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V

Gaspare Bicci non si era mai proposto il pericoloso mestiere del conquistatore: nè mai si sarebbe imaginato di navigare per il mare della colpa a vele così gonfie, con tanto vento in poppa e a sì grande velocità. Troppa grazia! Perchè una mattina Silvia gli gettò le braccia al collo in un impeto d'allegrezza annunciando: – Siamo liberi!

C'era da spaventarsi. Liberi?.. come?

– Sì. Lui va in montagna per un ponte che s'è rotto, non so dove. Resterà fuori un mese e mezzo!

La libertà inattesa, per la quale si sottraeva all'usato giogo, la inebbriava, l'ammattiva.

– Ne vogliam fare di tutte le sorta! – ella esclamò. Pensò Gaspare che quand'anche proseguissero a farne di una sorta sola, bastava.

E Silvia, ridendo, soggiungeva:

– Figurati che lassù c'è solo una lurida osteria! Dormirà male, mangerà male, etc.: astinenza in tutto. Che castigo!

Ancora una volta la fortuna, per favorire un uomo, ne costringeva un altro – povero diavolo! – a disagi e a danni, e un po' ripugnava a Gaspare la soverchia letizia della bella. Tradire il marito poteva essere, sì e no, una perdonabile colpa; ma deriderlo e compiacersi del suo malanno, era davvero mancanza di generosità. E se dopo appena un mese che aveva il merito di confortare la signora Silvia, Gaspare Bicci teneva l'ingegner Tredòzi per un «povero diavolo» e l'ingannarlo giudicava una colpa, per quanto perdonabile, Gaspare Bicci non poteva dunque più negare a sè stesso che già gli sbollivano i primi ardori. Anzi, al sentimento della cattiva azione che commetteva, a un senso di profanazione che per quella tresca faceva al recente lutto, e all'amarezza del possesso diviso, gli si aggiungeva il timore d'un vincolo indissolubile. Silvia non dubitava neppure d'un lontano abbandono. «Ci ameremo anche quando saremo vecchi, per l'amore d'adesso» – ripeteva. Vecchi?

Egli contava i suoi anni: ventitrè; e gli anni di lei: ventotto o ventinove o trenta; e della differenza misurava l'entità nell'avvenire; e in proposito all'amore eterno si chiedeva se, caso mai, non fosse predisposto da natura ad amar eternamente una bionda piuttosto che una bruna, quale la signora Silvia.

Però a riflessioni più gravi lo condusse l'assenza dell'ingegnere. Silvia, da amante saggia che era, diventava pericolosa.

Strana donna! Prima, piangeva il suo fallo; temeva l'onta; raccomandava cautele.

– È geloso? – domandava Gaspare.

– Non so; non gliene ho mai data occasione. Ma so che non mi stima e io voglio che mi stimi a suo dispetto.

Onesta per dispetto!

– E tu – chiedeva lei – mi stimi?

Meno dell'altro; sebbene sentisse il dovere di rispondere: – Sì.

– Io tradisco un uomo – mormorava lei.

E lui:

– E io non t'aiuto forse a tradirlo? – Ciò che significava chiaramente: «dimandami se io stimo me stesso, e ti dirò la verità anche per te».

Ora, questa donna che pretendeva stima fin dall'amante, lontano che fu il marito volle a ogni costo informare il mondo che aveva un amante lei pure. Non solo lo traeva a gite in campagna, all'uso (secondo i romanzi) di Parigi: l'obbligava ad accompagnarla nei luoghi cittadini più frequenti; ivi gli dava del tu non a bassa voce o a voce troppo bassa; ivi pareva cercare le amiche perchè la vedessero. Inutilmente Gaspare l'ammoniva: – Giudizio! Qualcuno ne parlerà a tuo marito; qualche voce gli arriverà all'orecchio. – Silvia scrollava le spalle: – Ti amo! Alla peggio, mi ammazzerà, o io fuggirò con te. – Due cose da mettere i brividi solo a pensarle; e nè l'una nè l'altra sembrava la peggiore di tutte: la peggiore, la più probabile, era per Gaspare una terza: una revolverata a lui, Gaspare!

Bicci pertanto cominciava a stancarsi di quel fortunato amore; già desiderava, invocava il ritorno di Tredòzi, affinchè Silvia rientrasse nei limiti della discretezza.

*

Quando mai Gaspare Bicci ebbe un desiderio che, pur senza sua grande intenzione, non gli fosse esaudito?

Egli e Silvia una mattina, soli (la serva era uscita per le spese), stavano discorrendo del più e del meno e non attendevano al mal tempo e alla pioggia dirotta, allorchè un'improvvisa tremenda scampanellata li interruppe.

– Lui!

Gaspare non disse nulla: trovò; si mise il cappello in testa.

– Che sia proprio lui? Una seconda scampanellata.

– Dio!.. Nasconditi; subito!

– Dove?

– Sotto il letto;

Già egli era ginocchioni, col cappello in testa.

– No! Meglio nell'armadio! – Mentre ve lo spingeva e ve lo rinchiudeva, Gaspare sentì di odiare quella donna… E una terza scampanellata, lunga, atroce… Poscia, dall'armadio, si udirono avanzare le voci; bestiale l'una; fioca l'altra.

– Corpo di…! Son bagnato da capo a piedi, e tu mi lasci fuori al fresco!

– Non avevo sentito; soffro tanto, oggi!

– Si vede: sei gialla. Cos'hai?

– Vertigini.

– E io? Almeno almeno mi sarò presa una polmonite, causa tua! – Tossiva. – Maledetto il tempo, il ponte, la Provincia, il Governo! Auf…! – Sbuffava. – Presto! una camicia; un paio di mutande… Alle dieci debbo essere in prefettura! – Gridava. – Camicia! Mutande!

E quindi la voce fioca:

– Ecco la camicia; ecco le mutande.

Due tonfi: di scarpe che cadevano sull'impiantito.

– Presto: le altre scarpe! l'abito nero! il cappello sodo!

E Silvia, dopo un poco; dopo un'eternità per Bicci, là dentro:

– Ecco le scarpe; ecco il cappello.

– L'abito!

– Lo cerco.

– Dove lo cerchi? nel comò? È nell'armadio!

– Credo d'averlo messo io nel comò, l'altro ieri.

– Spicciati!

Ma:

– Non c'è.

Allora il marito cadenzando la parola con ira:

– È nell'armadiooo!

– No, ti dico!

– Sì, ti dico!

Due passi di lui a quella volta… alla volta dell'armadio. La vita di Gaspare Bicci s'atteneva a un ultimo filo di speranza: Se il marito tradito era in mutande, non poteva avere indosso il revolver; a prenderlo occorrerebbe un certo tempo… Ma uno strido modificò la catastrofe.

– Oh Dio! Muoio! Un po' d'acqua!.. Presto!.. Dell'aceto! Muoio!

Il marito esclamò, più forte della moglie:

– Sei matta?

– Per carità!.. Aceto!.. Muoio, muoio!..

– Io non ho tempo da perdere!.. Cristo!.. Dov'è ora l'aceto?

– In cucina; corri!.. Oh Dio!.. Ah…

················

Gaspare spingeva. Ella aperse.

– Scappa – disse – e chiudi l'uscio!

VI

Tira e tira, poichè l'uscio d'ingresso non si chiudeva, a chiuderlo con istrepito Gaspare preferì trarlo accosto. Ma uscendo, il marito al quale pareva d'averlo chiuso lui, si meravigliò e collegò un primo sospetto alla storia dell'abito che la moglie aveva voluto non fosse nell'armadio e allo svenimento improvviso; sicchè i sospetti crebbero.

– Per persuaderlo – disse poi Silvia a Gaspare – ho dovuto svenire altre due volte, dopo desinare.

Ebbene, tutto ciò era brutto, era immorale! Le scampanellate; il rifugio nell'armadio; gli svenimenti sapevano di pochade; e assistendo alle pochades Gaspare aveva riso sempre, di gran gusto, ma non gli era mai parso bello imitarne gli eroi. S'aggiunga che nella vita diviene non di rado tragedia quel che in teatro equivale alla pochade; e Tredòzi non aveva faccia d'uomo da lasciarsi prendere pazientemente in giro.

Tredòzi sospettava: perciò Bicci aveva il dovere di ridar la pace a un uomo e di salvare la vita anche a una donna; e perciò bisognava, anzitutto, allontanarsi, essendo la vicinanza che eccitava a pazzie l'innamorata. Bisognava, magari, mutar casa.

Veramente a cambiar residenza stimolava Gaspare un secondo motivo, che non avrebbe confessato neppure a un amico intimo, neppure a Luigi.

Ed era questo: due notti addietro egli aveva preso sonno prima d'aver spento il lume e facendo per spegnerlo in un intervallo di risveglio, gli era comparsa dinanzi una donna bianca, o meglio, un'imagine, una larva che lo guardava con occhi stupiti e dolenti quasi di non riconoscerlo. Balzato a sedere sul letto, la fantasma si era dileguata súbito. Un'allucinazione senza dubbio. E la mattina dopo ne aveva riso. Ma la sera per precauzione non si era dato il disturbo di spegnere la candela. Ed ecco, a trarlo con freddo orrore del dormiveglia, ecco lo spirito entrare, avanzare adagio adagio, con lo sguardo doloroso e incerto; più vicino, più vicino…

Questa volta egli aveva messo un grido. E lo spirito, via.

Alla visione era seguito nel pensiero di Gaspare un raziocinio: forse quell'anima, non sentendosi da tempo più chiamare per mezzo del tavolino, veniva lei in cerca dello zio Giorgio; onde arguivasi che l'anima dello zio era andata da un'altra parte.

Ma continuerebbero quelle visite spaventevoli?

… Un'insania? Sciocchezze, che la scienza positiva deride?.. Insomma, fosse pazzia o no, per tutta la notte non gli era stato possibile richiuder occhio; e conveniva evitare una malattia d'insonnia, e paure, angustie.

A tempo dunque venivano i sospetti dell'ingegnere. Confermandolo nella determinazione della notte, permettevano a Gaspare d'andarsene e di ridere de' suoi terrori notturni.

Rimaneva una difficoltà. Luigi si rassegnerebbe ad abbandonar la casa ove era invecchiato e dove il padrone era morto?

Mentre Gaspare meditava, Luigi gli venne davanti con aria meditabonda.

– Signorino, questa casa non è più per noi.

Forse anche lui aveva avuta la visione paurosa? O forse il buon uomo, consapevole della tresca, ne temeva lui pure le conseguenze?

Gaspare non interrogò; rispose:

– Hai ragione. Cercheremo un appartamento ammobigliato.

Lo trovarono lo stesso giorno; elegante; in una delle vie principali; a buon prezzo: in casa del cavalier Squiti.

 

Quanto alla signora, essa ebbe una lettera, che Bicci le gettò nel balcone: In casa e nel vicinato tutti sapevano, spettegolavano, malignavano, mormoravano, spiavano. Era inevitabile una tragedia se qualche voce perveniva all'orecchio di Tredòzi. Diveniva obbligo d'un gentiluomo, in tal caso, salvar la fama e la vita d'una signora, allontanandosi. Oltre a ciò, per faccende d'interessi, Gaspare chiedeva a Silvia una licenza di quindici giorni; trascorsi i quali e chetati sospetti e ciarle, riprenderebbero i loro colloqui nella casa in cui egli andava ad abitare, o altrove.

Piacesse o no alla signora, questo era buon senso, questa era prudenza!

VII

Il cavalier Squiti, padrone di casa, alto impiegato della Provincia e persona molto grave, non aveva solo la moglie. Gaspare vide, alcune volte, alla finestra… Che bellezza! Due occhi tra celesti e verdi; capelli biondi; portamento modesto e gentile… Assomigliava alla signorina che si recava al giardino pubblico il dì mortale dello zio Giorgio. Lei?

Forse non era; ma le assomigliava in modo che a vederla una dolcezza grande veniva, per gli occhi, al cuore di Bicci e, insieme, un panico quasi alla presenza di una divinità. Rapidamente, con la rapidità del destino, egli, che dalla brutta tresca aveva avuti incitamenti all'amore buono e al consiglio dello zio, ne rimase conquiso. Tale, infatti, tale gli appariva la donna vagheggiata ne' sogni dai giorni che non conosceva l'amore al dì ch'egli l'aveva conosciuto! Tale era la donna amata e da amare: fatalmente. Bando, dunque, al peccato! Mai più signora Silvia! Pace e salute all'ingegner Tredòzi! E a Gaspare, certo che stavolta era la buona, gli bisognava accertarsi anche se il cavaliere Squiti presto o tardi gli darebbe l'angelica giovinetta in moglie.

Accadde che circa ventiquattr'ore dopo aver visto quell'angelo per la quinta volta, Gaspare uscendo s'imbattesse appunto nel cavaliere, che usciva; e s'accompagnassero per istrada.

Scambiati i soliti complimenti: – Ah suo zio! Che galantuomo! – esclamò l'uno.

E l'altro: – Lo conosceva?

– Eravamo amici. Un po' originale, a dire la verità; un filosofo; ma che cuore, che cuore! E che carattere! Uomini d'antico stampo, caro Bicci!

– Ah sì!

– E che bene le voleva, a lei! A discorrere di suo nipote, ci godeva; proprio come un padre.

– È strano – disse Gaspare: – di me non ne parlava mai con me.

Ma il cavaliere si fermò di botto.

– A proposito: lei, senza dubbio, suona?..

Distratto dal ricordo dello zio o dall'apparente incongruenza di quell'a proposito, Bicci chiese:

– Suono?..

– Il piano?

– Sì, alla peggio.

– Anch'io suono – disse il cavalier Squiti levandosi gli occhiali, pulendone le lenti e rinforcandoli: – non il pianoforte, però; uno strumento più geniale – come dire? – più canoro, più… cordiale.

– Il violoncello?

– No, il clarinetto.

Gaspare si figurò la persona grave del cavaliere col clarinetto in bocca; e tacque.

– Creda a me: la musica è il miglior conforto nelle disgrazie – seguitò l'altro.

– Lo credo.

– Se mi favorirà qualche volta, suoneremo.

Gaspare allora esclamò entusiasta:

– Volentierissimo!

– Stasera?.. Potrebbe?

E gli occhi dello Squiti rifulgevano dietro le lenti.

– Sissignore, posso.

Ripresero la strada; e il cavaliere riprese a dire, senza più sorridere, con tutta gravità:

– Io in casa ci avrei una pianista; ma adesso non ha tempo.

– La sua figliola? – domandò Bicci, al quale battè forte il cuore.

– Non ho figliole: la mia pupilla.

«La sua pupilla? La signorina era sotto la sua tutela?» E Bicci pensò con nuova tenerezza: «Orfana come me!»

– La signorina Roccaforte è per me quel che era lei per suo zio. L'ebbi in casa bambina. Il padre…

Gaspare ascoltava il racconto religiosamente, intanto che benediceva suo zio e il clarinetto.

Poi, essendo già innamorato e con la testa nel cuore, si dimenticò di chiedere allo Squiti perchè la signorina Roccaforte non aveva tempo di sonare.

Nè (importa notarlo?) si ricordava più affatto della signora Silvia. Ah la virtù di ogni amor buono su ogni amore disonesto!

Mai, mai come la sera di quel giorno il giovano Bicci si studiò di rendersi elegante; ed entrò dagli Squiti con grandi palpiti e insieme con la disinvoltura d'un uomo uso al mondo. Ma il cavaliere, che scartabellava della musica, l'accolse solenne; in tono ufficiale lo presentò alla moglie, che faceva la calza. E chiamò ad alla voce:

– Erminia!

Ella dalla finestra (aperta: era di maggio) si fece innanzi, lentamente…

– La signorina Erminia Roccaforte – … e voltosi a un giovane, che la seguiva (oh Cielo!), il cavaliere presentò: – L'avvocato Enrico Griboldi, suo promesso sposo.

– Tanto piacere… – All'imbarazzo di Gaspare, la signorina Erminia sorrise a pena a pena.

– A noi! – esclamò lo Squiti in un'istantanea mutazione di gioia. – Badi che io odio la musica tedesca. Non è mai accaduto a lei, caro Bicci, di odiare una cosa bella?

– Ah sì! – rispose Gaspare, che ora odiava la signorina Erminia.

Il primo pezzo – del Faust – procedè a meraviglia, quantunque le mani di Bicci qua e là affrettassero come un cavallo che abbia amor proprio e cui rincresca restar addietro al compagno. Finito il pezzo, la signora Squiti depose la calza e battè le mani; la signorina avvertì che la gente si arrestava per la strada ad ascoltare; il cavaliere, deposto il clarinetto, abbracciò il compagno dimenticandosi d'esser grave.

– Oh che orecchio! che orecchio!

Ma gli altri pezzi ebbero peggior sorte, per colpa di Gaspare che cadeva in pensieri estranei. Pensava: «Io non sono forse meglio di colui? Si può dire un bel giovane? robusto come me? – Avvocato! – E non sono ingegnere, io? Che meriti avrà? Niente: fortuna! Quest'è fortuna! Una moglie bella – così bella! – ricca; e orfana…; nemmeno la suocera!»

– Pazienza…: Terza battuta: là! – riprendeva il cavaliere.

Al diavolo anche il clarinetto! Bicci sudava: con il freddo nel cuore.

Già infelice, sembravagli d'esser stato sventurato sempre; di dover essere infelice sempre, per tutta la vita; e pativa della più grande sventura che possa capitare a un uomo: quella d'innamorarsi d'una ragazza innamorata e fidanzata d'un altro.

VIII

Assente da lei credeva che il solo contemplarla quale un'imagine di pura bellezza o una cosa intangibile basterebbe a ristorargli l'inedia dell'anima; e vicino, oltre il martirio del clarinetto, che pena la vista dei fidanzati in abboccamenti, in sorrisi, in bisbigli! Era una sconvenienza sociale! Perchè ai fidanzati dev'esser lecito dirsi delle sciocchezze o, magari, parlar male del prossimo a bassa voce, in cospetto del prossimo? Non avevano riguardo quei due nemmeno a una persona giovane, che, in fin dei conti, veniva lì per far servizio al padrone di casa!

Così il povero Gaspare, invece di contemplare, doveva torcere gli occhi altrove; doveva dubitare che gl'innamorati ridessero di lui; doveva resistere alla tentazione di fracassar la tastiera del pianoforte.

Se n'andava. E appena fuori, ogni sentimento d'invidia e d'ira cedeva al desiderio del mirabile viso.

«Siamo seri! ragioniamo!» egli si ripeteva indarno. «Il meglio sarebbe che io mi distraessi.» Ma non trovava il modo; anzi le distrazioni che gli capitavano, gli accrescevano il desiderio d'Erminia. Gliene capitò una, un giorno… La signora Silvia, avendo scoperto il rifugio di lui, vi penetrò.

– Lei… tu!..: qua?

– Traditore! – Ella alzò il velo per mostrar meglio due occhi rabidi.

– … col pericolo di compromettervi? – proseguì lui, trovando il tono giusto.

– Vile!

Ma Gaspare assunse l'aria d'un uomo superiore agl'insulti; freddo, quasi sprezzante.

– Non vi avevo chiesto quindici giorni di libertà? Ho i miei affari anch'io; avevo, ho bisogno di tranquillità, di riposo.

– Ah Gaspare, Gaspare!

Ora gli occhi si riempirono di lagrime e fiammeggiarono; a un tempo, lagrime di duolo e fiamma di tentazione e di colpa.

– Tu, Gaspare! Chi me l'avrebbe mai detto! Non l'hai dunque l'anima? Dodici giorni senza passare sotto le mie finestre! Senza scrivermi nemmeno una riga!

Il dolce rimprovero lo punse più che le offese. Deliberato tuttavia a finirla, Bicci, che voleva finirla da gentiluomo, esclamò:

– Silvia! Debbo dirvi la verità. A me, uomo leale, rincresce offendere un uomo leale com'è l'ingegner Tredòzi! Ecco tutto!

A quest'affermazione Silvia avvampò più che a uno schiaffo.

– Ecco tutto? Tu menti! Non avevi scrupoli prima, quando… Tu menti! Adesso capisco che non mi ami più!

Infatti, che cosa ha mai a che fare la coscienza con l'amore?

– … Adesso voglio saper il resto; proprio tutto! Perchè abbandonarmi?.. Dimmene la causa vera, subito! – L'investiva, inviperita. – Subito!

Che dirle? Rispose:

– Che volete che vi dica? Incompatibilità di carattere: voi siete piena di fuoco; e io…

– Bugiardo! Incompatibilità di carattere non può esserci che tra marito e moglie! La ragione vera le la dirò io! Tu hai una nuova amante!

– No; ve lo giuro.

– Spergiuro! Infame spergiuro!

Era inutile discutere quando non valeva giurare. Gaspare non aveva ancor scosse le spalle che già Silvia gridava:

– Ah, tu credi che tutto sia finito tra noi? T'inganni! Io ti detesto, ma io ho dei diritti su di te; fra noi due c'è un vincolo; un vincolo morale!.. – (Lo chiamava un vincolo morale!) – Tu mi hai sedotta!.. C'è il vincolo del rimorso fra noi, e se scoprirò che tu hai un'amante, ti caverò gli occhi; a te o a lei; così imparerai a conoscere le gentildonne!

Su l'uscio, calato il velo, si rivolse per ripetere: – Io sono una gentildonna! – E partì, finalmente.

… Se non che Bicci non gioì neppure della liberazione da quel giogo. Soggiaceva perduto, affannato, disperato a un maggior peso, all'amore fatale e contrastato dal destino. E non un amico col quale confidarsi! Avrebbero riso gli amici: un innamorato muove sempre a riso come chi cada goffamente in terra. Lui dove mai era caduto?

Con la testa tra le mani, negli occhi l'apparenza del suicidio, si abbandonò e parlò al solo che lo compiangerebbe.

– Sono innamorato, Luigi.

Luigi si mise a ridere.

– Eh, lo so da un pezzo!

– Della signora? Di quella dell'altra casa? – esclamò Gaspare, abbattuto. – Credi di quella?

– Di tutt'e due: di quella e di questa.

– No no: solo di questa qui, della signorina – egli protestò – ; ed è già impegnata!

Allora Luigi chinò lo sguardo, quasi pensasse ch'essere innamorato di una sola fosse un malanno assai più serio. Poi disse:

– Perchè non andiamo in campagna? A mutar aria…

Il consiglio era semplice e buono; e la lontananza, gli svaghi campestri, la caccia, il ristauro della villa potrebbero davvero guarirlo. Alla fin fine, non sarebbe una corbelleria morir d'amore?

IX

Una corbelleria senza dubbio. Ma intanto che passava il tempo, la cotta permaneva. La passione del nipote diveniva una passione più grave, più affannosa forse che quella del povero zio! Perchè se Erminia fosse morta dopo avere amato lui, com'era accaduto allo zio, meno male! Erminia invece non lo amerebbe mai: Erminia amerebbe sempre quell'altro! E Gaspare era innamorato in modo che quando, in certi momenti, credeva d'esser guarito e si rallegrava tutto, ecco d'un tratto tornargli la parvenza cara e nemica, e con essa quella pena al cuore come di un male che, dopo un breve assopimento, rincrudisce; un'amarezza quale di torto ricevuto o di oltraggio patito; una intollerabile smania di rivedere in realtà l'amata donna; una rodente gelosia. Oramai egli non si diceva neppur più uno stupido, convinto sempre più che Erminia era per lui la donna unica; che lei, proprio lei aveva incontrato al passeggio nel giorno funesto; che altre bionde così belle o più belle ne potevano esistere, ma che egli non avrebbe potuto amarle; che, quasi quasi, l'amore è più forte del buonsenso. Essendo perciò impossibile la guarigione e assurda ogni speranza, Bicci aspettava il compimento del suo destino, qualunque si fosse. E compieva frattanto il ristauro della villa; il quale era proceduto a meraviglia.

Appunto la mattina di quel memorabile giorno – 26 luglio – egli se ne stava tra gli operai allorchè Luigi gli portò la posta. C'era, coi giornali, un annuncio di morte. A Gaspare – sempre triste – parve di veder l'annuncio della sua morte; ma, aperto il foglio e letto il nome – oh! – rimase lì stordito, sbalordito, e non di dolore. Oh gioia! A precipizio, come pazzo, discese e corse dietro a Luigi.

 

Dentro, una voce gli gridava: «jettatore! jettatore!»; eppure un'onda di gaudio gli travolgeva ogni pensiero; gli travolse ogni sentimento umano; e, in un abbraccio all'amico servo, con lagrime ferme su gli zigomi – lagrime di felicità – gridò:

– È morto!

– Chi?

– L'avvocato Enrico Griboldi!

*

Ebbene: tosto che gli fu scemata la grande commozione, Gaspare, con moto quasi inconscio dell'animo, riuscì a conciliare l'amore al buonsenso.

Riflettè che per una ragazza il perdere un «ottimo partito», non in colpa sua, sì della morte, giova di réclame: e che egli, se non fosse se cauto, poteva restar privo d'Erminia un'altra volta. «D'altra parte – riflettè – si consola più presto una vedova propriamente detta che una fanciulla vedovata prima del tempo ed inesperta»; e però gli bisognerebbe aspettare.

– Quanti mesi?

Gaspare non temeva d'offendere la bontà di Erminia augurandone più breve che fosse possibile il cordoglio.

E verso la metà di settembre Gaspare fu a trovare in ufficio il cavalier Squiti; che, desolatissimo, gli disse:

– Morte fura i migliori e lascia stare i rei.

Rimorso come reo, Gaspare parlò sinceramente, in un'induzione dal caso singolare a un genere di sventura.

– Ha ragione, signor cavaliere. Che cosa terribile dev'essere morire nella pienezza della gioventù! con uno splendido avvenire! amato!..

– Per fortuna – rispose il cavaliere, – Griboldi è morto senza saperlo, d'una meningite acuta!

– Meno male! – fece Bicci. Dopo chiese, pallido: – E la signorina?

L'altro scosse il capo.

– Sempre lagrime; sempre sospiri; non vuol più veder nessuno; non esce di casa: un martirio! Le è venuto a noia anche il clarinetto. anche la musica, che è il miglior conforto nelle disgrazie.

«Aspettiamo», si ripetè Gaspare. Infatti non tornò ad abitare a Bologna che al termine dell'ottobre.

Ah che battaglia, la prima visita! Dirle: – Mi condolgo – oppure: – Signorina, le mie condoglianze – gli repugnava; non poteva. Egli salutò e tacque, senza sospirare; Erminia tacque, volgendo gli occhi a terra; la signora Squiti sospirò e taceva. Finalmente – poichè il silenzio si prolungava un po' troppo – Bicci ebbe una espressione felice: – Povero giovane!

Allora la signorina scoppiò in singhiozzi e la signora intraprese l'elogio del morto. Annuiva Gaspare ad ogni lode, e gli costava così poco!; ma spesso gli occhi gli sfuggivano a guardar la dolente; e pensava: «O il dolore è per le donne, o le donne sono per il dolore: diventano più belle!»

Quella visita, insomma, fece bene a tutti e tre; di guisa che la Squiti, accompagnandolo sino alla porta, gli susurrò:

– Lei abita in casa nostra; lei è un amico di casa, e la sua compagnia ci sarà di sollievo. Se ne ricordi.

– Non dubiti, signora.

Gaspare non chiedeva di meglio. Non di rado però nelle seguenti visite quotidiane, non volendo mentire o mentir troppo, fu per smarrire la bussola. Poco giovava che la signora Squiti s'appigliasse a tutti gli argomenti, se tutti i discorsi cadevano nel muto affanno d'Erminia.

Come Dio volle, egli ebbe un'idea.

– Perchè non si prova a leggere, signorina?

– Non posso; no; è impossibile!

– E se leggessi io?

– Anzi! – disse la signora Squiti; – distrarrà anche me. Bravo, signor Bicci!

E Gaspare andò a leggere ogni giorno.

Dava tempo al tempo. Venne il dicembre; si avvicinarono le feste natalizie. «Quanto saranno tristi per lei! – Bicci pensava. – Non la conforterebbe sapere che io l'amo, anche se lei, per adesso, non abbia voglia di far all'amore?»

Còlto quindi un momento che la signora Squiti non v'era, egli interruppe una lettura per guardare Erminia negli occhi. I quali si abbassarono; subito il bel volto si afflisse. Non era un'esagerazione, oramai? Un po' troppo, via!..

– Come lo ha amato! – esclamò Bicci perdendo la bussola.

– No – Erminia rispose in modo semplice e in tono tranquillo.

Ora parve a Gaspare di cader dalle nuvole.

E lei:

– Io gli volevo molto bene.

E poichè Gaspare non capiva, ella si spiegò:

– A me sembra che amare significhi più e meno di voler bene. A Enrico io gli volevo bene, perchè egli mi amava; ma sono certa che divenuto mio marito mi avrebbe anche voluto bene. Capisce?

Gaspare avrebbe capito subito, se non fosse rimasto perplesso a chiedersi: «E io che cosa dovrei dirle? Che l'amo, o che le voglio bene?» Tuttavia, a poco a poco, la luce si fece nel suo cervello. Evidentemente, pur volendo bene assai al Griboldi, Erminia non ne era molto innamorata. Perbacco!.. Quasi spinto da una molla allora balzò in piedi:

– Signorina! Questo ufficio di consolatore mi è odioso!

Ella interrogava con lo sguardo, stupita.

– L'amo! Io l'amava due giorni prima di sapere che lei era fidanzata; forse l'amavo avanti di conoscerla! Io l'amai solo a vederla, un giorno che lei andava al giardino; e adesso che la vedo soffrire, l'amo e le voglio bene!

La signorina, fredda, rispose:

– Me ne dispiace per due ragioni: la prima, perchè adesso il mio cuore è di pietra; la seconda, perchè, dopo quello che lei mi ha detto, io debbo pregarla di cessare le sue visite.

– Oh questo poi no! – esclamò risolutamente Gaspare. – Io non vivo senza vederla! Muoio anch'io! Mi conceda la grazia che io la veda ogni giorno…

Ella taceva.

– Signorina…

Gli occhi a terra; e zitta.

– Me la fa la grazia? – ripetè Gaspare a mani giunte, attendendo.

Per fortuna, nell'entrare, la signora Squiti s'arrestò, trattenuta da un improvviso sospetto; così Erminia dovè concedere due grazie in una volta.

– Sì. – E alla signora Squiti: – Il cavaliere – ella disse – può riprendere il clarinetto.