero, l'Augusto Intento, ne' quali con piacevole stile a pieno s'insegna di fare eccellente riuscita ne' piú gravi studi, et la maniera di procedere honoratamente. Pavia, G. B. Dismara, 1604: in-8.
58Della Carrozza di ritorno, o vero dell'esame del vestire e costumi alla moda, di Giovanni Tanso Mognalpina (Agostino Lampugnani): Milano, Lodovico Monza, 1650; in-12., pag. 47. Mi giovò anche la Carrozza da Nolo dello stesso: Venezia, Zenero; 1648: in-12. A proposito delle mode parigine del suo tempo il Marini scriveva una lettera curiosa a don Lorenzo Scoto. Vedi Lettere del M. (ediz. 1627), pag. 177. Delle mode femminili “attraverso i secoli„ scrisse articoli la Contessa Lara nel periodico La Tavola Rotonda (1891-92): vedi in proposito il n. 8. Anche: A. Robida, Mesdames nos aieules, Paris, Librairie Illustrée, 1890.
59Cosí Carlo Celano negli Avanzi delle Poste.
60Ghiselli, op. cit., T. XXX, pag. 232.
61Vedi la Storia del Giorno di G. Parini scritta da G. Carducci.
62Cicogna, Iscrizioni Veneziane, I, 135.
63Non tutte queste opere furono stampate. Cicogna, op. cit.
64Ang. Aprosio, La Biblioteca Aprosiana (Bologna, Manolessi, 1673), pag. 173; Tarabotti, Lettere, p. 207.
65Arc. Tarabotti, Lettere famigliari e di complimento: Venezia, Guerigli. 1650: in-12.