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V

Sospirando come chi è tratto a ricordare la sua maggiore sventura, Edon cominciò:

– La compagna che io m'ero scelta nella vita, la donna che io amava, la donna che mi amava, era un angelo. Dal giorno del nostro connubio, quasi un anno vivemmo felici; d'una incredibile, divina felicità; quindi, a poco a poco, vivemmo meno bene, finchè la nostra esistenza divenne insopportabile.

Disse Polla, già dolente della sua richiesta inopportuna e dolorosa:

– Non andavate d'accordo…?

Edon gli volse lo sguardo di uno che tema d'essere canzonato.

– Andavamo troppo d'accordo!

E poichè l'amico, a sua volta, lo fissava con sospetto, aggiunse:

– Sì! Eravamo eravamo d'indole e carattere identici; ci amavamo tanto che l'amore aveva soffocato in noi ogni egoismo; aveva distrutta in noi ogni forza d'indipendenza: io viveva per lei, e lei per me; io non potevo vivere senza di lei nemmeno un secondo, e lei non poteva vivere senza di me: così giunse presto il giorno che non potemmo più vivere nessuno dei due.

Era troppo! Pareva a Polla di destarsi come a una rivelazione improvvisa; e rosso, prima, di rabbia; poi giallo di bile, con lo sguardo velato e la voce tremante gridò:

– Finalmente vi ho compreso! Voi scherzate… Ma con me tutt'al più si discute: non si scherza!

– No, amico: non scherzo.

– Voi mi avete preso in gioco, sempre. Siete entrato perciò dalla mia finestra!

– No, in verità.

– Voi mentite! Siete un «emissario» della borghesia!

Allora, con severità tranquilla, disse Edon:

– Noi in Eldorado non conosciamo l'arte della menzogna. Non dovendo mentire per necessità, cioè per politica, per industria, per commercio, per patriottismo, per la storia, per la gloria, per l'arte e per l'amore (l'amore pur troppo è libero da noi), noi non diciamo bugie neanche per divertimento. Appunto per questo, perchè non seppi ingannare e fingere, la mia vita coniugale doveva essere tanto infelice!

«Pensate che quello che io volevo, la mia compagna voleva; quello che lei voleva, io volevo; e a poco a poco io non volli più nulla, aspettando che volesse lei; e ugualmente faceva lei con me. Imaginatevi un amore senza volontà; una funzione senza affanni, senza virtù, senza conforto. D'altra parte, noi ci leggevamo nell'anima in modo che ogni tentativo di ridestare la fiamma amorosa era inutile; e se io accusavo qualche malanno imaginario per farla soffrire, essa non mi credeva; e s'essa accennava a qualche suo particolare godimento, a qualche suo proprio capriccio per ingelosirmi, io vedeva in lei un inutile sforzo.

Che noia! Che tedio! Che accidia! Ma voi direte che io avrei potuto dividermi dalla mia compagna; cercarmene un'altra. Ahimè! Da noi le donne, perchè l'amore è libero, sono fedeli; e la mia, per quanto si annoiasse, non credeva di poter trovare un amico mio da preferirmi. Io poi vedendo che le nostre donne si rassomigliano tutte, come già vi dissi, non sperai di trovarne una che mi risparmiasse la noia e la sazietà, e con un supremo sforzo fuggii su le mie ali abbandonandomi ai venti di oltre mare.»

Sopraffatto dagli argomenti di un avversario, più d'una volta Polla aveva dato di piglio a una seggiola e aveva dimostrata con quella la filantropia della sua fede; ma ora stava cheto, a testa bassa. L'altro lo credette in meditazione su gl'inconvenienti dell'amore libero, e proseguì:

– In Europa, per quello che m'imagino, la vita matrimoniale dev'essere deliziosa. Essendo un vincolo il matrimonio, ai coniugi verrà spesso la voglia d'infrangerlo; cosicchè l'uno cercherà ogni via per sedurre e avvincere sempre più l'altro. Il sospetto del tradimento diventerà esca all'amore; mentre non sarà difficile distrarsi, ingannarsi a vicenda, senza che l'uno sappia o mostri sapere dell'altro. Voi, Polla, non prendete moglie?

– Io… – mormorò Polla, sconfortato, desolato, quasi in tono di chi invoca pietà: – Io… sono socialista. Predico il libero amore!

Allora Edon, pentito della sua richiesta inopportuna e dolorosa:

– Perdonatemi se vi ho afflitto; perdonatemi, amico, se dopo la vostra confessione, sono obbligato a confessarvi che d'ora innanzi mi vedrete fare l'onesto borghese. In Eldorado non mi ci vedono più! Ma voi non mi abbandonerete, è vero, Polla? Sebbene abbiamo opinioni contrarie, noi staremo allegri; discuteremo; ci godremo i frutti delle mie pietre; e quando io avrò preso moglie (con vincolo, s'intende, civile e religioso), noi vivremo felici tutti e tre.

Povero Polla! «I frutti delle mie pietre» aveva detto Edon: non delle nostre!

VI

In questo mondaccio europeo sono rare le amicizie che non sussistano o per concordia di opinioni, o più tosto per concordia di affari e di vantaggi. Supponendo che Edon e Polla, oramai troppo discordi in idee, smarrissero le pietre preziose, chi non giudicherebbe naturale la fine della loro consuetudine fraterna? Ma smarrire le pietre non potevano, perchè le custodivano dentro una piccola cassaforte che aprivano ogni sera, traendone a seconda del bisogno più o meno grossi zaffiri, o rubini, o smeraldi, o diamanti, o ciottolini d'oro da convertire in moneta.

Quando, un giorno, dopo aver comperato cavalli e carrozze. Polla di malavoglia brontolò:

– Bisognerà metter mano a qualche bel diamante – e con il consenso dell'amico avanzò verso il ripostiglio della cassaforte. Avanzò; retrocedette; si rivolse pallido come un moribondo; die' un grido…

La cassa non c'era più!

Nè l'altro aveva ancora mosso palpebra, che già Polla scendeva a precipizio le scale dell'albergo urlando:

– Al ladro! al ladro!

Ma anche il ladro non c'era più. Accorrevano il proprietario dell'albergo, e camerieri, cittadini e forestieri; interrogavano tutti in una volta Edon, il quale si stringeva, sorridendo, nelle spalle; interrogavano Polla che rispondeva con rotte parole:

– La nostra cassaforte!.. Questa notte c'era… Pigliatelo! Pigliatelo! Poveretto me!

Fin le guardie vennero.

Queste, non essendo presente il ladro, esortarono Polla d'accompagnarle in questura; a che egli accondiscese volentieri per timore che non arrestassero lui. E quando tornò, apparve disperato più di prima.

– Ci s'immischia la Pubblica sicurezza – lamentava. – Addio pietre! addio ladri!

A tanta disperazione, rispose Edon:

– Poco male, amico! Anzi un bene; ora per vivere dovremo lavorare! dovremo combattere! Coraggio!.. Ora noi vivremo davvero!

In tal guisa fu dato l'ultimo strappo alla pazienza di Polla. Certo che la cassaforte non sarebbe stata ricuperata mai più, egli parlò con sfogo veemente, con sollievo come da un peso; parlò da fiero nemico e vendicatore solenne; da oratore popolare: parlò inoltre con eleganza, per superare Edon che ormai parlava meglio d'un accademico.

– Sciagurato! Stolto! Sappi che qui, in questo mondo civile che tu vedi così bello, qui dove si deruba un ottimista ingenuo come te e si rovina un socialista convinto come me, qui, ai nostri giorni, c'è chi patisce la fame mentre il borghese usurpa la mercede all'operaio; c'è il ragazzo che ammala nell'officina mentre il capitalista presta a usura; c'è la madre senza pane per i suoi figli mentre la dama s'adorna dei diamanti che ci hanno rubati! E c'è la vergine che si prostituisce; e c'è il vizioso che per bruciarsi le viscere con l'acquavite commette lenocini e infamie; e ci sono i forti che deprimono i deboli; e c'è la legge intessuta di cabale e la giustizia cieca e sorda alle ingiustizie e ai soprusi! Qui si vende l'onore! Qui gli onori si comprano! Qui lo sciagurato uccide! Qui l'infelice si uccide!

Dopo di che, non sapeva più che cosa dire.

Ma col suo dolce sorriso Edon ribattè dolcemente:

– Certo: la miseria, il vizio, il delitto, il suicidio sono grandissimi mali. Però non così grandi che non permettano qualche bene. Ditemi: vi pare una gran prova di amore e di fratellanza scambiare senza fatica quattro rose azzurre con un paio d'ali? Ma io imagino la consolazione di un affamato che riceva il pane dal fratello; io non so imaginare il piacere di chi offre il mantello a chi ha freddo. Credete che sia molto meritevole la virtù in chi non ne conosce il rigore e vi s'abitua da ragazzo come a mangiare? Oh il sublime cómpito di piegare il potente a pro del debole! di redimere la donna! di soccorrere il ragazzo! di evitare il delitto! di salvare il disperato! Oh il piacere del vizioso che torna alla virtù, del potente mitigato, della prostituta redenta, dell'omicida perdonato, del suicida…

– Domani…! – interruppe l'altro tendendogli contro il braccio minaccioso. – Domani ti condurrò in Parlamento! A Montecitorio! – urlava. – A Montecitorio! – quasi volesse condurlo all'inferno, o alla fonte di tutti i mali.

Ma Edon non tacque. Disse:

– Grazie. In Eldorado, ove il prato abbonda, le pecore pascono senza fretta, senza angustie, senza litigi; quasi senza far nulla. Sono proprio curioso di conoscere come si governa un popolo che si agita e opera. Domani, finalmente, vedrò e udrò i dibattiti da cui sfavilla l'ingegno, scaturisce la verità, prorompe la civiltà, s'eleva il progresso!

VII

Quella seduta del 14 giugno, al Parlamento, fu degna di storica memoria e di lagrimevole ricordo. Fu degna di storia, non perchè si dovesse deliberare e si deliberasse una legge intorno all'incremento delle industrie e dei commerci, o alla cultura intellettuale o agricola. Non si doveva trattare che di certe riforme al regolamento; per cui, secondo una parte dell'assemblea, sarebbe possibile discutere senza pericolo di vita, e per cui, secondo l'altra parte, non sarebbe più possibile discutere senza pericolo della libertà. E se perciò tutti o quasi tutti i deputati furono presenti, e i cronisti del giorno dopo riferirono come le tribune erano affollate e come la tribuna delle signore, fresche, a tutte le età, negli abiti estivi e a varie tinte, dava l'imagine d'una smaltata aiuola; neanche per questo rimase una memorabile seduta.

 

Nè si creda fossero lagrimevoli i discorsi che vi si tennero. Si ebbero appena due oratori: primo, l'onorevole Malchiori; e la sua orazione, quantunque la bella frase «violazione delle garanzie statutarie», vi ricorresse dodici volte, e nove volte l'altra di «sacro diritto della parola», fu interrotta da basta! da uh di protesta e da bravo! in tono ironico; e non potè durare più di mezz'ora.

Quanto all'onorevole Stigliani, egli fu costretto anche a maggior brevità da un suon di tamburi che gli teneva troppo grave bordone e che ottenevano le mani battute sui banchi; onde, invece di piangere, si rideva. E se le sue ultime parole: «… la maggioranza saprà vincere senza violenza, con la ragione, con l'educazione, con la virtù…» suscitarono esse la tempesta, neppure per ciò si dice che quella fu una seduta degna di storia e di compianto.

E nemmeno fu tale per la disgrazia che capitò all'autorità del Presidente. Il quale dopo aver rotti due campanelli, al cominciare delle sfide («Forcaioli!» e «Buffoni!»; «Sanculotti!» e «Sanfedisti!» etc), comprese difficile sorreggere la dignità dell'Assemblea e allungò la mano a destra… Invano. Volse la mano a sinistra… Invano: il cappello, che cercava per coprirsi, era sparito! Un ministeriale credendo certa la vittoria per il Governo quando fosse possibile venire a un voto, s'era tranquillamente seduto al suo scanno con due cappelli su le ginocchia.

Nè, infine, importano alla storia e alla pietà umana i conflitti frequenti e comuni a tutti i parlamenti europei; così piacevoli, del resto, a vedere dall'alto.

A Montecitorio quel giorno si scorgeva e si ammirava una confusa agitazione di teste e di braccia alzate a colpire: una mischia qua e là feroce a corpo a corpo, o di più corpi contro uno. «Vigliacchi! Imbecilli! Addosso! Avanti! Abbasso! Dagli! Prendi! Aiuto! Forza! Oh Dio!» erano le voci mal distinte nel frastuono dell'omerica pugna: occhiali spezzati in terra o sui nasi; strappate catene d'orologio; perdute medaglie. Chi sanguina; chi cade travolto; chi colpisce a tergo; chi si duole; chi fugge; chi ride atrocemente. E dalle tribune, delle quali i campanelli elettrici stentano lo sgombero, le donne gridano piangendo la sorte dei mariti o dei congiunti come un dì le donne corintie, quando nell'anfiteatro della loro città vedevano l'ultima lotta dei loro padri, dei loro mariti, dei loro figli, con i Romani vittoriosi.

Ahimè! Ciò che di quel giorno merita ricordo e lagrime fu invece la morte di un innocente; furono il modo della morte e il nobile e gentile aspetto della vittima.

Edon, da prima, stava benissimo e aveva detto a Polla che molto lo divertiva quella fiera lotta, pur non sapendo se parteggiare per i ministeriali o per gli oppositori; gli parevano tutti uguali.

E si era messo a ridere alle prime contumelie; e a ridere forse troppo, con le mani sul ventre, all'inizio dell'attacco. Ma poi, alle gesta dei pugni e dei calci, gli era accaduto come accade a un ragazzo che veda una tenzone di marionette, e si era abbandonato a un parossismo di riso. Così non aveva avuto più lena all'ultimo colpo: allorchè Polla, travolto nella demenza che da basso s'era diffusa alle tribune, acceso in volto, bieco, feroce, con le braccia contro di lui e i pugni stretti:

– Smettila! – aveva gridato. – Finiscila! asino! farabutto! mascalzone! miserabile!, o ti butto là giù. Smetti di ridere e di godertela, o… ti strozzo!

A veder quel ceffo d'assassino, a ricevere tali ingiurie da Polla; dal socialista che amava tutti gli uomini come fratelli; dall'intimo amico suo; da colui ch'egli aveva beneficato non poco, Edon era rimasto a bocca aperta, quasi per attingere fiato a una risata anche più clamorosa. Ma aveva avuta un'improvvisa scossa di tutte le fibre; un intoppo del sangue al cuore o un afflusso di sangue al cervello: sbarrati gli occhi, era caduto di fianco…

Morto per eccesso d'ilarità!

Il cappello del marito

I

Di due amici, Giulio Galardi e Alfonso Varchi, quello che, agiato di casa sua, apparentemente non aveva nulla da fare, viveva scapolo; e l'altro, direttore di una grossa azienda, commerciante, consigliere comunale e membro di commissioni e istituzioni e opere pie, l'altro, il quale aveva tanto da fare, s'ammogliò.

Ma in realtà Giulio Galardi faticava molto anche lui, da quando con un grosso patrimonio aveva ereditato da un parente materno il titolo di nobiluomo e si era introdotto nella società che suol dirsi migliore, sebbene non buona. Per le sue belle doti egli era stato ricevuto a porte aperte pur nelle case più aristocratiche; e appena si seppe che in certo palazzo era ricevuto anche a braccia aperte, diventò amabile e considerevole; ebbe il soprannome di Sìsì e fu perdonato di tutti i suoi difetti, i quali non erano nè piccoli nè pochi. Gli mancava un palmo di statura ad essere un bel giovane; era, in viso, troppo roseo e sollevando il baffo superiore ostentava un po' troppo i nitidi denti; affrettava gl'inchini d'un attimo più del necessario; vestiva con eleganza ligia alla moda, senz'alcuna di quelle anticipazioni o di quei ritardi o di quelle sprezzature che rivelano l'artista nel lion; esasperava camminando il peso del corpo su le gambe, di guisa che, a differenza degli altri, che parevano quasi montanari, pareva un montanaro del tutto; e affermando diceva sempre:

– Sì sì.

– È simpatico Sìsì – ammettevano concordi le signore; nè mancò qualche lettrice di Bourget la quale osservasse com'egli, ne' suoi discorsi e ne' suoi modi, aveva qualche cosa d'insolito, d'ignoto, per cui a volte acquistava una caratteristica spirituale quasi esotica.

Che cosa fosse quella cosa sconosciuta e nuova Giulio Sìsì non l'avrebbe saputa indovinare; forse era un fondo della rettitudine paterna, che gli restava dalla prima educazione. O forse era l'abilità con cui diceva le bugie. Essendosi accorto che la bugia è l'arma delle donne d'ogni ceto, egli disarmava le signore aristocratiche con invenzioni più verosimili e opportune di quelle che usavano gli altri per vincerle od esse per resistere, e in tal modo divenne presto un corteggiatore fortunato. Ma se per lui una donna tirava l'altra come le ciliege, anche per lui una bugia tirava l'altra; onde la fatica di arrestarne il corso a tempo debito e di mescolarle convenientemente con la verità.

E però, bisognoso di riposo e voglioso di sincerità, a quando a quando Giulio visitava l'amico Varchi e si distraevano a vicenda; l'uno con i racconti sinceri, nudi e crudi, delle sue avventure e l'altro con le relazioni de' suoi affari sempre più gravi, sempre più intricosi.

– Che c'è di nuovo lassù? – domandava Alfonso.

– Che c'è di nuovo quaggiù? – domandava Giulio. Distinguevano così il mondo in cui vivevano, compatendosi reciprocamente.

– Ma perchè porti quel colletto? – chiedeva Varchi.

– È di moda.

E Varchi chinava la testa e pensava: «Bisogna proprio essere ingenui a impiccarsi per la moda!»

– Ma perchè ti preoccupi tanto delle elezioni comunali? – chiedeva Giulio.

– Dovere di cittadino!

E Galardi chinava la testa e pensava:

«Che ingenuo!»

Nè un'amicizia tanto cordiale, disinteressata, antica e fedele potè essere interrotta allorchè Alfonso Varchi prese moglie.

II

Del resto, quand'anche Alfonso Varchi fosse caduto a temer dell'amico per la sua tranquillità domestica e fosse stato preso da gelosia, si sarebbe dovuto acquietare in un confronto fra le donne accostate da Giulio nell'alta società e sua moglie: questa non era una donna per Giulio. Bella sì, ma non sentimentale, non intellettuale, non nevrotica: Giovanna era sana e savia. E Giulio Galardi, per parte sua, non si curava punto di quella signora Giovanna, che agli aneddoti e ai pettegolezzi da lui riferiti fedelmente e coscienziosamente, porgeva orecchi e occhi incerti, come a storie inverosimili, e quasi per opporre la serietà sua alla fatuità di quelle eroine, domandava al marito notizie politiche, commerciali, industriali e agricole. Lieto della felicità dell'amico, Giulio si ripeteva spesso:

– Che stupida! Alfonso non poteva essere più fortunato!

Passarono così tre anni; durante i quali nella famiglia Varchi e nello scapolo Galardi nulla avvenne, a loro credere, che adombrasse la reciproca e triplice confidenza. Frattanto Giovanna procreò l'un dopo l'altro due mirabili maschiotti; Alfonso s'ingolfò sempre più nelle faccende, non restandogli tempo oramai che d'accarezzare i bimbi dopo pranzo; e Giulio mutò quattro o cinque illusioni d'amore in delusioni, trovando le une e le altre sempre identiche. La migliore società infatti è sempre tale e quale: in tutti gli uomini, in tutte le donne – gentiluomini e gentildonne – che la compongono; in tutte le cose; in tutte le passioni; in tutti i capricci.

Sì sì! Che noia!

L'amore? noia! Il gioco? noia! I teatri? noia! I cavalli? noia! Uf!

Appunto da questo terribile male, la noia, che è la figlia di tutti i vizi, dovevano cominciare i guai di Galardi; e cominciarono appunto dal dì che all'entrare in casa Varchi gli parve di tornare in porto, non quale nocchiero dopo lunga tempesta, ma quale pescatore che non ha pescato niente. I guai cominciarono quando egli, stufo e ristufo di troppe donne «per lui», contò i suoi anni e si chiese: «Se prendessi moglie anch'io? una donna come…?»; quando sentì una fitta al cuore, mentre abbassava il capo alla dura riflessione che gli venne fatta: «Di Giovanne ce n'è una sola!» Altro che stupida! Bella sì, ma tutt'affetto per i figli, per il marito, per la casa; onesta, pacifica, tenera, economa.

A farla corta, Giulio Galardi s'innamorò senza volere (e fu veramente il suo primo amore) della signora Giovanna Varchi; ella – stupida o no, poco importa, chè di certe cose se ne accorgono anche le stupide – se n'accorse; e Alfonso Varchi non se ne accorse.

III

«Tradire» nell'alta società significa per i gentiluomini «tradire un amico» e per le gentildonne «tradire con un amico»; ma per quel fondo di rettitudine che gli rimaneva, al traditore Galardi fino allora era parso di essere un riparatore di torti, un giusto vendicatore di povere donne contro mariti o infedeli o depravati o sciocchi o gelosi e senza ragione diffidenti di lui e della moglie. Invece Alfonso era leale, morigerato, intelligente, galantuomo, modello di padre di famiglia e di marito; e Giulio non aveva cuore nemmeno di provarsi ad ingannarlo.

«Sì sì! Finchè Alfonso restasse quel che era, era impossibile tradirlo!»

Vincere quindi l'insana passione sarebbe stato il meglio; e da uomo dabbene Giulio se lo propose. Impossibile! Divenne una passione irresistibile al punto ch'egli per essa avrebbe dato tutto il sangue, o metà del sangue avrebbe dato per trovar ragione a dolersi dell'amico, per accertarne qualche colpa, per scoprire difetti che spiacessero anche a Giovanna.

Ora si comprende che arrivato a meditare l'opportunità, anzi la necessità di accusare e incolpare un amico come Varchi, inconsapevolmente, si può dire, e presto, l'animo e il pensiero di Galardi dovessero volgersi a fallaci impressioni e a giudizi erronei.

Cominciò a credere che con tutte quelle faccende e fatiche e affannosi guadagni Alfonso presumesse di rinfacciare il quieto e dolce far nulla a chi aveva il diritto di godersi il frutto di fatiche e di guadagni aviti e paterni.

«Colpa mia se sono ricco?» Galardi diceva tra sè. Oh! forse suo padre non aveva lavorato tanto, e il suo prozio non l'aveva lasciato erede col titolo di nobiluomo per fargli godere il mondo? «Dovrei forse lavorare anch'io come una bestia?»

Senza occuparsi di politica, Giulio era conservatore quanto Alfonso, che si arrabbiava anche per la politica; nondimeno il primo aveva già per il secondo un rancore quasi di partito.

«Tutto mi annoia? – Giulio proseguiva a meditare. – Ma starei forse allegro in Consiglio comunale? Non sono ambizioso, io!» Per lui, Alfonso era ambizioso e intristito nelle misere gare di campanile e di municipio.

«Mi piacciono le donne? Grazie! Non piace anche a lui Giovanna?» Alfonso la teneva, quella povera donna, in un assoluto dominio; con tale egoismo che anche l'animo di lei si avviliva nell'avidità della ricchezza; e il sentimento di lei restava confinato al domicilio. Giovanna infatti nulla sapeva di arte; non comprendeva la musica tedesca; non leggeva un poeta! (Ah che di poeti ne leggeva pochi anche lui, Galardi!).

 

Ma non solo: Alfonso Varchi si alleverebbe egoisti gli stessi figlioli; senza entusiasmi per idealità superiori alla vita comune; senza intendimenti dei maggiori problemi che turbano la società moderna.

Da che si comprende come Giulio era già innamorato in modo da leggere, per distrarsi, i giornali socialisti; e fu miracolo se la malinconia non lo condusse a inscriversi al partito.

E come non si vive solo per sè e per i quattrini, così non si dovrebbe abusare nemmeno in conversazione dell'economia politica e privata. Dàlli e dàlli, una sera in cui Giulio desinava dai Varchi, riflettendo sul fritto abbruciato e l'arrosto mal cotto chè dove regna la felicità coniugale è infelice sin la cucina, Alfonso s'abbandonò a un interminabile sproloquio intorno a giuochi di borsa, di rendita bassa, di dazi, d'importazioni e d'esportazioni… Dàlli e dàlli, avvenne che la signora, alle frutta, non potè rattenere uno sbadiglio e non volgersi a Giulio con uno sguardo e un sorriso che significavano: «Gran brav'omo mio marito! ma che seccatura!»

Quattro anni, da quando lei stessa interrogava, interessata e preoccupata, intorno alle imprese commerciali dello sposo, non erano dunque trascorsi indarno?

Giulio Galardi prese animo.

– Lascia parlare a me – interruppe. E si diede a raccontare un fatto, a suo dire, della cronaca mondana: una storia la quale egli rese pietosissima addossando tanta volgarità e brutalità a un marito e tanta bontà e gentilezza a una moglie, che in questa pareva scusabile qualunque pazzia.

– Bene; chi lo crederebbe? – Giulio esclamò vedendo commossa la signora Giovanna. – La marchesa, la vittima, sul punto di cedere a un gentiluomo perfetto che l'ama da anni e che essa ama, si pente, respinge l'amante, si rinchiude in casa e confessa tutto al marito!

Alfonso fece:

– Meno male!

– No; malissimo, dico io – ribattè Galardi. – E lei, signora Giovanna?

Giovanna chiese:

– Il marito ha poi mutato carattere?

– Che! Peggio di prima!

– Allora la marchesa poteva aspettarsi a confessarsi a un prete.

– Ma prima del peccato o dopo? – Galardi incalzò.

– Oh! Prima.

Dopo! Dopo! Giulio lesse negli occhi di Giovanna: – «Se non ci fosse Alfonso, direi dopo

… Finalmente – e senza spendere una goccia di sangue, ma solo con un po' di fantasia – Giulio potè convincersi che Alfonso assomigliava al marito di sua invenzione e che Giovanna teneva per sciocca, in certi casi, la virtù coniugale.