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La fortuna di un uomo

I

Lo zio Giorgio Bicci era noto a Bologna quale curioso tipo di patriotta, di filantropo, di pensatore profondo e di parlatore arguto. Se fosse stato uno scrittore, gli eruditi l'avrebbero forse assomigliato a qualche filosofo umorista moderno e accusato di plagio, quantunque egli non leggesse che i classici latini e i giornali quotidiani. Scapolo e scettico, come in molte cose, intorno alle donne, viveva d'amore e d'accordo con soli il servo Luigi e il nipote Gaspare. Ma questi, al contrario dei più, non poteva credere che lo zio non avesse mai amato alcuna donna.

Essendo ancora ragazzo, una sera tardi, dalla sua camera Gaspare aveva udito una voce angosciosa esclamare sommessamente:

– Figlia mia!..

Ond'egli, per la curiosità che è comune a tutti i ragazzi e che di lui era il difetto più grave, aveva spiccato un salto dal letto ed era corso a spingere lo sguardo per la serratura dell'uscio. Oh! Di là, nella sala attigua, al fioco lume della lampada, una signora vecchia in vesti nere, lo zio Giorgio e un terzo stendevan le mani, a contatto, su di un tavolino, e il tavolino sembrava che ballasse!

A tal vista e alla vista dello zio coi capelli irti, gli occhi accesi e fuori delle orbite, la faccia pallida e contraffatta, Gaspare era ritornato subito sotto le lenzuola, giurando di non scrutare mai più che diavolo si facesse in casa a certe ore notturne; già guarito, e per sempre, del suo difetto più grande. Nè soltanto a ciò gli valse quella paura, perchè nell'avanzare degli anni e nel meditare su quel ricordo fanciullesco si convinse che se lo zio aveva avuto tale orrore dall'esperimento spiritico, certo era meglio lasciar in pace i morti e non confondersi nel mistero della morte; e anche si convinse che se lo zio aveva amato una donna sino a rievocarla in quel modo, con l'aiuto della madre di lei, certo era bene non innamorarsi così appassionatamente.

Quanto a Luigi, meglio che servo, poteva dirsi amico dello zio Giorgio. Commilitoni nelle schiere di Garibaldi, avevano combattuto l'uno a fianco dell'altro; inoltre, il secondo aveva prestato quattrini al primo; e come questi, da ignorante qual era, non dimenticava i benefizî, quegli, da filosofo qual era, si affezionava ai suoi debitori, dimentico dei crediti.

In più d'una battaglia Luigi, il servo, aveva sospettato che il compagno cercasse la morte, e il signor Bicci che il compagno volesse salvargli la pelle. Solo alla presa di Palermo, sul ponte, erano stati divisi nella mischia; ma il domani, dopo lunghe ricerche, l'incolume aveva rinvenuto il ferito all'ospedale: ferito al ventre e a una gamba in modo che si credeva impossibile rattopparlo. Ne rincresceva allo zio Giorgio; e più gli rincresceva che a Luigi, esuberante di giovinezza e di energia, dovesse spiacer molto il morire; e, con cuore di filantropo e con mente di savio, s'era proposto di prepararlo al passo dubbioso affinchè lo varcasse meno malvolentieri.

– Morire per la patria, in campo di battaglia o dopo la battaglia, è sempre glorioso e dolce.

Fra gli spasimi Luigi rispondeva:

– Una delizia. Ma io non muoio!

– Speriamo – augurava l'altro. Poi seguitava: – Non credere, del resto, che la morte sia brutta come dicono i deboli. Seneca… – e aveva tradotto la sentenza dello stoico.

E Luigi:

– Il suo Seneca può dir quel che vuole; ma io non muoio!

– Quasi quasi non te lo augurerei, di vivere – disse il signor Bicci. Poscia tentò una nuova via: – Morte, che sei tu mai? Ciro Menotti, caro Luigi, recitava il sonetto del Monti nell'andare alla forca.

– Ma io non recito niente, perchè io non vado alla forca: sto qui: non muoio!

– Forse. Quando però non si riuscisse a salvarti, non dubitare che io, di ritorno a Bologna, porterò i tuoi saluti e dirò le tue ultime volontà ai tuoi fratelli.

A questo punto Luigi si drizzò a mezzo del letto.

– Perdio, vuol capirla sì o no? Non muoio! non muoio! non muoio! Se non lo so io, chi l'ha da sapere?

– E tu vivi! – gridò non meno forte lo zio Giorgio, perdendo la pazienza. – Ma la tua vita, bada, sarà legata per sempre alla mia, che non importava t'incomodassi a difendere! Chi sta bene al mondo ha l'obbligo sacrosanto di tener compagnia a chi ci sta male. Hai capito?

II

Quantunque sappiamo tutti che la perdita dei genitori è il più gran dolore umano, sarebbe disumano dir fortunato Gaspare Bicci perchè nacque postumo e perdè la madre non ancor giunto agli anni della discrezione. Egli però riconosceva che per lui, orfano, era stata una fortuna grande l'aver avuto a fargli da padre e da madre, con alterna vicenda, a seconda dei casi, lo zio Giorgio e Luigi.

Riandando gli anni della puerizia e dell'adolescenza, Gaspare non vedeva che rose senza spine. Fin delle scuole e degli studi, che angustiano e deprimono tutti i ragazzi, serbava grata memoria; così per tempo aveva saputo adattarsi alle necessità del mondo; tanto affetto gli era rimasto dei buoni maestri; tanto agevole gli era parso ciò che appariva disagevole agli altri. A superar gli esami tranquillamente lo zio Giorgio gli aveva dato in aiuto un vecchio precettore, il quale valeva una mediocre enciclopedia; e a guida negli svaghi e nei sollazzi gli aveva concesso Luigi, che gli lasciava lungo il guinzaglio.

Quando di guida non ebbe più bisogno – all'età cioè, in cui tutti pericolano – lo zio lo sorresse donandogli trattati d'igiene e trattati intorno le cause e le forme di morbi insanabili: per di più, le precauzioni non essendo mai troppe, gli regalò il codice penale. Così Gaspare crebbe sano di mente e di corpo; non di molto ingegno, ma abbastanza da comprendere che il grande ingegno rende infelici; abbastanza di cuore da commiserare il prossimo suo, ma non tanto tenero da patir danni, a mo' dello zio Giorgio, per gli altri; abbastanza di buon senso da persuadersi che i desideri superiori ai mezzi tolgono quiete e pace, e da scorgere in sè e fuori di sè prove indubbie della sua buona fortuna.

Oltre a questo, anzi prima di ogni cosa, chi non gli avrebbe invidiata la nativa arrendevolezza ai bisogni, alle convenienze, alle contingenze, ai consigli della ragione?

Gaspare Bicci non si preoccupò nemmeno delle due sole pretese in cui lo zio Giorgio insisteva. L'una: che suo nipote dimostrasse come i ricchi debbano servire la patria ugualmente ai poveri e come l'anno di volontariato sia un'ingiustizia e una vergogna; l'altra: che suo nipote conseguisse una laurea. «È vero – diceva – che troppe volte è meglio un asino morto d'un dottore vivo; ma giacchè gli asini vivi superano i dottori vivi, e quelli credono aver necessità di questi, è lecito trar partito dal comune pregiudizio.»

Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi, scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se stesso con un diploma d'ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene che i volontari d'un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito, diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari. Niente, dunque, volontariato!

La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell'avvenire gli era così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.

Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la prima volta nell'animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s'incagliò nella traduzione del greco; s'ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale. E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.

E passò un'altra ora. Poscia uno consegnò il cómpit; quindi, in breve, molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà quel che sarà!»; e chi con viso lieto: «anche questa è fatta!»; e tutti con la colazione davanti agli occhi e l'anima alleggerita.

Ma gl'infelici in ritardo s'asciugavano la fronte; si curvavano sempre più sulle sudate carte e sui vocabolari copiosi e indifferenti; inghiottivano, sentendosi mancare le idee, la speranza e la lena, un pezzetto di cioccolata o s'attaccavano alla bottiglietta del cognac; si compromettevano con segni di richiamo e gettiti di pallottoline che recavano in seno una domanda o una risposta, un'invocazione d'aiuto o l'aiuto d'uno sproposito; vedevano, i miseri, la paterna e la materna angoscia.

Gaspare vedeva lo zio Giorgio e Luigi.

A un tratto il compagno di destra mise un profondo sospiro; guardò con, negli occhi, la gioia della vittoria e insieme una luce di carità; poi chiese a Dicci, piano piano:

– E tu?

– Se non ci fosse quest'ottativo…

– A te! copia…; ma cambia le frasi.

… Gaspare Bicci fu ammesso all'esame orale, si salvò anche dal greco; e il compagno che l'aveva disimpacciato, fu bocciato in greco!

L'anno dopo Bicci andò a estrarre il numero di leva.

In un gran camerone, pieno di fallaci speranze e d'un'allegria fittizia, egli attendeva rassegnato e tranquillo.

– Bicci Gaspare!

… Alla peggio, diventerebbe e rimarrebbe caporale.

– 824!

– Accidenti!, – fece uno tra i giovani che aveva più vicini; un operaio.

Parve a Gaspare di leggergli in viso il presentimento che non toccherebbe a lui ventura simile; a quel povero giovane, che col padre o la madre o i fratelli piccoli da mantenere, agognava un numero alto e n'aveva necessità, per rimanere in terza categoria.

Bicci, tra impietosito e curioso, volle aspettarne la sorte; e con un cordiale augurio ne accompagnò la mano entro l'urna.

 

– 12!

«Jettatore! jettatore!»

Ah era un dubbio assai triste! Quasi per un pudore arcano, Gaspare non osava confidarlo nemmeno allo zio; non prevedeva che questi l'avrebbe consolato subito in quattro parole: La jettatura è un pregiudizio così stupido che fa torto all'intelligenza degli uomini cattivi e alla bontà degli uomini poco intelligenti. Quanto alla fortuna, sia o non sia sottoposta alla divinità, essa è una potenza innegabile. Bada però che è relativa: che, cioè, la fortuna dell'uno è quasi sempre la disgrazia dell'altro; e che ciò che ci sembra fortuna oggi, ci sembrerà disgrazia domani.

Questo, o press'a poco, gli avrebbe detto lo zio. Ma Gaspare si consolò da sè per una diversa riflessione: dal non avere egli mai un forte mal di capo; dal non prendersi neppure un grosso raffreddore, non dovevan conseguire le pleuriti e le polmoniti altrui.

Per fortuna non conosceva dei medici i quali gli dicessero che, secondo la scienza moderna, anche il raffreddore è un'infezione, la benefica natura distribuendo nell'aria, per gli uomini e per le bestie, moltitudini di microbi frigoriferi; onde se la fortuna risparmia qualche suo prediletto dall'ingoiarne, tanti più ne rimangono, di microbi, a danno degli altri uomini e delle altre bestie.

Gaspare tuttavia non credeva d'essere un uomo fuori del genere o sottratto alle conseguenze del peccato originale, ed era appena uscito dal dubbio della jettatura che cadde in un timore più forte. Ricordava che suo padre e sua madre, di cui riteneva la sanità del sangue e della fibra, eran morti giovani entrambi per malattie casuali e violente. Non avrebbe egli la medesima fine? Sarebbe come un rovescio tutto d'un colpo; come una giustizia sommaria che lo rimetterebbe nella regola dell'infelice destino umano!

E per evitare un tal colpo egli era condotto a desiderare qualche piccola disgrazia: una piccola malattia, un fiasco alla Scuola di applicazione.

Ma che! Il diploma d'ingegnere l'ottenne, se non con lode, senz'infamia. Non ebbe subito impiego; ma non lo cercò, avendo modo di vivere modestamente, di leggere romanzi, disegnare, dipingere alla meglio, suonare alla peggio il pianoforte e andare a spasso: di vivere, insomma, senza far nulla. Nè si ammalò lui.

Una sera lo zio Giorgio venne a casa male in gambe, e con un gran freddo addosso.

III

La malattia dello zio Giorgio fu breve, forse perchè non ne aveva avute altre mai in vita sua.

Sentendo irreparabile il danno del morbo e prossima l'ora, parlò al nipote con la serenità d'un savio antico. E disse:

– Un savio ti esorterebbe a vivere secondo il suo esempio; io, al contrario, non so proprio che consigli darti.

Disse Gaspare:

– Ci penserai quando sarai guarito. Adesso sta tranquillo.

Ma l'infermo, volgendogli uno sguardo in cui languiva il sorriso abituale:

– Credi che io abbia paura della morte? No no. Muoio volentieri: rerum novarum cupiditate. E poi, son convinto di aver già sofferto abbastanza.

Nella faccia serena gli si vedeva ora che aveva sofferto molto, povero zio Giorgio! Seguitava:

– Tu, per soffrir meno, provati a fare in molte cose il rovescio di quel che ho fatto io. Ama te stesso un po' più del prossimo tuo. Non dubitare di un Dio giusto e misericordioso, e per crederci fermamente, non dimandarti mai se ci credi fermamente. Non confidar troppo nella scienza, perchè in fondo a ogni vero che essa scopre, rimane un mistero. Prendi moglie…

Gaspare, a cui sino a questo punto pareva non aver udito nulla di nuovo, spalancò gli occhi.

– Prendi moglie. Una buona moglie è una vincita al lotto, lo so; ma, non ostante il calcolo delle probabilità, al lotto qualcuno vince. Del resto, se molti mariti sono ingannati, tutti gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano… In politica, sii conservatore: è il solo partito che progredisca senza che nessuno se n'accorga; e nessuno l'incolperà mai di mutar bandiera o di retrocedere… Ama l'arte, ma sta lontano dagli artisti. Ama la poesia, ma temi la fantasia tua più d'ogni altra cosa, dopo Dio…

E l'affanno gli spense la parola: cadde affranto. Non giovando a risollevarlo dimanda alcuna, nè sorsi di marsala, Gaspare mandò súbito per il medico.

Questi, che di grande appetito faceva colazione, credette lo disturbassero per un vano timore; cosicchè, quando arrivò, trovò l'infermo avviato a migliorare.

– Coraggio, zio! – disse Gaspare tornando al letto. – Il medico assicura che sei fuori di pericolo.

– Allora… son bell'e spacciato.

Infatti non parlò più che verso sera, allorchè mormorò:

– Vado.

E aggiunse:

– Buona permanenza.

Uno stoicismo sublime! Per ammirazione, per emulazione quasi, cordialmente, Gaspare avrebbe forse risposto: – Buon viaggio – se Luigi, dall'altro lato del letto, non fosse scoppiato in singhiozzi costringendo a singhiozzare anche lui.

Intanto l'anima onesta voleva andarsene, ma il corpo, con le fibre che gli avanzavano salde, la tratteneva in un supremo sforzo e in un'agonia penosa; sì che, a ogni minuto, Gaspare sperava lo strappo finale. Per fortuna i minuti furono pochi.

– Zio!.. zio!

Passato che fu, Gaspare e Luigi gli chiusero gli occhi, uno per uno, e lo baciarono: prima Gaspare, poi Luigi.

Quindi il servo accese una candela e attese, silenzioso, tutto in lagrime. Attese a lungo; ma come Gaspare, col capo fra le mani, non dava segno di muoversi, nè poteva credersi pregasse ancora o meditasse, Luigi gli si accostò.

– Signorino!.. Vuol morire anche lei? Coraggio! Vada a prendere un po' d'aria. Adesso qui…

Alla mente di Gaspare corse la visione delle tristi cose alle quali la morte obbliga i superstiti; nè tardò a pensare, con gratitudine, che l'incarico di quelle cose sarebbe stato suo quando nel servo non avesse avuto allora e sempre il migliore amico.

Frattanto Luigi lo spingeva fuori della camera; e lasciatolo nell'altra, poco dopo vi rientrava con una tazza.

– A lei! Una goccia di brodo…

Gaspare consentì senza voglia. E domandò:

– Ti par proprio che sia morto volentieri?

– Sì; anzi, se non fosse perchè non lo vedremo più…

Gaspare alzò gli occhi al ritratto che pendeva alla parete.

– Per vederlo – Luigi si corresse, – pazienza: c'è il ritratto. Ma non sentir più la sua voce… Quella voce, mai più!..

Gaspare corse a rivedere il morto; Luigi, dietro a lui.

Così:… morto. E l'anima?

Era, quel brutto giorno, una bella domenica alla metà di marzo, al tempo che già ferve per tutto un senso di vita nuova. Solo Gaspare Bicci non se n'accorgeva: andava per la strada affollata, solo, raccolto in sè; quasi sotto un peso opprimente; e dopo aver pensato agli uffici di pietà che gli restavano da compiere e alle forme di lutto da osservare, ripensava al mistero della morte.

Riflettè: «Dovendo morir tutti, ed essendo necessario, per morir volentieri, aver sofferto molto, ecco che anche il soffrire diventa un benefizio. Ma si è sempre a tempo.»

Eppure, lui soffriva; si sentiva stanco, stanco anche nelle gambe. Ah zio, zio! perchè morire? così buono!.. Quand'ecco, a scorgere una carrozza che passava vuota, egli fe' un cenno al fiaccheraio e salì.

– Dove vuoi; per un'ora.

Indi riprese i tristi pensieri. Ma perchè lo zio Giorgio aveva patito assai? Oltre che la passione d'amore, a cui serviva di richiamo il tavolino delle esperienze spiritiche, quali altri guai aveva avuto quel nobile cuore?

A queste dimande risponderebbe forse qualche carta lasciata, per memoria, nello scrittoio; insieme col testamento.

Perchè, senza dubbio, lo zio Giorgio aveva provveduto in bel modo e in perfetta regola alle sue ultime volontà; senza dubbio sarebbe il nipote l'erede di tutte le sostanze, all'infuori di una giusta donazione a Luigi e all'infuori d'alcuni lasciti per beneficenza.

Veramente, nè lui, Gaspare, aveva bisogno di nulla, nè il patrimonio dello zio, il quale troppo per l'addietro aveva speso a pro' della patria e molto sempre, nel beneficare, era cospicuo. Di più: agenti e fattori ladri; disgrazie di grandinate e carestie, etc.

A conti fatti…

Gaspare faceva i conti quasi senz'accorgersene: tanto, la possidenza di Poggiogrande; tanto, la risaia di San Piero; tanto, la villa: una villa malconcia dagli anni, desolata, nell'incuria, laggiù, in una pianura malinconica… Un ristauro sarebbe stato necessario.

In questo mentre il fiaccheraio, libero per quell'ora del suo arbitrio, credè che il più bel luogo ove condurre un signore svogliato e senza meta fosse il giardino pubblico. Ma come Gaspare, a mo' di chi si ridesta d'improvviso, si vide fra la gente che andava al passeggio o ne tornava, rimorso dalla sua sventatezza ordinò in fretta:

– No di qua! Torna indietro!

Ed ecco che, al voltar della carrozza, nel voltar gli occhi…

Dio! che bellezza!

Una signorina bionda; modesta nell'abito semplice; con due occhi tra celesti e verdi, meravigliosi, portentosi! Che occhi!

In un istante, nell'attimo che la carrozza voltava, quegli occhi gli scoprirono in viso una sciagura; indovinarono che egli non aveva nessuno, non madre, non sorella, non moglie a consolarlo; affermarono: io, per consolarvi almeno come moglie, verrei in carrozza, a casa con voi, piuttosto che andare al giardino, alla musica, con la mamma; promisero, quegli occhi, pur mostrando di promettere invano, conforto, pietà, fede, amore! E tutto in un istante!

Inondata l'anima di poesia. Gaspare, se poeta, avrebbe lì per lì composto un inno alla donna in genere; alla donna, del cui sublime ufficio al mondo l'avevano persuaso lì per lì, e per la prima volta, gli occhi di quella giovinetta.

La donna! Fiore che inebria. Carezze e baci. Vaso di consolazione. Incitamento alla vita perchè essa si rinnovi in altre vite. Tesoro…

«Ammógliati»; era questo il miglior consiglio che lo zio Giorgio gli aveva dato affinchè stesse di buon animo, con Luigi.

E quell'incontro istantaneo, quell'occhiata fugace e profonda acquistavano la significazione d'una volontà che così, per divina grazia, si manifestasse e ripetesse subito, d'oltre la terra.

«Ammógliati».

Gaspare Bicci provava nell'animo una impressione quale di carezza lunga, continua; e il suo sguardo a poco a poco avvertiva come un fervore di luce che s'andava definendo in un miraggio di felicità.

IV

Per beneficenza il signor Giorgio Bicci non lasciò nulla; perchè – era detto nel testamento – beneficando in vita aveva voluto vedere il buono o cattivo uso del suo denaro; e per carità cristiana non aveva voluto, beneficando in morte, che nessuno si compiacesse della sua morte. Erede di tutto lasciò il nipote Gaspare; con solo l'obbligo di una donazione al servo fedele e con l'avviso che, se era difficile trovare un nipote come lui, Gaspare, era impossibile trovare un servo come Luigi. Le quali parole e la massima: «Ama te stesso un po' più del prossimo tuo», contennero Gaspare in così equa misura nel far la donazione che a lui non parve compiere alcun sacrificio e a Luigi parve ricevere più di quanto meritava.

– Signorino, è troppo! è troppo!

Ah sì, era un uomo sincero, Luigi! Non nascondeva la letizia di poter vivere agiatamente, insieme col suo Gaspare, gli ultimi anni; tuttavia si ricordava del morto e mormorava spesso con gli occhi pieni di lagrime: – Dove sarà mai, povero padrone?

Ma gli amici! Nelle loro condoglianze quelli vecchi, dello zio, avevano manifestato, più che il dolore della perdita, il presentimento doloroso del comune destino: hodie tibi, cras mihi.

E gli amici di Gaspare, che venivano a trovarlo o che incontrava per via, dicevano, tra mentite frasi, con lo sguardo o, se schietti, addirittura con la bocca:

– Fortunato te! Avere avuto uno zio ricco che ti ha tolto ogni incomodo e lasciata l'eredità!

Se, tutt'al più, avessero detto: – Comprendiamo il tuo dispiacere d'aver perduto una persona che amavi, e, nello stesso tempo, il piacere dell'eredità che hai fatta, poh!, in riguardo all'umano egoismo avrebbero meritato scusa. Dicevano invece, o parevano dire senz'altro: – Congratulazioni – , e invidiavano. Onde Gaspare doveva sfuggirli: a mostrarsi afflitto, non gli credevano; e mostrarsi lieto nè voleva nè poteva, essendo men tristo di loro.

Indispettito, così, delle amicizie, egli sentiva sempre più il bisogno di un'anima che lo comprendesse.

… Or come una sera rincasava, appena dentro la porta Gaspare udì chiedere dall'alto:

– Sei tu?

Rispose:

– Nossignora, sono io.

 

Era la moglie dell'ingegner Tredòzi, da poco venuto ad abitare al primo piano.

– Stia comoda. Ci vedo – aggiunse Gaspare, mentre accendeva un cerino.

Ma la signora continuava a fargli lume; ed egli, per non bruciarsi, gettò il resto del cerino e salì più in fretta.

Ella disse: – Credevo fosse mio marito.

– Troppo gentile; s'accomodi… s'accomodi – ripeteva Bicci, che era corso a suonare il campanello.

Se non che Luigi o dormiva o era fuori.

– Colgo l'occasione – disse la signora – per farle, benchè in ritardo, le mie condoglianze.

– Grazie.

Ed ella, nell'attesa, proseguiva:

– Sempre sciagure! Siamo proprio al mondo per soffrire!

– Mah!.. – fece Gaspare in tono mesto, con lo sguardo in alto quasi intravvedesse lassù, nella vòlta, la ragione suprema della vita. E Luigi non veniva! Tornò a suonare.

La signora Tredòzi sorrise.

– Una fatalità: la mia donna, malata, e il suo Luigi…

Allora il sangue diè un tuffo a Gaspare. Fosse morto anche Luigi?

Ma no, eccolo.

– Eccolo, eccolo! Grazie… buona notte, signora. Grazie! Scusi!

– Buona notte, signor Bicci.

Perchè mai una donna così gentile e così bella (non per la prima volta quella sera Gaspare l'aveva trovata bella) era caduta nelle mani di un ingegnere così brutto e così villano come quel Tredòzi?

Le cose che non piacciono, o che dispiacciono, sembrano anormali ed enormi anche quando sono le più naturali del mondo; e questa interrogazione, sebbene egli cercasse di rispondervi ragionevolmente, ricorse al pensiero di Gaspare anche nei giorni di poi, quando rivedeva la signora Silvia. Perchè mai una donnina tanto graziosa apparteneva a un ingegner Tredòzi?

E per pietà di lei, dopo il colloquio su le scale, Gaspare volle rivedere la signora; e si vedevano spesso. Ella dal balcone, a cui si affacciava, e lui dalla finestra della sua camera, potevano anche parlarsi.

Cominciarono infatti con i «buon giorno» e i «come sta?» e con quelle parole che non giovano se non a confermare simpatia tra persone che hanno poca consuetudine, di trovarsi insieme: considerazioni del tempo; accenni a qualcuno o a qualche cosa nella strada. Finchè essa ebbe un favore da chiedere al signor Bicci: un libro, perchè si annoiava.

Gaspare le portò sei romanzi. Conoscendone già cinque, lei ne ritenne uno solo; grata, nondimeno, e ancor più gentile e amabile. E nel breve incontro, a cui il prestito aveva dato occasione, Gaspare apprese molte cose. Prima di tutto, che la signora Silvia diveniva più bella più le si andava vicino. Poi, che era infelice per colpa di quel tanghero: mai a un teatro; mai a conversazioni; sempre in casa ad annoiarsi! Infine, che era una signora molto colta e che perciò egli, il quale desiderava essere cortese, avrebbe dovuto provvederla di altri romanzi moderni: e uno alla volta, per godere più spesso della sua gradevole compagnia.

Così, appena il primo libro gli fu restituito, Gaspare ne portò uno nuovo di stampa; e via via. Discorrevano di romanzi. Ma come discorrere di romanzi senza parlar d'amore? Parlavano d'amore. Che se non sempre si trovavano d'accordo intorno al carattere delle eroine e degli eroi, sempre però convenivano in un punto: non essere possibile innamorarsi davvero senza commettere qualche sproposito. Orbene, Gaspare un pomeriggio si rinchiuse nella sua camera stupito, sbigottito: non di sentirsi innamorato della signora Silvia, che non c'era da meravigliarsene (per la solitudine del suo cuore dopo la perdita dolorosa, e per la stagione in cui erano: di primavera), ma stupito dell'aver scoperta innamorata di lui la signora Silvia!

Subito, di rimbalzo, tornò al ricordo dello zio; e subito, coll'intelligenza di un innamorato, egli scorse che all'articolo del matrimonio lo zio aveva avuto a un tempo ragione e torto.

«Gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano». Certo: ma non eran quelle donne lì, tanto soavi e infelici, che ingannavano gli scapoli; eran quelle altre! Del resto, se per regola ingannare sembra peggior cosa che essere ingannati, ingannare un Tredòzi non era ingannare un amico o un marito che non meritasse di essere ingannato. Un'eccezione, insomma; della quale lo zio moribondo non aveva avuto tempo di avvertire la possibilità, e per la quale il nipote compirebbe un'opera quasi pietosa confortando una povera donna.

– Io l'amo! – Gaspare esclamò senza più temere di commettere uno sproposito, e tuttavia abbastanza sicuro che un tale amore non trasgredirebbe al buonsenso fino a divenire una passione.

E l'indomani, interrotta la signora che, nervosa, con un tremito alle palpebre, prolungava un discorso vano, egli, col tono di un peccatore che si confessa o di un infermo che palesa il suo male al medico:

– Signora – disse d'improvviso, – io… l'amo!

La signora Silvia impallidì, lo guardò attonita; s'alzò, ricadde; si nascose il viso fra le mani, e – oh gioia! – si mise a piangere.