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L'agnello

Bèee…

Niveo bioccolo, con le quattro zampe legate in mazzetto; raccolto, dentro il canestro, nel giaciglio di erba ancor fresca, a quando a quando l'agnellino alzava il capo, che subito gli ricadeva come in un abbandono o in un esaurimento di disperazione. Allora sui miti occhi cristiani cadevano le palpebre; indi, ecco: languido languido lo sguardo sembrava cercar di nuovo la landa troppo presto perduta e di nuovo spegnersi a quel fervore di luce, mentre dalla gola riarsa e dal petto ansioso tornava l'invocazione della perduta madre:

Bèee.

Prorompeva il frastuono della musica; rombava, negli intervalli, il susurrio delle voci e lo scalpiccio della folla; e, per tutto, saluti, richiami, risa, sorrisi. Allegria.

Sempre triste, il professore Riccardo Biscaglia entrò nella sala. E allorchè, nell'avvicinarsi là dove suscitavano ammirazione i doni in mostra per la lotteria, udì pervenire dal cesto la voce di duolo, egli tese il capo.

Oh come soavi quei due occhi cilestri che sembravano cercare due occhi fraterni!

Infatti: una fanciulla si avvicinò. Oh come sembrò palpitante il petto chiuso nella veste bianca allorchè la signorina ebbe scorta la bestiola che soffriva! Non era un inganno di civetteria; non un pretesto a farsi notare; spontaneamente, inconsciamente quasi, ella alzava una mano quasi a indicare ed accusare la tortura delle quattro zampe strette nel vincolo di seta, mentre al doloroso bèee rispondeva, vòlta alla madre: – Poverino!

*

E poverino anche lui, il professor Biscaglia; il quale era un uomo molto triste; sempre triste; prima di tutto perchè essendosi arrotondata ogni anno più la sua pancia, l'annoso abito delle occasioni solenni era andato restringendosi così che il gilet gli comprimeva lo stomaco e i calzoni stentavano ad acquistare in larghezza quel dito di misura che perdevano in lunghezza; e i piedi, non coperti sino al collo e al calcagno, apparivano più grandi di quanto erano. Erano così grandi!

Ma, oltre questi particolari disturbi, rattristava Riccardo Biscaglia il dolore universale, e l'aveva recato seco pur alla festa di beneficenza. E a tanto pessimismo il professore non aveva motivi dallo Schopenhauer o dal Leopardi: non dagli studi; bensì dall'antico contrasto dell'istinto poetico con la realtà della vita. Se il Governo rinsavisse e comprendesse che, dopo o avanti la cultura della terra, ciò che più importa è la cultura delle menti e degli animi, i professori sarebbero pagati meglio: pagati meglio, si distrarrebbero anch'essi in modi leciti e onesti e si avrebbero quindi meno poeti di dolore e meno scapoli. Senza dubbio un aumento di stipendio avrebbe attenuata in Biscaglia l'antitesi tra il Sancio Panza e il Don Chisciotte che discordavano entro di lui, quando il primo gli diceva: – Non prendere moglie, per carità! Tu sei troppo povero per una ricca e troppo più povero per una povera – ; e il secondo l'incitava: – Cerca e trova la tua Dulcinea ideale: colei che, nè ricca nè povera, e bella, sana, buona, ti faccia parere men brutta l'esistenza!

Ahimè! Chi può andare in cerca della felicità senza quattrini in tasca? Ma sconsolato Tartarin, perchè le sue cacce si limitavano a sorprendere e colpir spropositi nei cómpiti dei discepoli, nè più gloriosa conquista poteva vantare in un mese che quella delle cento e tante lire puntualmente riscosse al ventisette, Biscaglia se la prendeva, più che col Governo, con la mala educazione che corrompe le ragazze. – È l'educazione del cuore che manca! – diceva lui. – Se l'adulterio apparisse non una desiderabile offesa alle leggi, ma una cattiva azione, una crudeltà, egli, per star meglio, avrebbe compiuto fino il sacrificio di sposare una ricca, e non si sarebbe adirato nemmeno col Governo, nè rattristato alla fatalità del dolore umano. Questo, è vero, l'induceva a frequenti sfoghi di versi. Ma a che pro'? Gli editori non credono più nei poeti, e le ragazze, corrotte e senza cuore, alla malinconia preferiscono stare allegre.

*

Quella sera dunque Biscaglia era entrato alla festa, solo, con un solo biglietto per la lotteria, non aspettandosi uno spettacolo che lo commovesse così dolcemente: la creatura nel cesto e la creatura che stava a guardarla. Nessuna, nessun'altra di tante signore e signorine che vi erano, si era fermata compassionando dinanzi all'agnello. Tutte agognavano i premi di gran prezzo; tutte, tranne quella madre e quella figlia, civettavano intorno, stupide di mente e di cuore.

– Poverino! Vedi, mamma, com'è carino, com'è bellino? – E poichè anche la madre disse: – Povera bestiola! – , fu manifesta una affinità di sentire tra l'animo materno e il figliale e fu certo per Biscaglia che chi meritasse la pietà della madre meriterebbe anche la pietà della figlia o viceversa.

… – Estrazione – gridarono a un tratto. – Estrazione!

Seguì maggior ressa di gente. Più pronte, le signore s'affollavano intorno al palco donde era venuto stentoreo l'annuncio e dove un signore in frac scampanellava per avviso ai più lontani.

– Estrazione!

Già si cominciava.

– Numero!..

– Attenti!..

– Cinquantotto!

Biscaglia chinò lo sguardo sul suo biglietto, senza meravigliarsi di non aver lui il 58 e di udire un altro gridare: – L'ho io! – Era stato vinto un magnifico vaso d'argento.

– Numero…!: quattordici!

Sì! Biscaglia aveva il quattrocentododici! E intanto il nuovo vincitore si portava via un'altra bella cosa.

– Numero…!: due!

Il professore scosse le spalle; mise il biglietto in tasca e si mosse. Già era disgraziato in tutto! Del resto, quand'anche vincesse, bella consolazione! Non un premio di lotteria l'avrebbe mutato d'infelice in felice, nè avrebbe diminuito a' suoi occhi il dolore universale.

– Numero…!: ventisei!

Piuttosto invidiava un suo collega, il quale ora ciarlava appunto con quella mamma e quella bionda figliola così pietose. Gli sarebbe piaciuto di tentare un po' l'anima della ragazza in qualche poetico discorso e avrebbe voluto esserle presentato dal collega; ma, disgraziato sempre, non osava nemmeno accostarsi al gruppo.

– Numero…!: quattrocentododici!

Eh? Che? Quattrocento…? Non era il suo? Sì sì: l'aveva lui, il professore Riccardo Biscaglia, il 412!

– L'ho io! – E lo mostrava. – Io!

– Bravo! – gridò dal gruppo il collega.

Biscaglia avanzò, rosso in viso, coraggiosamente. Ma diè indietro alla vista del premio.

L'agnello!

– Un agnello! – esclamarono i prossimi al banco. – Un agnello! – l'agnello! – Si rideva; si applaudiva.

E Biscaglia salì e quindi discese dal palco; pallido come chi ascende al patibolo senza speranza di discendere.

– Bravo! – ripetè più forte e contento il collega, a vederlo col cesto nelle mani.

Fu quel «bravo», venutogli da un uomo di spirito, che assumendo quasi il valore di una lode meritata per un'ardua prova rianimò il professore. E di animo ne aveva bisogno: ella era lì dinanzi e sorrideva un po' triste; diceva con gli occhi: «Perchè l'ha vinto lei e non io?»; e: «Lei gli vorrà molto bene, è vero?»; mentre la mano senza guanto, bella, ripassava sul capo dell'agnellino; e gli occhi e la bocca del professore, che pareva una balia col fantolino in braccio, non dicevan nulla.

– Sei stato fortunato, tu! – fece il collega; aggiungendo la presentazione:

– Il professore Biscaglia…; le signore Crocchi.

– La sorte le ha favorito l'innocenza, il candore – disse la mamma.

– Quanto l'invidio! quanto è bellina questa bestiola! – disse la figlia.

Bèee…

Allora cesto e agnello per poco non caddero di mano a Biscaglia, tale fu l'urto che l'amico gli diede col gomito per suggerirgli l'idea che, del resto, era venuta anche a lui.

– Cosa vuoi fartene tu? – chiese l'altro.

Onde Biscaglia parlò, rosso rosso:

– Se la signorina mi permettesse… Ella potrebbe averne maggior cura di me… Io non ho moglie…

– Ma sicuro! E non ha nè erba nè ovile – disse l'altro.

All'offerta, la figlia guardò la mamma; la mamma annuì; ringraziarono; e il candore e l'innocenza, avvolti di nuove carezze, passarono dal professor Riccardo Biscaglia al soave dominio della signorina Irma Crocchi.

*

Più e meglio che alla follia, Riccardo Biscaglia s'innamorò assennatamente; perchè era un amore nato da un affetto non cieco: dall'ammirazione della bontà; perchè più che la bellezza aveva potuto sul suo cuore quella prima vista della signorina Irma nell'attitudine compassionevole. La bellezza è caduca; non la bontà, se spontanea; non la gentilezza, se sincera e nativa. Essere amato da tale donna forse non sarebbe stato consolazione ad ogni travaglio, ad ogni dolore, ad ogni fatica, a tutti i danni della vita? A tutti, forse no; per la fatalità del dolore umano; ma a molti sì. E ahi! Riccardo Biscaglia, per quell'eterno conflitto che alimentava in sè stesso, vivrebbe e morirebbe scapolo. Infatti quell'angelo che era la signorina Irma non poteva essere che troppo povera. Ma egli l'amava. Ma egli aveva l'obbligo di una visita alle signore che avevano accolto il suo dono.

Deliberò di adempiere a questo dovere, e solo per accertarsi e mantenere con maggior forza il cervello a posto, chiese a quel tale collega: – Le Crocchi non han mezzi, eh?

– Han qualche cosa.

Oh! Nè povera nè ricca! Era l'ideale nella realtà!

 
Ma ci fu dunque il sole
Su questa terra un dì?
 

Fu il raggio che infrange il nuvolo; fu il faro nelle tenebre tempestose. Diveniva possibile la conciliazione dell'idea col sentimento; dell'amore col senno, della poesia con la prosa! Irma possedeva un cuore – tanto cuore! – e possedeva qualche cosa più di quanto costi una capanna a comperarla in due, o a prenderla in affitto in due! Egli dunque poteva domandar la mano della signorina che amava! La felicità non era dunque illusione! Benedetto l'agnellino! Dell'agnello Biscaglia fece il paraninfo del suo amore, il compagno de' suoi sogni, l'argomento delle sue rime, il simbolo del suo cuore. Bèee…

 

Or come Don Chisciotte e Sancio Panza erano d'accordo mentre Tartarin saliva il Righi, così erano d'accordo adesso nell'animo del professore Biscaglia mentre egli saliva quelle scale.

Una… Due… Tre… Abitavano molto in alto, le signore. Salendo crescevano i palpiti, calava il sangue. Smorto, anelante, il professore si arrestò all'ultimo pianerottolo; dove, a una porta, lesse il nome: Crocchi.

Nessun dubbio; quell'angelo stava là dentro.

Ma lui si sentiva così smorto che non ardì toccar súbito il bottone del campanello; e prima si fregò le guance con le mani. L'atto però gli parve ridicolo; temè che qualcuno fosse a guardarlo o a spiarlo per la finestra della scala; si volse…

Dalla finestra della cucina, di contro, pendeva, spaccato, l'agnello.

Tradotta in tedesco da C. Brenning e pubblicata (1902) in Feuilleton Zeitung, Zürcher Post, Düsseldorfer Zeitung, Frankfurter Nachrichten, Neueste Nachrichten für Elberfeld, Dortmunder Zeitung, Unterhaltungs-Beilage, Die Selbsthilfe, Hansa-Theater, Neue Saarbrücker Zeitung.

Il falcone

Nel medio evo:
per le signore d'oggidì.

Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Nè di quel bene del signore per il valletto ingelosiva madonna Ginevra, poichè la giovinezza di lei fioriva infeconda e il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.

Madonna viveva lieta. L'amore del marito, le cacce e il conversare con le sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe, cui essa accudiva umilmente. Come rideva a osservar le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro e si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava, così rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo; e mentre cuciva presso la finestra, dalla quale scorgeva l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giù nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce.

Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perchè gli occhi del padrone vedevano tutto con gli occhi di lei e perchè ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire. Solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; sicchè lei finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava tutta in un'occhiata.

Veramente molte cose erano permesse a Ugo. Poteva arrampicarsi su per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le più strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare dietro una porta l'ancella che si stava spogliando; che, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva.

Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinchè nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse più un ragazzo. Egli stesso, Ugo, sentiva mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri; mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E intanto che la forza sensuale si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, senza sapere chi amasse e senza sapere che amava.

Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la forza del sole il mondo dormiva d'un sonno fervido) Ugo a un tratto udì cantare lontana, dall'alto, simile a un'allodola, madonna Ginevra; e d'un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra!

La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani. Egli se n'accorse, sebbene non chinasse lo sguardo; amava da uomo; senza paura amava, e senza vergogna.

Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! Secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sè stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna Ginevra l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna in un notturno assalto di nemici.

Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono presto il freddo dell'ignara noncuranza della dama, la quale aveva due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poichè egli non fallava più, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur più ragione d'immergergli le dita tra i capelli.

Fino a quando essa avrebbe dunque ignorate le sue pene?

E col volgere dei mesi l'affetto di Ugo s'andò come condensando in modo più virile; onde la sua fantasia, cedevole ai richiami e agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della giovinezza, l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa. A poco a poco egli perdette, così, la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l'intenzione.

Passarono mesi; passò un anno. Ma quanto più gli diminuiva la speranza, tanto più cresceva in lui la bramosia di essere soddisfatto.

Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. Come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! Il desiderio sensuale, non più vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l'animo del valletto non più riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione sconsolata.

Avvenne che una mattina, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in vesti nuove, il sire di Ripalta partì per una festa. Quantunque fosse quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il signore fu scomparso al basso del colle, tra le macchie, egli, nell'imminenza della felicità se l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»

E il sole cadeva che non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Quando però, la sera, si fu accorto che la padrona era entrata nelle sue stanze, non più dubitando salì, s'introdusse guardingo, spinse francamente quella porta.

Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: – Vieni, vieni. Cosa vuoi?

A Ugo, rinfrancato, precipitò in mente la dimanda che s'era proposto di far dopo, e raccolto il fiato bastevole per non restare a mezzo, chiese:

– Madonna, se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio?

La domanda piacque a madonna, lieta non ostante l'assenza del marito; e per burlarsi del ragazzo, gli rispose: – Sarebbe stolto. Anche un valletto, purchè fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno almeno compassione.

Ugo con tutta l'anima bevve quelle buone parole e quasi ebbro di gioia esclamò: – Madonna Ginevra, ecco! sono io! Come ho patito, io, per voi! Aiutatemi, madonna!

La dama non rise: non credè che il ragazzo volesse burlarsi lui di lei, perchè gli scorse la passione in faccia; anzi indispettita d'essersi lasciata cogliere e offesa da quell'audacia, gridò severa: – Ah, ma tu sei matto! Che mi vai cicalando con le tue fole? Che so io dei tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa l'ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!

Stordito, con gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse. Nel tumulto dei pensieri, ebbe forza di cercare la suprema invocazione alla pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all'acerbità di lei; e disse: – Voi mi sgridate così, e la colpa è vostra. Perchè non mi ammazzate piuttosto? Meglio morire!.. In fe' di Dio, io non mangerò più finchè non mi avrete accontentato! – E con un'angoscia che pareva lo strozzasse, uscì di là.

Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; poi, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripetè: «Cosa gli è venuta in mente?»; infine, si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, col riso su le labbra.

Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo nel letto e non riuscì a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova che si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che davvero gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica, quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capì d'aver commessa un'imprudenza; credè fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione da ragazzo; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che modo comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli diè ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parer eroica la deliberazione presa. Quando furono a cercarlo disse: – Ho un gran peso qua – segnava lo stomaco – ; non potrò più mangiare. – E non si alzò.

Il giorno dopo madonna chiese del valletto. – Non ingoia nulla – risposero. Nè egli cedè ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dì una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo. Ma chiudeva gli occhi e rifiutava. Anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primaticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina tra altri ancora rossi ed in agresto: egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.

Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra se, il vecchio disse:

– Tornerà il padrone; ma non staremo allegri.

– Perchè? – chiese con simulata indifferenza la padrona.

Rispose l'altro: – Ugo morirà: non gli va giù neanche un granello d'uva.

Madonna Ginevra arrossì; si levò; si recò alla cameruccia del valletto.

Stava il valletto con le palpebre abbassate perchè nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalì ai passi leggeri della dama, riconoscendola.

– Valletto Ugo, dormi? – chiese lei dolcemente.

Egli disse:

– Per l'amor di Dio, madonna, abbiate compassione di me!

Ed essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: – Da me non avrai mai grazia nella bella maniera che domandi! È questa la tua ricompensa al bene che il padrone ti vuole? È questa l'affezione che gli porti? Tornerà…

– Oh se tornasse! – sospirò Ugo, insensato più che ardito.

– Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!

– Ma non mangerò! – conchiuse Ugo.

La dama uscì col proposito di dire ogni cosa al marito appena fosse giunto. Però, intanto che cuciva, ebbe timore che il marito la rimproverasse d'aver tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto; e a nascondergli la verità, non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Che imbroglio! Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi.

 

Quand'ecco s'udì il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di più ospiti. «Chi sa – riflettè madonna Ginevra – che a vedere il padrone non lo domi la vergogna?»

Così quando nel tinello, in cui su la tavola imbandita col più ricco vasellame fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie gli disse: – È a letto da tre giorni, e non tocca cibo, per un capriccio. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.

Il marito volle andare a vederlo; ed essa lo seguì.

– Cos'hai? – domandò il sire entrando.

Ugo rispose: – Un peso qua, alla bocca dello stomaco, che non mi va giù niente.

– Non è vero! – ribattè subito la dama. – Non è vero! Per il male che ha, potrebbe mangiare, – Poi rivolta a Ugo disse: – Adesso io gli dirò perchè digiuni da tre giorni. Mangerai?

– Voi potrete ben dire. Io non mangerò – rispose. Raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta così franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie di qualche torto verso Ugo. Ma Ginevra soggiunse: – Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo… – ; onde il sire capì che il torto era proprio del ragazzo e: – Perchè? – le domandò impaziente.

La dama invece tornò a chiedere al valletto:

– Mangerai?

Egli, che era risoluto di morire, negò ancora col capo, sospirando.

– Io mi spogliavo – proseguì la dama – , e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi… Imaginate!

– Insomma! – fece il sire.

– Mangerai? – ripetè la dama per l'ultima volta. E per l'ultima volta: – No! – ripetè forte Ugo, che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: – Mi richiese…; – ma il marito senza più badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera afferrò il braccio del valletto e gridò bieco: – Cosa le chiedesti?

Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile; disperato amore, più forte della morte; tale, che madonna Ginevra ammirandone la fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sè e per lui l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo ormai era un bel giovine) concepì un'idea provvida e sagace.

– Mi chiese – rispose lei – il vostro falcone pellegrino, che non dareste a nessuno, nè a conte, nè a principe, nè ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.

Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: – Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia! Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. – Dopo, uscì.

Ma la dama prima d'andarsene si fece più presso a Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:

– Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. – Meglio che con le parole ella prometteva sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.

Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.